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Roma era stata data alle fiamme e rasa al suolo più di una volta. I suoi colli erano stati spianati, il fiume spostato, le valli colmate. I suoi tesori erano stati predati, gli edifici sventrati, le mura abbattute. Eppure era ancora indiscutibilmente Roma. Sebbene quello non fosse mai stato il suo vero nome.

Al termine di tutto era giunto lì. Mischiato ai turisti vocianti che fotografavano cielo e pietre con i loro cappellini, i sandali e le magliette colorate, Lazzari passeggiava sul Palatino a occhi bassi. I suoi piedi erano finalmente tornati sul luogo dove forse era stato sepolto Remo, e dove di certo era custodito il segreto primo dell’Urbe.

Controllò l’orologio. Gli rimaneva un’ora circa per raggiungere il luogo dell’appuntamento. Nessuna possibilità di arrivare in orario, ma non gli importava.

Ancora per alcuni intensi istanti esaminò la città come se fosse una sfera in cui leggere passato e futuro. La osservò come avevano fatto Romolo e forse Remo quel ventuno aprile e poi si avviò lungo la discesa. In serbo per lui c’era una spada o una corona?

Don Giulio Vento lo aspettava nel cortile del Belvedere. Al telefono gli aveva detto che lavorava alla sezione amministrativa della Biblioteca Vaticana.

Sui cinquant’anni, con una stempiatura importante, indossava sopra il gilet di lana infeltrita e la camicia blu un completo nero di taglio economico. All’occhiello della giacca portava una croce di metallo e ripiegati nel taschino un paio di occhiali con la montatura di plastica turchese.

A Lazzari fece l’impressione di un uomo pacato e dimesso, seppur con qualche piccolo vezzo.

«Le piace questo posto?», gli domandò il prete senza presentarsi, come se si fossero lasciati soltanto pochi minuti prima. «Ho visto che lo osservava rapito».

Lazzari si strinse nelle spalle e distolse lo sguardo. Era una giornata calda e il quadrilatero del Bramante impediva all’aria di circolare.

Il cielo era un rettangolo azzurro e remoto. Come poteva spiegare a quello sconosciuto che fin dalla mattina guardava ogni cosa come se fosse l’ultima volta? Come fare a chiarirgli la sensazione di fine che lo agitava? Infatti, qualsiasi cosa avesse scoperto quel pomeriggio, sapeva che nulla sarebbe più stato come prima.

«E a lei piace lavorare nella città più importante di tutti i tempi?», gli domandò Lazzari a sua volta.

«A chi non piacerebbe lavorare a Roma?»

«Remoria, vorrà dire».

Don Giulio sbatté gli occhi miopi. «Nome curioso».

«Vuol dirmi che non l’ha mai sentito?»

«Non voglio dire questo. Ho sentito questo e molti altri nomi».

«È intorno ai nomi che gira il mondo», disse Lazzari con un luccichio negli occhi. «Almeno il nostro».

«È lei la persona a cui mio nipote si era rivolto?», gli domandò il prete.

«No...».

«Però gli ha parlato».

«Mi ha parlato lui, in un certo senso». Lazzari socchiuse gli occhi e rivide nel riverbero del cortile schermato dalle palpebre il volto tumefatto del giovane e la scritta S.E. disegnata con il sangue.

«A me invece hanno parlato di lei. Ha detto di chiamarsi Lazzari al telefono, non è così?».

Il tono del prete era privo di malizia e non lasciava intendere doppi sensi o minacce velate, ma Lazzari nell’ultimo periodo era stato talmente immerso nel clima di cospirazioni creato dal Colonnello che non riuscì a non insospettirsi. «Chi le ha parlato di me?»

«Alcuni amici».

«Amici di che genere?».

Il prete non si indispettì per il tono scortese, ma indicò l’ingresso della biblioteca. «Che genere di amici creda che possa frequentare qui? Studiosi, per lo più».

«Che cosa le hanno detto?»

«Che conosce molte cose».

Lazzari si rilassò e con voce sopita, quasi sconfitta, disse: «Tutto ciò che ho imparato l’ho dimenticato».

Il prete parve incuriosirsi. Annuì, come se fosse d’accordo. «Mi sembra esitante. Mi dica pure...».

Lazzari chinò la testa. «Sono qui per sapere la verità. Perciò racconterò io per primo quello che so».

«Curiosa prassi».

«Ha un po’ di tempo?».

Don Giulio indicò la porta con un cenno. «Andiamo a sederci».

Lo scortò fino a un ufficio al secondo piano. Si sedettero a una piccola scrivania ingombra di volumi, tazze, penne e quaderni. Il resto della stanza, al contrario, era lindo e ordinato come una sala operatoria, compresi gli altri due scrittoi a cui in quel momento non era seduto nessuno.

Il prete accennò a una teiera in porcellana inglese. «Deve esserne rimasto un po’. Forse è ancora tiepido. Me lo porta un sacerdote dall’India ogniqualvolta torna a Roma. Ne vuole? In tutte le aule della biblioteca è proibito introdurre liquidi, ma in questi uffici ci è consentito».

Lazzari non l’aveva nemmeno sentito. Appena un’occhiata miope, come per sincerarsi di averlo davanti, e cominciò a raccontare tutta la vicenda fin dal principio, senza escludere nulla e senza capire se, mentre le gettava sul tavolo come tessere, le parole componessero o invece scomponessero il mosaico di quanto aveva scoperto.

Il prete lo ascoltò per tutto il tempo in silenzio. Al termine del racconto lo interpellò per la prima volta: «Perché è venuto qui?».

La domanda colse di sorpresa Lazzari. «Ho creduto che fosse stato lei a trasmettere il segreto a suo nipote Achille».

«È quello che avrei dovuto fare. Ed è ciò che avrebbe dovuto fare mio padre con me. Ma purtroppo l’unica cosa che ho potuto trasmettere ad Achille è stata la storia del segreto, e forse sarebbe stato meglio se non gli avessi mai fatto parola nemmeno di quella. Ma come potevo immaginare che l’avrebbe condotto alla morte?», fece il prete. Quindi aggiunse quasi sottovoce: «Forse, invece, avrei dovuto prevederlo, in fondo tante persone sono morte a causa di quel segreto nel corso dei secoli. Avrei dovuto semplicemente dimenticare, ma mi dispiaceva che la storia del segreto andasse irrimediabilmente perduta. Vanità: forse la parola più abusata e meno compresa dei giorni nostri. Vanità, nessuno se ne può considerare immune».

Lazzari era sempre più stupito. Si era aspettato un muro di silenzio e invece il prete pareva disposto a confidarsi. «Quindi la Confraternita esiste davvero», disse con un filo di voce.

Don Vento sollevò la tazza. «Ne è sorpreso? Se è arrivato fino a me non dovrebbe esserlo affatto».

«Sono senza parole».

«È il punto a cui arriva ogni uomo, prima di capire».

«La Confraternita esiste e lei ne fa parte», insistette Lazzari, come per fissare la realtà.

«Sarebbe meglio dire che è esistita e che io sono ancora vivo per testimoniarlo. La nostra famiglia, come alcune altre per la verità, ha custodito e tramandato il segreto delle origini di Roma per molti secoli».

Il segreto. L’interrogativo intorno al quale aveva speso giorni e notti per sedici anni e per cui aveva rischiato la vita insieme ad Artemisia. La domanda gli balzò alle labbra, ma Lazzari non le permise di spiccare il volo. Non si sentiva ancora pronto per sapere e, per timore o per voluttà, preferiva prolungare l’attesa. «Fin dal primo giorno?».

Don Vento aprì un cassetto e tirò fuori un medaglione identico a quello che il Lupo aveva ritrovato nella tomba a ipogeo presso Formia. «Mio nipote se l’era fatto tatuare sul petto».

«Lo so», ammise Lazzari. E poi, in un mormorio appena udibile: «Lei sa che...».

«Si è tolto la vita. Sì, come potrei non saperlo?».

Lazzari provò un senso di vergogna al pensiero di quanto fosse stato preoccupato dalla Confraternita e dai suoi metodi apparentemente sanguinari, finché aveva creduto all’assassinio di Achille Vento. Ecco la terribile congrega, un prete di cinquant’anni minacciato dal senso di colpa. «È a conoscenza anche della scritta e del veleno...».

Il prete annuì. «Il suo era sempre stato un interesse superficiale, ma qualche nozione e alcune formule gli erano rimaste impresse. In un certo senso, si potrebbe affermare che gli ho fornito abbastanza corda da...». Non riuscì a terminare la frase. Indossò gli occhiali per nascondere le lacrime.

«Forse è meglio tornare alla storia», propose Lazzari.

«I compagni dei gemelli che assistettero alla fondazione giurarono di custodire e tramandare il segreto ai propri discendenti: furono perciò chiamati patres patriae, “padri della patria”».

«I primi senatori».

«Non solo divennero senatori, ma anche pontefici e membri della Confraternita incaricata di occultare e tramandare il nome segreto della città. Quale confraternita puoi immaginarlo».

«I fratelli Luperci», disse d’istinto Lazzari, pensando all’antica Confraternita istituita proprio da Remo e Romolo.

«Non ti dispiace se ti do del tu?»«I fratelli Luperci, non è così?», ripeté Lazzari. Aveva quasi paura di toccare il ciondolo della Confraternita e si limitò ad accarezzarlo con la punta vacillante delle dita. Non sarebbe stato capace di tenere una penna in mano, tanto tremava.

«Sì, è così», ammise il sacerdote con la voce che a mano a mano riacquistava vigore. Era come se aspettasse da tutta una vita qualcuno con cui poter discorrere di quegli argomenti, qualcuno che non lo prendesse per un folle. Le gote risaltavano di un fresco rosa contro il turchese della montatura degli occhiali. «Parliamo di una confraternita di cui perfino gli stessi romani ignoravano il significato. Addirittura i più dotti tra di loro non riuscivano a decifrarne il mistero, sebbene non cessarono mai di onorarla e di celebrarne la relativa festa».

Mille immagini e collegamenti esplosero nella mente di Lazzari. Doveva fare chiarezza. «Ogni anno, il quindici febbraio, i fratelli Luperci sacrificavano una capra presso il Lupercale, la grotta davanti alla quale si era incagliata la cesta con i due infanti, Remo e Romolo. Con il sangue dell’animale i Luperci toccavano la fronte di due giovani iniziati e poi gliela detergevano con un panno bagnato di latte: a questo punto i ragazzi scoppiavano a ridere».

«Un rito di morte e rinascita riservata agli iniziati: prima segnati con il sangue e poi bagnati con il latte», spiegò don Giulio.

«I Luperci, quindi, tagliavano a strisce la pelle della capra, e iniziavano a correre nudi lungo un percorso prefissato intorno al Palatino colpendo la folla che assisteva al rito, in modo particolare le donne», riprese Lazzari.

«Un rito di purificazione e fertilità. Erano lupi, mentre correvano intorno al Palatino; ed erano capri, l’animale fecondatore per eccellenza, mentre colpivano le donne. Luperci, ossia lupiethirci, “lupi e capri”, allo stesso modo di Fauno, il demone protettore di Remo», chiarì don Giulio.

«Il più oscuro e completo rito latino».

«L’ultimo rito latino abolito dai papi», alluse il prete. «Il primo a nascere, l’ultimo a morire».

Lazzari si sentiva a un passo dalla soluzione e decise di compierlo con estrema cautela, quasi che temesse di scivolare proprio sul traguardo. E marcando le parole, in modo da escludere qualsiasi fraintendimento, disse: «Erano quindi i Luperci a custodire il segreto delle origini».

«Così abbiamo modo di ritenere, anche se rimane aperta la questione del metodo: se lo abbiano trasmesso oralmente o se fosse lo stesso rito a celare l’arcano».

«E la sua famiglia discende da uno dei Luperci», disse con estrema lentezza Lazzari come se si esprimesse in una lingua straniera e temesse di essere equivocato.

«Sì».

«I suoi avi si sono trasmessi il segreto per secoli», riprese Lazzari, insistendo con le domande mascherate da affermazioni.

«Sì», disse ancora il prete e quella semplice parola, carica di un’improvvisa tristezza, gli rimase sulla bocca come un taglio sanguinante.

Lazzari finalmente capì. «La catena a un certo punto si è interrotta», disse con voce strozzata.

Nemmeno gli occhiali potevano mascherare le lacrime del prete. «Guerre, migrazioni, carestie, malattie, ma più di ogni altra cosa debolezza di spirito. Il nome è andato perduto. È rimasto soltanto il ricordo. Custodiamo un guscio vuoto».

Lazzari si abbandonò contro lo schienale. La stanza sembrava ruotare attorno a lui. Quell’uomo non stava mentendo. «Non lo troveremo mai più».

«È quello che credeva mio nipote Achille. Ed è forse per questo che intendeva venderlo».

Lazzari fu animato da un’improvvisa e inspiegabile premonizione. «Ma lei la pensa diversamente».

«Non avevamo detto di darci del tu?».

La rivelazione di essere seduto sopra la verità investì in pieno Lazzari, che balzò in piedi. «Il segreto è qui».

«Non qui», disse il prete toccando uno dei libri posati sulla scrivania. Poi, sporgendosi per toccargli il petto, aggiunse: «Ma qui. Il segreto nascosto sotto il Palatino è lo stesso nascosto nell’animo di ogni uomo».

«Che cosa sta cercando di dirmi?»

«Che il più perfetto dei segreti è quello che ogni uomo può svelare», rispose don Vento. «Nel nome Roma si nasconde una scelta a cui tutti siamo chiamati».

Si scambiarono un lungo sguardo. I manoscritti e i volumi e i libri parevano osservarli in attesa, forse di una parola.

«Roma o Remoria: non è questa la domanda», provò a indovinare Lazzari. «Ma Roma o Amor? Odio o amore? È questo quello che vuole farmi credere? Che nel nome mistico di Roma il fondatore abbia celato la scelta fondamentale che spetta a ogni uomo?»

«È una domanda a cui tutti possono e devono rispondere», disse il prete e senza lasciargli il tempo di una replica aggiunse: «Credo che tu conosca meglio di me le analogie tra la fondazione di Roma e la Pasqua».

«Sì, sono numerose e innegabili, ma come giustificarle?»

«O sono semplici coincidenze, oppure, come credevano Eliade, Dumézil e tanti altri grandi studiosi, la Rivelazione è una soltanto e ha riguardato tutte le civiltà fino a completarsi in Gesù, l’unica Parola pronunciata dal Padre, che continua eternamente a ripeterla. In quest’ottica Roma, la nuova Gerusalemme, ha un ruolo fondamentale, dal momento che è stata destinata a divenire sede della Chiesa universale».

«Sono frastornato... Le sue parole vanno oltre il mio campo...».

«E quale sarebbe il tuo campo?»

«La storia».

«La storia, certo, allora ascoltami. Soltanto due parole, nell’intera storia dell’Occidente, non sono mai state scritte. E tu sai sicuramente di quali parole sto parlando».

«Il nome proprio di Dio, per cui è stato usato il tetragramma, e il nome vero di Roma», rispose Lazzari.

«E chi sa che non siano la stessa».

Lazzari attese qualche istante prima di replicare. «Mi sta dicendo che nel nome segreto di Roma si nasconde il vero nome di Dio?».

Il prete sorrise. «L’hai detto tu».

 

Artemisia sobbalzò quando vide il numero sul cellulare. I ricordi, il dolore intrecciato alla gioia, e anche qualcos’altro di indefinito la sommersero.

«Ennio, ciao. Come stai? Non ti ho mai telefonato per ringraziarti dell’ospitalità che mi hai offerto a Milano il mese scorso».

«Ma figurati, per te questo e altro. A proposito... ti sto chiamando perché qui è arrivata una cartolina indirizzata a te».

«Come è possibile?»

«Pensavo di domandarlo a te».

«Perché dovrei saperlo?»

«Magari hai lasciato questo indirizzo a qualcuno».

«Mai».

«Sarà, ma qui leggo il tuo cognome».

«Ti è arrivata via posta?»

«Dall’università di Lima, Perú. Ti dice qualcosa?»

«Nulla».

«Ti leggo il messaggio?»

«Sì, per favore».

«È firmato da un buffo nome, Antonio da Alba Docilia. Ti dice qualcosa?»

«Tutto», rispose di colpo Artemisia in un sussurro appena percettibile.

«Sei ancora lì?»

«Leggi, ti prego», lo invitò Artemisia.

«Dice così: Antonio da Alba Docilia, mistico medievale, nato ad Alba Docilia nell’anno domini 973, non ha più paura».

«Non dice altro?»

«Niente. Ho controllato, per curiosità: non è mai esistito un mistico medievale con quel nome».

Artemisia piangeva. Il nome non lo aveva mai pronunciato, ma il cognome sì – e aveva di nuovo voglia di pronunciarlo. E non solo. Antonio da Alba Docilia... Come aveva fatto a non capirlo prima? Con frenesia tirò fuori dalla borsa un foglio e una penna e scrisse come se fosse questione di vita o di morte il cognome Lazzari e poi, a fianco, il nome Antonio.

«Ora esiste», disse. Una lacrima le inumidì il labbro e lei accennò un sorriso. «...E io andrò a conoscerlo».