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Colonne d’Ercole
41 a.C. – 712 ab Urbe condita
Oltre quei due sgraziati promontori, che convergevano l’uno verso l’altro come i pugni di un gigante addormentato sotto le acque posto a guardia del placido Mare Nostrum, si allargavano le propaggini di un mondo sconosciuto, fatto di miglia e miglia di un oceano infido e feroce che si allungava fino ai confini di ciò che il pensiero umano riusciva a immaginare.
Gaio Giulio Cesare aveva già attraversato in passato le Colonne d’Ercole, e si era già fatto attrarre dalle sirene della curiosità, ma non era un navigatore, un esploratore avvezzo ad affrontare acque sconosciute per allargare gli orizzonti del sapere. Con le sue flotte aveva sempre costeggiato la terra iberica, lasciando che il mare cupo e misterioso che si estendeva verso ovest brontolasse le sue minacce invano, senza colpirlo con la forza degli dei che avrebbe potuto annientarlo.
Quello, probabilmente, era il regno di Nettuno cantato nei poemi più antichi, e le pur magnifiche navi romane sembravano granelli di polvere che galleggiavano precariamente sulla cima delle onde che il dio dei mari poteva far sollevare fino al cielo, per sommergerli tutti.
Mentre osservava lo stretto passaggio che fin dall’antichità era stato contrassegnato dal mito di Ercole, Cesare pensò che per lui non c’era niente di più stimolante e di mortificante insieme del sapere che il mondo si estendeva all’infinito davanti alla prua delle sue navi, senza che potesse capire fin dove arrivava, e quali altre terre, misteri, ricchezze e popolazioni sconosciute custodisse al di là dell’orizzonte a cui potevano giungere i suoi occhi.
Del resto, anche il possente Ercole si era fermato ai piedi dei monti Abila e Calpe, impossibilitato ad andare oltre quel confine tra il mondo degli uomini e quello degli dei, ed era stato lui a costruire le colonne sulle quali aveva inciso le parole che ammonivano i mortali a non procedere oltre. Non plus ultra, era il monito del dio che aveva conquistato l’immortalità combattendo, e Cesare era ben propenso a credere che davvero quello fosse il limite al mondo conosciuto e alla sapienza che gli dei concedevano ai mortali.
Ma lui sentiva l’esigenza di andare oltre. Di sfidare persino il grande Ercole per superare le sue gesta, dimostrando agli dei che non solo la forza, ma anche l’intelligenza, l’astuzia e il coraggio, potevano consegnare a un mortale il diritto di sedere al loro tavolo.
«Ti aspetti di trovare Atlantide?» gli chiese Calpurnia stringendosi al suo braccio, avvolta in una calda coperta per difendersi dal vento gelido che arrivava da oltre lo stretto, come l’alito ghiacciato di qualche demone marino agli ordini di Nettuno.
Gaio le sorrise. «No. Anche perché secondo Platone è affondata negli abissi per mai più risorgere. Non mi interessano i tesori sepolti, ma le ricchezze su cui potremo mettere le mani.»
Calpurnia scosse piano la testa.
«A Roma avevi tutta la ricchezza di cui potevi disporre, e molta di più.»
«Ma dovevo contenderla ogni giorno con chi cercava di appropriarsene alle mie spalle.»
«O forse, più semplicemente, era troppo comoda.»
Cesare guardò la moglie, e comprese di essere felice di averla accanto. In passato l’aveva trascurata, forse pensando che fosse più interessata al potere, che alla comunione con lui, ma adesso aveva la conferma che non si era sbagliato quando aveva deciso di sposarla: era la donna schiva e taciturna, eppure in grande sintonia con lui, che gli aveva trasmesso brividi a fior di pelle quando si erano conosciuti, e che ancora sapeva divertirsi in modo spregiudicato nella loro intimità, coinvolgendolo quando si rendeva conto che poteva farlo, e lasciandolo in pace quando lui aveva bisogno di restare solo con se stesso. O magari con qualche altra matrona romana che non sapeva resistere alle sue lusinghe.
Anche quella notte Calpurnia aveva agito con l’incredibile capacità di leggere nella sua anima e nel suo cuore, per capire quello che più gli aggradava.
«Ti vedo in forma, oggi» le disse abbracciandola stretta. «Le evoluzioni che ti ho visto fare con Cretica devono avere giovato non solo al tuo spirito, ma anche al tuo corpo.»
Calpurnia sospirò, scrutando il mare davanti a sé.
«Tu mi conosci bene, sai che c’è qualcosa di selvaggio dentro di me, anche se non lo faccio mai vedere. E quella donna ha saputo stimolarmi con impeto sorprendente.»
«Puoi ben dirlo!» rise Cesare, che ricordava il modo in cui Cretica si era avvicinata a Calpurnia, quando lui l’aveva portata nelle loro stanze, e senza dire una parola l’aveva annusata e leccata sul collo, sulle braccia e sulle gambe, prima di strapparle letteralmente i vestiti di dosso per abbeverarsi della sua intimità.
«Sai cosa mi ha colpito più di tutto, di lei?» continuò la moglie allargando a sua volta un sorriso divertito.
Gaio pensò che era ancora più bella, quando rideva.
«Quel magnifico corpo che è comparso quando si è tolta gli stracci puzzolenti che indossava?» le chiese.
Lei gli diede un cazzotto su una spalla.
«Ma no, questo è l’effetto che ha fatto su di te! Ce ne siamo accorte, sai?»
«Che cosa, allora?»
«Lo sguardo pieno di meraviglia mentre mi annusava.»
Cesare inclinò la testa, sorpreso.
«Che vuoi dire?»
Calpurnia sollevò il viso per guardarlo.
«Era come una bambina curiosa che all’improvviso si fosse trovata davanti un baule pieno di giocattoli. O come te, Cesare, quando poco fa contemplavi lo stretto fra le Colonne d’Ercole.»
«Ma voi avete fatto all’amore. Io dubito che mai riuscirò a possedere ciò che si trova ai confini del mondo.»
«Però è quello che desideri» lo incalzò lei, e Cesare si rese conto che aveva ragione. «È quello per cui siamo qui. È quello che ti affascina e ti rapisce il cuore e la mente.»
Calpurnia si sollevò sulla punta dei piedi e gli parlò a bassa voce, direttamente nelle orecchie, anche se nessuno avrebbe potuto sentirli, là fuori, negli sbuffi del vento salmastro che vorticava ovunque.
«Ho visto com’era eccitata. Ha annusato il profumo della mia pelle sul collo e sul seno, è scesa sul ventre e poi tra le mie cosce, e quando ha immerso la lingua dentro di me ho avuto l’impressione che stesse gustando un nettare prezioso. Per lei era qualcosa di nuovo e di imprevedibile, eppure a Roma... quante volte ci siamo annoiati con questi giochi tra uomini e donne? Non importa ciò che fai, ma come e con chi. E in quale circostanza. È questo che rende la vita ogni giorno eguale a se stessa eppure diversa.»
Cesare annuì, piano, guardando il passaggio fra le Colonne d’Ercole che si avvicinava.
«Hai ragione» ammise alla fine. «Anch’io voglio assaggiare questo nettare, ovunque potremo affondare la lingua per raccoglierlo. E anche se non so dove, quando e con chi, non posso negare che l’eccitazione che mi provoca questo pensiero è proprio ciò che mi ha convinto a lasciare Roma.»
«Lo so bene!» rise Calpurnia. «Per questo sono qui. Non avrai pensato di divertirti senza di me, vero?»
«No» la rassicurò lui, sentendo che sua moglie lo avrebbe capito fino in fondo. «Anche nella morte, io e te sapremo cogliere il nettare che gli dei prepareranno per noi.»
«E se loro non ci consentiranno di divertirci... pazienza. Useremo Cretica per consolarci... Che ne dici?»
Risero insieme per un po’, poi Cesare tornò a contemplare le Colonne d’Ercole stringendo a sé la moglie, per abbeverarsi del suo calore.
Non sapeva che cosa avrebbero trovato, dall’altra parte, ma era chiaro che non vi avrebbe rinunciato per nulla al mondo, anche se si fosse trattato, semplicemente, di andare incontro alla morte.
Già da qualche ora il mare si era ingrossato, e Cicerone osservava la notte punteggiata di stelle cercando qualche segno da parte degli dei. Non era mai stato superstizioso, ma non era mai neppure stato oltre le Colonne d’Ercole, e l’idea di quella distesa infinita d’acqua, che arrivava fin dove si poteva spingere lo sguardo, lo intimoriva.
«Oggi c’è la luna nuova» commentò Bruto al suo fianco. «Non saprei dire se è di buon auspicio o l’esatto contrario.»
«L’avevo già capito che sai leggere nella mente delle persone» sbuffò Cicerone accigliato.
Bruto sorrise. «No, però la tua espressione era evidente. E in questo momento credo che ci siano almeno altre cinquemila persone, a bordo della nostra flotta, che stanno cercando di capire che cosa passi per la testa degli dei del mare e del vento.»
«E non solo di quelli» grugnì Cicerone, stringendosi nel mantello militare che si era gettato sulle spalle quando aveva deciso di uscire per controllare la situazione. Aveva trovato Bruto già in piedi sul castello di comando, con le mani avvinghiate alla balaustra, che contemplava il furore cupo del mare ingrossato.
«Forse dovremmo raggiungere la costa e cercare riparo» disse Bruto sollevando il viso al cielo quando si avvertì nitido lo schiocco di grosse gocce d’acqua che cadevano sul ponte e sulle loro teste. «Non mi sembra una buona idea viaggiare di notte in queste condizioni.»
Cicerone trattenne un’imprecazione. Ormai anche il cielo aveva assunto la stessa consistenza plumbea del mare, adesso che enormi nuvole nere si erano ammassate sopra di loro nel tempo di un battito di ciglia. Il vento fischiava e ruggiva sempre più forte, ed era chiaro che stavano andando incontro a una tempesta.
«Non sono un marinaio» affermò, «però ho sentito dire che, se non si trova adeguato riparo, le tempeste è meglio affrontarle in mare. È più facile controllare le navi ed evitare che subiscano danni.»
Bruto si voltò a guardarlo. «Non so dove tu abbia sentito una cosa simile, ma a me pare una sciocchezza.»
«Potremmo chiedere a quel pirata, il nostro praefectus cohortis. Lui dovrebbe sapere che cosa è meglio fare in queste situazioni.»
«Ti fidi di lui?» gli chiese Bruto.
«Come tu di quelle nuvole cariche di tempesta.»
Bruto sembrò sorpreso.
«Allora perché non ti sei opposto alla decisione di Cesare?»
«Perché non è sbagliata. E al suo posto probabilmente avrei agito nello stesso modo.»
«Confesso che non è facile seguirti.»
Cicerone mosse una mano nella pioggia, che adesso stava rinforzando.
«La sua esperienza potrà servirci, almeno quanto le sue navi dipinte di nero. Il che non significa che mi fidi di lui. Dovremo tenerlo d’occhio, ma credo che anche Cesare lo farà.»
Bruto alzò ancora gli occhi al cielo, si mise il cappuccio del mantello sulla testa e fece segno di tornare sottocoperta.
«Fra un po’ qui diluvierà» disse. «Non so come reagirà questa nave alla tempesta, ma fra tutte quelle della flotta mi sembra la più sicura.»
«Sempre ammesso che non esca qualche mostro marino dagli abissi» brontolò Cicerone seguendolo al coperto. «A quel punto credo che vorrebbe il boccone più grosso, e quello siamo noi.»
Una volta scesi di sotto, si tolsero i mantelli e seguirono il corridoio che portava alla sala di comando, dove c’era sempre un grande braciere acceso e del vino a disposizione. La nave ebbe un paio di forti scossoni, e Cicerone dovette reggersi a una parete per non cadere.
«Sta peggiorando come temevo» mormorò, mentre barcollando seguiva Bruto nella sala di comando. Lì trovarono Cesare, in compagnia di Decimo e di Cleone, che per qualche strano motivo non era a bordo di una delle sue navi che il dittatore voleva sempre in avanscoperta. Se ne stavano chini sul tavolo che i mastri carpentieri avevano ancorato al centro della sala, e studiavano delle pergamene che Cicerone credeva di avere già visto.
«Stiamo cercando un posto in cui fermarci per metterci al riparo» li ragguagliò Cesare quando li vide comparire, «ma non sarà facile.»
«Qui potrebbero esserci un paio di insenature abbastanza grandi» disse Cleone puntando il dito su una pergamena che aveva dei disegni pennellati sopra. «Dovremo dividere la flotta, e forse metterci al riparo sarà meno agevole di quello che mi è sembrato, ma almeno non affronteremo la tempesta.»
«Le nostre navi non temono onde alte venti braccia» protestò Decimo. «Trovo assurdo rischiare di mandarle a schiantarsi contro gli scogli per una piccola mareggiata.»
A smentire subito le sue parole qualcosa colpì con un boato lo scafo dell’esareme, che vibrò e si piegò vistosamente di lato, costringendoli tutti ad aggrapparsi al tavolo per non cadere.
«Mi sembra qualcosa di più di una semplice mareggiata» brontolò Bruto.
In quel momento un tuono dilaniò la notte, schiantandosi così vicino a loro che Cicerone ebbe l’impressione che il frastuono gli rimbombasse direttamente nel cranio.
«Forse dovremo sacrificare a Nettuno» propose Decimo. «Sarà adirato perché abbiamo invaso le sue acque, ma come tutti gli dei può essere ammansito versando un po’ di sangue.»
«Occupatene tu» annuì Cesare abbandonando il tavolo di comando e dirigendosi verso la scaletta che conduceva all’esterno, nella parte più alta del castello di prora. «Non cercheremo di raggiungere la costa, ma resteremo in mare. Lo reputo più sicuro.»
Nessuno ebbe nulla da ribattere, nemmeno Cleone, anche se la sua espressione dava a intendere che cosa ne pensasse, di quella decisione.
Cicerone esitò solo un istante, lanciando un’occhiata a Bruto, che però non sembrava intenzionato a muoversi da lì, quindi afferrò il mantello e seguì Cesare verso il ponte di comando.
Una volta fuori, si rese conto che Nettuno doveva essere davvero furibondo con loro, per avere messo in scena quello spettacolo terrificante insieme a Eolo, il dio dei venti, e a Tartaro, la cupa divinità degli abissi.
Cercò Cesare nella pioggia fitta e nell’oscurità assoluta, ma non lo vide da nessuna parte. Stava per portarsi le mani attorno alla bocca per chiamarlo, quando un altro lampo lacerò la notte, e poté finalmente scorgerlo. Era poco lontano da lui, in piedi, le braccia sollevate e un’espressione folle sul volto, mentre una risata gli sfuggiva dal petto, così acuta che in un primo momento Cicerone l’aveva confusa con il fischio lugubre del vento.
«Noi siamo qui!» lo sentì urlare. «Piccoli uomini al vostro cospetto! Uccideteci tutti, subito, oppure lasciateci credere che sia possibile sfidarvi sul vostro stesso terreno!»
Un altro lampo si abbatté così vicino alla nave che Cicerone fu costretto a chiudere gli occhi per non restarne accecato, e quando li riaprì si accorse che Cesare era scomparso. Per un istante pensò che fosse caduto in mare, forse agguantato da uno degli dei che aveva avuto l’ardire di sfidare così impunemente. Ma poi si rese conto che dentro di lui non c’erano rabbia o disgusto per quello che aveva visto fare al suo comandante, ma anzi una possente eccitazione, e si disse che in fondo Gaio aveva ragione.
Se erano lì era perché avevano deciso di conquistare il tesoro più ambito da ogni essere umano. Un tesoro che apparteneva agli dei del mare, della terra e dell’aria, e loro non potevano certo arrendersi al primo ostacolo, mostrarsi codardi e rinunciatari proprio adesso che la loro avventura era cominciata.
Mentre la pioggia gli scrosciava addosso impetuosa, Cicerone allargò un sorriso e sollevò a sua volta le braccia verso il cielo, a imitazione di quanto aveva visto fare a Cesare.
«Noi siamo qui!» ripeté a gran voce, sentendo finalmente che ogni dubbio si dissipava dentro di lui, asciugato dal fuoco della comprensione. «E non vi deluderemo!»
Prima di tornare sottocoperta, Cesare aveva colto un movimento alle sue spalle, un’ombra nella pioggia sempre più fitta e gelata, e si era fermato a guardare. Per qualche istante non aveva visto nessuno, poi la luce di un lampo lontano aveva messo in rilievo una figura poco distante da lui. Era Cicerone, e affrontava gli dei con lo stesso piglio con cui lui lo aveva fatto poco prima.
Cesare sorrise, si leccò la pioggia dalle labbra e scese di sotto, intenzionato a ordinare a Decimo di non sacrificare niente, quella notte. Gli dei si sarebbero acquietati presto, questo lo sapeva, perché non c’era niente che li incuriosisse di più della follia e della presunzione umana.
Adesso che anche Cicerone era stato contagiato dalla stessa malattia che scorreva nelle sue vene, nessuno avrebbe potuto mettere in dubbio che la loro spedizione era destinata ad arrivare presto al confronto finale con le divinità superiori.
E lui, Gaio Giulio Cesare, avrebbe vinto anche questa volta.
La tempesta era durata più del previsto. Cicerone sentiva di provare un po’ di vergogna per quello che aveva fatto: si era lasciato trascinare dall’irrazionalità di un comportamento, quello di Cesare, che aveva esaltato la sua anima ribelle, l’impulso a schierarsi contro chiunque, in cielo o in terra, si arrogasse il diritto di dettare leggi universali che si rifacevano ai suoi bisogni, alla sua avidità personale.
Era per questo che aveva sempre combattuto per la Repubblica e aveva osteggiato chiunque, come lo stesso Cesare, avesse cercato di proporre la dittatura delle proprie idee, e il culto della propria persona.
Ed era per questo che nella notte si era sentito attraversare da un afflato di energia primitiva che lo aveva spinto a imitare Cesare in quella volgare manifestazione di sfida agli dei. Una sfida che forse Nettuno non aveva nemmeno notato, e che pure aveva portato le divinità dell’acqua, dell’aria e delle tempeste a flagellare la flotta per tutta la notte e per buona parte del giorno dopo, fino a quando finalmente, con gli equipaggi stremati e molte navi ormai andate disperse nella possanza dei marosi, il sole era tornato a farsi largo tra le nubi che diradavano.
Durante quella notte difficile, Cicerone era rimasto chiuso nel suo cubiculum, sballottato da una parte all’altra dall’ira delle onde che si schiantavano contro la nave, e più di una volta era stato costretto a piegarsi sul pavimento per rimettere quel poco che gli sciaguattava nello stomaco, mentre in bocca gli salivano sostanze capaci di bruciargli il palato.
Sapeva che quello era lo scotto da pagare quando si affrontavano mari sconosciuti, che ben più del placido Mare Nostrum avevano distese d’acqua così sconfinate da alimentare onde alte venti uomini, e dove il vento era una furia alata che cercava di distruggere qualsiasi cosa si frapponesse al suo cammino.
Decimo aveva dimostrato la sua competenza come praefectus classis, ordinando che le navi della flotta non stessero troppo vicine tra loro, e questo probabilmente ne aveva salvate molte dallo schianto dei reciproci scafi, che comunque erano avvenuti in un paio di occasioni, come avevano poi riferito gli sbandieratori una volta che, placata la tempesta, la flotta si era ricomposta.
All’appello mancavano sette navi: due actuariae da ricognizione, imbarcazioni così fragili da essere rimasti subito in balia dei mostri di schiuma del mare, ciascuna con trenta uomini di equipaggio, e poi una trireme, comandata dal giovane Fulvio Marcio, che Cicerone aveva avuto fra i suoi allievi a Roma, e che aveva a bordo ben centosessanta vogatori e quaranta legionari; ma soprattutto quattro naves onerariae, le pesanti e lente navi da carico che trasportavano cavalli, le salmerie e tutto ciò che serviva per la costruzione degli accampamenti, oltre a quaranta uomini d’equipaggio ciascuna.
Il bilancio in vite umane alla fine era più terribile di quanto Cicerone avesse immaginato: quattrocentoventi uomini erano scomparsi tra i flutti e, come primo pegno per la sete di sangue degli dei di quei mari, gli sembrava fin troppo gravoso.
«La perdita delle navi onerarie è grave» ammise Cesare rivolgendosi al nuovo Consiglio di comando che era stato convocato. «Così come quella di tanti uomini della legione.»
Cicerone non disse nulla, limitandosi a fissarlo per cercare di capire che cosa gli passasse davvero per la testa. Non avevano sacrificato agli dei, e anzi si erano presi gioco di loro, e quella era la prima risposta che avevano ricevuto alla loro arroganza.
«Dobbiamo approdare e cercare di costruire altre navi» affermò Casca. «Ormai siamo in prossimità di coste poco abitate, a nord dei territori dei Bracari, se le carte non mentono. Non dovremmo avere difficoltà a trovare un buon posto dove mettere al sicuro la flotta e allestire un castrum.»
«Perderemmo solo tempo!» intervenne Cassio Longino con rabbia. «Siamo ancora molto lontani dalla Britannia e dai territori da conquistare. Se ci fermiamo dovremo passare qui l’inverno.»
«Perché hai tutta questa fretta?» gli chiese Bruto fissandolo accigliato. «Non stiamo andando a fare bottino per tornarcene a Roma a ostentarlo. Stiamo cercando la gloria, e per farlo dobbiamo essere in forze, perché non sappiamo che cosa ci aspetta nelle lande del Nord.»
«Io ci sono stato» rivelò Publio Crasso, «e so come combattono i celti. Non possiamo rischiare di farci sottomettere da quelle tribù di selvaggi. La legione dev’essere nel pieno dell’efficienza.»
«Ma nemmeno possiamo fermarci alla prima difficoltà!» protestò Decimo, che sembrava schierato sulla stessa posizione di Cassio.
La battaglia verbale si fece più aspra, finché Cesare non alzò le mani e le sbatté con forza sul tavolo, facendo trasalire tutti.
Cicerone, che aveva atteso quel momento, trattenne una risata. Alla fine, come sempre, era Gaio Giulio Cesare che prendeva l’ultima parola e decideva il loro destino.
«Avete ragione. Tutti voi» esordì il dittatore dando alla sua voce quel timbro profondo e pacato che aveva il potere di zittire ogni contraddittorio, perché sembrava originare direttamente da un consulto che lui aveva avuto con gli dei. «Dovremmo continuare, e allo stesso tempo abbiamo bisogno di leccarci le ferite e tornare a far splendere le nostre armature come quando siamo partiti. E dunque opereremo in questo modo: Cleone e i suoi troveranno un porto sicuro dove mettere all’ancora le navi, possibilmente non troppo vicino ai territori dei Seurbi, che non hanno la propensione a farsi soggiogare tanto facilmente. Publio Servilio Casca si occuperà di allestire un cantiere per rimettere in sesto le navi danneggiate e per costruirne altre, soprattutto naves onerariae. Nel frattempo, dopo che avremo raccolto il cibo necessario e preparato tutto l’indispensabile, io guiderò otto navi da guerra verso nord, alla ricerca di un passaggio che ci consenta di raggiungere il più in fretta possibile la Britannia, o qualcuna delle isole che la sorvegliano da vicino. Quando avremo allestito un campo anche lassù, il resto della flotta ci raggiungerà, a parte una minima guarnigione che resterà in forze qui, al comando di Casca. Le navi di Cleone faranno da collegamento.»
«Dovremo ricostruire tutto ciò che è andato perduto nella tempesta» aggiunse Decimo.
«E trovare dei cavalli» aggiunse Publio Crasso.
«Lo faranno i miei uomini» assicurò Servilio Casca, che sembrava soddisfatto della decisione di Cesare. «Vi raggiungeremo quando avremo riportato l’efficienza della flotta allo stato iniziale, e quando le salmerie saranno sufficienti a consentire alla legione di inoltrarsi in Britannia per la sua campagna di conquista. Credo per la primavera prossima.»
«Non sarà facile reclutare altri uomini» intervenne Bruto.
«Quelli che restano sono più che sufficienti» tagliò corto Cesare girandosi verso Cicerone e fissandolo. «Tu cosa dici, laticlavius? Ritieni sensata la mia decisione?»
«Io dico che sono sorpreso. Perché nessuno, qui, ha ancora accennato al vero problema da affrontare.»
«E quale sarebbe?» volle sapere Decimo.
«La volontà degli dei» rivelò Cicerone, che sentiva una forte pressione interiore fin da quando aveva sollevato le braccia nella pioggia, per irridere la furia di Nettuno, Eolo e Tartaro. E di chissà quanti altri dei che li avevano osservati dai loro scranni. «Al cospetto dei quali siamo diretti, ma che non ci preoccupiamo di onorare in questa impresa.»
Per un po’ vi fu silenzio, mentre molti distoglievano lo sguardo dal suo, poi Cesare, che non aveva smesso di fissarlo, annuì piano.
«Forse hai ragione» disse, e quella ammissione fu per Cicerone ancora più sorprendente di ciò che aveva visto compiersi quella notte. «Mostrarci troppo arroganti non servirà a renderci più facile il cammino, anche se temprerà i nostri cuori in vista delle battaglie che ci aspettano. Dovremo cercare di essere più accondiscendenti, e far credere agli dei che siamo loro devoti, prima di affrontarli.»
«Intendi davvero metterti contro i Signori Superiori?» intervenne Cleone con voce cavernosa. «Li reputi così deboli?»
Cesare rise.
«No, niente affatto. Ma credo di poter arrivare al loro cospetto, prima o poi, e di contendere loro i segreti che mi interessano. Altrimenti non sarei qui.» Fece una pausa, fissandoli tutti a uno a uno. «E nemmeno voi.»
Nessuno ebbe da ridire.
Cesare tornò a rivolgersi a Cicerone, che stava soppesando le parole che il dittatore aveva appena pronunciato: «Ti occuperai tu di sacrificare agli dei e interpretare gli aruspici» disse, ed era chiaro che si trattava di un ordine. «Tutti noi, intanto, ci adopereremo per non irritare Giove e i suoi figli, e nel frattempo procederemo come stabilito.»
«Dovremo fare delle copie della carte di navigazione» propose Casca. «Così da potervi rintracciare più facilmente, quando salperemo per ricongiungerci con voi.»
«Anche a questo penserà il nostro laticlavius» affermò Cesare allontanandosi.