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Viaggiarono per almeno due ore senza soste. La neve era tornata pioggia. All’altezza di Parma, anziché svoltare per La Spezia, Lazzari tirò dritto per evitare di ripercorrere la strada dell’andata. Non riusciva ancora a capire come potessero averlo rintracciato a Bologna. L’effetto del vino era del tutto sparito, e ora sentiva nuovamente l’ansia congestionargli il petto.

Dopo aver fatto il pieno e preso due caffè in un’area di servizio, Artemisia passò al volante, mentre Lazzari, visibilmente esausto, posizionava il suo specchietto in modo da poter controllare la strada alle loro spalle. Sentiva di essere vicino al limite oltre il quale gli sarebbe stato difficile controllare i suoi nervi. Perché lo stavano seguendo? Quella domanda si ripeteva ossessiva nella sua testa. Senza risposta.

«Secondo te chi sono quelli che ci danno la caccia?», chiese Artemisia, intuendo i suoi pensieri.

«A me pare che la stiano dando a me».

«Avrai la tua medaglia, se è quello che cerchi... Te lo richiedo, hai qualche idea?»

«Forse sono gli uomini della Confraternita... quelli che hanno ucciso Vento. Oppure i tizi ingaggiati dalla concorrenza di cui ci parlava il Colonnello. O forse entrambi. O magari la polizia. Non lo so... E mi chiedo perché ci stanno seguendo. Fino a qui non abbiamo scoperto nulla. Cosa pensano di trovare?». Poi aggiunse: «O forse è quel tizio con il berretto a seguirci...».

«Sei un paranoico».

«Paranoico un accidente! E comunque scusami», si affrettò a correggere il tiro Lazzari. «I rischi li stiamo correndo in due. E sinceramente, non capisco proprio chi te lo fa fare».

«A farti da balia?»

«A correre questi rischi per i sogni di qualcun altro».

«Curo gli interessi della Fondazione. Ti è stato già spiegato».

«Spero che ti paghino bene».

Artemisia sbatté forte una mano sul volante. «Pensi che lo faccia per soldi?».

Lazzari intrecciò le braccia e si lasciò scivolare sul sedile. «Non è il tuo lavoro?»

«Tu lavoravi all’università per soldi? Solo per soldi?»

«D’accordo, scusami... Ma una cosa non ho capito. Tu, precisamente, lavori per il Colonnello o per la Fondazione?»

«L’hai detto tu, lavoro per i soldi».

 

Lazzari insistette per riprendere la guida. La sera era scivolata nella notte, e ora le gallerie erano isole di luce nella pioggia.

Guidava con concentrazione, gli occhi rossi e la bocca contratta. Aveva dormito appena quattro o cinque ore negli ultimi due giorni e la stanchezza gli pesava addosso come un cappotto intriso d’acqua. Abbassava e alzava in continuazione l’aria calda, senza trovare requie, e non perdeva mai di vista lo specchietto retrovisore.

Superata Genova si mise sulla corsia di sorpasso e non la lasciò più. Passarono Varazze a centocinquanta chilometri all’ora. «Tieniti forte», disse alla ragazza, mentre superava un camion.

Ricordava che il casello di Celle Ligure era poco dopo la fine del tunnel. Accelerò ancora, poi sterzò all’improvviso tagliando la strada al camion e imboccò per un soffio la rampa d’uscita. Il fuoristrada sbandò, le gomme fischiarono, per alcuni istanti l’auto fu sul punto di ribaltarsi, ma alla fine completò la curva riassestandosi. Davanti a loro c’era il casello. Oltre, il mare.

«Brutto figlio di puttana!!», urlò Artemisia.

«Ora almeno siamo sicuri che non ci abbiano seguito».

«A momenti ci ammazziamo!».

«Calmati adesso, conosco un posto per passare la notte. È sulle alture, a una ventina di chilometri da qui. È una vecchia casa dei nonni di un mio amico, la usano solo d’estate. Domani arriveremo a Sanremo sicuri di non avere nessuno alle spalle».

Artemisia gli strinse il collo con una mano, obbligandolo a voltarsi verso di lei. «Fammi un altro scherzo simile e ti consegno io ai tuoi fantomatici inseguitori, a costo di portarti da loro in braccio!».

«Nei libri cercherò qualche indizio su questa Confraternita», proseguì Lazzari senza scomporsi. «Conservo importanti cataloghi museali di reperti romani: chissà che non salti fuori un altro di quei medaglioni».

Artemisia lo allontanò con un gesto brusco. «E non cambiare discorso! Tu non sai quanto sono incazzata. Non mi piacciono i furbi».

Lazzari si strinse nelle spalle.

«Non mi piacciono quando pensano di sapere cosa è meglio per me».

Lazzari tacque.

«Non mi piacciono quando prendono decisioni senza consultarmi, tanto più che sono io a capo dell’operazione qui».

Lazzari continuò a tacere.

«Per farla breve non mi piacciono. Capito?»

«Comincio a capire che cosa intendi».

 

«Sono nato qui», disse Lazzari quando passarono per Albisola, un paese che come un fermaglio congiungeva il mare alle alture.

Artemisia guardò lui anziché il borgo. «Hai ancora dei parenti da queste parti?»

«Soltanto ricordi».

La provinciale si inerpicava tra le colline. I paesi erano sempre più distanti l’uno dall’altro e sempre più piccoli, pugni di case strette intorno a un campanile. E nel frattempo aveva ripreso a nevicare. Oltrepassato un bivio, la strada cominciò a stringersi e ad attorcigliarsi attorno alla vetta come un serpente sul proprio uovo, alternando secchi tornanti e brevi rettilinei. All’altezza di un casolare in pietra di fiume, Lazzari svoltò all’improvviso per un viottolo ampio appena pochi passi che, oltre la stalla e l’abbeveratoio, spariva nel bosco. Il fuoristrada sfiorava da una parte all’altra i rami che frustavano le fiancate.

«È a senso unico questa strada, vero?», domandò Artemisia.

«Falso».

«E se incontriamo un’auto?».

Lazzari frenò di colpo mentre una massa scura rovinava giù dalla collina sulla loro destra. A pochi centimetri dal muso della macchina videro sfrecciare un cinghiale. La pelliccia irsuta fumava. L’animale si tuffò nel bosco a valle e sparì.

«Accidenti!», fece Lazzari portandosi una mano al petto, prima di ripartire. «Hai il dono di fare le domande sbagliate al momento giusto».

La strada scollinava tra due formazioni rocciose. Lazzari guidava adagio, con gli abbaglianti in funzione. «È qui», disse indicando il punto dove il castagneto si diradava.

Lasciarono l’auto in uno slargo sterrato, raccolsero le loro cose, scavalcarono una catena e proseguirono a piedi. Lazzari faceva strada, mentre Artemisia gli teneva una mano sulla spalla e con l’altra puntava il cellulare davanti ai loro piedi. La neve nascondeva sassi e radici. Il casolare era una macchia nera oltre le fronde.

«Ci siamo quasi», mormorò Lazzari rabbrividendo, ma, mentre finiva di pronunciare la frase, inciampò in una radice e perse l’equilibrio, portando con sé Artemisia. Si ritrovarono entrambi distesi nella neve.

«Oh merda!».

«Solo neve», ridacchiò lei.

Da qualche parte un uccello spiccò il volo in un frullio di ali. «C’è poco da scherzare», insistette lui, ma lei continuava a ridere.

Si rimisero a fatica in piedi, cercando di spazzolare via la neve dai vestiti. Discutevano ancora quando raggiunsero il portico di legno.

«E ora? Che si fa? Come hai intenzione di entrare, fammi capire», disse Artemisia.

Lazzari lasciò cadere la borsa, si avvicinò alla ragazza e la sollevò di peso. «Cerca sopra l’architrave. Un tempo tenevano lì la chiave».

«Niente», fece lei rovistando. «Aspetta un momento, però. Tienimi ferma. Ce la fai? Ah eccola».

Lazzari prese la chiave che la ragazza gli porse e si chinò sulla serratura. «Fammi luce con il cellulare».

Finalmente riuscirono a entrare, zuppi e infreddoliti.

«Si gela», fece Artemisia stringendosi nelle braccia.

«Guarda se trovi qualcosa da mangiare, io vado a prendere la legna e accendo la stufa», gli disse guardandosi intorno.

Nella legnaia c’erano ceppi e legnetti in quantità, e anche una buona scorta di pigne. Fece due viaggi, in modo da non dovere uscire durante la notte. Trovò anche un vecchio giornale, lo strappò e ne fece delle lunghe fiaccole. Ma dovette armeggiare a lungo prima di riuscire ad accendere il fuoco.

«Mai stato boyscout... mi pare di capire, giusto?», osservò Artemisia che intanto si era avvolta in una coperta impolverata e saltava per il freddo. «Che idea geniale che hai avuto a voler venir qui! C’è solo da sperare che ci abbiano seguiti, almeno qualcuno troverà i nostri cadaveri assiderati...».

Aprirono un paio di scatolette di tonno e le divorarono. Frugarono nella dispensa e scovarono anche una bottiglia di grappa e un pacco di frollini scaduto da appena un mese.

«Salvezza», esultò Lazzari.

Si sedettero l’uno accanto all’altra su un divano sfondato, un paio di coperte stese sopra la testa, sgranocchiando i biscotti e passandosi la bottiglia. L’unica luce nella stanza era quella rossastra che proveniva dalla stufa. Oltre la finestra senza persiane si intuivano appena le sagome degli abeti carichi di neve.

«Oggi mi hai detto che hai lavorato a un libro sulle origini di Roma per sedici anni», disse dopo un po’ Artemisia. «Non avrai scritto una riga, ma ti sarai fatto almeno un’idea su quale possa essere il vero nome di Roma».

Lazzari si fece più vicino. «Mille ipotesi, dalla più azzardata alla più semplice. E non è detto che la più semplice sia da escludere, come hanno fatto quasi tutti gli studiosi».

«E quale sarebbe?»

«Lo stesso nome».

«Cioè Roma?»

«Leggilo al contrario».

«A... Amor? Ma dài, non prendermi in giro».

«In fondo l’amore non è la risposta a tutte le domande?», replicò Lazzari con uno sguardo ambiguo, il tono tra il serio e il divertito.

«Ma ci sono delle prove da un punto di vista storico?».

Lazzari si strinse nelle spalle. «Il termine ruma, “mammella”, esprime l’idea di un doppio: e se il nome Roma – che secondo alcune interpretazioni linguistiche gli è connesso – indicasse i genitori dei gemelli, ossia Venere e Marte? Leggendo il nome da destra, Roma, si farebbe riferimento a Romolo, che è figlio di Marte; leggendolo invece da sinistra, Amor, ci si riferirebbe a Venere, che secondo un altro racconto antico è la madre di Enea, avo dei gemelli. Forse ci credevano pure i romani dell’età imperiale visto che Adriano fece costruire un tempio dedicato congiuntamente a Venere e Roma».

«Ma non era Silvia la madre dei gemelli? Non ci capisco più niente...».

«Sì, ma nel contesto mitico dietro ogni personaggio si cela un dio», rispose Lazzari accalorandosi. «Si potrebbe scrivere un intero libro su Rea Silvia, e non sai quante analogie troveresti con la Maria cristiana, non solamente il concepimento verginale. L’etimo del nome proviene dal latino silva, che significa “bosco”, “legname”, ma anche “materia”. Il prenome, invece, deriva da reus che ha due significati: “reo” e “consacrato”. Io scarterei il primo: Silvia, infatti, non infranse il voto di castità, perché fu un dio a possederla. Reus significa piuttosto consacrato agli dèi: Silvia infatti era Vestale, una sacerdotessa consacrata a Vesta».

«Continua», fece Artemisia che lo guardava a pochi centimetri di distanza, attratta dall’intensità inaspettata di quello sguardo.

«C’è anche un altro interessante collegamento. La grande dea dell’Asia, Cibele, era detta Rea dai popoli che l’adoravano: i greci la chiamavano invece Idaia, dal monte Ida, che significa proprio bosco, legname, e corrisponde in tutto alla parola silva».

«Perché ci tieni tanto a sottolineare questi significati? Cosa hanno di tanto speciale?»

«Perché per i romani dietro Silvia si cela il principio femminile dell’universo: la materia che viene informata dal dio, il legname che viene acceso e trasformato in fuoco!».

«Quante cose dietro una semplice ragazza».

«Quando il simulacro di Cibele fu trasferito a Roma, sai quale luogo scelsero i romani per ospitarlo?»

«Scommetto il Palatino».

«Esatto! Ruota tutto intorno a quel luogo. Il tempio di Vesta sorgeva all’incrocio delle due principali vie cittadine, il cardo e il decumano: era l’unico ad avere forma rotonda, con un’apertura sul tetto affinché tutta la città potesse controllare il fumo del fuoco che doveva bruciare all’interno senza sosta, pena la rovina dell’Urbe; ed era anche l’unico il cui culto era affidato a un sacerdozio femminile. Tutti elementi che sottolineano la sua centralità e particolarità. Secondo la leggenda, il concepimento divino di Remo e Romolo avviene mentre la vergine Silvia si reca ad attingere acqua di fonte, ossia pura, condizioni che implicitamente alludono alla disponibilità della ragazza a essere fecondata dalla divinità. Proprio come Maria, che pronuncia il suo fiat alla volontà divina».

«Prima le analogie tra la fondazione di Roma e la Pasqua, ora tra la nascita di Remo e Romolo e quella di Gesù. Ma che cosa stai cercando di dimostrare?»

«Sollevo semplicemente degli interrogativi», si schermì Lazzari. «Per adesso lasciami finire il discorso sulla dea che si nasconde dietro Silvia. Devi sapere che il fuoco di Vesta veniva acceso una volta all’anno con il rito della terebratio, ossia facendo scoccare una scintilla per sfregamento: il fuoco doveva essere vergine, non figlio di altro fuoco. Questo ulteriore particolare ha fatto pensare a molti che fosse Vesta a celarsi dietro la figura di Silvia».

«Quindi era Venere o era Vesta la vera madre dei gemelli?»

«Chi dice che fossero due? Secondo il filosofo Macrobio, Valerio Sorano...».

«Quello che fu ucciso per aver rivelato che Roma aveva un nome segreto?»

«Proprio lui», confermò Lazzari. «Sorano, nell’Epoptidon, svelò pure che tutte le dee non erano che l’espressione di un’unica divinità. C’è poi una terza indiziata. Se il termine Rea si riferisce all’omologa dea greca, come sostengono alcuni esperti, allora la corrispettiva divinità latina sarebbe Opi, la dea dell’abbondanza».

«E in questo caso quali sarebbero le prove di un suo collegamento con Silvia e la fondazione di Roma?»

«Ce ne sono almeno tre. Primo: nella domusRegia, posta all’interno del santuario di Vesta, erano presenti esclusivamente due sacrari, il primo dedicato a Marte e l’altro proprio a Opi. Secondo: in quello stesso edificio fu conservato il sacro lituo e tutto ciò che apparteneva alla fondazione della città. Terzo: Opi era detta Consivia, la cui radice etimologica è la stessa del verbo condere, ossia “fondare”». Lazzari si arrestò di colpo e le prese la mano. «Che ne pensi?»

«Penso solo che non hai ancora risposto alla mia domanda sul termine Amor», fece Artemisia, che ormai gli era molto vicina.

Lazzari prese un legnetto e fece un rapido disegno sullo spesso strato di polvere che ricopriva il pavimento:

 

 

«Questo disegno è stato ritrovato su un muro di una casa di Pompei».

«Pompei?»

«Vuoi che te ne parli?», domandò Lazzari tracannando l’ultimo sorso di grappa. La bottiglia era finita.

«Non stasera», fece Artemisia, sfiorandogli il volto con il suo.

Lazzari avvertì una vampata di calore. Il cuore prese a battergli così forte che perfino Artemisia se ne accorse. Si avvicinò ancora e lasciò passare le labbra dietro il suo orecchio.

«Non ti scoppierà il cuore, vero?», sussurrò Artemisia sfiorandogli gli occhi con la punta delle dita.

«Staremo a vedere», e la baciò di slancio per vincere la timidezza.