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Formia

43 a.C. – 710 ab Urbe condita

7 dicembre

All’età di sessantatré anni Cicerone si sentiva stanco nel corpo e nell’anima, eppure la sua mente continuava a ribollire come una pignatta d’acqua posta sul fuoco, e nonostante fosse ormai convinto che non c’era più alcuna speranza di far tornare l’ordine costituito a Roma, non riusciva a chiudere occhio la notte, all’idea di abbandonare l’amata patria per fuggire ad Atene, dove il figlio Marco lo attendeva con trepidazione.

«Ormai è tutto pronto» lo riscosse Tirone, il suo fedele liberto. «Restano solo da raccogliere le ultime carte, le più preziose.»

Cicerone trattenne una risata amara.

«Si dice che le opere redatte in punto di morte siano le più efficaci, non è così?» Raccolse la pergamena su cui aveva scritto le ultime righe del suo De officiis e la mostrò a Tirone. «Quindi quest’opera resterà la migliore che ho scritto? Quella che i posteri ricorderanno e si tramanderanno?»

Il liberto restò a fissarlo in silenzio per qualche istante, con una di quelle espressioni piene di pazienza e commiserazione che tanto contribuivano a innervosire Cicerone, poi sollevò le mani come a volersi rifiutare di raccogliere la pergamena che lui gli porgeva.

«Tutto ciò che hai scritto resterà ai posteri» rispose alla fine, con la mancanza di soggezione nei suoi riguardi che lo caratterizzava, e che era la virtù che Cicerone gli riconosceva di più. «Ma non ora, né fra dieci anni. E il De officiis non sarà il tuo ultimo capolavoro, ne sono più che certo.»

«I capolavori non li scrivono gli uomini in vita, ricordalo» lo punzecchiò ancora l’oratore, suo malgrado divertito dalle continue diatribe dialettiche con quell’uomo sveglio e scaltro come piaceva a lui. «Solo i morti. O gli dei.»

«Be’, tu non sei né l’uno né l’altro» obiettò Tirone. «Eppure quello che scrivi è sulla bocca di tutti e miete più vittime della spada.» Fece una pausa d’effetto, guardandolo fisso negli occhi come a sfidarlo a contraddirlo. Quando comprese di averla avuta vinta, tornò ad agitare le mani, con fare ansioso. «Dunque cerchiamo di muoverci, perché gli sgherri di Marco Antonio stanno arrivando e noi non dobbiamo farci prendere.»

Cicerone fece un lungo respiro, poi si alzò dallo sgabello porgendo la pergamena al liberto.

«Questa la portiamo con noi?» chiese.

Il volto di Tirone si contrasse in un’espressione scandalizzata.

«Devi anche chiedermelo? Hai dedicato quest’opera a tuo figlio, e se fossi in lui sarei la persona più felice del mondo, perché nessuno ha mai scritto simili parole per la sua progenie.»

Cicerone fece un mezzo sorriso.

«Non so se sei più bravo tu, con la retorica adulatrice, o quel vecchio sapiente di Catone.»

«Nessuno di noi ti tiene testa, se è per questo» ribatté Tirone precedendolo verso le sue stanze. «Ho fatto preparare tutto, devi solo vestirti per il viaggio e prendere le ultime cose. Solo quelle indispensabili, mi raccomando. Non appesantiamoci inutilmente.»

«La mia vita come ti sembra?» lo schernì Cicerone, con un’amarezza che gli scavò un solco di dolore nel petto. «Abbastanza indispensabile? Eppure, te l’assicuro, è il peso maggiore che mi sto portando dietro.»

«Quante sciocchezze!» sbuffò Tirone, che sapeva bene quanto fosse inutile addentrarsi in schermaglie filosofiche con lui. Molto meglio sdrammatizzare.

«Non sarà un viaggio facile» gli ricordò Cicerone cominciando a vestirsi. «Marco Antonio avrà sguinzagliato i suoi uomini su tutte le strade maestre.»

«E noi passeremo dove meno se lo aspettano» ribatté l’altro.

Cicerone scosse la testa.

«Devo essere fiero delle mie Filippiche, non trovi? Avevano lo scopo di umiliare un pretendente al trono di Cesare e ci sono riuscite benissimo!»

Il liberto gli scoccò un’occhiata in tralice.

«Ti hanno anche fatto iscrivere nelle liste di proscrizione» grugnì. «E forse a Roma sarebbe servito di più un Marco Tullio Cicerone vivo e capace di argomentare in Senato, piuttosto che un fuggitivo.»

«E un morto che cammina» continuò per lui, capendo bene che non aveva completato del tutto il suo ragionamento.

«No, se riusciamo a raggiungere tuo figlio ad Atene. Là sarai al sicuro e potrai appoggiare Ottaviano contro Marco Antonio.»

«Bah, il gioco di Ottaviano ancora non mi è chiaro» protestò Cicerone con una nota di disgusto. «Perché non si è opposto alle liste di proscrizione di Marco Antonio? E perché continua a restare in bilico tra i cesariani e i liberatores? Un giorno sembra lodare il Senato, poi l’altro si schiera con chi sta cercando di annientare la Repubblica.»

«Quel ragazzino è meno stupido di ciò che sembra» commentò Tirone. «Dà una carezza all’uno e una sberla all’altro, e poi inverte subito le sue attenzioni, bacchettando il primo e ingraziandosi il secondo.»

«Si chiama politica» mugugnò l’oratore, rendendosi conto che Ottaviano si stava cimentando in un gioco pericoloso, anche se lo faceva con una maturità sorprendente.

«Materia in cui tu dovresti essere maestro» gli ricordò Tirone in tono leggermente sarcastico.

«Va bene» sospirò Cicerone alla fine, consapevole che non sarebbero mai usciti dalle sabbie mobili di quella conversazione.

Il suo segretario personale era il solo che riuscisse a tenergli testa, almeno quando lui non era nel pieno della forma. E quel giorno lui era tutto tranne che il grande oratore capace di tenere le folle con il fiato sospeso.

«La lettiga sarà pronta?»

«Ti aspetta» confermò Tirone, afferrando le ultime cose e precedendolo verso i giardini della grande villa che Cicerone aveva fatto ricostruire dopo l’aspro conflitto politico che lo aveva visto opposto a Clodio, un mastino scatenato da Cesare per morderlo al collo e sgozzarlo davanti a tutti. Ma lui, grazie all’aiuto di Pompeo, era riuscito a vincere anche quella battaglia, e per dimostrare che non aveva nulla da nascondere o da farsi perdonare da chi lo aveva accusato di tradimento nei confronti del popolo romano, era rientrato dall’esilio e aveva fatto ricostruire le proprietà che Clodio e i suoi oppositori avevano fatto abbattere in sua assenza, come la villa di Formia.

Ma ormai era stanco di combattere. Cesare era stato ucciso, e questo avrebbe dovuto farlo sentire meglio, anche se dentro di sé sapeva che non era così. Al dittatore, che si era dimostrato un uomo illuminato, anche se divorato dalla bramosia di potere, erano succeduti personaggi molto peggiori, come l’aspro Marco Antonio e l’ambiguo Ottaviano. La guerra civile si era fatta sempre più feroce, e lui doveva temere per la propria vita e per quella della sua famiglia.

Tutto sommato, ai tempi di Cesare questo non era mai accaduto. Il tiranno non aveva pietà per i suoi nemici, ma solo dopo aver dato loro l’occasione di difendersi e di sostenere il proprio onore. Concetti che ultimamente sembravano essere stati dimenticati.

Seguendo Tirone, Cicerone arrivò all’esterno della villa e si diresse verso la lettiga che lo attendeva, circondata da un nugolo di schiavi.

«Non possiamo portarli tutti con noi» constatò indicandoli.

«Ci seguiranno per un po’, come scorta armata» spiegò Tirone. «Poi dovrai lasciarli andare.»

«Vuoi opporre degli schiavi alle truppe di Marco Antonio?»

Il liberto non rispose, limitandosi a oscurarsi in viso. Accelerò il passo, raggiunse la lettiga e sistemò alcuni cuscini con gesti quasi rabbiosi, facendogli poi cenno di prendere posto.

Cicerone si avvicinò scuotendo la testa: Tirone era ancora più permaloso di quanto lo fosse lui stesso, ma in realtà sapeva che tutto quello che faceva e diceva era indirizzato alla sua tutela. Per quanto fosse ormai chiaro che in quella guerra di spade e di animi corrosi dalla rabbia, uomini come loro che si difendevano con l’intelligenza e la forza delle parole, più che delle azioni, erano destinati alla sconfitta.

Mentre si sistemava sui cuscini, Cicerone scoppiò a ridere.

«Mai avrei detto che mi sarei ritrovato a rimpiangere Cesare» mormorò, senza rivolgersi a nessuno in particolare, ma tenendo per sé quella amara constatazione.

«Forza!» gridò Tirone, spronando gli schiavi a sollevare la lettiga per mettersi in cammino.

Proprio in quel momento si sentirono delle urla, vi fu un gran trambusto e Cicerone vide arrivare di corsa degli uomini armati, con indosso le loriche delle legioni di Antonio.

«Fermatevi!» ordinò un uomo al comando del drappello, mentre i soldati si disponevano in cerchio tutto intorno a loro, con le daghe sguainate.

Tirone sfoderò un esile pugnale, poi si sbracciò in direzione degli schiavi, che mostrarono i coltelli e i forconi di cui erano armati e si predisposero in un’esigua barriera a protezione di Cicerone.

«Non siate sciocchi!» ringhiò il tribuno militare rivolto all’oratore. «Vi potremmo uccidere tutti all’istante, e lo sapete!»

Tirone strinse i denti gonfiando i muscoli delle mascelle, in una muta risposta alle parole arroganti dell’uomo, ma Cicerone comprese che il tribuno aveva ragione.

«Abbassate le armi» ordinò agli schiavi, che si voltarono a guardarlo sorpresi.

«Mio signore, che cosa...» provò a protestare Tirone, ma Cicerone lo interruppe sollevando una mano.

«Vogliono me, e mi avranno comunque» disse, guardando fisso negli occhi il suo liberto. «Libera gli schiavi, che almeno loro possano continuare a vivere.»

Tirone esitò per qualche istante, gli occhi carichi di rabbia, delusione e paura, ma poi si voltò verso il tribuno, sputò per terra e lasciò cadere il pugnale.

«Arrendetevi» ordinò agli schiavi con voce bassa e cavernosa, grondante umiliazione.

Il tribuno militare aspettò che le armi fossero deposte, poi con un cenno brusco del capo impartì un ordine a un gigantesco centurione che lo affiancava, e ben presto i legionari raccolsero le armi degli schiavi e spinsero la servitù di Cicerone verso la zona delle stalle, dove vennero imprigionati e guardati a vista da alcuni soldati.

«Qual è la sentenza che è stata emessa?» chiese Cicerone scrutando il tribuno.

Non ne conosceva il nome, ma sapeva bene chi fosse il centurione che gli stava accanto con lo sguardo truce. Era uno dei boia di Marco Antonio, Erennio, che già più volte aveva levato la spada per staccare le teste degli oppositori al partito dei cesariani, e che si diceva fosse stato il responsabile della morte di Decimo Giunio Bruto, il primo dei congiurati a essere ucciso, dopo quello che era accaduto alle Idi di marzo dell’anno prima.

«Dovremmo tagliarti la testa e le mani» rispose il tribuno militare. «O almeno la destra, con la quale arringhi le folle e scrivi le tue orazioni.»

Cicerone apprezzò l’ironia di quelle parole e, restando seduto sui cuscini della lettiga, sporse all’infuori la testa, esponendo il collo alla spada di Erennio, che immaginava fosse già pronta a scattare verso di lui.

«Quando mi avrete staccato la testa, credo che mi importerà poco di quale fine faranno le mie mani» commentò con la stessa ironia spicciola sfoggiata dal tribuno.

«Forse non sarà necessario» ribatté a sorpresa il militare, tirando le labbra in un mezzo sorriso. «Non solo per le mani, anche per la tua testa.»

«Che cosa vuoi dire?» intervenne Tirone con un sussulto di speranza, facendo mezzo passo in avanti.

Erennio lo bloccò con il braccio, ergendosi davanti al liberto come una montagna invalicabile, ma Cicerone, che non aveva staccato gli occhi dal tribuno, avvertì una strana sensazione montare dentro di sé. Speranza. Ma speranza per cosa, si chiese?

«Seguimi» gli ordinò il tribuno ruotando sui tacchi e dirigendosi verso l’ingresso della villa. «Ci stanno aspettando.»

Cicerone scese dalla lettiga sentendo le gambe molli, sorpreso e spiazzato dall’atteggiamento del militare.

«Tu no» ringhiò Erennio quando Tirone cercò di passare oltre per affiancarsi a lui.

Cicerone gli fece un cenno per tranquillizzarlo, poi, sentendosi rimescolare lo stomaco da sensazioni contrastanti, seguì il tribuno all’interno della grande villa che credeva di avere abbandonato per sempre.

Il primo che vide fu Filologo, uno dei suoi liberti di cui non aveva più avuto notizie da qualche giorno. Era stato dunque lui a tradirlo, e a mettere i sicari di Marco Antonio sulle sue tracce?

Si limitò a lanciargli un’occhiata piena di disprezzo, poi seguì il tribuno militare nel peristilio, dove altri soldati sembravano in attesa del suo arrivo.

Che cosa volevano da lui? Perché non gli avevano già spiccato la testa dal collo? Forse credevano di poter barattare la sua vita con qualche dichiarazione a favore di Marco Antonio, per legittimare il suo desiderio di rimpiazzare Cesare sullo scranno del dittatore?

Cicerone fece una smorfia di disgusto. Davvero non lo conoscevano? Non sapevano che non avrebbe rinnegato le sue idee neppure per la propria vita?

Quando il tribuno raggiunse alcune persone voltate di spalle, che indossavano dei lunghi mantelli da viaggio, Cicerone era già pronto a sfoderare le sue doti oratorie per sferzare quegli stolti, e far capire loro che un uomo come lui poteva essere privato di tutto, ma non della dignità.

Ma poi gli sconosciuti si girarono, e per un momento Cicerone credette di sognare.

«Non è possibile...» mormorò, sentendosi mancare.

«Ave, Cicerone» disse il più spaventoso degli uomini che lo fronteggiavano, facendo un passo avanti. «Mi fa piacere rivederti.»

«Tu... non è possibile...»

Cicerone trattenne l’impulso di mettersi a urlare. Non era superstizioso, né credeva a certe dicerie secondo cui le anime dei dannati fossero costrette a vagare in eterno sulla terra, alla ricerca della vendetta che avrebbe ridato loro la pace. Perché non poteva esserci pace per quell’uomo, né fra i vivi, né nell’Averno o nei Campi Elisi. E ritrovarselo di fronte in quel momento fu la peggiore conferma di ciò che stava pensando.

«Non avrai davvero creduto che fosse così facile uccidermi, vero?» gli chiese Gaio Giulio Cesare, allargando quel sorriso pieno di tracotante superbia che Cicerone aveva imparato a odiare, ma che negli ultimi mesi era arrivato persino a rimpiangere.

«Io...» provò a dire, poi vide avanzare anche gli altri uomini che indossavano i mantelli, e quando riconobbe Marco Licinio Crasso e suo figlio Publio, e persino Decimo Giunio Bruto, gli tremarono le gambe.

Il dittatore di Roma era ancora vivo, ed era lì davanti a lui, spavaldo e sicuro di sé come sempre, circondato dai fantasmi di uomini che tutti credevano morti.

Cicerone provò a dire qualcosa, ma in quel momento un abisso si spalancò sotto i suoi piedi e con un gemito vi precipitò dentro.