9
Penisola Iberica
42 a.C. – 711 ab Urbe condita
Il luogo di approdo era stato individuato da Cleone, il gigantesco pirata, dopo due giorni di perlustrazioni della costa iberica: un tratto abbastanza isolato e selvaggio da non presentare insediamenti umani di sorta.
L’insenatura fra due costoni di roccia, che si protendevano in mare come i rostri di possenti navi, aveva tutte le caratteristiche che servivano per poter ospitare la flotta, mentre l’entroterra avrebbe potuto soddisfare le esigenze della legione, che doveva realizzare un castrum provvisorio non troppo lontano dal punto in cui il Mare Ibericum sfociava nel vasto e sconosciuto oceano oltre le Colonne d’Ercole.
La vegetazione che circondava le due alture su cui sarebbero stati costruiti il castrum praetorium e la torre di avvistamento era abbastanza fitta da impedire l’attacco da parte di un esercito proveniente dall’entroterra, e un fiume di discreta portata scendeva dalle montagne che si scorgevano all’orizzonte, per sfociare in mare a poche miglia dalla baia protetta in cui le navi erano state messe all’ancora. Gli alberi in prossimità dell’accampamento erano ad alto fusto, e la selvaggina, da quello che aveva riferito Cleone, abbondante, ulteriore segno che non dovevano esserci insediamenti umani vicini.
«Io e i miei uomini abbiamo battuto queste coste per anni» aveva raccontato il pirata prima di partire per la sua esplorazione, «e so bene che non ci sono villaggi da razziare. Se volete restare nascosti, questa zona è la migliore che potete scegliere. A meno che non vogliate oltrepassare le Colonne d’Ercole.»
«Lo faremo» gli aveva spiegato Cesare. «Ma non adesso. Prima dobbiamo fermarci per un po’, fare scorta di cibo e costruire un insediamento che ci potrà servire in futuro, con magazzini nascosti e un cantiere navale.»
Cleone lo aveva guardato accigliato. «Sei un uomo prudente. Mi chiedo perché. A cosa credi di andare incontro?»
Cesare aveva sostenuto con fermezza lo sguardo del pirata.
«Di questo parleremo a tempo debito. Adesso preoccupati di fare bene il tuo lavoro.»
L’uomo aveva annuito grugnendo qualcosa tra i denti, ed era partito per la sua missione insieme a Cretica, la donna pirata, che lo seguiva senza mai abbandonare la sua aria disgustata, come se non approvasse quel patto di collaborazione con loro e volesse che fosse ben chiaro come la pensava.
Adesso, mentre tutta la legione era al lavoro per erigere le mura del castrum e scavare le trincee attorno al campo, Cesare dovette ammettere che aveva scelto bene, quando aveva individuato quel gigante come possibile alleato. In fondo, ai pirati interessava il bottino, e lui gli aveva fatto intendere che quello che stavano inseguendo non era solo un sogno di gloria, ma anche di ricchezze sconfinate. E se volevano avere la loro parte, dovevano ingoiare la rabbia e accettare la sottomissione che chiedeva loro, dandosi da fare per dimostrare che la fiducia che gli era stata concessa non era vana.
Cleone lo aveva capito subito, e il suo apporto era stato importante, soprattutto per calmare gli altri pirati, che non sembravano così disposti a piegarsi ai loro nuovi signori. Prima fra tutti quella donna, Cretica, una selvaggia che emanava un afrore che Cesare aveva già avvertito con tutto il suo essere e a cui riusciva a resistere solo perché Calpurnia era lì con lui e gli impediva di avventarsi su quella preda con cui avrebbe dovuto lottare, se avesse voluto possederla. Era questo, forse, ciò che più lo attirava.
«La tenda per il Consiglio di comando è pronta. Quando vuoi possiamo cominciare» lo richiamò Decimo Bruto. Cesare sospirò e si voltò, allontanandosi dallo sperone di roccia da cui si dominava tutta la baia che conteneva a stento le navi della flotta. Si era arrampicato lassù perché, come aveva sempre fatto durante le sue spedizioni militari, sapeva che un buon comandante doveva avere ben presente quale fosse il territorio non solo in cui avrebbe mosso le sue legioni, ma anche dove avrebbe dovuto costruire il campo per dare protezione ai suoi uomini, o la fonda in cui mettere al sicuro le navi.
E quel posto era davvero l’ideale, ben al di là di quanto si era augurato di trovare.
Adesso aveva bisogno di confrontarsi con i suoi compagni d’avventura per stabilire la gerarchia interna della legione e assegnare incarichi precisi, che non ammettessero discussioni. Solo così la Legio Caesaris sarebbe stata pronta ad affrontare la sfida con gli dei, per combatterli sul loro stesso terreno e conquistare il bottino più grande: il segreto della vita eterna.
Non c’era molto, all’interno della tenda di comando, oltre a un lungo tavolo ricavato da assi di quercia e a sgabelli per chi era stato invitato al Consiglio. Nessun legionario armato era presente, solo due servi particolarmente efficienti e silenziosi erano stati ammessi a seguire le esigenze degli ospiti del dittatore, che potevano bere alcune varietà di vino aromatizzato e assaggiare le carni e i pochi cibi cucinati che erano stati portati su grandi vassoi.
Cesare non amava indulgere in raffinatezze quando si riuniva con i suoi generali per discutere di strategie militari, e quando prese posto lo fece avvertendo tutta la soddisfazione che l’occasione richiedeva. Da quanto non partecipava a una riunione del genere? Quanto tempo era passato? E come aveva potuto sopportare di accontentarsi per tanti anni delle sterili assemblee della Curia, dove gli interminabili incontri con i senatori e con i magistrati l’avevano portato spesso a addormentarsi sul suo scranno?
Molto meglio gli scomodi sgabelli dei campi di battaglia e il brusio eccitato che si diffondeva fra gli occupanti la tenda di comando, in attesa delle decisioni che lui avrebbe preso, come comandante supremo della legione. Naturalmente dopo averne discusso e avere lasciato la parola agli altri, com’era sua consuetudine fin da quando, al tempo del suo proconsolato in Gallia Cisalpina e nell’Illirico, aveva sempre stabilito ogni strategia militare dopo il consulto con i suoi generali.
Ma l’ultima parola, e questo lo sapevano tutti, spettava a lui.
«Bene, direi che non manca nessuno» esordì Marco Licinio Crasso dopo avere bevuto un lungo sorso di vino. «Possiamo cominciare.»
«No» lo contraddisse subito il dittatore, «manca ancora qualcuno.»
Crasso lo guardò sorpreso, poi verificò i presenti e sembrò ancora più perplesso. Nella tenda di comando, infatti, oltre a lui e a Cesare, c’erano Marco Giunio Bruto, Cicerone, Gaio Cassio Longino, Publio Licinio Crasso, Giunio Scribonio, Decimo Giunio Bruto, Publio Servilio Casca e persino il vecchio Spartaco, che sedeva quasi in disparte, il viso congelato nell’espressione austera che lo contraddistingueva. Era stato nominato già da tempo primus pilus, il centurione più anziano della legione, comandante del primo manipolo della prima coorte, ed era l’unico fra gli ufficiali di rango inferiore a godere del privilegio di essere ammesso al Consiglio di comando.
«Mi sembra che ci siamo tutti» constatò Crasso dopo aver guardato e riguardato i presenti a uno a uno.
Prima che Cesare potesse ribattere, l’ingresso della tenda si spalancò e una figura imponente fece la sua apparizione, facendo balzare in piedi per lo stupore molti dei presenti.
«Vieni, Cleone» disse Cesare accogliendo il pirata, che aveva scavata sul viso un’espressione di acida diffidenza. «Siedi con noi.»
Molti fissarono prima il gigante cilicio e poi Cesare, manifestando con lo sguardo tutta la loro sorpresa e il loro disappunto, ma nessuno ebbe l’ardire di chiedere spiegazioni. Fu lo stesso Cesare, dopo avere versato una coppa di vino per Cleone, a spiegare ai suoi generali quello che aveva in mente.
«Abbiamo bisogno di raccogliere alleati per la nostra impresa, e Cleone potrà essere il nostro ufficiale di collegamento, nonché comandante delle navi cilicie che abbiamo aggregato alla flotta.»
«Un pirata?» chiese sbalordito Publio Servilio Casca. «Un selvaggio che non ha nessuna concezione della gerarchia militare? Come puoi pensare di...»
«Io non sono un selvaggio» lo interruppe Cleone con la sua voce bassa e profonda. «Prima che la mia famiglia venisse sterminata dalle legioni di Pompeo Magno, ero un nobile di Tarso, esponente del Consiglio di guerra della Cilicia Trachea. Non devi darmi nessuna lezione di gerarchia militare.»
Cesare non riuscì a trattenere un sorriso, quando vide l’espressione degli altri ufficiali riuniti intorno al tavolo. Lui aveva avuto modo di parlare a lungo con Cleone, davanti a una caraffa di buon vino e immersi in due tinozze di acqua calda, e il gigantesco pirata gli aveva raccontato qualcosa sulla sua vita precedente. Non molto, in realtà, e lui intendeva approfondire al più presto, anche perché ne era rimasto profondamente incuriosito, però l’uomo si era lasciato sfuggire la sua appartenenza alla nobiltà di Tarso, e chiunque avesse conosciuto lo sfarzo e la grandiosità dell’antica capitale della Cilicia, poteva immaginare che razza di uomo dovesse essere quel colosso che si nascondeva dietro al nome di Cleone e che vestiva i panni di un pirata.
Un uomo senz’altro colto, e che parlava perfettamente il latino, a dimostrazione che doveva essere stato spesso a Roma, intrattenendo relazioni commerciali e forse anche politiche con esponenti di rilievo dell’Urbe.
«Prima della guerra di Pompeo Magno, dici» intervenne Cicerone, fissando con curiosità il gigante dalla testa tatuata. «Stiamo parlando di più di venticinque anni fa. Quanti anni hai, se posso chiedertelo?»
«Non lo so» rispose Cleone stringendo gli occhi per fare scomparire le pupille dietro le palpebre. «E francamente mi interessa poco.»
«E io concordo con il nostro amico di Tarso» affermò Cesare intervenendo per mettere fine a quella discussione. Aveva urgenza di passare a cose più concrete, e adesso che era stato chiarito che il pirata era ben più di quello che appariva a un primo sguardo, poteva dare inizio al Consiglio di guerra.
«Dopo che avremo installato qui un campo permanente, che avrà una piccola guarnigione e due navi di guardia, per consentirci di avere un approdo sicuro per ogni evenienza, oltre a quello di Tarrae, la mia intenzione è di abbandonare ogni indugio e attraversare le Colonne d’Ercole per dirigerci verso nord seguendo le rotte tracciate da Imilcone e Pitea. Ormai siamo pronti.»
Dopo quelle parole, Cesare avvertì nitido il brusio di eccitazione che si propagò nella tenda di comando: tutti aspettavano quel momento da troppo tempo.
«Non sono mai stato nel grande mare oltre le Colonne d’Ercole» intervenne Cleone, «ma ho sentito molti racconti a proposito di quelle acque, e nessuno era rassicurante.»
«Ci siamo attrezzati per affrontare qualsiasi pericolo» intervenne Decimo con foga. «Le macchine da guerra e le armi progettate da Cesare affonderanno chiunque oserà attaccarci. E le nostre navi sono progettate per viaggiare anche con le peggiori tempeste.»
Il gigante cilicio lo fissò con aria scettica, poi tornò a rivolgersi a Cesare: «È appena iniziato l’inverno, sconsiglio di prendere il largo in questa stagione. Il mare, oltre le Colonne d’Ercole, è feroce, quando dal cielo arrivano pioggia e neve».
«Non ho nessuna intenzione di partire adesso» lo tranquillizzò Cesare, «ma vorrei che qualche nave andasse in esplorazione e cominciasse a tracciare una rotta sicura verso nord. Poi, quando arriverà la primavera, la flotta sarà pronta per affrontare il lungo viaggio che ci aspetta.»
«Manderò due dei miei uomini più fidati» annuì Cleone. «Sapranno trovare la rotta migliore per dirigerci a nord.»
Cesare si guardò attorno, e vide che gli altri parlottavano fra di loro, forse chiedendosi per quale motivo si fidasse così tanto di quel pirata. Decise che non aveva alcun bisogno di spiegarsi con i suoi subalterni, e passò a un altro argomento, riportando la conversazione nel solco che si era già tracciato in mente fin da quella mattina.
«Per avere una legione efficiente, con la struttura consolidata che tutti conosciamo, intendo assegnare a ciascuno di voi un preciso ruolo di comando, in modo che la gerarchia sia rispettata e i nostri uomini sappiano a chi devono rivolgersi per qualsiasi problema, in mare o sulla terraferma.»
«Sono d’accordo» annuì Crasso. «La disciplina e l’ordine sono i primi obiettivi che dobbiamo raggiungere, se vogliamo avere successo nella nostra impresa.»
«Cleone sarà il praefectus cohortis, se non ho capito male» intervenne Bruto senza una particolare inflessione nella voce, limitandosi a chiarire quello che Cesare aveva già dato a intendere a tutti.
«Esatto» annuì Gaio.
«Noi quale ruolo avremo?»
Cesare lo guardò approvando il modo diretto con cui era andato al cuore del problema, e finalmente si risolse a rispondere in modo compiuto, come già da tempo i suoi ufficiali gli chiedevano. Ci aveva pensato a lungo, seduto da solo davanti al fuoco, prima ancora che il giorno delle Idi di marzo scoccasse a fare da spartiacque per la sua nuova vita.
Si girò sullo sgabello e indicò Spartaco, sempre cupo e silenzioso nella sua lorica da battaglia.
«Il nostro centurione primus pilus, come ormai tutti avete capito, sta già svolgendo il suo incarico, anche se nessuno lo ha ancora ufficializzato. Dobbiamo soprattutto a lui, se la nostra legione non è seconda a nessun’altra, per addestramento e disciplina.»
Pochi commenti pronunciati a mezza bocca suggellarono le sue parole. Dopodiché Cesare si voltò verso il giovane Giunio Scribonio, la cui voglia di combattere e l’energia estenuante che traboccavano da ogni gesto gli ricordavano i giorni in cui lui aveva cominciato il suo cursus honorum.
«Scribonio sarà il praefectus alae e si occuperà di coordinare le ali della cavalleria, facendo riferimento al suo diretto superiore, il tribunus sexmestris della legione, comandante in capo di tutta la cavalleria, Publio Licinio Crasso.»
Sia Giunio Scribonio sia Publio Crasso annuirono soddisfatti, consapevoli di essere stati designati da tempo a quell’incarico, visto che nessuno fra i presenti aveva la loro abilità ed esperienza con le forze a cavallo di cui disponeva la legione.
«Tu, Decimo» continuò Cesare indicando colui che fino a quel momento era stato a tutti gli effetti il suo secondo in comando, «avrai un doppio incarico.»
Decimo si batté il braccio sul petto, gonfiando i muscoli delle mascelle. «Tu comanda, Cesare, e io obbedirò.»
«Sei già il nostro praefectus classis, al comando della flotta. Ma voglio anche che tu sia uno dei tribuni angusticlavii, insieme a Bruto, Cassio Longino e Servilio Casca, al diretto servizio del mio vice comandante, nonché tribunus laticlavius della legione.»
Tacque un istante, guardando gli unici due fra i presenti che ancora non avevano avuto un incarico, ovvero l’esperto Marco Licinio Crasso, che per primo era stato al suo fianco nell’organizzazione di quella impresa, e Cicerone, che pur avendo aderito alla Legio Caesaris dava ancora l’impressione di non essere del tutto a suo agio, al fianco del dittatore redivivo, e certo aveva minore esperienza militare rispetto a Crasso.
«Ti ringrazio dell’onore, Cesare» cominciò questi soddisfatto, quando il dittatore piantò gli occhi nei suoi. «Ti garantisco che io...»
«Tu sarai il nostro praefectus castrorum, responsabile di tutti gli insediamenti che costituiremo nei prossimi anni» lo interruppe Cesare. «E vista la tua esperienza, ho deciso di assegnarti anche altri incarichi, fra cui quello di praefectus annonae, per il controllo delle scorte e degli approvvigionamenti, e di praefectus fabrum, per la gestione di tutti i lavori di costruzione dei nostri magazzini e accampamenti.»
Nella grande tenda di comando scese il silenzio. Crasso era ancora a bocca aperta, con una ridicola smorfia sul volto che era l’irrigidirsi del sorriso compiaciuto che non era riuscito a trattenere, anche se del tutto a sproposito.
«Ma Cesare, io...» provò a dire, richiudendo la bocca di scatto.
Cesare si allungò verso di lui e gli posò una mano su una spalla.
«Amico mio» gli disse con dolcezza, «tu non hai idea di quanto ti sia grato per tutto ciò che hai fatto, per me e per la legione. Ma sei troppo vecchio per questa impresa, e dunque non ci seguirai oltre le Colonne d’Ercole. Resterai qui, e renderai operativo questo castrum, difendendolo da eventuali pericoli e rendendolo accogliente come una città per il giorno del nostro ritorno. Ho bisogno di te, per tutto questo. Sai quanto è importante.»
Marco Licinio Crasso fissò Cesare sgomento, con gli occhi che all’improvviso si erano riempiti di lacrime, ma anziché ribattere chinò la testa e annuì, in un gesto di sottomissione che Gaio considerò come una promessa che li avrebbe legati per il resto della vita.
«Molto bene» sospirò alla fine, staccandosi da Crasso e girandosi a guardare Cicerone, che sembrava non avere ben compreso la portata di quello che lui aveva appena detto. Gli sorrise e gli diede una pacca sulla spalla. «Sarai tu il nostro tribunus laticlavius, il vice comandante della legione e mio braccio destro. Spero che questo incarico sia di tua soddisfazione.»
L’anziano oratore restò a fissarlo per un istante, poi all’improvviso la luce della comprensione baluginò dai suoi occhi.
«Non ho abbastanza esperienza» protestò, senza farsi scrupoli ad ammettere la sua inferiorità da un punto di vista militare rispetto agli altri che sedevano in quella tenda. E senza immaginarlo diede a Cesare la conferma di ciò che da tempo aveva meditato e deciso.
«Di esperienza basta la mia» gli rispose, «e quella degli altri ufficiali della legione, che ci supporteranno in ogni circostanza.» Si voltò a guardare i presenti, e tutti annuirono senza esitazione. Poi tornò a rivolgersi a Cicerone: «Ma io ho bisogno di qualcuno con cui confrontarmi, prima di prendere le decisioni più importanti. E mi servite tu e la tua intelligenza, che saprà esprimersi al di là di ogni servilismo nei miei confronti».
Cicerone accennò una smorfia. «Su questo puoi contare. Per il resto...»
«Per il resto lascia che sia il tempo a stabilire se ho deciso male o bene» l’interruppe Cesare.
Cicerone dilatò le narici e inspirò a fondo, poi finalmente scosse la testa in un cenno di consenso.
«Va bene, farò come dici. Ma se è un confronto aperto e sincero, quello che desideri, allora sappi che è questo che avrai da me. Nient’altro.»
«Lo so bene» sorrise Gaio. «È per questo che ti ho voluto con noi.»
Quella sera, mentre prendeva possesso dei suoi alloggi costruiti con grande abilità dai carpentieri della legione, Cesare si era aspettato di trovare Marco Licinio Crasso ad attenderlo per chiedergli udienza privata. Era indubbio che la sua decisione di estrometterlo dall’incarico di vice comandante, che praticamente aveva mantenuto per tutti quegli anni, doveva avere pesato come un macigno sulle spalle del povero Crasso, e ancora Cesare sentiva una sensazione di malessere nello stomaco, quando ripensava alla faccia che aveva fatto quel pomeriggio, durante il Consiglio di guerra. Ma non poteva lasciarsi condizionare dagli affetti e dai sentimenti di amicizia che provava per molti dei compagni che aveva accanto in quell’avventura, e anzi era proprio del contraddittorio che una persona onesta e priva di scrupoli come Cicerone poteva offrirgli quello di cui aveva bisogno. Perché lui non era più il ragazzo di un tempo, e non era sicuro di essere in grado di affrontare le sfide che li aspettavano con la freddezza e la determinazione che lo avevano caratterizzato durante le campagne in Gallia e Britannia.
La vita politica nell’Urbe lo aveva fiaccato, e lui ci avrebbe messo un po’ a recuperare la lucidità che lo aveva sempre contraddistinto nei momenti di difficoltà. La presenza di Cicerone, per certi versi indigesta, sarebbe stata stimolante e gli avrebbe dato lo sprone che gli serviva per accorciare i tempi e tornare a essere il soldato e lo stratega che tutti conoscevano.
Per di più, Marco Licinio Crasso era troppo vecchio, anche se si muoveva ancora come un uomo in perfetta forma fisica, e le sue capacità organizzative sarebbero state più utili lì, in quell’avamposto che avevano deciso di fondare sulle coste iberiche, piuttosto che sui campi di battaglia, o ovunque li avesse portati la ricerca del segreto degli dei. Aveva dunque agito per il bene di tutti, e di Crasso stesso, nell’assegnargli l’incarico di praefectus castrorum, e non se ne era certo pentito.
Per fortuna non aveva più incontrato il suo vecchio amico, dopo il Consiglio, e dunque adesso, quando si apprestò a entrare nei suoi alloggi, all’interno del Castro Pretorio, si augurò di non vederselo spuntare davanti per implorarlo di riconsiderare la sua decisione.
Si guardò attorno con cautela, non scorse nessuno, quindi si avvicinò con un sospiro di sollievo alla pesante tenda decorata con l’aquila della legione che dava accesso al suo alloggio.
«In realtà non sarebbe per nulla difficile ucciderti!» esclamò all’improvviso una voce accanto a lui, facendolo sobbalzare per la sorpresa.
Cesare cercò di estrarre la daga che portava al fianco, ma un’ombra si avventò su di lui premendogli una lama contro la gola. «Però non sono qui per questo.»
La lama allentò la pressione, e la figura fece un passo avanti, portandosi nel debole cono di luce dell’unica fiaccola che era stata appesa nel corridoio.
«Cretica» sibilò Cesare osservando la donna pirata che lo fissava con un ghigno divertito, la spada sguainata e il naso ancora gonfio e arrossato per il colpo che Cleone le aveva assestato qualche giorno prima.
«Avrei potuto sgozzarti facilmente, dittatore» gli fece notare lei. «Perché sono abile a muovermi rapida e silenziosa, senza farmi vedere.»
«Però non l’hai fatto.»
Cretica ridacchiò.
«Perché volevo solo dimostrarti il mio valore, Cesare. E se mi pagherai bene saprò metterlo al tuo servizio, coprendoti le spalle in modo discreto e senza scrupoli.»
«Non mi serve una guardia del corpo» ribatté lui, pensando che forse non era proprio così. Non aveva ancora organizzato una guardia personale, perché credeva di essere al sicuro fra quegli uomini, ma... forse avrebbe dovuto cominciare a considerare quella possibilità.
«Be’, se mai dovessi cambiare idea, ricordati di me. Io ho molte doti, anche se la mia faccia non ti piace.»
La donna pirata rinfoderò la spada nell’anello di cuoio che portava alla cintola e fece per andarsene, ma Cesare la bloccò afferrandola per un braccio.
«Sei la donna di Cleone?» le chiese.
Lei scoppiò a ridere.
«Dipende dai giorni, Cesare. E dalle situazioni.»
«Vuoi farti un bagno? Dall’aspetto direi che è da un po’ che non ti togli quei vestiti di dosso.»
Lei lo fissò con una strana luce nello sguardo.
«Mi vorresti vedere tutta pulita e profumata?» gli domandò con aria di scherno. «Nuda come mamma mi ha fatta?»
«Perché no?» sorrise a sua volta Cesare. «Potrebbe esserci qualcosa di interessante, sotto tutta quella sporcizia.»
«E tua moglie?» sibilò lei facendosi sotto e cominciando a guardarlo con un certo interesse.
«Lei potrebbe insegnarti a lavarti e a profumarti come una donna romana.»
Cretica lasciò partire un verso stridulo che era forse una risata o forse un grido di esultanza, poi saltò in braccio a Cesare, che colto di sorpresa quasi crollò a terra.
«Non so niente delle donne romane!» affermò lei appoggiandogli il naso al collo e cominciando a inspirare rumorosamente, come se lo stesse annusando. «Profumano quanto profumi tu?»
«Molto di più» rise lui.
«Allora forse potrei morire» gemette Cretica guardandolo con finta aria spaventata. Era una pantomima nata, e su un palcoscenico a Roma avrebbe ammaliato le folle.
«Forza, che aspettiamo?» lo fece sobbalzare ancora, allungandosi verso di lui, leccandogli il collo e poi districandosi con un guizzo dal suo abbraccio, per varcare con insolenza la tenda d’ingresso all’alloggio che Gaio divideva con Calpurnia.
Dev’essere pazza, pensò Cesare seguendola. E comprese che sarebbe piaciuta subito a sua moglie, soprattutto per certi giochini in cui lei amava prodigarsi sotto le lenzuola.
Se non altro, pensò divertito, Calpurnia non si sarebbe annoiata in quella spedizione ai confini del mondo.