13
Artemisia si svegliò nel proprio letto. Si alzò e senza mettersi nulla addosso sgusciò nella stanza attigua. La porta era aperta. Lazzari era in piedi davanti alla finestra e le dava le spalle. Indossava solo i pantaloni. Pensò che avesse una bella schiena, peccato per quella sua abitudine di tenere le spalle curve, come se stesse continuamente dicendo “così va il mondo”.
«Ricordo di essermi addormentata sul divano, ma non ricordo come ho fatto ad arrivare fino al letto. Sulle mie gambe?».
Lazzari si voltò di scatto, non l’aveva sentita arrivare e quando la vide nuda, con le mani intrecciate sotto i seni e le lunghe gambe scaldate dalla luce zigrinata del sole, abbassò lo sguardo. «Sulle mie braccia».
Artemisia frugò sul tappeto con la punta del piede, reclinò la testa e lo guardò dal basso in alto. «Che c’è?»
«Mi sono dimenticato di dirti una cosa ieri sera», disse Lazzari. Si avvicinò rapidamente e la baciò. Artemisia lo ricambiò e poi, all’improvviso, lo allontanò e scoppiò a ridere.
Fecero colazione al bar sotto l’albergo. Un nastro di sole era posato sull’angolo del tavolino come quello di un pacchetto dono.
«Dici che si sentono così gli sposi il giorno in cui finisce la luna di miele? Quando guardano per l’ultima volta l’orizzonte tropicale e pensano al ritorno a casa, all’ufficio, alle rate, ai genitori che invecchiano, alla passione che finirà?».
Artemisia inforcò gli occhiali. «Non credo siano queste le cose che pensano i novelli sposi, almeno quelli normali... Forse sono i pensieri che hai fatto tu... Magari quando lei ti ha lasciato».
Lazzari non riuscì a nascondere la sorpresa. «Come fai a sapere che è stata lei a lasciarmi?»
«Ce l’hai scritto in faccia».
Lazzari la guardò a lungo. «Sai, a volte anch’io vorrei un paio di occhiali come i tuoi».
Arrivarono a Sarzana nel primo pomeriggio e parcheggiarono a ridosso del centro storico. Non avevano pranzato, ma si sentivano ancora sazi per la cena della sera prima. Passarono sotto le mura medievali e si incamminarono lentamente verso casa di Parodi, scambiandosi di tanto in tanto un’occhiata interlocutoria.
«Che dici? È l’ora giusta per suonare alla porta di un ottantenne?», gli domandò Artemisia. Indugiavano davanti al portone, mentre il sole tiepido delle due accarezzava i loro visi. La neve e il freddo di due giorni prima erano solo un ricordo.
Lazzari glissò sull’ironia. «Probabilmente a quest’ora si sta facendo un sonnellino».
«E che genere di sonno...», sussurrò Artemisia, di colpo pallida.
«Che hai?», le domandò Lazzari scuotendola per il braccio.
La ragazza gli indicò con l’altra mano la locandina del giornale locale esposta accanto all’ingresso di un’edicola.
IL PROFESSOR PARODI TROVATO MORTO
NELLA SUA ABITAZIONE.
ARRESTO CARDIACO. ALCUNI DETTAGLI DA CHIARIRE.
Comprarono il giornale, se lo contesero e ne strapparono un pezzo per la fretta di aprirlo. Lo lessero in piedi davanti all’edicola. L’articolo aggiungeva pochi altri particolari al titolo.
Il cadavere del professore presentava segni di corde ed ecchimosi sui polsi, come se fosse stato legato. L’appartamento era in perfetto ordine, e questo sembrava far escludere l’ipotesi del furto, ma nessuno poteva affermare se fosse stato portato via qualche oggetto, vista la vastissima collezione di monili antichi e pezzi d’arte conservati da Parodi, noto e stimato antiquario.
«Devono averlo legato e interrogato», disse Lazzari sgranando gli occhi. Aveva le palpitazioni e un dolore diffuso e costante alla bocca dello stomaco.
«E lui deve avergli detto quello che ha detto a noi», continuò Artemisia.
«E soprattutto gli avrà detto di noi».
«Che saremmo tornati».
«Forse sono ancora qui».
«E ci stanno cercando».
«Scappiamo», fece Lazzari prendendola per mano. Schizzarono verso il parcheggio abbandonando il giornale che frullò a terra.
Artemisia si bloccò dopo una manciata di passi e lo strattonò. «Fermati, forse conoscono la nostra macchina e ci stanno aspettando là».
«E che cosa vuoi fare, lasciarla lì?»
«Che te ne importa? È solo una macchina!», disse Artemisia.
Lazzari annuì. «Alla stazione, allora».
«Dov’è?»
«Nella parte nuova della città, almeno credo. Non ricordo con esattezza. In ogni caso, non più di un paio di chilometri da qui».
«Troppa strada, ci vedrebbero. E poi forse stanno sorvegliando anche la stazione. Prendiamo un taxi».
«Sull’altro lato della piazza, via!».
Attraversarono a passo sostenuto il campo acciottolato e in lieve pendenza, facendosi largo tra i numerosi passanti. Alcuni bambini avevano accatastato giacche e zaini su una panchina e giocavano a pallone. La palla rotolò fino ai piedi di Lazzari che si fermò e la calciò verso i ragazzi. Fu un tiro maldestro. Rimase a guardare imbarazzato il pallone che schizzava lontano.
Quando si voltò scorse un uomo in giacca e cravatta alle spalle di Artemisia. Camminava a passo sostenuto e pareva puntare verso di loro. «Vieni via, corri!», disse ad Artemisia, afferrandola per il braccio. Ma fecero in tempo a compiere solo una decina di passi che si ritrovarono davanti un altro sconosciuto che li bloccò con fare cortese ma deciso, come se fosse un vecchio amico intenzionato a farsi riconoscere.
«Signor Lazzari, che piacere», disse l’uomo. Nel frattempo anche l’altro li aveva raggiunti.
«Collaborate e non vi succederà nulla», li rassicurò uno dei due, posando una mano sulle loro spalle. Disse di chiamarsi Fazio e presentò l’altro come l’agente Prati. Erano della stessa altezza, avevano volti dalle mascelle pronunciate, e portavano identici occhiali da sole.
Prati sorrise toccandosi il fianco con un gesto allusivo. «Professor Lazzari, la prego di seguirmi. Si tratta di quel famoso caffè. Milano, ricorda?».
Lazzari si accorse del rigonfiamento sulla giacca di Prati all’altezza del fianco e quando tornò ad alzare lo sguardo riconobbe l’uomo che dalla Mercedes gli aveva puntato contro la pistola. «Sarà freddo il caffè a quest’ora», si sforzò di dire, ma il tono stridulo lo tradì. Aveva la gola secca, le mani sudate e nel petto il cuore gli scoppiava.
«Lo berrà comunque questa volta».
Li scortarono fino al bar che dava sull’angolo della piazza. Tavolini di ferro, piante ornamentali e tende bianche. Li fecero sedere tra due pesanti fioriere con le spalle contro il muro. I due uomini presero posto di fronte a loro, in modo da bloccare qualsiasi via di fuga.
Ordinarono quattro caffè e li attesero senza parlare. Appena il cameriere se ne fu andato, Prati sorrise un’altra volta: pareva il suo modo per anticipare che aveva qualcosa di interessante da dire, come se pregustasse una delizia. «Spero di non avervi spaventato. In guerra, si sa, la paura uccide più della spada, e non vorrei che faceste la fine del vecchio Parodi. Non è stato piacevole vederlo afflosciarsi all’improvviso».
«Non è quello che volevamo», si intromise Fazio.
«Giusto, non era nel mio interesse. Tutto ciò che desidero è collaborazione», continuò Prati.
«Vi chiediamo solo un po’ di buona volontà. E state tranquilli, siete in buone mani», li rassicurò Fazio. «La nostra agenzia, che si occupa di molte questioni riservate e delicate, ha un motto: riuscire o altro».
«Che vuol dire “altro”?», domandò meccanicamente Lazzari.
Fazio sembrò felice di rispondergli: «Non lo sappiamo professore, non ci è mai capitato».
Prati appoggiò le mani sul tavolo e poi le fece scorrere in modo perentorio nei due sensi. «Ho garantito a chi ci ha ingaggiato che se quel vecchio bastone esiste davvero, io lo recupererò. Voi state tentando la stessa operazione. La mia idea è questa: perché non unire i nostri sforzi? Abbiamo a che fare con una banda di pazzi. Mi riferisco agli adepti della setta che nasconde i tesori di Roma: all’inizio non volevo crederci, ma dopo che ho visto come hanno ridotto quel disgraziato di Achille Vento, ho dovuto cambiare opinione. In guerra non c’è peggior nemico dei dilettanti: non sai mai da dove ti possono sparare. Voi non siete preparati ad affrontarli».
«Avete bisogno della nostra protezione...», riprese Fazio.
«...E non siete in grado di proteggervi da noi», concluse Prati, i denti bianchi che brillavano nella bocca semiaperta. «Io d’altra parte, caro professor Lazzari, sarei felice di poter contare sulla sua preziosa ed esperta guida per recuperare il lituo».
Lazzari, stanco di muovere la testa da uno all’altro, prese a fissare un punto tra i due volti. I bambini sullo sfondo erano chiazze di colore in movimento. Le loro urla erano ricacciate indietro dal fischio che avvertiva nelle orecchie. Era così agitato che temeva di essere sul punto di svenire.
«Come vedete le vostre scelte si riducono», riprese Prati. «Quando non si può scegliere, non si può sbagliare».
Lazzari sussultò, perché quel modo di fare non era poi tanto diverso da quello del Colonnello e in fondo lui non aveva preso impegni precisi con nessuno. E poi il Colonnello, a quanto pareva, non era in grado di proteggerli.
«Ma non siamo dei ricattatori», tenne a precisare Fazio.
«Vi propongo un affare», disse Prati.
E Fazio specificò: «Il venti per cento del nostro premio».
«Tutto qui?», fece Artemisia con un sorrisetto cattivo. Seduta con le gambe accavallate e le braccia conserte, sfoggiava un’altera disinvoltura, come se fosse alle prese con due cacciatori di autografi. Lazzari, invece, era un groviglio di nervi e passava continuamente dalla rassegnazione alla voglia di replicare, la testa piena di ragionamenti e ipotesi che non arrivavano da nessuna parte.
Fazio annuì soddisfatto. Lazzari aveva capito che si trattava di uno di quelli che hanno sempre la risposta pronta, che desiderano essere messi alla prova seminando invitanti trappole in frasi all’apparenza chiare. «Stiamo parlando di duecentomila euro».
«E non dimenticate l’altro bonus, che non ha valore», aggiunse l’altro.
«O, almeno, ha il valore che gli intendete dare», commentò Fazio.
«Sto parlando della vostra incolumità», chiarì Prati.
«La vostra vita e duecentomila euro: ecco la nostra ultima proposta».
Lazzari diede un colpo al tavolo e poi agitò la mano senza riuscire a trattenersi. «E se ci rivolgessimo alla polizia?».
Prati si aggiustò gli occhiali sul volto, accennando un sospiro. «Caro professore, quando si inseguono bastoni millenari e segreti epocali, quando si ha a che fare con sanguinarie sette segrete e agenzie paramilitari come la nostra, conviene accettare il fatto che ben pochi sono disposti a darci credito: nessuno vi crederà».
Lazzari provò a guadagnare tempo, mentre cercava di ragionare. «I miei libri li avete voi?»
«Siamo andati a prenderli per risparmiarle il disturbo. Li teniamo noi, ma sono a sua disposizione. Ha visto che servizio?», fece Fazio.
Lazzari si picchiò i palmi contro la fronte. «E se non dovessimo accettare?»
«Vi lasceremo andare», rispose tranquillamente Fazio.
«Così potrete andare in caserma e dire che due uomini ben vestiti, ma che non sapreste riconoscere, vi hanno minacciati perché state cercando il bastone magico con cui il signor Romolo fondò la città di Roma, che tra parentesi non si chiama Roma. I carabinieri prenderanno nota, si scambieranno di nascosto sguardi divertiti, poi vi saluteranno garantendovi che faranno tutte le indagini del caso. Ossia nessuna».
«Poi uscirete dalla caserma e penserete a un modo sicuro per lasciare la città».
«Rinuncerete alla macchina per timore di trovarci là», fece Fazio.
«Ed escluderete anche il treno, per gli stessi motivi», concluse l’altro.
Lazzari, stupito, guardò Artemisia. Era proprio quanto avevano già fatto. La ragazza, però, teneva gli occhi fissi davanti a sé, rigirando tra le mani il cucchiaino del caffè. Pareva pronta a saltare alla gola di quei due munita solo di quell’arma improvvisata.
«Alla fine prenderete un taxi», disse Fazio, «vi guarderete indietro, chiedendovi se vi stiamo seguendo».
«Penserete di averla scampata».
«Vi rilasserete, dimenticando che vi abbiamo già trovato per ben due volte: a Milano e qui».
«Una volta a destinazione, scenderete da quel taxi e riprenderete la vostra vita, fino a un certo giorno».
«Quel giorno, di ritorno dal lavoro o da una piacevole serata con gli amici, aprirete la porta di casa».
«Vi toglierete la giacca, magari le scarpe, accenderete la luce, e sulla poltrona vedrete uno di noi».
«E poi un piccolo bagliore».
«Chiuderete gli occhi».
«E non li riaprirete più».