14
Oceanus Magnus
41 a.C. – 712 ab Urbe condita
«Avremmo dovuto essere in vista della costa già da tempo» grugnì Cleone protendendosi oltre la murata di babordo per scrutare il mare placido e apparentemente infinito che li circondava.
«La direzione è quella giusta» ribatté Decimo, che si era consultato già diverse volte con i più esperti fra i marinai a bordo dell’esareme. Concordavano tutti sul fatto che stessero navigando lungo la rotta tracciata da Imilcone. Almeno per ciò che riguardava la rotta, ovvero verso nord.
«Ma questo non significa che siamo vicino alle coste della Britannia» intervenne Cesare. «Forse quel mostro marino ci ha messo fuori rotta, complice anche la nebbia che ci ha impedito di navigare con qualsivoglia punto di riferimento. Stiamo procedendo verso nord, ma non in prossimità della costa.»
«E dove, allora?» chiese Publio Crasso.
Cesare si riempì i polmoni d’aria, prima di dare la sua personale opinione.
«Da qualche parte in mezzo all’oceano. Dove gli dei hanno voluto portarci.»
Vi furono dei borbottii e dei mugugni, ma nessuno ebbe argomenti validi da opporre al suo, neppure il gigantesco pirata, che si limitò a osservarlo con aria scettica.
«Se hai qualcosa da dire, fallo» lo sollecitò Cesare.
«Continuate a parlare del mostro marino che vi ha attaccato» disse l’uomo. «Ma dove sarebbe? E com’era fatto? Perché io e i miei uomini non abbiamo visto niente. E neppure gli altri comandanti della flotta.»
Cesare allargò un sorriso. «Dovevamo vederlo noi» rispose, sicuro di sé come sempre. «Anzi, credo che quella creatura dovesse fare una sola cosa, prima di tornare negli abissi da cui è uscita.»
«Che cosa?» gli chiese Cleone, scettico.
«Guardarmi negli occhi. E capire se sto facendo sul serio.»
Vi fu silenzio, poi Cesare batté una mano sulla pergamena con i rilievi delle coste della Britannia.
«In ogni caso, sono sicuro che l’intervento degli dei non volesse farci perdere nell’oceanus magnus. A quale scopo risparmiarci la vita, se poi l’intenzione era quella di farci navigare fino ai limiti del mondo?»
«Forse per darci il tempo di riflettere sulla nostra supponenza» intervenne una voce alle sue spalle.
Cesare sospirò, prima di girarsi e affrontare Cicerone.
«Bene, mi rallegra vederti qui» gli disse. «Significa che hai sconfitto la paura e adesso puoi renderti utile come tutti gli altri.»
L’oratore scosse la testa con un’espressione amareggiata.
«No, Cesare, non ho sconfitto la paura. Anzi, ne sono ancora attanagliato, fin nelle viscere.»
«Allora perché sei qui?»
«Perché credo di sapere quale fosse lo scopo di quella creatura, il serpente marino Tiamat che popola gli abissi fin dagli albori del tempo.»
Questa volta fu il turno di Cesare di guardarlo sorpreso.
«Parla, dunque» lo sollecitò. «Rendici partecipi delle tue elucubrazioni.»
Cicerone aprì un mezzo sorriso.
«Risparmiami il sarcasmo, Cesare, non ne ho bisogno. Penso già da solo a svilire il mio ruolo in questa folle impresa.»
«Perché folle? Impossibile, forse, ma più razionale e ragionata che mai.»
«Su questo convengo anch’io» annuì Cicerone. «Ma non credo che riuscirai a ottenere ciò che cerchi con il semplice ausilio del ragionamento. E nemmeno del tuo coraggio. Senza la follia, la mente umana non può affrontare il viaggio nelle lande sconfinate degli dei.»
Cesare fissò Cicerone, divertito e incuriosito dalle sue parole, poi indicò le pergamene e si strinse nelle spalle.
«Dunque cosa ti dice la tua mente folle?» gli chiese. «Quali rotte hai visto tracciate sui sentieri della pazzia?»
«Nessuna rotta» lo contraddisse Cicerone. «Ma credo di sapere dove voleva condurci Tiamat.»
«Dove?» gli chiese Decimo, impaziente.
«Verso i regni degli dei del Nord, i più antichi e oscuri che mente umana ricordi. È da quei recessi che è uscita Tiamat, ed è lì che stiamo andando, se mai queste navi potranno affrontare un simile viaggio.»
«Bah!» ringhiò Cleone voltandosi per andarsene. «Sono stufo di sentire queste sciocchezze. Andrò in esplorazione con la mia nave, e quando troverò la Britannia verrò a recuperarvi tutti.»
«È quasi sera, dove vuoi andare?» ribatté Decimo. «Presto non si vedrà più niente.»
Cleone lo fissò con una smorfia di disprezzo disegnata sul viso roccioso, poi si allontanò senza aggiungere altro.
Decimo fece per scattare verso il pirata, ma Cesare lo fermò e gli fece segno di lasciarlo andare. Poi si voltò verso Cicerone e lo guardò con interesse.
«Quella creatura ha avuto un certo effetto su di te, laticlavius» constatò.
«Anche su di te, Cesare» ribatté Cicerone allontanandosi a sua volta, senza chiarire quello che aveva voluto dire.
Cesare non lo fermò, limitandosi a osservarlo mentre scendeva nella sua cabina.
Poi si voltò verso Decimo e gli altri ufficiali sul ponte, diede un’occhiata al mare che si estendeva a perdita d’occhio in ogni direzione e sbuffò.
«Pazzia o non pazzia, vediamo di capire dove siamo finiti» ordinò. «E troviamo le coste della Britannia, prima che qualche altra creatura degli abissi si accorga di noi e decida di venire ad annusarci.»
La notte arrivò rapida e silenziosa, cancellando ben presto l’orizzonte e ogni possibilità di scorgere la costa anche a poche miglia di distanza. Le vedette erano comunque state assegnate ai loro posti di osservazione, se non altro perché una grande luna piena era alta nel cielo, e regalava sprazzi di luce azzurrognola quando le nubi che viaggiavano veloci le lasciavano campo libero.
Gaio Giulio Cesare si guardava attorno mentre le mani di sua moglie Calpurnia gli massaggiavano la schiena con un movimento lento e circolare che aveva il potere di rilassarlo. Solo lei sapeva sciogliergli in quel modo i muscoli induriti dalla tensione, una tecnica che, diceva, aveva imparato fin da giovinetta, quando aveva vissuto nella casa di una zia a Baia, in cui una schiava orientale praticava l’arte del massaggio per il benessere del corpo.
«Solo massaggi per rilassare?» le aveva chiesto lui una volta, guardandola maliziosamente, e Calpurnia gli aveva dato un leggero schiaffo.
«Naturalmente» era stata la sua risposta, falsamente piccata. «Credi che avrebbero insegnato le arti dell’amore a una bambina come me?»
«Be’, da qualche parte hai imparato anche quelle, però» aveva ribattuto lui con una risata. «O hai fatto tutto da sola?»
«Si chiama talento naturale» aveva risposto lei con aria malandrina.
A Cesare piaceva scherzare con sua moglie, la sola persona al mondo che riuscisse a interpretare i suoi pensieri dietro la smorfia indurita di concentrazione in cui si irrigidiva, quando i problemi arrivavano a tormentarlo. Per questo alla fine era sempre tornato da lei, nonostante le donne bellissime e procaci che lo avevano costantemente insidiato a Roma, e al cui fascino lui non era mai riuscito a sottrarsi. Si sfogava con quelle matrone ansiose di poter raccontare alle amiche di avere giaciuto con il dittatore, ma tornava a casa da Calpurnia, a chiedere i suoi abbracci e i suoi massaggi, che lei gli donava in silenzio, senza fare mai domande. E così, con il passare del tempo, era cresciuto sempre di più, dentro di lui, il peso della vergogna e della colpa, e il suo corpo si era incurvato come quello di un vecchio gravato da una vita lunga e piena di contraddizioni.
Doveva essere grato a sua moglie per la capacità che aveva di amarlo anche quando una qualsiasi altra donna lo avrebbe odiato e ripudiato. E soprattutto per la dolcezza con cui gli passava le dita sui muscoli contratti della schiena, quando lui si irrigidiva per il nervosismo e la tensione.
Proprio come in quel momento. Dopo quasi due giorni di navigazione, ancora non erano riusciti a scorgere la Britannia che pure, secondo tutti i marinai più esperti, non doveva essere troppo lontana.
Decimo gli aveva chiesto di poter rallentare, durante la notte, ammainando le vele e lasciando che fosse solo la corrente a trasportarli, ma lui si era sentito sommergere da un profondo senso di inquietudine e aveva ordinato che si procedesse con le vele spiegate nel vento, e i rematori sempre pronti a intervenire, qualora si fosse avvistata la costa e avessero dovuto deviare prontamente la rotta.
Sapeva che in questo modo i pericoli per la flotta aumentavano, e che i suoi uomini si sarebbero stancati ancora di più, ma non poteva permettersi di andare alla deriva su quel mare piatto e infinito, non con gli occhi irridenti degli dei che li guardavano. Avrebbero raggiunto i territori dei Dumnonii e lì si sarebbero fermati per riprendere fiato e leccarsi le ferite, prima di ripartire verso nord.
«Non devi essere così teso» gli mormorò Calpurnia da dietro, mentre saliva con le mani fino alla base del collo, dove si trovava il punto più dolente. «I tuoi uomini sanno quello che fanno, abbi fiducia in loro.»
Cesare scosse la testa.
«Io ho fiducia solo in me stesso» grugnì, pur sapendo che non era del tutto vero. Ma Calpurnia era brava a leggere tra le pieghe delle sue esternazioni, e dunque Gaio non si stupì se lei, anziché ribattere, si limitò a stringersi a lui e a baciarlo sul collo.
«Perché non torniamo di sotto?» gli chiese dopo un po’, quando lui stava cominciando a rilassarsi al suo calore. «Per questa notte non credo che altri mostri usciranno dal mare per affrontarci. E poi devo farti vedere che cosa si può fare a un uomo, con un bel massaggio con le mani.»
Cesare si voltò a guardarla.
«Allora mi hai mentito, quando hai negato di essere stata istruita nelle arti amatorie, da bambina.»
Lei si strinse nelle spalle.
«Forse solo un poco» sostenne. Si alzò sulle punte dei piedi e si allungò a baciarlo con le labbra piene e morbide.
In quei momenti, Cesare sapeva che aveva bisogno del conforto di una donna, di un corpo morbido e sinuoso a cui stringersi, per assorbirne la fragranza. Quando aveva bisogno di fare sesso, per sfogarsi quasi con rabbia, preferiva invece i muscoli e la pelle tesa di un uomo, per dividere fra pari il piacere di una lotta che non era molto dissimile da un combattimento con la spada.
«Vai tu» disse alla fine, dopo aver quasi ceduto alla tentazione di seguire Calpurnia sottocoperta. Si guardò attorno, cercando di percepire i movimenti delle onde nel lucore della luna. «Ho una strana sensazione, e sai che quando sono così non riesco a concentrarmi su altro.»
Calpurnia si staccò leggermente da lui e lo fissò.
«Quale sensazione?» gli chiese.
Gaio ci mise un po’ prima di rispondere. E nell’attesa non guardò sua moglie, ma si limitò a far scorrere lo sguardo nella notte che li circondava.
«Non lo so» ammise alla fine, districandosi dal suo abbraccio per farle capire che comunque desiderava stare solo. «Però devo restare qui. Solo per poco, te lo prometto.»
«Certo» annuì Calpurnia, aprendo un sorriso che lui comprese essere forzato. «Io ti aspetterò di sotto, quando vorrai raggiungermi.»
Non aggiunse altro e scivolò via, scomparendo ben presto nelle volute di foschia che si stavano alzando dall’acqua e che vorticavano nell’aria nera della notte.
Rimasto solo, Cesare tornò a contemplare il buio nella direzione in cui avrebbe dovuto esserci la Britannia. Non vide nulla per gran parte della notte. Finché il desiderio di Calpurnia si fece così forte da risultare quasi doloroso, e allora si decise a scendere nel suo alloggio per capire quanto anche lei lo stesse aspettando.
Quando risuonarono i richiami, Cesare era sdraiato nel suo letto, una delle poche concessioni al suo ruolo su quella nave in cui gli spazi angusti non permettevano di curare troppo l’arredamento e di dare sfogo allo sfarzo a cui lui e la moglie si erano abituati, dopo tanti anni vissuti a Roma come l’uomo e la donna più potenti dell’Urbe.
Calpurnia si era già alzata e stava facendo le abluzioni nel cubiculum in cui i mastri carpentieri avevano ricavato una piccola vasca, che gli schiavi tenevano sempre piena d’acqua pulita, e una latrina, altro lusso che solo loro potevano vantare a bordo di tutta la flotta.
Doveva essere ancora presto, perché Cesare sapeva che lei amava alzarsi all’alba, e dunque immaginò che all’esterno ci fosse la solita foschia mattutina che ormai da giorni si era abituato a considerare una compagna costante della loro navigazione.
«Che succede?» gli chiese Calpurnia uscendo dal cubiculum a seno nudo e con i capelli raccolti, asciugandosi il corpo bianco come il latte.
Cesare balzò giù dal letto e corse alla porta, infilandosi svelto la tunica che aveva gettato per terra quella notte, quando era stato così impaziente di raggiungere la moglie fra le coltri. Spostò la pesante tenda che garantiva loro l’intimità e corse fuori. Venne subito raggiunto da due uomini che provenivano dal ponte superiore, e che riconobbe come due degli attendenti di Decimo.
«Abbiamo avvistato terra, Cesare!» gli comunicò subito il primo, un ragazzone alto e molto giovane, con il viso tempestato da foruncoli arrossati.
«C’è qualcosa che non va, però» aggiunse subito il secondo, più basso e striminzito dell’altro, ma con una folta chioma che Cesare soppesò per un istante, pensando che sarebbe stata contro ogni regolamento, se si fossero trovati in Gallia, con le legioni con cui aveva conquistato quelle vaste e ricche terre.
«Spiegati» si limitò a ordinare al legionario mentre li precedeva verso la scala che conduceva in coperta.
«Decimo sostiene che le vedette mandate in avanscoperta non hanno mai visto quel genere di costa. Non sono come...»
Il ragazzo esitò, e lo spilungone che lo accompagnava completò per lui: «Come dovrebbero».
Cesare si fermò a guardarli. «Che significa? Come dovrebbero essere?»
«Le nostre vedette conoscono bene le coste della Britannia» rispose una voce proveniente dall’alto.
Cesare si girò e vide Decimo che si affacciava dal boccaporto e gli faceva segno di raggiungerlo. Non esitò e completò l’ultimo tratto di scale per uscire all’aperto.
Faceva più freddo di quanto immaginasse, e il sole era appena sorto. Ovunque, attorno alla nave, le spire languide di nebbia che lui aveva ben immaginato.
«E dunque, se non siamo in Britannia, dove siamo finiti?» gli chiese mentre insieme raggiungevano il castello di comando della nave, dove i tribuni di collegamento erano tutti in agitazione.
Decimo si strinse nelle spalle, poi indicò la pergamena srotolata per terra.
«Abbiamo fatto dei calcoli, ma non è facile capire dove siamo.» Mostrò un segno tratteggiato male, che si distingueva appena, e vi batté sopra l’indice. «Questa dovrebbe essere un’isola, da quello che si capisce, anche se le sue dimensioni non sono tratteggiate con cura.»
Cesare si accucciò sui talloni per esaminare meglio la mappa, una di quelle lasciate dal greco Pitea. Lesse il nome che l’antico viaggiatore aveva dato a quell’isola e scosse la testa.
«Iérne. Mai sentita nominare.»
«Secondo la mappa non siamo troppo distanti dalla Britannia, forse solo una giornata di navigazione» gli fece notare Decimo. «Potremmo dirigerci a est e cercare un approdo, come avevamo stabilito.»
Cesare osservò ancora per un istante la vecchia pergamena ingiallita, poi si rialzò e cercò di individuare le coste oltre la foschia che pian piano stava diradando. Vide un profilo scuro disegnato all’orizzonte, e per qualche motivo si convinse che si trattava di terre inesplorate, di cui Roma non sapeva nulla o quasi, e comprese che ancora una volta gli dei avevano voluto offrirgli un’opportunità. Forse per sondare il suo vero spirito di avventura, e il suo desiderio di affrontare l’ignoto pur di raggiungere i suoi scopi.
Con un sorriso sulle labbra si disse che non li avrebbe delusi.
«No» affermò dando una pacca sulla spalla di Decimo. «Proseguiamo verso questa Iérne. Ho motivo di credere che non siamo finiti qui per sbaglio, ma per una precisa volontà degli dei.»
«Perché avrebbero dovuto portarci su quest’isola?» chiese Decimo, sorpreso.
Cesare allargò le braccia.
«Non lo so» rispose. «Ma se non andiamo a vedere, dubito che potremo mai avere una risposta a questa domanda.»
Fece per tornare di sotto, per indossare qualcosa di più pesante, quando gli tornò alla mente una cosa.
«A proposito» disse, rivolto a Decimo, «hai più avuto notizie di Cleone? Che fine ha fatto?»
«Non lo so. È scomparso e non si è più fatto vedere.» Allargò una smorfia. «Forse ne avrà approfittato per sparire per sempre.»
«Con i nostri uomini a bordo?» domandò scettico Cesare. «No, ne dubito. Più probabilmente ha davvero raggiunto la Britannia, e adesso ci starà cercando.»
«Allora non avrà vita facile a rintracciarci» grugnì Decimo, indicando tutto intorno a loro come a voler dire che lì non c’erano punti di riferimento e che nessuno avrebbe potuto risalire alla loro rotta.
«Va bene» concluse Cesare. «Fai preparare la flotta per lo sbarco. E manda le vedette a cercare un approdo.»
Il castrum era stato realizzato in brevissimo tempo, e Cicerone dovette ammettere che Spartaco era bravo a addestrare gli uomini: non solo per ciò che concerneva il combattimento, ma anche per l’efficienza con cui si muovevano, ciascuno con il suo compito, per erigere le difese di cui l’accampamento aveva bisogno.
Dopo avere scavato i fossati che avrebbero garantito un primo sbarramento difensivo, i legionari, con la terra rimossa, avevano circondato il castrum con rilievi in cui erano stati piantati dei pali appuntiti rivolti all’esterno. Dietro, dalla parte del campo, erano stati tracciati dei camminamenti su cui i lanciatori di giavellotto, gli arcieri e i frombolieri si sarebbero potuti muovere per raggiungere in poco tempo qualsiasi lato sottoposto a un attacco nemico. E ogni cinquanta passi, per tutto il perimetro dell’accampamento, erano state erette piccole torrette di avvistamento, mentre ancora si lavorava ai fossati e al terrapieno.
Quando tutto fu pronto e il castrum racchiuso all’interno di un semicerchio di difesa che andava da un promontorio roccioso sul lato orientale della baia fino a una fitta foresta che dall’interno raggiungeva il mare a occidente, i soldati cominciarono a erigere le tende e gli alloggi degli ufficiali, disponendoli secondo la modalità che veniva utilizzata ogni volta che si fermavano e che avevano bisogno di trincerarsi.
Senza attendere che il praetorium in cui si svolgevano i consigli di guerra fosse pronto, Cesare aveva convocato gli ufficiali e i tribuni militari su un piccolo rilievo a ridosso del promontorio roccioso, intorno a un tavolo trasportato a terra dalla sua esareme perché vi si potessero disporre sopra le mappe e le pergamene da consultare.
Cicerone raggiunse il gruppo a riunione già iniziata, e si dispose leggermente di lato, per poter ascoltare quello che veniva detto senza mettersi troppo in evidenza. Provava ancora uno strano malessere allo stomaco, e non riusciva a capire a che cosa fosse dovuto: forse al fatto che si trovavano in un terra sconosciuta, su cui mai altri romani, prima di loro, avevano messo piede? O più semplicemente perché cominciava a credere che tutta quella frenesia fosse inutile, visto che gli dei avevano fatto capire chiaramente che erano disposti a giocare con loro, ma niente di più?
Immerso in questi pensieri si mise in un angolo e cercò di costringersi ad ascoltare, mostrando almeno un po’ di interesse in ciò che Cesare stava dicendo.
«Dobbiamo catturare qualche nativo e capire dove ci troviamo e quali pericoli potrebbero nascondersi su quest’isola.»
«Sempre ammesso che sia davvero un’isola» s’intromise Bruto, indicando la pergamena ingiallita di Pitea. «Lì non è per niente chiaro di che cosa si tratta. Questa terra potrebbe riunirsi con la Britannia a nord, per quello che ne sappiamo.»
«A maggior ragione ci serve qualcuno del posto che ci dia spiegazioni» s’intromise Decimo, sempre pronto a schierarsi dalla parte del dittatore.
Cicerone sorrise, dandosi ancora una volta dello sciocco per avere anche solo pensato che un uomo come Decimo potesse davvero tradire Cesare.
«Ma cosa vuoi che ne sappiano?» sbuffò Bruto. «Saranno dei selvaggi abituati ad allontanarsi solo di poche miglia dai loro villaggi. Non avranno nessuna idea di dove porta il loro territorio, se questa è un’isola oppure no.»
«Non è questo che ci interessa» spiegò Cesare, troncando come sempre la discussione per avere lui l’ultima parola. «Isola o non isola, Britannia o non Britannia, non siamo qui per esplorare o conquistare queste terre. Dobbiamo capire se possiamo sfruttare le risorse del territorio per riorganizzarci e rifornirci di quanto abbiamo bisogno, visto che dubito che le navi onerarie di Casca possano ritrovarci. Dobbiamo cavarcela da soli, e prima di partire di nuovo per il Nord, dobbiamo rimettere in sesto la flotta e ritemprare la legione.»
Vi furono solo mugugni, dopo le sue parole, e Cicerone scosse piano la testa. Nessuno aveva le idee davvero chiare, e alla fine tutti si sottomettevano alle decisioni di Cesare senza nemmeno provare a metterle in discussione.
Perché non lo fai tu?, si sentì chiedere da una strana voce interiore, e questo bastò a farlo infuriare.
Scattò in avanti e si fece largo fra due tribuni, per raggiungere il tavolo con le carte di navigazione.
«Stavamo seguendo un itinerario ben preciso, mi pare» disse, riscuotendo subito l’attenzione dei presenti. «Pitea e Imilcone sono passati di qui, abbiamo le loro rotte. Alla fine mi sembra che non ci siamo affatto perduti, e dunque anche Casca dovrebbe poterci rintracciare, visto che ha tenuto delle copie di queste carte. O non è così?»
Aveva posto quell’ultima domanda guardando Cesare negli occhi. Prima che questi provasse a rispondere, continuò a parlare con il suo tono pieno di ostilità e diffidenza, generato più che altro dal fastidio provocato da quella voce interiore che lo aveva schernito.
«E comunque, credo che tu debba parlare chiaro con tutti noi, Cesare. È evidente che le ragioni per cui hai voluto davvero che ci fermassimo qui sono ben altre rispetto a quelle che hai dichiarato.»
«Che cosa vorresti dire?» lo interpellò Decimo, guardandolo con sospetto.
Anziché rispondere, Cicerone incrociò le braccia sul petto e fissò Cesare.
Questi resse per qualche istante il suo sguardo, poi aprì un leggero sorriso.
«Il nostro laticlavius ha ragione» si decise alla fine ad ammettere. «O meglio, ha ragione a sostenere che oltre a pensare alle necessità della flotta, credo che potremmo ottenere un altro vantaggio, in questi territori, sfruttandoli per la nostra missione.»
Vi furono altri mugugni e borbottii, poi Bruto si fece avanti.
«Quali altri vantaggi?» chiese. «Spiegati.»
Cesare fece un mezzo inchino di fronte al piglio dimostrato dal suo figlioccio, o figlio naturale che fosse, e allargò le braccia.
«Questo è territorio celtico, ancora incontaminato, se davvero si tratta dell’isola di Iérne descritta da Pitea.»
«E dunque» concluse per lui Cicerone, che aveva avuto subito un lampo di comprensione su ciò che stava passando per la mente del dittatore, «qui devono esserci quegli stregoni che conoscono il segreto degli oscuri riti celtici e che praticano il culto della vita eterna.»
«Esatto» annuì compiaciuto Cesare. «Se ne catturiamo qualcuno, forse riusciremo a strappare loro importanti segreti.»
«O forse causeremo solo altra irritazione negli dei» ribatté Cicerone, stringendo gli occhi in attesa di una secca replica.
Cesare, però, lo sorprese: scoppiò a ridere, e si avvicinò a lui circondandogli le spalle con un braccio.
«Come vedi, laticlavius, ho fatto bene a volerti con noi» affermò, mentre Cicerone si accigliava. «Sei il solo che sembra comprendere la portata della nostra impresa, e uno dei pochi» lanciò una breve occhiata a Bruto «che riesce a farmi da contraddittorio. Non è detto che tu abbia sempre ragione, però questo è il modo giusto di affrontare l’ignoto. Bisogna porsi mille domande a cui rispondere e mille dubbi da risolvere. Solo così potremo correggere continuamente la rotta per raggiungere la meta.»
Si staccò da lui e contemplò il fermento nel castrum in costruzione.
«Cerchiamo solo di essere pronti, quando finalmente arriverà il momento della verità.»
La pattuglia addestrata da Spartaco era composta da alcuni fra i più veloci e al contempo esperti legionari della prima coorte. Cesare aveva chiesto espressamente uomini abili, abituati a combattere e che non si sarebbero lasciati sorprendere dalla furia selvaggia del nemico che con molta probabilità avrebbero incontrato in quelle terre, e che comunque fossero agili e rapidi, perché non avrebbero dovuto impegnare i celti in combattimento, ma avrebbero dovuto muoversi rapidi e silenziosi, quasi invisibili, per raccogliere informazioni e, se possibile, portare all’accampamento qualche prigioniero di valore.
«Cercate i loro stregoni, sacerdoti o qualunque cosa siano» si era raccomandato con il manipolo schierato davanti a lui e a Spartaco, «e conducetemene uno.»
Adesso, con la notte che era calata sull’accampamento prima di quanto fossero abituati, densa e appiccicosa sulla pelle, i soldati erano pronti a uscire da una delle porte laterali del castrum, presidiata da una torretta di guardia con due arcieri.
Spartaco aveva chiesto di poter andare con loro, ma Cesare era stato perentorio: «Tu mi servi qui. È troppo pericoloso lasciarti andare là fuori, non sappiamo che cosa ci aspetta in quei boschi».
Il trace non aveva ribattuto. Come sempre aveva chinato il capo in segno di obbedienza e aveva ricominciato a sbraitare ordini ai suoi uomini, preoccupandosi che fossero pienamente coscienti dell’importanza della missione che era stata loro affidata.
Quando le porte vennero aperte per consentire al manipolo di scivolare fuori, con i calzari e le parti di ferro della loro dotazione ricoperti con strisce di feltro perché non risuonassero nella notte durante la corsa, sugli spalti della fortificazione erano appostate le sentinelle secondo la disposizione voluta da Cesare in zona di guerra: due uomini ogni dieci passi, con un arciere affiancato da un legionario provvisto di pilum.
«Due giorni» ricordò per l’ultima volta Spartaco ai suoi. «Se non trovate quello che vi è stato chiesto, tornate qui.»
Annuirono tutti e si prepararono a uscire, per spingersi in quel mondo ostile e sconosciuto che premeva contro il perimetro del castrum senza mostrare alcun timore sui volti duri e determinati.
Cesare si chiese quanti di loro sarebbero ritornati e immaginò ben pochi. Sarebbe stato un durissimo sacrificio da digerire, perché mai come in quel momento avevano bisogno di guerrieri esperti pronti a combattere con coraggio, ma non poteva fare altrimenti: senza la conoscenza che gli stregoni celti custodivano, e di cui loro dovevano assolutamente impossessarsi, non avrebbero potuto andare lontano. Questo lo sapeva bene, anche se con uomini come Cicerone o Bruto ostentava sempre una sicurezza che in realtà vacillava parecchio dentro di lui.
Le porte erano ormai spalancate, e i soldati cominciarono a muoversi, quando proprio in quel momento dagli spalti risuonò un grido. Con la coda dell’occhio Cesare percepì un movimento. Si voltò di scatto, e quello che vide gli fece correre i brividi lungo tutto il corpo: una delle sentinelle era caduta dal perimetro difensivo, con una freccia nera piantata nel petto.
«Chiudete le porte!» urlò Spartaco accanto a lui, con una prontezza che Cesare non riuscì a eguagliare. «Date l’allarme!»
I corni risuonarono poco dopo, quando ormai una nuvola di frecce nere come la notte si abbatteva sul castrum, uccidendo molte sentinelle su tutto il perimetro difensivo, colte alla sprovvista da quell’attacco silenzioso e imprevedibile. I legionari sciamarono dalle loro tende e andarono a raccogliere le armi accumulate nei luoghi preposti, per dirigersi in modo ordinato verso i posti che erano stati loro assegnati in caso di attacco, e Cesare comprese che l’addestramento a cui li aveva sottoposti Spartaco era stato efficace. Riparandosi con gli scudi dalla pioggia di frecce, gli uomini presero posizione, e ben presto risuonarono nell’aria le urla dei tribuni, che fecero accendere i fuochi e predisposero gli arcieri dietro la palizzata di difesa.
Gaio corse al praetorium, che era stato allestito su un rilievo abbastanza alto da consentirgli di dominare tutta la valle oltre il castrum, fino a dove poteva giungere lo sguardo. Anche se era notte, ebbe ben presto una panoramica precisa di quello che stava succedendo e, mentre Cicerone e gli altri ufficiali più alti in grado lo raggiungevano, si rese conto che stavano subendo un attacco più massiccio e organizzato di quanto si fosse aspettato.
La foresta e i tratti pianeggianti della vallata in cui cresceva un’erba dura e alta fino alla spalla di un uomo, infatti, brulicavano di ombre in movimento. Doveva esserci un vero e proprio esercito, là fuori, disposto lungo tutto il perimetro ad arco oltre il fossato difensivo.
Com’è possibile?, si chiese. Come potevano avere organizzato un attacco in così poco tempo? Un brivido di eccitazione lo scosse. C’era una sola spiegazione: gli stregoni erano davvero potenti come si diceva, e avevano saputo predire il loro arrivo, preparando i loro uomini ad accoglierli.
«Bene» disse ad alta voce, mentre osservava gli arcieri preparare le frecce incendiarie e poi, all’unisono, seguendo gli ordini propagati dai corni, lanciarle nella notte non tanto per colpire dei bersagli, quanto per illuminare quello che si muoveva a poche centinaia di passi oltre le fortificazioni, nascosto fra l’erba o dietro le rocce che punteggiavano la vallata, oltre che nelle foreste che raggiungevano il castrum sui fianchi.
Per un istante le tenebre vennero respinte dalle centinaia di frecce incendiarie, e Cesare e gli altri ufficiali poterono vedere ciò che li aspettava, anche perché il nemico, accortosi di essere stato individuato, rinunciò a nascondersi e si lanciò all’attacco con un boato fatto di urla di guerra e corni da battaglia.
I celti si scagliarono in avanti a petto nudo, nonostante il freddo che condensava il fiato davanti alla bocca, dipinti secondo le loro usanze tribali e con asce, spade e lance costruite con materiali rozzi, che non potevano certo competere con le armi in dotazione alla legione.
«Sono solo dei selvaggi» affermò Bruto accanto a lui. «Non sarà difficile respingerli.»
Questa volta Cesare si sentì di dargli ragione: annuì e restò a osservare i suoi uomini mentre, al comando di Spartaco e dei tribuni, organizzavano in modo rapido ed efficiente la difesa del castrum.
«Tenete pronto il manipolo di avanscoperta» ordinò rivolto a uno degli attendenti munito di bandierine di segnalazione e indicando gli uomini che si trovavano ancora vicino alla porta laterale del campo, che era stata subito richiusa. «Quando avremo ricacciato i celti, dovranno uscire a seguirli per compiere la loro missione.»
L’attendente annuì e con le bandierine diramò gli ordini, che subito vennero comunicati ai tribuni e a Spartaco, il quale non perse tempo e corse dal decurione che comandava il manipolo, per conferire con lui.
Mentre il rumore della battaglia, fatto delle grida degli uomini e del clangore delle armi, cresceva sempre più, Gaio si riempì i polmoni dell’aria gelida e nera che lo avvolgeva e contemplò soddisfatto il modo in cui i suoi soldati facevano strage di quegli sciocchi selvaggi che si tuffavano a petto nudo contro una fortificazione romana, un baluardo che probabilmente non avevano mai visto in vita loro. Un errore che sarebbe costato la vita alla maggior parte di quei guerrieri, tanto coraggiosi e possenti quanto poco consapevoli di ciò che avevano di fronte.
Le frecce incendiarie continuavano a volare nella notte, per cercare di rischiarare il campo di battaglia, e spesso si conficcavano nelle carni dei celti lanciati allo sbaraglio. Dopo i momenti iniziali di soddisfazione per il modo in cui le sue truppe si stavano comportando, assicurando una linea di difesa impenetrabile su tutto il perimetro del castrum, Cesare cominciò ad avvertire un senso di disgusto per quei selvaggi che non sapevano combattere, che non avevano strategie e tattiche che non fosse quella di lanciarsi in avanti a petto nudo, urlando come bestie feroci. Evidentemente, il loro credo religioso li invitava a sacrificarsi senza timore di perdere la vita, perché non era possibile che tanti guerrieri abituati a combattere non si fermassero a riflettere su quanto stava succedendo, cercando di cambiare strategia. Invece avanzavano di continuo, spuntando dalla foresta così numerosi che era diventato impossibile contarli. E i cadaveri si ammassavano nel pianoro antistante il fossato di contenimento, e sotto la palizzata eretta sul rilievo difensivo del castrum.
Uno spettacolo che Cesare non aveva mai contemplato, neppure quando aveva combattuto contro le bellicose tribù a sud del Reno.
«Corrono sui corpi dei loro stessi compagni» commentò Cassio Longino accanto a lui, con espressione accigliata. «Li scavalcano come se nemmeno li conoscessero, e si lanciano verso la morte senza alcun timore. È pazzesco...»
Cesare non replicò. Lanciò un’occhiata a Cicerone, che stava contemplando a sua volta quello scenario surreale, e lo invitò a dire la sua.
Il laticlavius si strinse nelle spalle, senza riuscire a nascondere la preoccupazione che lo tormentava.
«È un comportamento che non ha spiegazione» disse alla fine, mentre dalla piccola valle antistante il castrum provenivano le grida dei feriti, che nonostante le numerose frecce che li trafiggevano cercavano comunque di trascinarsi in avanti, impugnando le loro rozze asce o spade.
«O forse sì» intervenne Bruto. Alzò un braccio per indicare quello che stava succedendo. «Sono tutti giovani guerrieri, sani e robusti. E non hanno paura di morire in questo modo. Non basta il fatto che siano dei selvaggi, senza regole e disciplina. Ci dev’essere qualcosa di più.»
«E cosa?» volle sapere Cicerone.
Cesare ascoltava interessato, cercando di capire se Bruto avesse elaborato la sua stessa idea.
«Forse non temono la morte perché gli è stata promessa una vita migliore nei loro Campi Elisi» rispose Bruto.
«O forse» si decise a intervenire Cesare, «sanno che morire non è un problema, quando i loro druidi sono in grado di farli tornare in vita.»
Si voltarono tutti a guardarlo, ma nessuno replicò. Cicerone aveva aperto appena la bocca, per poi richiuderla subito e trincerarsi dietro un silenzio accigliato.
Cesare si sentì riempire di eccitazione.
«Non capite? Questo scempio che stiamo guardando è la dimostrazione che ciò che dicevano gli antichi è vero, che le credenze delle popolazioni celtiche non sono semplice superstizione, ma realtà. Qui, in queste terre desolate, è custodito il segreto della vita eterna, e noi dobbiamo trovarlo.»
Le sue parole suscitarono un moto di meraviglia negli ufficiali che lo circondavano. Lo stesso Cicerone addolcì le linee dure del volto e lo guardò con una luce nuova negli occhi.
«Cesare!» gridò all’improvviso Publio, toccandolo a una spalla per attirare la sua attenzione. «Guarda laggiù, su quel rilievo!»
Il dittatore provò a seguire il braccio teso di Publio, ma non vide niente: nonostante le frecce incendiarie e i fuochi che divampavano un po’ ovunque, non si distingueva nulla, e la luce delle stelle e della luna non era sufficiente a garantire visibilità.
«Che cosa hai visto?» chiese, stringendo le palpebre per cercare di migliorare la vista, che negli ultimi anni gli si era abbassata parecchio.
Anziché rispondere, Publio ordinò ai tribuni di far lanciare più frecce incendiarie in una direzione precisa e, quando questo avvenne, Cesare trattenne il respiro, perché riuscì a vedere chiaramente quello che il tribuno aveva già notato.
Quasi al centro della valle, su un rilievo roccioso che si trovava alla loro altezza, c’era una figura ammantata di nero, un uomo alto e con il capo coperto da un cappuccio, che se ne stava immobile a braccia incrociate e guardava verso di loro. Cesare non poteva vederne gli occhi, ma un brivido a fior di pelle gli fece capire che quell’uomo, chiunque fosse, stava fissando proprio lui, come se sapesse chi era al comando della legione.
«Dev’essere uno dei loro stregoni» mormorò Cicerone togliendogli le parole di bocca. «Un druido. Il loro capo.»
Mentre la carica folle e sconsiderata dei guerrieri celti continuava, e gli arcieri e gli hastati romani li falciavano come durante un’esercitazione di tiro al bersaglio, il druido se ne restava lassù, a fissarli impassibile dal nero del suo cappuccio, più scuro della notte stessa.
«Dobbiamo catturarlo» esclamò Cesare, rendendosi conto che l’occasione che stava cercando era all’improvviso a portata di mano. Fece un segno agli sbandieratori, e ordinò che Spartaco venisse convocato.
Quando il centurione arrivò di corsa, gli indicò il druido che, sotto la pioggia di frecce incendiarie, non muoveva un muscolo, come se sapesse che niente avrebbe potuto colpirlo.
«Lo vedi?»
Spartaco annuì con un cenno secco della testa.
«Dovete prenderlo. Manda tre dei tuoi uomini migliori. Che aggirino la foresta, veloci e invisibili, e ignorino i celti. Non devono ingaggiare battaglia con nessuno. Devono solo raggiungere quell’uomo e catturarlo. Lo voglio qui, ai miei piedi, entro lo spuntare dell’alba.»
«Lascia andare me, Cesare» grugnì Spartaco, gonfiando i muscoli delle mascelle.
Gaio lo fissò per un istante, pensando dapprima che sarebbe stata una pessima idea mettere a rischio la vita del suo primus pilus, ma poi si rese conto che Spartaco era la migliore garanzia di poter mettere le mani sul druido.
«Va bene» approvò, vedendo che gli occhi del trace si illuminavano. «Mi fido di te. So che non mi deluderai.»
Spartaco si batté con forza il braccio sul petto, poi scattò via, raggiungendo il manipolo dei suoi uomini per scegliere chi portare con lui in quella importante missione.
Mentre cercava di convincersi di avere fatto la scelta giusta, Cesare tornò a guardare verso il druido sul rilievo roccioso che, nonostante si trovasse nel raggio di tiro dei migliori arcieri della legione, non sembrava interessarsi alle frecce che gli fischiavano attorno senza riuscire a colpirlo.
Quali sono i tuoi poteri?, si chiese, stringendo gli occhi nel tentativo di scorgere qualche particolare del volto di quell’uomo. Che cosa sai del segreto della vita eterna?
«Se c’è qualcuno che può catturare quel druido, questo è Spartaco» affermò Cicerone accanto a lui. «Presto conosceremo la verità.»
Cesare annuì in silenzio. Forse erano a una svolta, e non potevano perdere l’occasione che gli dei gli stavano offrendo.
Marco Tullio Cicerone era sorpreso, soprattutto per le sensazioni contrastanti che lo tormentavano. Era euforico, perché quello che stava vedendo andava al di là di ogni sua immaginazione, e stava dando ragione a tutto quello che Cesare gli aveva raccontato. Nel contempo era disgustato di sé, perché capiva che alla fine, dopo tante parole spese nei consessi pubblici e nei suoi scritti, ciò che più gli stava a cuore era la sua persona, il suo vecchio corpo che andava consumandosi e che si allontanava dalla vita stessa, a cui lui non sembrava disposto a rinunciare.
Aveva sempre creduto che fosse da codardi sottomettere la ragione e l’onestà della propria mente al desiderio d’immortalità, eppure era per questo che adesso si sentiva attraversare da brividi di eccitazione. Credeva di concordare pienamente con Cesare, quando diceva che quel druido andava catturato a ogni costo, per costringerlo a svelare i segreti di cui sembrava custode.
Così aveva seguito con apprensione Spartaco mentre correva dai suoi uomini, sceglieva quelli con cui accompagnarsi, e poi scivolava fuori dal castrum per dirigersi attraverso la foresta nera e impenetrabile fino al rilievo su cui il druido seguiva la battaglia con aria impassibile, mandando a morte centinaia dei suoi guerrieri.
«Vedo delle luci» disse a un certo punto Bruto, riscuotendolo dalle sue elucubrazioni. «Che cosa sono? Le nostre frecce incendiarie?»
Cicerone guardò nella notte cupa attraversata dalle urla dei soldati e dalle grida di morte dei celti, oltre che dalle scie fiammeggianti delle frecce incendiarie, ma all’inizio non vide nulla. Ebbe per un istante l’impressione che il druido fosse scomparso, e si chiese se fosse stato davvero reale, se non si fosse trattato di uno scherzo dei suoi poveri occhi malandati. Ma poi ricordò che anche gli altri lo avevano visto, e che Cesare aveva mandato Spartaco a catturarlo, e dunque si tranquillizzò e cercò di acuire di più la vista stringendo gli occhi.
E fu così che all’improvviso vide il bagliore, uno strano guizzare di fiamme bluastre che non avevano nulla a che fare con il fuoco delle loro frecce.
«No, non siamo stati noi» mormorò Gaio mentre fissava a sua volta in direzione della collina su cui sostava lo stregone. «Guardate. È lui...»
Sentendosi accapponare la pelle su tutto il corpo, Cicerone seguì il braccio teso del dittatore. Il druido stava protendendo le mani in avanti, i palmi rivolti verso l’alto, il volto nascosto nelle tenebre del cappuccio. Stava gridando qualcosa, che il vento trasportava fino a loro, anche se non era possibile comprendere le parole, con il caos che regnava intorno al castrum.
Ma quello che più sconvolse Cicerone fu rendersi conto che il bagliore bluastro sembrava guizzare direttamente dalle mani dello stregone. Era come se dai suoi palmi si sprigionassero lampi di luce azzurrognola, che scacciavano la notte e illuminavano di saette spettrali il rilievo roccioso su cui si trovava.
«Non è possibile» disse Cassio Longino scuotendo la testa. «Questa è...»
Non concluse la frase, ma Cicerone pensò all’unica parola che fosse plausibile in quel momento: magia. O stregoneria.
A un certo punto il silenzio calò sulla valle e intorno al castrum come un nero sudario di morte. Dopo le urla e le grida di battaglia, adesso non si sentiva alcun rumore, se non lo sfrigolare delle possenti fiamme azzurre che crepitavano dalle mani del druido, protese verso di loro.
Gaio Giulio Cesare era come paralizzato, gli occhi sgranati a osservare lo stregone, e Cicerone si sentì perduto: se anche il dittatore restava soggiogato da quell’opera di magia, come avrebbero potuto sopravvivere agli eventi arcani a cui stavano assistendo?
Ma prima che potesse dire una parola, cercando di riscuotere tutti dal loro stupore, accadde qualcosa che avrebbe portato nei ricordi per sempre, fino a quando la sua mente non si fosse ridotta a polvere.
Il druido sollevò le mani, poi le protese di scatto in avanti, scagliando fulmini di luce azzurra verso le cataste di corpi trucidati che si erano ammassati davanti al castrum, lungo tutta la linea del perimetro di difesa. La luce fu così forte e improvvisa che Cicerone gridò per il dolore agli occhi, che dovette chiudere e riparare con un braccio. Mentre altri intorno a lui gridavano e imprecavano, accecati da quel prodigio, qualcosa di ancora più terribile minacciò di compromettere la sua stabilità mentale.
Avvertì delle voci, dei ringhi gutturali che si alzarono un po’ ovunque, e mentre cercava di riaprire gli occhi per vedere che cosa stesse succedendo, scorse delle ombre muoversi in tutta la valle. Il lampo lo aveva accecato, ma pian piano la vista tornò normale e confermò quello di cui aveva avuto solo sentore, anche se riteneva che fosse impossibile.
«Si stanno rialzando!» gridò Cassio Longino facendo un passo indietro, la voce incrinata dal terrore. «Non è possibile. Erano morti!»
Cicerone si passò ancora le dita sugli occhi e osservò quello che stava succedendo oltre la palizzata difensiva. Se voleva la dimostrazione che Cesare non era un pazzo e che non aveva mentito, quando aveva spiegato loro che in quelle terre esisteva il segreto della vita eterna, adesso l’aveva davanti a sé.
E per la prima volta comprese di essere stato un folle a illudersi di mettere le mani su un simile segreto. Gli dei non lo avrebbero mai condiviso con loro, piccoli e arroganti omuncoli accecati dal desiderio di potere.
Quella stregoneria era qualcosa di orribile e arcano, che aveva il potere di rendere chi la utilizzava simile alle più oscure creature dell’Averno.
Proprio come stava succedendo adesso, lì davanti a loro.
Gaio Giulio Cesare era immobile, annientato da ciò che vedeva. Mai avrebbe creduto possibile assistere a qualcosa del genere, anche se in definitiva era proprio per questo che si trovavano lì.
Cercavano il segreto della vita eterna, il modo per rendere immortale la carne e lo spirito, e sconfiggere il decadimento del corpo.
Per questo aveva abbandonato Roma. E a questo aveva deciso di dedicare ogni suo sforzo.
Eppure, adesso che aveva la prova che tutto ciò che anelava esisteva davvero, il terrore gli paralizzava gli arti, e per un momento credette che non sarebbe più riuscito a respirare.
«Si stanno rialzando!» sentì dire da qualcuno, e questo bastò a fargli contrarre i polmoni quel tanto che serviva per far rifluire l’aria in uno spasimo violento che lo fece tossire.
Mentre intorno a lui si alzavano grida di spavento e di incredulità, dovette fare uno sforzo per non costringersi a fuggire, lasciando quel luogo di stregoneria per dirigersi all’esareme e fare ritorno alla sicurezza di Roma.
Ma quello che stava vedendo era così stupefacente che alla fine ne restò ammaliato, e non poté fare altro che restarsene fermo, insieme ai suoi ufficiali, a contemplare la potenza della stregoneria scatenata dal druido.
I guerrieri che erano stati trapassati da nugoli di frecce e dai giavellotti dei suoi legionari, e che si erano ammassati in grovigli di carne e sangue ai piedi della palizzata difensiva, erano stati raggiunti dai bagliori bluastri scagliati dal druido, e adesso si stavano muovendo. I loro arti avevano ricominciato a muoversi, seppure a scatti, poco coordinati, come se i fluidi vitali che li attraversavano avessero l’energia arcana dei guizzi luminosi scatenati dallo stregone, che avevano preso il posto del sangue nelle loro vene.
«Arcieri, in posizione!» sentì urlare da qualcuno, e comprese che spettava a lui l’onere del comando e di riportare i suoi uomini all’azione, se non volevano soccombere a quella follia.
«Non lasciateli avvicinare!» gridò, sentendosi attraversare da un lampo di rabbia furibonda. Se gli dei credevano di spaventarlo e di fermarlo con così poco, si sbagliavano di grosso. Lui era Gaio Giulio Cesare, e non si sarebbe tirato indietro neppure di fronte ai segni tangibili del potere divino. Anzi, avrebbe fatto di tutto per carpirne i segreti, e sfruttarli a suo vantaggio.
Preso di nuovo dall’energia e dalla determinazione che lo avevano sempre caratterizzato, sbraitò gli ordini ai tribuni, che dopo un istante di incertezza scattarono a farli circolare tra i soldati, combattendo in quel modo la paura per ciò che stava succedendo.
«Usate le frecce incendiarie!» urlò Cesare. «Non lasciate che raggiungano la palizzata!»
Mentre i suoi uomini tornavano in attività, a mano a mano che gli ordini si propagavano e l’orrore che sembrava avere paralizzato tutti si scioglieva nelle urla dei tribuni e dei centurioni, Cesare scrutò quello che avveniva oltre il fossato di difesa, dove centinaia di corpi si stavano rimettendo in piedi, barcollando sulle gambe malferme ma con gli occhi che baluginavano nella notte.
I guerrieri celti stavano tornando alla vita, e questa era la dimostrazione che lui aveva sempre visto giusto. Lanciò un’occhiata al promontorio su cui si trovava il druido, e vide che era tornato immobile, le braccia incrociate sul petto. Quell’uomo conosceva il segreto per fare resuscitare i morti, e lui doveva averlo tutto per sé.
Provò a cercare traccia di Spartaco, ma non era possibile individuarlo, con quel buio. Ma sapeva che poteva fidarsi, e dunque non gli restava che attendere, e nel frattempo provare a fermare quelle creature che tornavano dall’Averno per muovere contro di loro.
Malgrado la stregoneria che li aveva animati, i guerrieri celti si muovevano lenti, e non riuscivano a impugnare le armi. Erano un facile bersaglio per gli arcieri e gli hastati, ma nonostante i dardi che ricevevano, nessuno di loro sembrava volersi fermare. Sbavando come creature infernali, più simili a bestie che a esseri umani, i celti avanzarono, scesero nel fossato e lo attraversarono assorbendo le frecce che piovevano loro addosso come se non li sentissero.
Il panico serpeggiava sugli spalti della palizzata, e Cesare comprese che ben presto, più che i colpi di quei nemici infernali, sarebbe stato il terrore a decimare le fila dei suoi legionari. Doveva fare qualcosa, intervenire con fermezza per fare comprendere a tutti che non dovevano arrendersi, ma dimostrare agli dei che erano degni di combattere e farsi valere. Solo così avrebbero potuto reclamare il segreto della vita eterna.
Si guardò attorno cercando di capire se sarebbe stato possibile allestire alcune delle macchine da guerra più potenti, come la balista a vapore di Archimede, con la quale avrebbe potuto fare a pezzi quei mostri, ma ormai era troppo tardi: tutti i suoi uomini erano impegnati ad arginare il nemico che si faceva sempre più numeroso, a mano a mano che i guizzi di luce bluastra che provenivano dalle mani del druido, scorrevano sulle cataste di corpi trafitti dalle frecce e dai giavellotti.
«Schierate i manipoli!»urlò. «Prepariamoci ad affrontarli in gruppi compatti!»
I tribuni e i centurioni ringhiarono gli ordini, e ben presto Cesare si rese conto che era questo che ci voleva, per i suoi uomini: obbligarli a impegnarsi negli automatismi di battaglia che avevano già provato mille volte, per predisporsi nelle formazioni difensive capaci di respingere qualsiasi nemico.
I guerrieri celti cominciarono a comparire sugli spalti, con i petti nudi ricoperti di sangue, molti di loro con diverse frecce o dardi di balestra conficcati nel corpo. Per scalare la palizzata difensiva si accalcavano l’uno sopra l’altro, calpestandosi a vicenda senza badare ai danni che potevano fare ai loro compagni, che nonostante le ossa rotte si rialzavano e cominciavano a scalare anche loro le pile di corpi, muovendosi con strani movimenti a scatti che non avevano nulla di umano.
Cesare spronò i suoi ufficiali a occuparsi degli uomini, a stare loro addosso perché non rompessero le formazioni, e mandò avanti i manipoli, con gli scudi protesi a formare delle barriere inaccessibili e i pila che sporgevano come aculei.
Quando i primi mostri arrivarono a contatto con le file più avanzate dei legionari, si comportarono nel modo più assurdo che lui avesse mai visto: non cercarono di scansare le picche protese verso di loro, ma anzi vi ci si lanciarono contro, impalandosi e cercando comunque di avanzare, con i pila che penetravano nei loro corpi e uscivano dalla schiena, portandosi dietro pezzi di organi interni, muscoli e sangue.
Di fronte a quell’orrore, e al peso dei corpi trafitti, ben presto gli hastati lasciarono cadere i pila, e le prime file di scudi traballarono, quando chi li reggeva si accorse che non c’era modo di uccidere quelle creature.
Comparvero le spade, che i legionari mulinarono all’impazzata negli spazi ristretti fra uno scudo e l’altro, e il sangue cominciò a sprizzare ovunque, mentre i manipoli arretravano passo dopo passo, incalzati da quei corpi barcollanti che non impugnavano armi ma si limitavano ad avanzare, crollando addosso agli scudi e alle spade protese quasi avessero solo quell’arma a loro disposizione per avere il sopravvento sugli uomini della legione: disarmarli dopo essersi fatti mutilare e trafiggere.
Cesare vide un enorme guerriero celtico avanzare con la schiena protesa all’infuori, piegata a un angolo impossibile. Doveva essere spezzata, ma la creatura usava le braccia per sostenersi, e procedeva come un animale dotato di quattro zampe, sbavando e ringhiando contro i legionari che cercavano di tenerlo a distanza con le spade. Quei soldati erano terrorizzati, e quando uno di loro affondò il gladio nei muscoli possenti di un guerriero nemico, la creatura si dimenò con uno scatto e strappò via la spada dalle mani del legionario. Poi fece un balzo in avanti e rovinò addosso al soldato, mentre i suoi compagni di formazione fuggivano, anziché provare a difenderlo. Prima che il legionario atterrato potesse cercare di difendersi, gli affondò i denti nel collo e strappò via un enorme brandello di carne facendo erompere un getto di sangue. Il soldato boccheggiò e scalciò, ma morì in breve tempo, mentre la creatura continuava a morderlo e a divorarlo.
«Fate serrare i ranghi!» urlò Bruto, sfoderando la spada e dirigendosi verso il punto in cui uno dei manipoli più avanzati stava retrocedendo con troppa fretta, spalancando varchi in cui si insinuavano gli esseri immondi che il druido aveva riportato in vita.
Cesare vide diversi legionari cercare di sottrarsi a quei mostri che diventavano sempre più agili e forti, a mano a mano che passava il tempo, come se il flusso di energia dello stregone stesse ricomponendo i loro organi e la loro muscolatura, rendendoli sempre più pericolosi e aggressivi a ogni istante.
Disperato si guardò attorno, cercando di capire se poteva fare intervenire la cavalleria di Publio, seppure negli spazi angusti del castrum, dove i cavalli non avrebbero potuto muoversi agevolmente.
In quel momento vide Bruto lanciarsi contro uno dei mostri che procedevano trascinandosi dietro una gamba spezzata. Lo colpì con la spada a un braccio, staccandoglielo di netto, poi, dato che la creatura non cessava di avanzare, roteò su se stesso, impresse al gladio tutta la forza che poteva mettere nella mezza parabola d’attacco e lo colpì alla testa. Il guerriero celtico, o almeno ciò che restava di un uomo che un tempo doveva essere stato un combattente feroce, assorbì l’impatto con la tempia, e parte della testa si staccò, lasciando colare un fluido nero che sfrigolò a contatto con le spalle nude del mostro.
Bruto, seppure sconvolto, si preparò a infliggere un secondo colpo, ma la creatura si piegò di lato e crollò al suolo, inerte. Le sferrò un calcio, ma quella non si mosse.
«Alla testa!» gridò Cesare quando comprese quello che era successo. «Colpiteli alla testa!»
L’ordine viaggiò veloce fra le truppe. Ben presto i legionari cercarono di colpire i mostri che avanzavano non più al petto o alle gambe, ma alla testa, sfondando crani e conficcando la punta delle spade e dei pila direttamente nelle orbite di quelle creature.
«Fate mirare alla testa!» urlò Cesare ai tribuni che comandavano gli arcieri e i balestrieri, ancora indaffarati a riempire inutilmente di dardi i corpi dei nemici.
Gli sbandieratori diffusero il suo ordine, e ben presto le frecce cercarono di colpire i celti con lanci mirati.
All’inizio non accadde nulla, perché non era facile colpire quelle creature che avanzavano sbavando e barcollando sulle gambe malferme, ma poi, quando tutti si resero conto che, una volta centrate alla testa, crollavano a terra senza vita, l’entusiasmo percorse gli spalti come uno di quei lampi di luce che il druido stava facendo guizzare nella notte.
Mentre l’eccitazione cresceva, a mano a mano che anche i colpi con le spade e i pila si facevano più precisi e i guerrieri nemici tornavano ad accatastarsi sul terreno in montagne di corpi esanimi, Cesare dilatò le narici e si trattenne a stento dalla voglia di ululare alla luna.
Vi ho battuti ancora! urlò dentro di sé, sapendo che gli dei avrebbero sentito la sua voce, ovunque si trovassero. E adesso verrò a cercarvi!
Sentendosi affamato, con il desiderio di azzannare qualcuna di quelle creature per gustare il sapore del sangue, guardò in direzione dello stregone nemico, per fargli capire che stava per scoccare la sua ora.
Tutto l’entusiasmo lo abbandonò, quando si accorse che sul promontorio roccioso al centro della valle non c’era più nessuno.
Il druido era scomparso.
Spartaco correva tenendosi basso tra la folta vegetazione del sottobosco. Per risultare più silenzioso si era sbarazzato dei calzari, dopo che si erano imbattuti in un gruppo di celti che li aveva sentiti arrivare e li aveva accolti con le spade sguainate. Avevano combattuto rapidi ed efficienti, ma quando uno dei guerrieri nemici aveva cominciato a urlare, richiamando rinforzi, lui aveva fatto un cenno a Severo e Nemerio e li aveva abbandonati. I due legionari avrebbero trattenuto il nemico anche a costo di morire, garantendogli di poter continuare la missione.
Adesso, solo nel silenzio del bosco, Spartaco procedeva ignorando il dolore provocato dalle grosse spine degli arbusti che gli si conficcavano nei piedi. Aveva fatto un giro largo, per non correre il rischio di imbattersi in qualche altra pattuglia di celti, ma in questo modo aveva perso tempo prezioso. Le grida della battaglia si erano affievolite, un po’ per la distanza un po’ perché la vegetazione impediva ai rumori di propagarsi. Un bene, tutto sommato, per lui, che non voleva attirare l’attenzione di altri nemici.
Corse mantenendosi basso, fino a quando non comprese che il bosco stava per sfociare nella valle su cui guardava il castrum: gli alberi erano sempre più distanti l’uno dall’altro. E per fortuna quei maledetti cespugli spinosi avevano lasciato il posto ad arbusti più sottili e delicati, che sprigionavano un forte odore capace di irritargli le narici.
Quando finalmente sbucò in campo aperto, si abbassò ancora di più sulle gambe, cercando di restare nascosto nell’erba alta. Sapeva che il rilievo su cui era appostato lo stregone non doveva essere troppo lontano, e dunque doveva fare estrema attenzione, perché era probabile che quello avesse degli uomini di scorta appostati ovunque lì attorno. Se avesse comandato lui il manipolo incaricato di proteggere la sicurezza del druido, avrebbe disposto gli uomini su due cerchi abbastanza stretti fra loro, a distanza di venti e trenta passi, non di più. Ma non sapeva come ragionava quella gente, e dunque dove aspettarsi di tutto.
Mentre correva sforzandosi di fare meno rumore possibile, cercava anche di orientarsi. Aveva sollevato la testa un paio di volte, per capire dove fosse il druido, e dopo che lo aveva individuato procedeva tenendo come punto di riferimento alcuni grandi alberi che sorgevano a ridosso del rilievo su cui l’uomo si trovava. Non aveva visto soldati di guardia, e questo lo preoccupò: sapeva che era un male non avere idea di dove fosse schierato il nemico, e lui non dubitava che ci fossero dei guerrieri celti appostati da qualche parte, per proteggere il loro capo.
Si accucciò un attimo fra l’erba, e respirò a pieni polmoni. Si era stancato prima di quanto aveva immaginato, e questo lo faceva imbestialire. Il suo corpo non rispondeva più con la forza e l’agilità che l’avevano sempre contraddistinto durante le sue sfide vittoriose nelle arene di Roma. Quando gli sembrò che il cuore avesse rallentato la corsa nel petto, riprese a muoversi, questa volta con più prudenza, pronto a uccidere chiunque si fosse frapposto al suo cammino. Cesare gli aveva dato un incarico di fondamentale importanza, lo sapeva bene, e lui non lo avrebbe deluso.
Stava ancora pensando a questo, quando all’improvviso la notte si illuminò. Dei bagliori bluastri si diffusero nella tenebra sopra di lui, provenendo dalla stessa direzione in cui credeva si trovasse il druido.
Approfittando del rumore che quei fulmini producevano a contatto con l’aria, sfrigolando e fischiando come acqua sul fuoco, Spartaco aumentò l’andatura, finché all’improvviso si ritrovò in un corridoio libero che era stato ricavato fra la vegetazione, tagliando l’erba alla base e lasciando che formasse un tappeto sotto i piedi. Un corridoio difensivo!
I suoi sensi scattarono subito, facendogli assumere una posizione di difesa prima ancora di vedere il nemico. Due guardie celtiche arrivarono di corsa da fronti diversi, ringhiando come tori alla carica. Diversamente dagli altri che aveva visto fino a quel momento, non erano a torso nudo, ma indossavano delle pellicce scure tenute insieme da strisce di cuoio, e sulla testa avevano copricapi fatti con crani di bestie che assomigliavano a lupi, o a orsi. Erano armati ciascuno con una spada e un’ascia, e non avevano l’aspetto di guerrieri poco abituati a combattere.
Ma lui era Spartaco, il più grande gladiatore che Roma avesse mai conosciuto. E, nonostante l’età, sapeva come sfruttare l’esperienza per supplire alla forza e all’agilità che si erano deteriorate con il tempo.
Restò immobile, a gambe flesse, un piede ben piantato in avanti e l’altro più indietro, pronto a imprimere il corretto movimento di rotazione, quando il primo dei due celti si fosse fatto sotto. Vide con la coda dell’occhio che il più vicino e il più veloce era quello sulla sinistra, così attese che fosse a portata di spada, con l’ascia già sollevata per colpire, prima di far scattare i muscoli e permettere all’istinto del combattente di fare il resto.
Si piegò di lato mentre l’arma del nemico gli fischiava sopra la testa, poi ruotò sul tallone avanzato, allargò il braccio che impugnava la daga e lo portò a fermare l’affondo del suo avversario. Con il braccio libero, che impugnava un coltello dalla lama lunga e molto affilata, compì un’incursione nel cerchio vitale del guerriero celtico e portò un unico, poderoso colpo che aprì uno squarcio nella pelliccia e nella carne del suo rivale.
Poi, senza nemmeno verificare quali effetti avesse prodotto, tornò in equilibrio su entrambe le gambe e si buttò in avanti, contro il nuovo avversario che arrivava al massimo della velocità e che non si aspettava che lui gli andasse incontro.
L’uomo non riuscì a frenare l’impeto della corsa e sferrò un affondo con la spada cercando di prenderlo al volto, prima di piantare i piedi nel terreno per fermarsi. Il colpo andò a vuoto, perché Spartaco l’aveva intuito e si era già portato fuori dalla traiettoria del suo avversario. Mentre l’aria sfrigolava tutto intorno a loro, e cascate di scintille piovevano dal cielo, decise che non poteva più perdere tempo e doveva dedicarsi al druido, perché qualche maleficio si stava compiendo e lui non voleva che questo si traducesse in un vantaggio per lo stregone.
Fece ruotare in aria il pugnale, lo afferrò per la punta e lo scagliò con forza e precisione contro il petto del guerriero celtico, che nel frattempo era riuscito a fermarsi e si stava voltando verso di lui. L’arma affondò fino al manico nel ventre dell’uomo, forse un po’ più in basso rispetto a dove il gladiatore avrebbe voluto colpirlo, ma comunque con abbastanza forza da togliere il fiato al suo avversario, che si bloccò sorpreso, portandosi le mani là dove una spanna abbondante di lama di ferro gli era entrata nelle carni.
Spartaco sapeva che non sarebbe morto subito, ma se ne disinteressò, perché con una ferita simile il guerriero non avrebbe più potuto cercare di fermarlo. Tornò a dirigersi verso il promontorio su cui c’era il druido e da cui partivano i fulmini bluastri che stavano incendiando la notte, e si augurò che non ci fossero altri guerrieri a difesa dello stregone.
Si tenne nascosto dietro agli arbusti e agli alberi che crescevano fra le rocce, e con i muscoli delle cosce che gli bruciavano per lo sforzo arrivò finalmente sulla cima del rilievo.
Individuò subito il druido, che gli stava dando le spalle mentre muoveva le mani per disegnare simboli arcani nell’aria, sprigionando quei lampi capaci di illuminare a giorno la notte. Spartaco restò un attimo a riprendere fiato, respirando con la bocca aperta e guardandosi attorno per capire se ci fossero altri uomini di scorta allo stregone, ma lo spazio fra loro due sembrava libero, e nei dintorni non c’era nessuno. Per fortuna quella luce, che attraversava tutte le sfumature dell’azzurro e del blu, rischiarava molto bene la sommità della collina, consentendogli di scorgere chiaramente in ogni direzione.
Quando finalmente il movimento affannoso dei polmoni rallentò, Spartaco strinse con forza la spada e poi scattò in avanti. Percorse i venti passi che lo separavano dal druido tenendosi piegato in avanti, per esporsi il meno possibile, poi quando lo raggiunse non perse tempo a chiedersi quale stregoneria quell’uomo avrebbe potuto scatenare contro di lui, se si fosse accorto della sua presenza, ma agì con l’istinto e la forza che lo avevano caratterizzato in tanti anni di combattimenti all’ultimo sangue. Rotolò per terra e raggiunse le gambe del druido, che sferzò con un calcio possente, all’altezza del ginocchio.
Lo stregone crollò con un grido che più di dolore era di sorpresa, e Spartaco lo colpì in faccia con il gomito. L’uomo svenne, mentre un fiotto di sangue gli sgorgava dalle narici, allora lo afferrò, se lo caricò in spalla e corse via, prendendo una direzione diversa da quella da cui era arrivato, ma dirigendosi ancora verso la foresta, per raggiungere i suoi uomini che lo stavano aspettando dove convenuto. Sempre ammesso che fossero ancora vivi.
Spartaco grugnì, un po’ per la fatica di sostenere quel corpo imponente e più pesante del previsto, un po’ per il pensiero di trovare altri guerrieri nemici ad attenderlo, anziché Severo e Nemerio.
Scrollò la testa con un ringhio di rabbia e aumentò l’andatura, sentendo che il cuore gli martellava a un ritmo impossibile. Non importava: lui non si sarebbe fermato, se non quando gli si fosse squarciato nel petto.
Mentre la notte intorno a lui tornava a premere nera come pece, Spartaco strinse i denti e continuò a correre. Cesare aveva bisogno di lui, e per niente al mondo lo avrebbe deluso.
Quando lo vide arrivare, Gaio era ancora sconvolto da ciò che aveva visto. Erano riusciti a fermare l’avanzata delle creature, e a farle morire definitivamente colpendole alla testa ma, adesso che l’orrore sembrava finito, dentro di lui si agitava soprattutto un sentimento di meraviglia e di curioso stupore.
Si aggirò per qualche tempo fra i corpi dei celti, da cui spuntavano i legni delle frecce e dei dardi con cui erano stati crivellati, ed esaminò le ferite, gli arti spezzati, i ventri squarciati da cui fuoriuscivano le interiora e gli organi interni. Nonostante i colpi ricevuti, quegli uomini avevano continuato a muoversi, a spingersi in avanti per aggredire i suoi legionari e morderli, come bestie assetate di sangue. Erano caduti oltre cinquanta dei suoi più valenti guerrieri, mezzo divorati da quei mostri che il druido aveva trasformato in cannibali immortali.
No, si disse, non immortali. Avevano un punto debole, che come il tallone di Achille consentiva di ucciderli: la testa. Ma certo il fenomeno a cui avevano assistito era qualcosa che mai, prima di allora, un romano aveva visto, né avrebbe potuto immaginare. Che cos’erano quelle creature? Quale prodigio le aveva riportate in vita?
Stava pensando a questo quando udì delle grida. Uno dei portoni laterali del castrum venne aperto, e Spartaco corse dentro portando in spalla qualcosa. Nonostante lo scorgesse appena nella notte, che era tornata densa come inchiostro di seppia, Cesare comprese subito che il gladiatore era riuscito nella sua missione. Aveva catturato il druido, e anche se era solo, senza i due legionari che lo avevano accompagnato e che dovevano essere stati uccisi, adesso gli stava portando quello che lui gli aveva chiesto.
Spartaco lo individuò, lo raggiunse e scaricò a terra il suo fardello. Poi, con fatica, respirando a bocca aperta, disse: «Come mi avevi ordinato, Cesare».
Gaio osservò il druido sdraiato a terra, il volto ricoperto da una maschera di sangue, e riuscì a trattenere a stento l’eccitazione. Quell’uomo gli avrebbe rivelato tutti i suoi segreti, e presto avrebbero saputo dove si trovavano gli dei che possedevano il fluido della vita eterna. Un fluido che forse aveva le sembianze di quella luce azzurra che aveva bruciato la notte per correre a infondere la vita ai guerrieri caduti sotto il tiro delle loro frecce.
«Sei stato bravo» mormorò a Spartaco posandogli una mano sulla spalla. «Non ho mai dubitato che ci saresti riuscito. Adesso lascialo a me e vai a riposarti.»
Spartaco si batté il braccio sul petto, poi si allontanò barcollando. Doveva avere fatto uno sforzo tremendo per portare a compimento la sua missione, ma Cesare sapeva che si sarebbe ripreso presto.
Adesso, tutta la sua attenzione doveva essere rivolta al druido che aveva ai suoi piedi.
«Portatelo nel praetorium» ordinò ad alcuni tribuni. «Curatelo come meglio potete, ma poi legatelo bene, denudatelo e copritegli gli occhi con una benda. Quando sarà pronto, avvertitemi.»
Mentre portavano via l’uomo, Cesare cercò di tenere a freno l’eccitazione. Guardò Bruto, Cicerone e gli altri che lo scrutavano poco lontano, e annuì sorridendo come un bambino felice.
Ci siamo, avrebbe voluto gridare. Fra poco il segreto della vita eterna sarà nostro!