17

Oceanus Magnus

Al largo dell’isola di Iérne

40 a.C. – 713 ab Urbe condita

Anche se avevano aspettato la primavera per rimettersi in viaggio, in quelle regioni faceva sempre più freddo. Qua e là, sul mare di un colore blu intenso, cominciavano a comparire i primi ghiacci, che come bianche zattere galleggianti seguivano le correnti che li trascinavano verso sud, dove si scioglievano in breve tempo. Ma quei pezzi di ghiaccio sempre più grandi e numerosi erano il segnale che stavano per raggiungere i mari sconosciuti del Nord dove, secondo quanto asseriva il druido Cardan (questo era il suo nome, che si era lasciato sfuggire un paio di volte parlando di sé in terza persona), dimoravano gli dei superiori. Dei che si sarebbero fatti beffe di loro e che, dopo avere giocato un po’ con le loro vite, si sarebbero stancati e li avrebbero fatti a pezzi, come fa un bambino con un giocattolo di cui si è stufato. O almeno così sosteneva lo stregone.

Sembrava fosse questo il motivo per cui il druido li stava guidando lungo gli ultimi tratti della rotta tracciata dagli antichi navigatori greci: voleva ridere di loro, quando si fossero trovati al cospetto degli dei e avessero capito che nessun umano poteva sopravvivere a un simile incontro.

«Uccideranno anche me» aveva sostenuto Cardan ridendo. «Ma morirò felice, perché gli dei riconosceranno la mia fede e saranno indulgenti. Con voi, invece...» Non aveva terminato, limitandosi a grugnire come una delle bestie selvatiche che popolavano la sua terra, senza reagire ai calci che gli uomini di Decimo gli avevano sferrato per farlo tacere.

Nonostante il suo atteggiamento sprezzante, Cesare era sicuro che il druido non gli stesse mentendo. Quando studiava le carte di Pitea o di Imilcone era concentrato, e le indicazioni che forniva per aggirare le piccole isole senza allontanarsi troppo dalle coste di Iérne erano sempre precise e puntuali, verificate dalle ricognizioni delle due actuariae che facevano parte della loro piccola flotta.

I soli che sembravano trovare ogni motivo per protestare e chiedere di approdare da qualche parte per allestire un castrum erano Cassio Longino e Publio Crasso.

«Casca non ci troverà mai, se ci spingiamo troppo in avanti!» era l’argomento principale sostenuto dai due, che Cassio esponeva con fin troppa energia.

Publio, più calmo e pacato, non perdeva però occasione per dargli manforte.

«Abbiamo bisogno dei rinforzi e delle navi annonarie, Cesare» aveva affermato durante l’ultima delle loro discussioni, avvenuta alla presenza anche di Decimo, di Cicerone e di Bruto, come ufficiali della flotta, e del silenzioso Spartaco. «Siamo troppo sguarniti, con pochi uomini e la cavalleria ridotta all’osso. Come potremo combattere contro gli dei, senza tutta la potenza della legione al nostro servizio?»

«Casca non ci troverebbe comunque» aveva ribattuto Decimo, indicando le carte. «Credono che stiamo costeggiando la Britannia, ma non è così. Dubito che riusciremo mai a ricongiungerci con loro, a meno di non cambiare rotta e dirigerci verso est.»

«Non cambieremo rotta» aveva deciso Cesare chiudendo la discussione. «E per quanto mi riguarda, gli uomini a nostra disposizione sono più che sufficienti per quello che dobbiamo fare.»

«Ma...» aveva provato a protestare Cassio, ma Cesare lo aveva azzittito alzando il braccio e uscendo dalla cabina di comando.

Da quel giorno non aveva più affrontato l’argomento con quei due, ma li sentiva discutere con tutti, quasi volessero convincere gli altri ufficiali, i tribuni e i legionari ad ammutinarsi per far cambiare rotta alla flotta.

Be’, non ci sarebbero riusciti, anche a costo di farli gettare in mare. Cesare non aveva dubbi, credeva davvero in ciò che aveva affermato: non sarebbe stato un esercito potente a garantire loro il predominio sugli dei. Per questo ci volevano l’intelligenza, l’arguzia e il coraggio di uomini disposti a tutto. Come lo sarebbe stato lui.

Pioveva. Una pioggia gelata e sferzante, che il vento trasformava in piccoli aghi di ghiaccio che si conficcavano nella pelle. Ormai erano giorni che il cielo cupo li sovrastava, e mentre il mare si faceva sempre più nero e impenetrabile, e le lastre galleggianti di ghiaccio apparivano sempre più numerose e grandi, la pioggia sembrava essere diventata una costante del paesaggio.

Cicerone non ricordava più da quanto tempo non vedeva il cielo azzurro, il sole splendere alto. Per un istante provò nostalgia per la sua terra, per il clima benevolo di Roma o delle località ancora più a sud dove aveva alloggiato per diverso tempo, dove le piogge erano eventi occasionali, magari di grande intensità ma di breve durata: giusto quello che serviva per abbeverare i campi assetati. Non come lì, dove l’umidità era tale da impregnare ogni cosa. Le navi avevano il legno così imbevuto d’acqua da risultare ancora più pesanti, e spesso Cicerone aveva sentito i marinai lamentarsi del fatto che il freddo in costante aumento presto avrebbe impedito loro di navigare sfruttando il vento, perché le vele si sarebbero ghiacciate e ridotte a brandelli, se avessero cercato di stenderle dai pennoni.

Rabbrividendo nel pesante mantello foderato di pelliccia, Cicerone lanciò un’ultima occhiata al cielo grigio e si decise a scendere sottocoperta, dove i bracieri spandevano un calore rassicurante. In realtà, a spingerlo non erano né il freddo né il desiderio di sottrarre le sue vecchie ossa all’umidità. Era attratto dall’idea di potersi intrattenere ancora con quello stregone dagli occhi intelligenti eppure carichi di ombre malevole, che aveva già dimostrato di sapergli tenere testa anche nell’oratoria, in cui lui credeva di non avere rivali.

Cesare lo aveva già ammonito un paio di volte perché evitasse di perdere tempo con il prigioniero, un uomo che, a suo dire, conosceva fin troppo bene l’arte della persuasione occulta, e avrebbe potuto cercare di manipolarlo.

«Manipolare me?» aveva chiesto sorpreso Cicerone, mentre il dittatore lo fissava accigliato. «E come? Con un incantesimo? Bruciandomi con una saetta fatta divampare dagli occhi? Spiegami come, Cesare, e cercherò di cautelarmi.»

E così lui era sceso già un paio di volte nei meandri più bui dell’esareme per parlare con quel druido che, se da una parte lo spaventava, dall’altra lo incuriosiva e attraeva.

E poi nella sua mente c’era sempre un pensiero fisso, che condivideva con lo stesso Cesare: lo stregone sapeva molte cose a proposito degli dei e dei loro poteri. Lo avevano visto in azione, e anche se non aveva mai voluto rivelare nulla, era chiaro che dietro alla luce scura del suo sguardo si nascondevano segreti che loro neppure riuscivano a immaginare.

«Lasciami provare a scardinare la sua diffidenza» aveva chiesto a Cesare il giorno prima. «Forse potremmo apprendere cose nuove e importanti, che ci saranno preziose quando ci troveremo al cospetto degli dei.»

Cesare lo aveva osservato in silenzio per qualche istante, poi aveva annuito con un cenno secco. Da quel momento Cicerone aveva desiderato più di una volta di recarsi da Cardan, ma non ne aveva mai avuto il coraggio. Non si sentiva affatto sicuro di saper dominare l’energia di quell’uomo, anzi, poteva diventare una sua vittima, e questo lo aveva trattenuto.

Fino a quel momento.

Respirando a fondo, arrivò davanti alla porticina della cella, sorvegliata giorno e notte da una guardia armata, e si fermò un istante per cercare di sgomberare la mente da ogni timore e superstizione. Poi fece un cenno alla guardia, che gli aprì subito.

L’odore lo aggredì con più forza del solito, e per qualche tempo Cicerone respirò con la bocca, per evitare di avvertire l’olezzo che impregnava ogni angolo di quel cubiculum. Si ripromise di ordinare ai legionari di dare una ripulita lavando il pavimento con acqua e sale e facendovi spargere sopra segatura e paglia, perché altrimenti non sarebbe più riuscito a restare lì senza sentirsi aggredire dal desiderio di vomitare.

«Io mi ci sono abituato» ridacchiò Cardan fissandolo dall’angolo più buio e lontano della sua prigione. «Del resto, è il mio odore. A me non sembra così sgradevole.»

Cicerone lo fissò cercando di dissimulare il disgusto.

«Manderò qualcuno a pulire» disse accomodandosi per terra, nel punto che gli sembrò meno sporco, nella debole luce che una torcia spandeva nel locale.

«Non importa» ribatté lo stregone, mettendosi a sedere e sporgendosi per osservarlo. Impossibile scorgere i suoi occhi neri nell’oscurità che lo avvolgeva. «Il cibo è buono, e tutto sommato i tuoi uomini mi trattano bene.»

«Importa a me» disse Cicerone deglutendo piano. «La dignità delle persone è importante.»

Cardan inclinò la testa di lato.

«Dignità?» chiese. «Non capisco di che cosa parli. Come può un prigioniero, un uomo sconfitto e strappato alla sua gente, alla sua terra, pretendere di ambire a un briciolo di dignità?»

Cicerone sorrise. Come al solito il druido non aveva paura di cimentarsi in una discussione filosofica con lui, e forse era proprio questo a incuriosirlo. Ma adesso non poteva più permettersi di perdere altro tempo, avevano bisogno di ottenere risposte concrete, e lui era lì per questo, non per compiacersi di una conversazione illuminata con quel misterioso individuo.

«La dignità potrai riconquistarla in ogni momento» gli spiegò. «Abbiamo finito di combattere con te, e non abbiamo niente contro il tuo popolo. Ci serve solo una guida, nient’altro. E potremmo anche ricompensarti, per l’aiuto che ci vorrai dare.»

Lo stregone scoppiò a ridere.

«Ma certo! Devo solo portarvi al cospetto degli dei, e magari aiutarvi a ingannarli, per sottrarre loro...» Si sporse in avanti, facendo in modo che lui potesse scorgergli il volto coriaceo. «Cos’è che vi interessa tanto? L’immortalità?» Scosse la testa ridendo ancora. «Possibile che siate così stolti?»

«Tu hai fatto un patto con i tuoi dei» constatò Cicerone, decidendo di non dargli corda e di ribattere colpo su colpo al suo sarcasmo. «E in cambio hai ottenuto un grande potere. Quello di far rivivere i morti.»

Il druido tacque, ritraendosi piano nell’ombra.

«Come vedi» continuò, comprendendo di avere messo a segno un punto a suo vantaggio, «spesso ciò che appare impossibile può avvenire. E dunque spiegami perché ritieni che sia impossibile misurarsi alla pari con gli dei.»

«Perché vi uccideranno» grugnì Cardan.

«Forse, ma questo non dovrebbe essere un problema per te. Semmai, il solo pensiero dovrebbe farti felice.»

«E dunque credi che basti questo per convincermi ad aiutarvi?»

Cicerone allargò le braccia. «Dimmi tu che cosa vorresti che facessimo. Sono convinto che potremmo arrivare a un compromesso. Se poi gli dei ci uccideranno, quando saremo al loro cospetto, allora avrai vinto su tutti i fronti.»

«No, se uccideranno anche me.»

Questa volta fu il turno del laticlavius di scoppiare a ridere.

«Ma come, non ti vantavi di averli come alleati, i tuoi potenti dei?»

«Nessuno può sapere quale reazione avranno, quando il loro regno sarà violato.»

«Dunque ammetti che c’è la possibilità di farlo! Che dei piccoli uomini come noi possano raggiungere la dimora degli dei e provare a conferire con loro.»

Dall’angolo in cui il druido si nascondeva arrivò un grugnito di disgusto.

«Potrete anche arrivare all’isola di ghiaccio» disse, «ma poi... nessuno vi accoglierà. Il mare si stringerà attorno alle vostre navi, e voi morirete come topi in trappola.»

«E tu con noi» affermò Cicerone. «Ecco perché puoi aiutarci. Prima di tutto per cercare di salvarti dai tuoi stessi dei.»

Nella cabina calò il silenzio, poi il druido strisciò verso di lui, dando corsa alla catena che lo tratteneva alla parete.

«Io posso portarvi da loro» sibilò, facendogli correre un lungo brivido di eccitazione lungo la spina dorsale. «Ma quello che vi accadrà non sarà un mio problema, né mia responsabilità.»

«Nessuno ha detto che questo debba accadere» annuì Cicerone. «Quando arriveremo a destinazione ti libereremo. Hai la mia parola.»

«E Cesare?» chiese il prigioniero. «Lui ascolterà le tue promesse?»

«Sono il suo laticlavius. Ti garantisco che sto parlando anche a nome suo.»

Cardan restò a fissarlo in silenzio per un po’, poi tornò a ritirarsi nell’oscurità.

«Non dovrete garantire solo la mia incolumità» mormorò, «ma anche quella del mio popolo.»

«Hai già visto come ha agito Cesare» ribatté Cicerone. «Quando ha fatto catturare le vostre donne e i vostri figli. Sono serviti a convincerti a partire con noi e a raffreddare la tua rabbia, ma non è stato fatto loro alcun male.»

«Però avete eretto i pali minacciando di crocifiggerli. E ho visto come quell’altro comandante, Decimo Bruto, tremava per il desiderio di versare il sangue del mio popolo.»

«Ma questo non è accaduto!» esclamò spazientito Cicerone, che aveva disapprovato fin dall’inizio l’idea di rastrellare vittime inermi per ricattare lo stregone.

Quell’atto spregevole aveva funzionato, ma lui si era sempre chiesto che cosa sarebbe accaduto se Cardan non avesse ceduto subito alle loro richieste. Decimo avrebbe avuto via libera per crocifiggere donne e bambini? Non lo sapeva, e non voleva pensarci.

Non era sicuro di quale risposta si sarebbe dato.

«Per potervi aiutare mi serve una cosa» lo riscosse il druido.

«Che cosa?»

«Avete preso la mia bisaccia. Dentro ci sono delle erbe. Alcune sono nere, triturate finemente. Devo averne una manciata.»

Cicerone si accigliò. Non si era aspettato una richiesta del genere. Che cosa poteva significare? Forse stava cercando di ingannarlo? Aveva bisogno di quelle erbe per mettere in atto qualche sua magia e liberarsi? Non credeva che le catene che lo tenevano legato all’esareme potessero essere spezzate da un incantesimo, ma fino a qualche mese prima non avrebbe nemmeno mai immaginato che i morti potessero tornare in vita.

«Ho bisogno di masticarle» continuò Cardan con una strana urgenza nella voce. «Noi druidi ne siamo dipendenti. Se non ingeriamo il succo di quelle erbe per troppo tempo, rischiamo di morire.»

«Chi mi dice che non stai mentendo?»

«Non puoi saperlo. Ma se vuoi stringere un patto con me, allora questa è la prima condizione che ti pongo, romano. Dammi le mie erbe, e poi discuteremo di come raggiungere gli dei, perché possiate farvi ammazzare allegramente.»

Cicerone soppesò per un istante le parole dell’uomo, poi si alzò e si diresse verso la porta che conduceva all’esterno.

«Ci penserò» disse a mo’ di congedo. E poi uscì, senza dare allo stregone il tempo di replicare.

Una volta fuori, restò per qualche istante a respirare a bocca aperta, poi si rivolse alla guardia armata.

«La bisaccia dello stregone» chiese. «Hai idea di dove sia?»

«Insieme ai suoi vestiti e alle cose che gli abbiamo trovato addosso» rispose il soldato, indicando una nicchia in mezzo a una fila di botti accatastate ai lati del corridoio.

Cicerone si avvicinò, frugò tra le cose del druido e trovò la bisaccia. La aprì, e vide subito i sacchettini di cuoio legati con lacci di pelle. Ne aprì un paio, ma vide che contenevano erbe colorate e strane sostanze simili a garum, prive però del tipico odore della pasta di pesce. Quando aprì il terzo sacchetto, vide che dentro c’era una polvere nera molto fine. Tenendolo stretto si allontanò, pensando che, se Cardan voleva a tutti i costi quella polvere, lui avrebbe dovuto cercare di capire di che cosa si trattava. Dopodiché sarebbe andato da Cesare e gli avrebbe spiegato il compromesso a cui era arrivato con lo stregone.

Forse, finalmente, erano a una svolta nel loro viaggio. Ma prima doveva assicurarsi che fosse sicuro consegnare al druido quella polvere di erbe tritate.

Cardan si sedette meglio sul pavimento sporco, appoggiò la schiena contro la parete della nave, che sentiva muoversi e gemere tutto intorno a lui, poi abbassò le palpebre, restando in attesa. Non aveva dubbi sul fatto che fosse riuscito a incuriosire Cicerone. I romani ostentavano sicurezza e una sprezzante superiorità nei confronti di chiunque non appartenesse alla loro stirpe, ma per uomini come lui erano libri aperti in cui poteva leggere anche a occhi chiusi, semplicemente facendoci passare sopra le dita. Cicerone non avrebbe resistito alla curiosità di capire che cosa fosse la sua polvere misteriosa, e si sarebbe infilato da solo nella trappola che lui aveva escogitato.

Mentre affondava nel buio della mente, in attesa come un predatore acquattato nell’ombra, Cardan sorrise, mostrando i denti neri che aveva cesellato e limato per renderli simili alle zanne di qualche creatura delle foreste, o dei peggiori incubi dei suoi nemici.

Poi si concentrò, mosse lo stomaco come aveva imparato a fare fin da bambino e con un singulto controllato si portò in bocca la poltiglia nera che gli sarebbe servita per portare a compimento il suo piano.

Alla fine Cicerone si stufò di camminare avanti e indietro per il suo minuscolo alloggio, e con un gesto rabbioso afferrò il sacchetto che conteneva la polvere di erbe, lo aprì e ne svuotò parte del contenuto sul tavolo su cui si trovavano anche una brocca di vino e un boccale.

La proposta che gli era stata fatta dal druido era interessante, ma fin troppo conciliante, per provenire da un barbaro abituato a sgozzare la gente, piuttosto che a trattare sull’incolumità del proprio popolo. Lui non aveva creduto nemmeno per un istante che Cardan fosse sincero, anzi era certo che lo stregone volesse condurlo in una trappola, anche se non riusciva a capire quale potesse essere.

Per un momento aveva pensato di recarsi da Cesare, mostrargli il sacchetto con la polvere d’erbe e discutere con lui della proposta del druido, ma sarebbe stato un errore. Cesare era troppo abbagliato dalla prospettiva di raggiungere gli dei e strappare loro il segreto della vita eterna, per preoccuparsi delle trame ordite da un semplice stregone incatenato nella sentina della nave. Probabilmente gli avrebbe creduto, e questo avrebbe implicato il rischio che il druido ne approfittasse, magari sfruttando il potere di quella polvere derivata da erbe misteriose che aveva chiesto con tanta insistenza.

Allungò un dito e lo passò tra i finissimi granelli di erbe essiccate, che più che neri erano color del sangue e che formavano una polvere molto asciutta, che non si attaccava alla pelle.

Che cosa poteva mai fare, lo stregone, con quella sostanza? Cicerone se lo chiese per la millesima volta, e la risposta che gli risuonò nella mente era la stessa che andava ripetendosi da quando si era chiuso nella sua cabina.

«Potrebbe essere questa polvere, il segreto del potere del druido?» mormorò a bassa voce, come se avesse bisogno di ascoltare le proprie parole per poter rispondere con maggiore obiettività.

Scosse la testa. Alla fine, ciò che aveva pensato fin dal primo istante era l’unica cosa da fare: assaggiare quella polvere e capire quali poteri aveva. Se non fosse successo nulla, allora avrebbe preso davvero in seria considerazione la proposta di Cardan e andare a parlarne con Cesare.

Ci pensò ancora per un attimo, poi digrignò i denti e commiserò la propria codardia. Cesare non avrebbe esitato un istante e l’avrebbe assaggiata subito, per scoprire quale arma di scambio aveva con il druido e, soprattutto, per scoprire se era in grado di fornirgli qualche potere magico che sarebbe stata un’ulteriore, formidabile arma da sfruttare a loro beneficio, per condurre a termine la missione che li aveva portati in quei mari ghiacciati.

E lui, si disse, non era secondo a nessuno, nemmeno a Gaio Giulio Cesare.

Con un gesto rabbioso afferrò una manciata della polvere d’erbe e se la portò alla bocca. In un primo momento avvertì solo il sapore amaro della sostanza, poi si rese conto che era difficile deglutirla, e si sentì soffocare. Prese la brocca con il vino e riempì il bicchiere, poi bevve con avidità, ingoiando il bolo che gli si era formato in gola. Dopo che ebbe svuotato il boccale, pulendosi la bocca da quella polvere arida come sabbia, restò a tossire fino a quando non sentì vacillare le gambe.

Ebbe l’impressione che l’esareme si fosse impennata sopra un’onda gigantesca e adesso stesse beccheggiando in balia dei marosi. Ma quando guardò la brocca di vino sul tavolo, vide che era immobile.

«Che mi sta succedendo?» mormorò spaventato, mentre la cabina cominciava a girargli attorno a velocità crescente, costringendolo a cercare di raggiungere il suo giaciglio per sdraiarsi.

Si era appena seduto quando una fitta lancinante al ventre gli tolse il fiato, facendolo piegare su se stesso. Mentre stringeva i denti per il dolore, tutto ondeggiò e vorticò davanti a lui, finché all’improvviso le tenebre lo avvolsero e lo fecero precipitare in un abisso profondo.

Mentre cadeva, Cicerone allungò le mani davanti a sé, come a proteggersi dall’impatto con il suolo, quando fosse avvenuto, ma il dolore al ventre lo fece gridare e ogni cosa, intorno a lui, si fece densa come melassa, rallentando la velocità della caduta. Provò a muovere le gambe e le braccia, ma era come se si trovasse immerso in una vasca piena di fango nero, e quando aprì la bocca per urlare sentì che si riempiva di qualcosa che gli scendeva in gola e gli toglieva il fiato, impedendogli di respirare.

Con gli occhi sgranati per il terrore, cercò dei punti di riferimento nel vortice di tenebra che lo avviluppava, ma non vide altro che onde di una materia scura come sangue raggrumato, che si addensavano attorno a lui e provavano a sommergerlo.

Poi, dall’interno di una chiazza di tenebra più scura delle altre divampò una luce, così forte da costringerlo a chiudere gli occhi, e quasi come per magia avvertì una voce, che non era all’esterno, in quel maelstrom vorticante di materia solida, ma dentro di lui.

Sei arrivato, finalmente. Ti aspettavo.

Il terrore inondò Cicerone, bruciandogli l’anima come il fuoco sacrificale di un rito arcano.

Vieni da me, sibilò la voce di Cardan, suadente come quelle delle sirene che già avevano ammaliato Ulisse, eppure terribile e cavernosa come quella della più oscena delle creature.

Cicerone cercò di opporsi, di urlare, ma non controllava più il suo corpo, in balia di quel vortice di tenebra e polvere e luce accecante che lo stordiva e lo risucchiava lontano dal suo cubiculum, come se il suo spirito si fosse staccato da lui e ora galleggiasse nell’aria, attratto da una forza misteriosa verso il luogo da cui proveniva la voce del druido.

Non provare a contrastare il mio potere, sogghignò Cardan con un sussurro che non era altro che un tremore diffuso, capace di strisciargli addosso e togliergli ogni volontà.

Vieni da me e piegati al tuo padrone.

Cicerone avrebbe voluto piangere, per la rabbia e la frustrazione, prendersi a pugni per la sua protervia e arroganza, che lo aveva fatto cadere nel tranello ordito dallo stregone, ma quello che era diventato non era più un uomo, non aveva più la consistenza di un corpo che potesse opporsi alla malia del druido.

Cercò di resistere in tutti i modi, tendendosi e trattenendo la materia incorporea di cui era fatto, ma il maelstrom cominciò a vorticare sempre più forte, e alla fine lui dovette abbandonarsi, risucchiato in un abisso che aveva la forma dello sguardo cupo e pieno di follia dello stregone celtico.

All’improvviso uno strappo doloroso gli risucchiò l’aria dai polmoni e lo riportò indietro, facendolo crollare esausto a terra, sul pavimento duro della sua cabina nell’esareme.

Alzati, ordinò Cardan.

Senza poter fare nulla per contrastare quella voce, Cicerone avvertì le membra irrigidirsi, i muscoli contrarsi, le gambe e le braccia fare presa per tirarlo su, fino a quando si ritrovò in piedi, la schiena dritta e la sensazione di essere imprigionato all’interno di un involucro di carne di cui non aveva più alcun controllo.

Che cosa mi hai fatto? gemette dentro di sé, rendendosi conto di non avere possibilità di parlare, né di fare qualsiasi cosa con quello che era stato il suo corpo, ma non ottenne risposta.

Poi, la testa girò di scatto, una gamba si mosse in avanti, lui barcollò ed ebbe l’impressione di cadere, ma ben presto l’equilibrio venne raggiunto di nuovo, e una risata agghiacciante gli risuonò nella mente.

Non opporre resistenza, lo redarguì Cardan, e lasciati guidare dal tuo nuovo padrone. Altrimenti potresti farti male.

Prima che Cicerone potesse cercare di ribattere, il suo corpo scattò in avanti, guidato dalla forza misteriosa che ne aveva preso il controllo, e andò a sbattere con la testa contro una parete della cabina. Il dolore fu lancinante, ma era nulla a confronto del terrore che la risata dello stregone suscitò in ogni parte del suo essere.

Come vedi, ora il tuo corpo mi appartiene, sibilò il druido. E se volessi potrei costringerti a gettarti in mare in qualsiasi momento.

Cicerone non poteva parlare, non poteva nemmeno rivolgere un pensiero alla creatura che si era fatta strada in lui e aveva annullato la sua volontà. Sapeva che era stata la polvere nera a consentire a Cardan di trasferirsi dentro di lui, di prendere possesso della sua anima immortale, e anche se capiva che non aveva modo di ribellarsi a quella potente stregoneria, non cessò neppure per un istante di lottare per contrastarla e respingerla.

O forse è proprio questo che vuoi? gli chiese il druido. Che io ti uccida, così da farmi uscire dal tuo corpo? Nobile sacrificio, ma non credo che ti darò soddisfazione. Ho ben altro in mente, per te.

E prima che Cicerone potesse provare a urlare tutta la sua rabbia e la sua frustrazione, Cardan costrinse il suo corpo a muoversi e a uscire dalla cabina barcollando come un ubriaco. Nessuno, fra coloro che avrebbero incontrato, si sarebbe mai immaginato quello che stava succedendo, e dunque lo stregone avrebbe potuto fare ciò che voleva, su quella nave.

E la colpa era solo sua...

Quando arrivò in vista della guardia armata che presidiava l’esterno della cella del druido, Cicerone cercò in ogni modo di opporsi alla forza che gli aveva rubato l’anima e che adesso governava il suo corpo. Ringhiò, si dibatté, urlò con la voce silenziosa della disperazione. Ma le gambe continuarono a muoversi senza che lui potesse controllarle, e quando arrivò in prossimità del legionario vide la propria mano alzarsi e fare un cenno all’uomo, indicando di aprirgli.

Il soldato, ignaro, si girò per far scorrere il catenaccio che teneva serrata la porta, e Cardan ne approfittò per costringere il suo corpo a scattare in avanti e sfilargli il pugnale che portava alla cintola.

«Ma cosa...» provò a dire la guardia, sorpresa, ma con orrore Cicerone sentì il proprio braccio muoversi in avanti e piantare il coltello nella gola dell’uomo, affondando fino all’elsa.

Con un gorgoglio di sangue in gola e di stupore negli occhi, il legionario crollò a terra, e Cardan costrinse le sue gambe a scavalcarlo, per aprire la porta della cella ed entrare nell’antro del mostro che stava governando a distanza il suo corpo.

Dopo pochi passi Cicerone vide il druido ancora sdraiato a terra, la testa appoggiata all’indietro contro la parete della nave, gli occhi chiusi e la bocca aperta, da cui colava un filo di bava che scorreva sulla barba folta, fino a raccogliersi in una chiazza sul petto nudo.

Uccidilo! provò a ordinare Cicerone a se stesso, rendendosi conto che stava impugnando ancora l’arma del legionario. Quella era l’ultima occasione che aveva per ribellarsi alla stregoneria di Cardan e dimostrare che nessuno poteva impadronirsi della sua mente, della sua facoltà di legare il pensiero all’anima e al corpo, che tutto conteneva.

Ma ebbe in risposta la risata cupa del druido, che lo costrinse a chinarsi e ad allungare la mano con il pugnale verso l’anello di ferro che teneva la catena dello stregone ancorata alla parete, per scardinarlo con pochi colpi ben assestati. Poi, con la lama ancora sporca del sangue della guardia, tagliò le corde che gli legavano le caviglie e i polsi, quindi lasciò il coltello a terra, vicino al corpo inerte del druido, che Cicerone immaginò sospeso da qualche parte, un guscio vuoto da cui l’anima era tracimata per andare a usurpare il suo corpo, annientando la sua volontà.

Sentendo scendere le lacrime dagli occhi, comprese che il druido non aveva ancora finito con lui. Lo fece rialzare, lo riportò nel corridoio all’esterno della cella, poi lo costrinse a salire in coperta, dopo avere preso una torcia fumosa da una delle pareti del corridoio principale che dava accesso alla cabina di comando e agli alloggi degli altri ufficiali.

Che cosa vuoi fare?, gemette disperato, provando a scalciare e a dimenarsi con il pensiero, la sola cosa che sembrava ancora di poter controllare.

Fermati! ringhiò. Fermati o giuro che ti ucciderò con le mie mani!

Ma le sue minacce restarono parole senza suono disperse in quel mondo grigio in cui era stata rinchiusa la sua anima, e Cicerone non poté fare altro che assistere impotente alle manovre del druido.

Cardan lo fece entrare e uscire diverse volte dai boccaporti della nave, appiccando il fuoco ovunque avrebbe attecchito, e una volta fuori, in prossimità dei grandi barili che contenevano le vele di scorta e il sartiame, lasciò che le fiamme illuminassero la notte umida che avvolgeva la nave, sollevando colonne di fumo nero.

Le urla dei marinai che lanciavano l’allarme cominciarono a propagarsi da punti diversi dell’esareme, e Cicerone provò inutilmente a gridare a sua volta per avvertirli del pericolo.

All’improvviso un giovane marinaio lo raggiunse e lo afferrò per un braccio.

«Cosa fai qui, laticlavius? Mettiti in salvo!» gli urlò, cercando di trascinarlo via, mentre le fiamme e il fumo crescevano tutto intorno a loro.

Il ragazzo aveva una corta daga alla cintola, infilata nella spessa corda a cui i marinai tenevano appese le piccole bisacce con le loro cose, e prima che Cicerone potesse avvisarlo, Cardan lo costrinse ad allungare il braccio e gliela sfilò, per poi affondarla nel ventre del giovane.

«No!» urlò con tutto se stesso, e questa volta la sua voce risuonò nell’aria piena di grida e del fragore del fuoco che stava aggredendo il legno e le grandi vele tese nel vento.

Mentre il druido lo costringeva a estrarre la spada dal corpo esanime, per raggiungere un punto della nave in cui ancora non aveva appiccato il fuoco, Cicerone chiuse gli occhi della mente e si concentrò su tutto ciò che aveva sempre saputo dell’anima immortale che dà la vita a ogni uomo, cercò traccia dei fili tesi della volontà, che permettevano a una creatura raziocinante di prendere il sopravvento sulle emozioni e sulla passione, e seguì il sentiero tracciato dalla polvere nera che aveva ingerito, che sembrava un mosaico intagliato sul pavimento della sua coscienza. Dapprima vide solo un paesaggio oscuro e inintelligibile, in cui credette che non sarebbe mai riuscito a orientarsi, ma poi sentì ancora il suono della propria voce, quel «No!» straziante che aveva strappato fuori da se stesso con la disperazione di chi non ha più nulla da perdere, e finalmente vide una luce in fondo all’oscurità. La seguì arrancando, nuotando in un mare di melassa rancida che voleva sommergerlo, e che aveva la consistenza della bava che aveva visto colare dagli angoli della bocca dello stregone.

Sapeva che là in fondo, dove il buio creato dalla polvere d’erbe si stemperava nella luce della coscienza, si annidava il suo nemico, ed era pronto a combatterlo.

Non riuscirai a fermarmi! ruggì Cardan dentro di lui, ma, anziché spaventarsi per quella minaccia, Cicerone esultò. Aveva capito dal tono del druido che qualcosa era cambiato, e che lui stava riuscendo a muoversi da solo, passo dopo passo, senza che lo stregone potesse fermarlo.

Usò quelle che gli sembrarono le sue braccia, le sue mani, le sue gambe per afferrarsi a ogni appiglio e avanzare all’interno della bolla di dolore indicibile che lo stava soffocando, finché con le unghie non avvertì qualcosa davanti a sé, un tessuto che si lacerò e lo lasciò passare, facendolo sbucare in un mondo che finalmente riuscì a riconoscere, perché era ciò che conosceva come se stesso.

Cicerone aprì gli occhi e si ritrovò sul ponte della nave in fiamme, con l’equipaggio che urlava e correva intorno a lui, cercando di arrestare l’avanzata delle fiamme. Nella mano destra aveva la spada del ragazzo che aveva ucciso, mentre nella sinistra impugnava ancora la torcia con cui aveva appiccato il fuoco.

Provò a sollevare le braccia e vide che riusciva a muoverle senza più costrizioni. A quel punto cercò traccia di Cardan dentro di lui, la presenza di quella creatura immonda che aveva preso possesso del suo corpo e che lo aveva costretto a uccidere, ma comprese che se ne era andato.

Lanciò un urlo al cielo, spalancando la bocca perché la pioggia gli levasse via il gusto amaro della polvere d’erbe che aveva ingerito, e cercò di evitare di tossire per il fumo nero che lo avvolgeva e che si sollevava dai punti in cui il fuoco era stato domato dai marinai, usando l’acqua scura dell’oceano.

«Tu non lo sapevi, ma non avrei potuto restare troppo a lungo dentro di te» sussurrò una voce poco distante da lui. «Abbastanza, però, per farti fare quello che mi ero prefissato.»

Sentendo che il cuore gli si fermava nel petto, Cicerone si voltò e vide spuntare Cardan dalle volute di fumo che arroventavano l’aria. Era nudo, la barba sporca di bava biancastra e gli occhi incandescenti, che brillavano come tizzoni.

«Tu...» sibilò stringendo con forza l’elsa della spada e rendendosi conto che il druido era disarmato. «Come hai osato?»

Avanzò di un passo, deciso a sporcare ancora di sangue la lama della daga, ma Cardan si fermò e scoppiò a ridere, in un modo così osceno e volgare che lo costrinse a fermarsi a sua volta, incerto e sorpreso da quella reazione.

Prima che potesse chiamare qualcuno in suo aiuto, lo stregone sollevò le lunghe braccia magre verso il cielo, dove le volute di fumo si erano così addensate da cancellare ogni traccia delle stelle, e gridò qualcosa in una lingua arcana e sconosciuta, che si propagò su uno strappo di vento che scosse tutta la nave.

«Tu sei pazzo!» ringhiò Cicerone. «E io ti ucciderò!»

Il druido lo fissò come se volesse incenerirlo.

«No, tu non farai nulla. Perché il potere degli dei è con me, e niente riuscirà a fermarmi.»

Detto questo Cardan scattò verso la murata della nave, salì in piedi sul parapetto e, prima che Cicerone potesse raggiungerlo, si lanciò fuori, spalancando braccia e gambe come se potesse prendere il volo.

«No!» urlò Cicerone, che avrebbe voluto avere tra le mani quell’uomo per fargli pagare tutto quello che aveva sofferto, e si tuffò in avanti in un disperato tentativo di afferrarlo per una caviglia.

Mancò la presa. Cardan scomparve nella notte densa di fumo.

Cicerone restò ad aspettare di sentire il rumore del corpo che cadeva nell’acqua ghiacciata, ma non avvertì nulla. Stava cercando di capire cosa potesse essere successo quando vi fu uno stridio nell’aria, e il fumo si disperse all’improvviso, come sospinto da una folata di vento. Con gli occhi sgranati osservò ciò che comparve dal buio, una forma alata di grandi dimensioni di cui riuscì a distinguere con chiarezza solo le zampe provviste di artigli e le lunghe ali nere. Sopra quel corpo impossibile, che forse apparteneva a un grifone o a una di quelle creature uscite dalle leggende più antiche e dimenticate, ebbe la certezza di distinguere la macchia pallida di Cardan, che si teneva aggrappato alle piume nere dell’uccello che lo aveva raccolto al volo e che con due possenti colpi d’ala adesso si stava allontanando da loro.

«No!» urlò ancora, lasciando cadere a terra la spada.

Poi sentì che le forze gli venivano meno e si accasciò.

Intorno a lui le fiamme eseguivano una danza selvaggia nel vento e nella pioggia che stava rinforzando, e ben presto qualcuno lo vide e accorse, prestandogli soccorso.

Fra questi riconobbe lo stesso Giulio Cesare, e la vergogna gli fece salire altre lacrime agli occhi, più brucianti e dolorose di quelle provocate dal fumo.

I focolai sembravano ormai essere stati domati, anche grazie alla pioggia che aveva preso consistenza, ma il fumo saliva impetuoso da numerosi punti. Ancora Cesare non riusciva a capire come si fosse innescato tutto quel pandemonio. Gli era stato detto che qualcuno aveva visto Cicerone appiccare i fuochi con una torcia, ma non poteva credere a una cosa del genere. Che senso poteva avere? Perché mai avrebbe cercato di ucciderli tutti, provocando anche la propria morte?

Quando finalmente lo vide, accasciato a terra contro la murata della nave, si fece largo fra i marinai e lo raggiunse. Accanto al vecchio oratore c’era una spada, lorda di sangue, e una torcia spenta, da cui si alzava un filo di fumo.

«Che cos’è successo?» gli chiese subito, senza soffermarsi troppo a considerare l’espressione stravolta di Cicerone, che fissava nel vuoto davanti a sé come se in realtà non vedesse nulla.

Non ottenendo risposta, Cesare scansò la daga insanguinata con un piede, poi la raccolse e la esaminò. Sembrava una di quelle in dotazione ai marinai dell’esareme, e certo non poteva appartenere a Cicerone.

«Questa dove l’hai presa?» domandò mostrandogli l’arma. «Vuoi dirmi che cosa hai visto? Che cosa hai fatto?»

In quel momento arrivò Decimo, trafelato.

«Il druido!» gridò. «È fuggito! Ha ucciso la guardia ed è scomparso!»

Cesare lo fissò senza riuscire a comprendere del tutto le sue parole, poi all’improvviso la sua mente ebbe uno scarto e il fumo, il fuoco, la spada insanguinata del laticlavius, la fuga di Cardan... comprese che era tutto collegato.

«Fallo cercare!» urlò a Decimo. «Frugate in ogni angolo della nave e trovatelo!»

«Potrebbe essersi gettato in mare.»

«Allora è morto!» ringhiò Cesare infuriato, consapevole che in quel caso avrebbero perduto la loro unica fonte di informazione capace di guidarli verso il regno degli dei. «Adesso vai. E cerca di trovarlo!»

Decimo corse via, mentre Cesare provava a calmarsi e a fare ordine nella confusione che lo stava sommergendo.

«È colpa mia» mormorò Cicerone ai suoi piedi, la testa fra le mani. «È solo colpa mia...»

Gaio avrebbe voluto colpirlo, per sfogare la rabbia e per costringerlo a parlare in modo chiaro. Era evidente che in qualche modo Cicerone era coinvolto nella fuga di Cardan, ma... in che modo? E perché?

Dominò la rabbia respirando a fondo, poi comprese che non sarebbe servito a niente accanirsi contro di lui. Avrebbe dovuto blandirlo, sfruttare il momento di debolezza e di vergogna che lo stava consumando e capire non solo quello che era successo, ma come porvi rimedio.

«Vieni, alzati» gli disse afferrandolo per un braccio e aiutandolo a tirarsi in piedi. «Andiamo nel tuo alloggio. Devi asciugarti e riprenderti. Poi mi racconterai quello che hai visto.»

Cicerone non ribatté nulla e si lasciò trascinare verso il boccaporto che conduceva nel ventre dell’esareme. Sembrava annichilito, annullato nel corpo e nella mente, e Cesare cominciò a pensare che forse era stato vittima di una stregoneria.

A cavallo della creatura alata che gli dei gli avevano messo a disposizione, Cardan si sentiva onnipotente. La pioggia, il freddo, il vento carico di ghiaccio non avevano effetto sul suo corpo nudo, che si abbeverava della potenza della stregoneria alimentata da un sentimento tanto puro quanto invincibile: la vendetta.

Aveva ancora davanti agli occhi la strage che i romani avevano compiuto dei suoi figli, riuscendo a vincere la paura per combattere in formazioni serrate, che si erano dimostrate impenetrabili anche ai resuscitati che gli dei gli avevano consentito di far tornare in vita.

Aveva speso così tante energie che adesso sapeva di non avere più molto tempo a disposizione per vendicare la sua gente, prima che la dissoluzione disgregasse il suo corpo e gli Inferi risucchiassero la sua anima. Perché gli dei chiedevano sempre un prezzo per ogni oncia di potere che fornivano ai loro adepti. E lui ne aveva già consumato troppo.

Ma qualcosa aveva visto, qualcosa adesso sapeva, e la sua vendetta non sarebbe tardata ad arrivare.

Quando era stato nella mente di Cicerone aveva potuto frugare fra le sue memorie, e aveva saputo quello che era accaduto prima che arrivassero a Iérne. Poi si era proiettato in avanti, aveva raggiunto gli accampamenti che Cesare e Cicerone avevano allestito sulle coste del continente da cui provenivano, e si era imbattuto in qualcosa che non si era aspettato. Avrebbe voluto scagliarsi in un ultimo impeto distruttivo contro gli uomini di Cesare, per vendicare così la sua gente, ma aveva percepito subito l’umore nero e untuoso che circondava il castrum romano, e aveva trovato una traccia di malvagità e sangue da seguire, che portava a una nave solitaria che si era allontanata da un’imponente flotta diretta verso la Britannia. Un’imbarcazione al comando di un uomo che aveva una missione da compiere, e che non si sarebbe fermato di fronte a nulla. Un uomo che tramava alle spalle della Legio Caesaris, e che avrebbe potuto diventare suo alleato.

Cardan gridò nell’aria carica di pioggia ghiacciata e costrinse la bestia alata a spingersi verso quella nave, per raggiungerla e guidarla sulla rotta giusta per trovare il loro nemico comune. Solo così lui avrebbe avuto la sua vendetta, e forse avrebbe risparmiato abbastanza forze per continuare a vivere, anziché spegnersi in un ultimo, possente lampo di follia distruttiva.

A pochi passi dalla cabina di Cicerone, Cesare si imbatté in Calpurnia, che aveva il volto stravolto dalla paura.

«Sei qui!» esclamò correndo ad abbracciarlo. Poi si accorse dello stato confusionale in cui versava Cicerone e lo guardò accigliata. «Che cosa gli è successo?»

«Non lo so» rispose Cesare. «Aiutami a portarlo nel suo cubiculum. Lì cercherò di farmelo spiegare, perché credo sia coinvolto in tutto questo.»

Calpurnia si pose dall’altra parte rispetto a Cicerone e lo sostenne, e insieme trasportarono il vecchio oratore fin nella sua cabina.

«So che ci sono stati degli incendi» disse poi mentre aiutava a sistemare l’oratore sul suo giaciglio. «E dei morti. C’entra forse quel druido che avete catturato?»

Cesare si sedette su uno sgabello, esausto per la fatica di trascinare fin lì il peso morto del suo laticlavius, e scosse la testa.

«Lo stregone è scomparso» rivelò. «Non sappiamo se è ancora sulla nave o se...» Lasciò in sospeso quello che poteva essere accaduto, perché nemmeno lui aveva idea di dove potesse essere finito Cardan. Forse l’unico che avrebbe potuto aiutarli a comprendere era proprio Cicerone, che se ne stava sdraiato immobile, gli occhi puntati verso il soffitto e la bocca aperta, da cui colava un filo di bava.

Cesare si guardò attorno, nella cabina ancora più spoglia di quella che lui condivideva con la moglie.

«Guarda se trovi dell’acqua, o meglio ancora del vino» disse, e proprio in quel momento vide una caraffa su un tavolino, insieme a un bicchiere e una piccola bisaccia da cui era stato fatto uscire qualcosa.

«Che cos’è, quella?» chiese Calpurnia avvicinandosi al tavolo. Aveva notato anche lei quella strana polvere scura che formava un piccolo cumulo, e quando l’ebbe raggiunta allungò una mano.

«No, ferma!» gridò Cicerone, riscuotendosi come se fosse stato azzannato da qualcosa. «Non toccarla!»

Cesare lo tenne fermo e lo costrinse a rimettersi sdraiato, poi fece un cenno alla moglie, perché lasciasse perdere quella polvere e tornasse accanto a loro.

Cicerone, vedendola allontanarsi, si placò all’istante. Era tutto sudato, con i radi capelli appiccicati alla testa e il volto pallido, come se si trovasse davanti a qualcosa di terribile, che solo lui poteva vedere.

«Perché non dobbiamo toccarla?» domandò Cesare quando gli sembrò che il laticlavius si fosse calmato. «Che cos’è quella polvere?»

Cicerone lo fissò per un istante, con il terrore che gli allagava gli occhi e il corpo teso, poi all’improvviso si afflosciò, chiuse gli occhi e si morse le labbra con tanta forza da farne scaturire il sangue.

«Sono stato io...» mormorò con un gemito. «Sono stato io...»

«A fare cosa?» gli chiese Cesare, avvertendo l’urgenza di comprendere al più presto quello che era successo, per l’incolumità di tutta la flotta. «E dov’è finito Cardan? È stato lui? Ti ha forse ammaliato con una delle sue stregonerie? Parla, maledizione!»

La mano di Calpurnia si posò su una sua spalla, e lui si rese conto di stare esagerando. Aveva stretto un braccio a Cicerone con tanta forza da trasmettergli un dolore lancinante, anche se il vecchio sembrava disposto a soffrire in silenzio, come se si aspettasse una punizione per quello che aveva fatto.

Già, ma cosa?, si chiese. Lanciò un’occhiata alla moglie, che nel frattempo aveva preso uno straccio e lo aveva intinto in una brocca d’acqua posta a terra vicino al giaciglio, e adesso lo stava passando lentamente, con cura amorevole, sulla fronte di Cicerone.

«Lascia che si riprenda un attimo» gli disse Calpurnia. «Lo vedi come è scosso? Deve avere patito qualcosa di quello che aveva fatto.»

Cesare si morse a sua volta un labbro e cercò di imporsi pazienza, anche se avrebbe voluto scuotere con forza il laticlavius e costringerlo a parlare. Ma sapeva che la moglie aveva ragione. Se voleva che Cicerone raccontasse loro quello che sapeva e che aveva visto, allora doveva evitare di aggredirlo.

«Vuoi qualcosa da bere?» chiese Calpurnia al vecchio oratore, ma questi scosse la testa piano, continuando a tenere gli occhi chiusi.

«Ora va meglio?» volle sapere Cesare dopo un po’, divorato dall’ansia e dalla percezione di un pericolo imminente, che avrebbe potuto abbattersi in qualsiasi momento su di loro.

Cicerone respirò a lungo, poi riaprì gli occhi e lo guardò.

«Sono stato uno sciocco» disse con un filo di voce.

«Che cosa vuoi dire?»

Prima che potesse rispondere, Calpurnia gli passò lo straccio imbevuto d’acqua sulle labbra e il laticlavius succhiò con avidità. Quando ebbe finito, sembrava avere riacquistato un po’ di colore in viso, e Cesare pensò che fosse un buon segno.

«Mi sono fatto dominare dalla curiosità e dal desiderio di conoscere il proibito» biascicò Cicerone in modo stentato.

Cesare si chiese se fosse consapevole di quello che stava dicendo, o se invece stesse semplicemente vaneggiando. Ma il laticlavius allungò una mano, gli strinse un braccio con forza sorprendente e si tese verso di lui.

«Cardan mi aveva chiesto di poter ingerire una polvere d’erbe, di cui si diceva succube. Ho capito subito che stava mentendo, e ho immaginato che la volesse per poter scatenare qualche stregoneria e liberarsi.»

Cesare si voltò a guardare la polvere nera sul tavolino.

«È quella?»

Cicerone annuì.

«Non gliel’ho portata, ma stupidamente ho creduto che potesse essere la causa del potere che avevamo visto scatenare da Cardan, così...»

S’interruppe, e Cesare strinse le mascelle per la rabbia. Aveva compreso tutto.

«Così l’hai provata tu?» chiese Calpurnia togliendogli le parole di bocca.

«Sì» rispose Cicerone accasciandosi ancora sul giaciglio, esausto, come se si fosse tolto un peso immane di dosso.

«E cosa è successo?» volle sapere Cesare, che nonostante tutto non poteva esimersi dal provare la stessa morbosa curiosità che aveva portato il suo laticlavius ad assaggiare quella polvere misteriosa.

«Sono entrato nel regno dei morti, o forse in quello degli dei» rispose Cicerone.

«Che cosa hai visto?» lo sollecitò Cesare, sentendosi attraversare da una febbre che alzò la temperatura del suo sangue.

L’anziano oratore lo fissò con una profonda ruga che tagliava in due la fronte.

«Ci sono cose oscure, in quei regni» rispose con un mormorio lugubre, «dove il raziocinio perde consistenza e tutto appare possibile.»

«E Cardan?» chiese Gaio trattenendo il fiato. «Lui che cosa ha fatto?»

«Il druido sapeva di avermi irretito. È entrato dentro di me, capisci? Ha preso possesso del mio corpo, e lasciandomi impotente a impedire ogni cosa, lo ha sfruttato per muoverlo a suo piacimento, uccidendo la guardia e facendo in modo che io lo liberassi.»

Gaio era attonito. Da una parte era infuriato per la debolezza di Cicerone, che si era fatto sottomettere con tanta facilità dallo stregone, dall’altra capiva che un altro passo verso le oscure verità che conducevano nel mondo degli dei era stato fatto. Mai nessuno, prima di quel momento, era entrato nel regno misterioso che separava la vita dalla morte, il regno dei mortali con quello degli dei.

Si voltò a guardare ancora la polvere nera, e ne avvertì il possente richiamo.

«Mi ha costretto a prendere una torcia e ad appiccare gli incendi» continuò Cicerone, «e poi... e poi...»

Cesare tornò a guardarlo. «Poi cosa ha fatto?»

«Mi ha affrontato, con il suo vero corpo ormai libero dalle catene. E quando ho cercato di ucciderlo... ha invocato una creatura alata della notte ed è fuggito, scomparendo negli abissi che io stesso avevo evocato ingerendo la polvere d’erbe.»

Cesare era affascinato. Ogni traccia di rabbia era scomparsa, e ora gli restava solo la curiosità, insieme al desiderio feroce di potersi recare anche lui in quel mondo destinato alle creature superiori in cui Cardan sembrava a suo agio. Non dubitava minimamente di quello che il laticlavius gli aveva raccontato, anche se altre orecchie avrebbero creduto che il vecchio oratore fosse diventato pazzo e si fosse immaginato tutto. Ma lui sapeva che non era così, perché ormai non c’era più alcun portento che potesse sorprenderlo, dopo quello che avevano visto.

Mentre Cicerone chiudeva di nuovo gli occhi, spossato e svuotato da ogni energia, si alzò e si avvicinò al tavolino con la polvere d’erbe.

«Che cosa vuoi fare?» gli chiese Calpurnia alle sue spalle, allarmata. Lei doveva avere già intuito le sue prossime mosse e, anche se appariva spaventata, Gaio sapeva che non lo avrebbe fermato. Nessuno sarebbe riuscito a farlo, perché se Cesare aveva rinunciato a tutto, a Roma e al potere, era proprio per poter vivere esperienze come quella. E adesso finalmente ne aveva la possibilità.

«Potrebbe essere pericoloso. Lo sai, vero?» mormorò sua moglie con la voce che le tremava, ma lui sorrise e afferrò una manciata di quei granelli, avvicinandoli alla bocca.

«No» lo fermò Cicerone prima che riuscisse a mettersela sulla lingua, «non ingoiarla. Mi ha quasi soffocato. Forse è meglio se la respiri.»

Gaio guardò sorpreso la polvere d’erbe, poi annuì. Avvicinò le narici al mucchietto che aveva in mano, chiuse gli occhi e tirò un lungo respiro, inalando quello che gli parve all’istante un fuoco capace di bruciare l’Averno.

E il mondo, così come lo conosceva, scomparve davanti a lui.

«Gaio! Gaio, svegliati!»

La voce dapprima gli era sembrata un sussurro lontano, appena avvertibile, poi si era fatta sempre più consistente, fino ad arrivare a lacerargli il cervello con un’esplosione di dolore.

Si portò le mani alle tempie. All’improvviso una luce fredda, ben diversa dal fuoco che gli aveva divorato l’anima, lo avvolse, costringendolo ad aprire gli occhi.

«Sei qui!» gridò Calpurnia mentre lo abbracciava piangendo. «Sei tornato!»

Cesare si guardò attorno, e comprese di trovarsi ancora nel cubiculum di Cicerone. Questa volta era lui a essere sdraiato sullo stretto giaciglio, mentre il suo laticlavius riempiva una brocca di vino e gliela porgeva. Calpurnia lo teneva stretto, e il calore del suo corpo gli faceva bene, anche se era dalle viscere infernali dell’Averno che doveva essere appena uscito.

«Hai visto?» gli chiese Cicerone con una strana luce negli occhi, che era per metà di curiosità e per metà di quella che a Cesare parve invidia. Un’invidia che forse lui stesso avrebbe provato, a ruoli invertiti.

«Sì» rispose, quando la voce gli tornò dopo avere bevuto un sorso di vino. E all’improvviso gli tornò alla mente anche l’esperienza incredibile che aveva vissuto.

«Che cosa hai visto?» gli chiese Calpurnia, staccandosi da lui.

Cesare sgranò gli occhi, pieno di meraviglia.

«Ho volato» raccontò, affascinato dai ricordi che prendevano consistenza. «Sono stato oltre le nuvole, e ho visto la nostra flotta in balia dei marosi. Poi ho viaggiato fino alla Britannia e...» S’interruppe, e guardò Cicerone incredulo. «È un’isola! Una immensa isola circondata dalle acque, come mai nessuno avrebbe potuto immaginare.»

Cicerone si accigliò. «Se è così, come possiamo raggiungere i territori dei ghiacci? Il mare sarà sempre più pericoloso, non ci consentirà di avvicinarci.»

«Io ho visto Thule» rivelò Cesare facendo scendere il silenzio nella piccola cabina. «Ho visto la grande isola degli dei, che spunta dal mare di ghiaccio come la cima di una montagna dalla neve. È molto distante dalla punta più a nord della Britannia, e non segue la direzione segnata da Imilcone e Pitea.»

«Dove, allora?» gli chiese con urgenza Cicerone, che come lui fremeva per saperne di più. Adesso era chiaro che ciò che avevano solo immaginato e che avevano dedotto dai miti e dalle leggende era una realtà concreta.

«Più a nord» rispose Cesare alzandosi. «Dovremo navigare fra i ghiacci, e non sarà facile. Ma l’inverno non è ancora arrivato, e io so che possiamo farcela.»

«Dobbiamo riunire tutti e tracciare una nuova rotta!» esclamò Cicerone eccitato. Cesare pensò che non era mai stato tanto in sintonia con il suo laticlavius come in quel momento.

«Non sarà facile» sorrise abbracciando Calpurnia e baciandola. «Ma noi ce la faremo.»

Detto questo la lasciò e corse fuori dalla cabina, seguito da Cicerone.

Ora sapeva dove puntare la prua delle navi. E finché poteva contare sul potere della polvere nera, che gli avrebbe dato la possibilità di elevarsi sul mondo per vedere ogni cosa, niente sarebbe più stato in grado di fermarlo.