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Sarzana si presentò con il volto di un borgo medievale e onirico: Lazzari avrebbe potuto attraversarla a cavallo da una porta all’altra senza il timore di essere svegliato dal sogno che lo faceva vivere nel dodicesimo secolo.
Si erano fermati verso le due e avevano dormito in auto qualche ora, prima di ripartire. Adesso l’orologio del palazzo comunale segnava le sette e trenta.
«Non credi sia un po’ presto per citofonare?», gli domandò Artemisia.
La casa di Parodi si trovava nel centro storico della cittadina ligure. La piazza era semideserta. Un uomo tirava su la serranda del bar all’angolo, qualche piccione pigolava sotto la torre. I lampioni ancora accesi erano evanescenti.
«I vecchi non dormono ed escono presto la mattina. Vogliono assicurarsi che ci sia ancora il mondo reale fuori», disse Lazzari e suonò.
«Ultimo piano». Una voce metallica rispose al citofono dopo appena una manciata di secondi.
Lazzari strizzò l’occhio alla ragazza e spalancò il portone per farla entrare. Non c’era ascensore e i gradini di marmo erano scivolosi e incurvati al centro. Lazzari saliva tenendosi al corrimano osservando ipnotizzato le caviglie di Artemisia. Pensò che sarebbero state bene sopra un palco.
«Prima riflettevo su quello che mi hai detto sulla fondazione di Roma e sulle somiglianze con la Pasqua», gli disse la ragazza dopo la prima rampa.
«E allora?»
«Ce ne sarebbe anche un’altra. Remo fu ucciso subito dopo la fondazione, giusto? Ed era il primogenito, vero? Ebbene, nella Pasqua non era il primogenito a essere consacrato? O ricordo male?»
«Durante la Pasqua ebraica Dio uccise tutti i primogeniti, eccetto quelli sulla cui porta di casa trovò il sangue dell’agnello. Nella Pasqua cristiana viene ucciso Gesù, primogenito di Dio. Hai occhio per le analogie».
«Ma come si spiegano?»
«Semplice, non si spiegano».
Erano arrivati in cima. C’era una sola porta e un lucernario che illuminava una scala di ferro che conduceva alla soffitta.
Venne ad aprire un uomo vestito in maniera impeccabile: completo e cravatta. «Vi aspettavo, ma non così presto».
«Ci scusi per l’ora», disse Artemisia dando una leggera gomitata a Lazzari, che aveva il fiatone e si limitò ad annuire.
L’uomo colse il gesto e sorrise. «Non per l’ora, signorina, ma per il giorno. L’amico Casini mi ha solo accennato al fatto che mi avreste fatto visita, senza specificare quando. Ma prego, entrate. Ogni momento è buono per parlare di cose belle».
Li fece accomodare in un ampio salone scandito da basse volte ogivali. Gli archi erano in mattoni. Spessi strati di vernice mascheravano le tracce di umidità. C’erano molti pezzi antichi sparsi in giro e libri miniati su elaborati leggii. Lazzari avanzò a piccoli passi calibrando ogni mossa fino a che raggiunse la poltrona accanto al camino in ardesia, dentro il quale c’era una quadriga in bronzo.
«A proposito, come sta quel terribile vecchio?». Parodi parlò come se avesse vent’anni in meno, mentre il professor Casini aveva detto a Lazzari che erano della stessa leva.
A vederlo, però, Lazzari non gli avrebbe dato più di settant’anni. Sedeva con i gomiti sulle gambe, leggermente proteso in avanti, offrendo un’impressione di vigore fisico. Pareva ancora capace di saltare su una bicicletta per fare il giro del paese. Senza attendere la risposta Parodi proseguì: «Casini... Chi l’avrebbe mai detto che avrebbe fatto una sì ragguardevole carriera, scorbutico com’era».
«La saluta caramente», disse Lazzari.
Parodi sorrise come se non ci credesse e disse: «Avete dormito dentro le mura? Il tramonto e l’aurora sono i momenti migliori per una visita. Città incantevole, siete d’accordo? Confesso che quando l’ho scelta, ormai quarant’anni fa, avevo in mente solo l’annuale fiera antiquaria, forse la più importante d’Italia. Invece, una volta qui, la cosa che mi ammaliò più di ogni altra fu la cadenza della parlata, specie delle ragazze, una lingua languida, morbida. Per trentacinque anni ne ho sentita una particolarmente deliziosa ogni giorno, ma poi lei ha deciso che non ne poteva più di me, e così mi ha preceduto sulla via dei Campi Elisi. Ma non è di questo che volevate parlarmi, o sbaglio?».
Lazzari inspirò, come se si preparasse a un tuffo, e gli porse la fotografia che Artemisia aveva fatto stampare il giorno prima – una mossa che lui aveva molto apprezzato.
«Non c’è neppure bisogno che io indossi gli occhiali per riconoscere questo simbolo», rivelò Parodi picchiando le dita nodose contro l’istantanea del tatuaggio di Achille Vento. «Dove l’avete trovato?»
«Sul petto di un uomo», disse Lazzari.
«Un uomo morto», precisò Artemisia.
Parodi batté gli occhiali contro la foto mordendosi le labbra. «Sì, è il genere di uomo più diffuso tra chi si interessa di questi simboli arcani. Come si chiamava?»
«Achille Vento».
«Mai sentito. Come è morto?»
«Non so se è il caso...».
«Si può fidare di me. In un certo senso, i segreti sono il mio mestiere».
«Prima devono averlo picchiato e poi gli hanno fatto ingerire del veleno. L’abbiamo trovato sul pavimento di casa sua: era disposto a croce e sopra di lui c’erano le iniziali scritte con il sangue della formula Sacer esto», raccontò Lazzari.
«È terribile, terribile», fece Parodi con una smorfia di disgusto. «Ma purtroppo molti hanno fatto la sua stessa fine nel corso dei secoli».
«Allora questo simbolo appartiene davvero a una setta?», gli domandò Artemisia indicando la foto.
«A una confraternita, più che a una setta», tenne a precisare Parodi e le restituì l’istantanea. «Una confraternita che custodisce da quasi ventinove secoli il segreto riguardante le origini di Roma. Uno dei più affatturanti misteri della storia universale, a cui si sono interessati illustri personaggi. Pensate a Pascoli, Goethe e Dante per citarne soltanto alcuni dei più noti... Ma lei lo sa bene, vero?», disse rivolto a Lazzari. «Alcuni sono caduti in questa ricerca. Il grande Poliziano, ad esempio, cercò a lungo il vero nome di Roma, ma proprio quando era vicino a scoprirlo, morì assassinato in circostanze misteriose. Forse la Confraternita...».
«Sapevo che se ne era interessato, ma non che fu assassinato», disse Lazzari, di colpo diffidente. Era prevenuto verso tutto ciò che aveva il sapore del complotto, e non vedeva l’ora di trovare un appiglio nel discorso di Parodi a cui aggrapparsi per dirsi che erano tutte stupidaggini sensazionalistiche. Ma mentre lo ascoltava, non riusciva a togliersi dagli occhi il cadavere di Vento, il tatuaggio e la scritta col sangue. Quelle non erano invenzioni, come non lo erano gli uomini che avevano cercato di rapirlo a Milano.
«È un segreto che ha mietuto numerose vittime», riprese Parodi. «Potrei citarvi vari esempi, ma il più affine al caso di questo Achille Vento è quello di Quinto Valerio Sorano. Credo che lei sappia di chi sto parlando».
Lazzari annuì vagamente: aveva deciso di starlo a sentire senza intervenire, come uno straniero che finga di non conoscere la lingua locale e ascolti l’indigeno per vedere se intende raggirarlo.
«Questo Valerio Sorano era un uomo dottissimo, filologo e antiquario, spesso citato da Cicerone e Varrone, che avevano più o meno la sua stessa età. Ma anche più tardi lo si trova citato in Agostino e Aulo Gellio, e persino nel buon Servio Mario Onorato, uno che copiò da tutti e scrisse di tutto. Nell’ottantadue avanti Cristo Sorano fu eletto tribuno della plebe, ma il Senato lo fece rapire e crocifiggere per alto tradimento con un giudizio post mortem, poiché aveva tentato di divulgare i segreti sulla fondazione di Roma. La procedura sommaria, cui fu sottoposto un tribuno della plebe, per di più in un periodo in cui il tribunato godeva di grande forza, significa che il reato fu il più grave che fosse immaginabile, forse il più grave di tutta la storia di Roma».
«Ma qual era il potere di questi benedetti tribuni?», domandò Artemisia.
«Avevano il diritto di veto su tutti gli organi repubblicani», spiegò frettolosamente Lazzari, prima di giocare la sua carta. «Conosco la vicenda. Servio scrive che Sorano rivelò il nome segreto di Roma».
«Non apertamente. Sorano era pur sempre un romano, e nessun romano avrebbe commesso un simile sacrilegio. Scrisse in realtà un libro intitolato Epoptidon, che significa “Svelamento”, in cui trattava velatamente i segreti riguardanti le origini dell’Urbe. Secondo Agostino, scrisse tra le altre cose che Iuppiter e Iuno sono in sostanza la stessa divinità, in quanto il vero Dio è uno soltanto, maschio e femmina nello stesso tempo».
«Intende Giove e Giunone, vero?», domandò Artemisia.
«Proprio così», rispose Parodi. «Il linguaggio e l’argomento dell’Epoptidon, con le allusioni al monoteismo, fanno riferimento ai culti misterici del periodo, come quello degli orfici, che credevano in un unico Dio e nella risurrezione dei morti. Oh, cosa non darei per leggere quel volume, altro che Libro dei morti o scempiaggini simili. Ma, ahimè, Sorano fu ucciso e il libro fatto sparire. Però anche lei sa bene che...». E si interruppe, quasi si aspettasse che Lazzari proseguisse.
«Che cosa?», fece con aria interrogativa.
«Che nessun libro, una volta letto, può sparire», terminò Parodi.
«La trasmissione orale...», mormorò Lazzari, abbassando gli occhi verso il pavimento di marmo nero.
«Sorano faceva certamente parte della Confraternita che custodiva la verità sul nome di Roma, una ristretta cerchia di potenti e dotti che si tramandavano oralmente il segreto fin dal giorno della fondazione. Una confraternita – ho ragione di credere – che fu costituita dagli stessi gemelli e dai loro compagni. Fu questa confraternita segreta a decretare la morte per crocifissione di Sorano».
Lazzari gli chiese a bruciapelo: «Dunque lei deve essersi fatto un’idea precisa...».
«Di quale idea parla?», si schermì l’uomo.
«Di quella che sento premere sotto le sue parole».
Parodi sorrise, come un giocatore il cui bluff è stato infine scoperto e, anziché dispiacersene, se ne compiace. «È molto probabile che quel segreto sia stato tramandato fino ai nostri giorni, e che sia sopravvissuto alla caduta di Roma. Ma le dirò di più. Sono convinto che sia possibile recuperare brandelli dell’Epoptidon».
«Ah sì?», fece Lazzari tradendo con la voce il proprio scetticismo.
«I morti possono parlare».
«Che intende dire?», domandò Artemisia.
Parodi annuì, poi si alzò. «Aspettatemi qui».
Artemisia abbassò la voce, ma indurì il tono. «Perché gli parli con questo tono di sufficienza? Ci sta aiutando».
«Non hai capito nulla. Siamo noi che stiamo aiutando lui. È tutta la vita che non vedeva l’ora di raccontare queste teorie a qualcuno».
«Il cadavere di Vento è una teoria?», ribatté Artemisia, infilando il dito nella piaga.
Lazzari si alzò per guardare fuori. Due campanili e una torre medievale punteggiavano l’orizzonte. Nella via sottostante una ragazza fumava una sigaretta davanti a un negozio.
Poi alzò per un attimo lo sguardo, lo vide, e agitò una mano. Lui le fece un cenno con la testa. Doveva averlo scambiato per qualcun altro.
Si voltò nell’udire i passi di Parodi, che era ritornato stringendo tra le mani un ciondolo. Si trattava di un disco, grande circa il doppio di una moneta. Si avvicinò a entrambi e mostrò loro l’incisione: era il fico ruminale tra due seni, o collinette. L’immagine, non nitidissima, era però ancora ben riconoscibile.
Artemisia balzò in piedi. «È identico al tatuaggio!».
«Questo arriva da un complesso di tombe, solo parzialmente scavate, nei pressi di Formia», spiegò Parodi. «Il tombarolo che me l’ha venduto è uno dei migliori sulla piazza: lo chiamano il Lupo Marsicano».
«Perché quel soprannome?», domandò Artemisia.
«Per il suo fiuto nel rintracciare tesori sepolti. L’Italia sotterranea non ha segreti per lui. Ha scavato ovunque, e portato alla luce oggetti greci, etruschi e romani per svariati milioni di euro nel corso della sua carriera».
«Presso Formia? Sta parlando di quella che viene comunemente chiamata la “tomba di Cicerone?”»
«Nient’affatto. Parlo di tombe che non vedrete mai su un manuale di archeologia. Lei sa meglio di me che soltanto una piccola parte dei reperti rinvenuti in Italia, come nel resto del mondo, finisce nei musei».
«Quali altri oggetti erano contenuti in questo complesso di tombe?»
«Non lo so. Per mio conto, non ho voluto che il Lupo scavasse ancora. Se lui è comunque andato avanti, affari suoi. Ma non credo. Ne abbiamo viste troppe, per non tenere nella giusta considerazione il peccato di hýbris».
Artemisia sollevò un sopracciglio. «Che cosa intende?»
«Superstizione, solo superstizione...», si inserì Lazzari contrariato.
Parodi glissò su quella stoccata e rispose ad Artemisia. «La hýbris era considerata dagli antichi greci e latini la colpa massima e consisteva nel violare le immutabili leggi divine. La sua naturale conseguenza è la némesis, ossia il giusto castigo. Violare il nome segreto di Roma è hýbris, amici miei. I misteri sulla fondazione di Roma mi hanno sempre affascinato, ma preferisco guardarli da distante. Seguo il saggio consiglio di Angerona».
«Chi è Angerona?», domandò Artemisia.
«La dea latina che invitava al silenzio. La sua festa si celebrava il ventuno dicembre presso il sacello sul Palatino. Il simulacro della dea, depositaria del segreto sul nome autentico di Roma, era rappresentato con la bocca fasciata e con un dito sulle labbra, a suggellare il silenzio e imporlo. I misteri vanno custoditi», salmodiò Parodi. Sembrava di colpo assente, come se l’età o il pensiero della morte l’avessero improvvisamente raggiunto.
Artemisia, invece, era tutt’altro che intimorita. «Secondo me questo tombarolo ha comunque continuato gli scavi. Intendo per conto suo», insistette, cercando conferma in Lazzari con lo sguardo.
«Si è dimenticato di dire che, secondo l’oroscopo commissionato da Varrone al celebre astronomo romano Lucio Tarunzio, Romolo fu concepito proprio il ventuno dicembre», lo sfidò Lazzari, non riuscendo a trattenersi, ma Parodi ancora una volta non raccolse la provocazione.
«Dobbiamo assolutamente incontrare questo Lupo», tornò alla carica Artemisia.
Parodi li studiò entrambi, infine liberò un sospiro che sapeva di resa. L’ombra di poco prima era scomparsa dal suo volto, ora placido e cortese come in principio. «Posso mettervi in contatto con il Lupo, ma mi occorrono almeno un paio di giorni. Devo fargli avere il messaggio e poi ottenere un suo riscontro. Ci sono delle consolidate procedure di sicurezza da seguire. È un professionista assai prudente, mai un passo falso. Due giorni, se saremo fortunati».
Artemisia annuì. «Perché non dovremmo esserlo?».