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Lazzari non riuscì ad addormentarsi. Dopo essersi rigirato nel sacco a pelo per un paio d’ore, uscì dalla tenda e scoprì che Dino era rimasto di guardia. Spostò il binocolo e si sedette al suo fianco. Il barbuto gli fece cenno di passarglielo.

«Niente sonno?», gli domandò Lazzari.

«Ci sono volte in cui l’unico modo sicuro per svegliarsi è quello di non andare a dormire», rispose Dino accarezzando il fucile.

Verso le quattro anche Artemisia si unì ai due compagni. Aveva i capelli di una gorgone e il volto leggermente gonfio di una diva francese sulla ribalta qualche anno prima – Lazzari non ricordava il nome. Dino cedette alle richieste della ragazza e acconsentì ad accendere un piccolo fuoco con cui riscaldarsi, schermandolo perché le fiamme facessero meno luce possibile.

«Me lo hanno insegnato in Africa», disse quando ebbe finito di camuffarlo.

«Ci siamo», mormorò Lazzari tra sé e sé.

Verso le sei il Lupo uscì dalla sua tenda e fece cenno a Lazzari di raggiungerlo. Gli mise un braccio attorno alle spalle guidandolo oltre i cespugli che proteggevano il piccolo accampamento.

«Non ci avrai ripensato?», gli disse Lazzari tradendo l’ansia.

«Oh, niente affatto. Tutto confermato, anzi», lo tranquillizzò il Lupo. «Però stanotte ho sentito al telefono anche un altro mio amico. È un importante antiquario di fama internazionale, specializzato in codici e volumi antichi».

Lazzari gli fece cenno di andare avanti.

«Mi sono permesso di chiedere il suo parere su quel libro di cui mi hai accennato, l’Epoptidon. Pensavo, e lo penso tutt’ora, di farti cosa gradita».

Lazzari non ricordava di avergliene parlato, ma forse era stato Parodi quando lo aveva contattato dietro loro richiesta. «Arriva al punto».

«Questo mio amico dice di essere in possesso di un frammento di pergamena che potrebbe essere appartenuto all’Epoptidon».

«Che cosa glielo fa credere?»

«È proprio questo il punto. Il suo, per quanto fondato, è soltanto un sospetto, un’intuizione. Mi ha parlato di un viaggio di Valerio Sorano in Sicilia prima della sua morte».

«Alcune fonti vi accennano», concesse Lazzari.

«Di più non mi ha detto. Forse ipotizza che durante il viaggio Sorano sia riuscito a nascondere una copia dell’Epoptidon e che il libro sia poi sopravvissuto in qualche modo...».

«Lascia stare le ipotesi».

«Giusto, te ne parlerà lui stesso. Sarebbe felice di mostrarti il frammento in questione. Se fosse davvero autentico, come mi auguro, ci guadagneremmo tutti. Tu ricaveresti informazioni preziose, forse decisive, e lui si ritroverebbe tra le mani un pezzo di valore centuplicato».

«E tu?»

«E io avrò la mia commissione, come è giusto che sia», ammise il Lupo come se fosse naturale e insindacabile. «Questo mio amico sta a Roma. In mezza giornata andiamo e torniamo. Che ne dici?»

«Dico no».

«Perché?»

«Prima la tomba».

«La tomba non scappa».

«E il tuo amico nemmeno. Lo hai detto tu stesso. Ha cento buoni motivi per non farlo».

Il Lupo pareva deluso e irritato. Rimase incerto su come ribattere, non era affatto preparato a ricevere un rifiuto. «Il tuo non è un ragionamento da uomo del mestiere», disse infine.

«Infatti non è il mio mestiere. Ora vieni, prima che Dino si insospettisca».

 

Fecero colazione con pane e formaggio, bagnati da una tazza di caffè freddo, poi radunarono gli attrezzi e si misero in marcia.

Il Lupo era il più loquace del drappello e non faceva che raccontare vecchi aneddoti su altri cacciatori di tesori, figure mitiche di un passato più o meno recente che solo lui pareva conoscere e venerare. Sembrava essersi completamente dimenticato della discussione di poco prima con Lazzari.

«Di te non ci racconti nulla?», lo interruppe a un certo punto Dino, con fare provocatorio.

«Di me parleranno gli altri, un giorno», promise il Lupo. «Come accadde con il grande Schliemann che era deriso e vilipeso da tutti per le sue intuizioni e alla fine scoprì Troia e passò alla storia».

Mancavano poche centinaia di metri alla tomba, quando squillò il cellulare di Dino, un suono disturbante nel silenzio del bosco. «Fermi tutti», ordinò, allontanandosi poi per rispondere.

Artemisia si avvicinò a Lazzari. «Che hai? Mi sembri teso come una corda».

«Hai presente il primo giorno di scuola?»

«Io non ti capisco: prima eri certo che non lo avremmo mai trovato, il lituo, e ora sei convinto che sia conservato in quella tomba».

«So tutto quello che mi serve sapere», rispose Lazzari a disagio.

«Ma che cosa ti fa essere così fiducioso?», insistette Artemisia.

«All’interno della tomba c’era il medaglione della Confraternita, non dimenticarlo».

«Non mi pare un indizio sufficiente».

«Ce ne sono molti altri, anche se tu non puoi vederli».

Artemisia, già surriscaldata, era pronta a ribattere, ma in quel momento ricomparve Dino, scuro in volto.

«Era il Colonnello. Ha appena ricevuto una soffiata affidabile», li informò senza guardare nessuno in particolare.

«La Tauros?», si preoccupò Lazzari.

«No, ha a che vedere con le nostre ricerche».

«E perché non ha chiamato me?», si arrabbiò Artemisia.

«Non so quali fossero i vostri accordi. Io dipendo da lui, lo sai».

«Che succede?», insistette Lazzari.

«Dobbiamo andare a Ostia», annunciò Dino. «Reperti ripescati dalle paludi...».

Lazzari era esterrefatto. C’erano una serie incredibile di assurdità in quello che aveva appena udito e non sapeva quale indicare per prima. «Non ci sono più paludi a Ostia».

«Ripescati molti anni fa», precisò Dino. «C’è un tizio disposto a venderli. Roba che scotta e che potrebbe interessarci. Non so altro...».

«Non se ne parla», disse Lazzari.

«Anche quella di Vento era una pista scovata dal Colonnello e anche allora eri perplesso», si inserì Artemisia.

«Ora non sono affatto perplesso. Sono furibondo», sbottò Lazzari. «È chiaramente una bufala! Ci voglio rifilare della paccottiglia. È mai possibile che dobbiamo perdere tempo per una cosa simile? Vi avevo messo in guardia a suo tempo. Si stanno di certo diffondendo delle voci sulla nostra ricerca. D’ora in avanti il vostro Colonnello sarà tempestato di telefonate di gente che proverà a vendergli reperti. Che dovremmo fare? Rispondere alla chiamata di chiunque ci...».

«Qui non stiamo parlando di cosa dovremmo fare, ma di cosa faremo. E noi andremo a controllare», mise in chiaro Dino, il fucile di traverso sulla spalla. «Sono ordini. A meno che Artemisia non si prenda la responsabilità di scegliere diversamente».

Artemisia guardò Lazzari per qualche istante, con un’aria interrogativa, poi si decise all’improvviso. «Andremo là».

«Faremo un buco nell’acqua», insistette Lazzari.

«È il posto giusto», fece il Lupo. «Paludi, no?»

«Se avessi protestato, come prevedeva, il Colonnello mi ha detto di farti questo nome: Costantino Maes», disse Dino rivolgendosi a Lazzari.

«Ecco un altro nome da non dimenticare mai», commentò il Lupo. «Un uomo a cui è stato dato troppo poco credito».

«Troppo poco credito? Era ancora più pazzo di noi!», sbottò Lazzari, resosi conto ancora una volta di averli tutti contro. «Il Colonnello sarà anche il migliore specialista di sicurezza di questo Paese, ma non intendo farmi dire da lui dove posso o non posso trovare tracce del lituo».

«Lascia perdere il Colonnello. Te lo chiedo io», disse Artemisia, e addolcì l’espressione. La sua bocca forte si aprì in un sorriso inaspettato che aveva la qualità di un colpo di fortuna, di una bella notizia.

Ci fu silenzio. Poi, appena la ragazza si accorse che Lazzari aveva ceduto, aggiunse con fare disinvolto, come se non volesse far notare la resa del compagno: «Chi è questo Costantino Maes? Perché dovrebbe essere importante per noi?»

«Il Lupo, magari, proverà a spiegarti perché è importante per noi», disse Lazzari. «Poi io ti dirò perché non lo è affatto».

 

Giunsero sul luogo dell’appuntamento soltanto alle dodici e trenta. Lungo la strada erano stati informati dello spostamento dell’incontro da Ostia a Nettuno, e così erano stati costretti a cambiare itinerario e rifare un pezzo di strada al contrario.

Artemisia, Lazzari e il Lupo si sedettero al tavolino di un bar affacciato sul mare: era stato il Colonnello a indicare il nome del locale per telefono. Da Dino si erano separati al parcheggio. Il barbuto voleva controllare la zona e non farsi vedere insieme a loro. Ogni tanto lo scorgevano passare dall’altra parte della strada, con occhiali e cappello, il passo ciondolante del turista.

«Era un erudito e un millantatore, ma aveva grandi sogni», se ne uscì a un certo punto Lazzari, posando la birra che aveva appena assaggiato.

«Di chi stai parlando?», gli domandò Artemisia.

«Di Maes», rispose al suo posto il Lupo. «Era un avventuriero e uno studioso, proprio come me. Grazie a una sua geniale illuminazione, a inizio Novecento furono scoperte nel Lago di Nemi alcune navi romane, di cui tutto il mondo scientifico ignorava l’esistenza. Rimasero con un palmo di naso quando le ripescarono. Ma la sua vera ossessione era il tempio di Giove Capitolino, il più importante tra quelli di Roma. Dedicò tutta la vita a quella ricerca».

Artemisia sorrise. «Ritrovarlo? Come si fa a perdere un tempio? Non basta scavare sul Campidoglio?»

«No, non è più là», rispose il Lupo. «Andò bruciato nel sessantotto dopo Cristo, durante gli scontri cittadini successivi alla morte di Nerone. Tacito racconta che tutti i resti del tempio, così come gli arredi e i tesori custoditi all’interno, furono trasportati via fiume fino alle paludi di Ostia, dove furono sepolti dai sacerdoti».

«E perché?»

«Forse Lazzari può spiegartelo meglio di me».

«Giove era il garante principale della pax deorum, ossia del patto tra gli dèi e i romani. Bruciare il tempio, sia pure per fatalità, comportò la rottura dell’alleanza: era un orrendo sacrilegio e andava espiato a qualsiasi prezzo. La sepoltura rituale dei resti profanati, secondo i libri sacri, avrebbe potuto ricomporre la pace», spiegò Lazzari senza l’abituale trasporto, e poi guardò l’orologio al polso di Artemisia. L’informatore del Colonnello era in ritardo già di mezz’ora.

«Stiamo parlando di uno dei più grandi tesori dell’umanità. Però nessuno volle investire nel progetto di Maes», disse il Lupo con partecipazione, quasi fosse stato lui a non aver ricevuto fiducia.

«Le paludi sono state comunque prosciugate anni dopo, come sanno tutti, e nulla del tempio di Giove è saltato fuori».

«E chi lo dice? Parliamoci chiaro Lazzari: i musei non sono certo i migliori compratori di questo mondo», si animò il Lupo, facendosi avanti sulla sedia.

«Secondo te l’uomo che dobbiamo incontrare ha recuperato parte di quel tesoro?», gli domandò Artemisia.

«Non dico che sia così, dico che potrebbe essere così. Io non vendo mai illusioni», puntualizzò il Lupo.

«E potrebbe esserci il lituo di Romolo tra quei reperti?», chiese Artemisia.

«È del tutto plausibile che i romani lo avessero conservato nel tempio di Giove, e che poi siano stati costretti a seppellirlo nelle paludi insieme a tutto il resto del tesoro contenuto nel tempio», rispose il Lupo.

«Ma cosa è plausibile?», sbottò Lazzari. «Qualunque cosa abbia tirato fuori quest’uomo da qualsivoglia palude o pozzo o canale non può interessarci. Anche se fossero reperti del tesoro capitolino, cosa tra l’altro del tutto improbabile. Il lituo, come tutto ciò che riguarda la fondazione di Roma, può essere stato conservato unicamente sul Palatino. I romani non avrebbero mai trasferito le sacre reliquie della fondazione dal Palatino al Campidoglio. Sarebbe stato un sacrilegio, perché i due colli erano legati a riti e divinità differenti e per certi versi incompatibili».

«Dimentichi le fonti che affermano che durante l’invasione dei galli le Vestali e i pontefici portarono via dal Palatino gli oggetti sacri per seppellirli in un posto sicuro».

«Le stesse fonti che riferiscono il ritrovamento del lituo, intatto, sul Palatino dopo l’incendio che i galli appiccarono alla città. Se per motivi di sicurezza avessero dovuto spostare il lituo, i romani lo avrebbero portato fuori città piuttosto che sul Campidoglio o in qualsiasi altro luogo di Roma».

Il Lupo stava per replicare, ma si trattenne all’improvviso.

«Scusate il ritardo, signori», disse un uomo che si era appena avvicinato.

Dino attraversò rapidamente la strada e, facendo finta di niente, si sedette al tavolo accanto al loro.

«Prenditi una sedia», disse Artemisia allo sconosciuto, che non se lo fece ripetere due volte.

Sui sessanta, indossava un completo scuro fuori moda, di quelli che si vedono talvolta alle cerimonie. L’odore di naftalina era inequivocabile anche all’aria aperta.

«Ho poco tempo e non voglio rubare il vostro», disse l’uomo e tirò fuori un sacchetto di stoffa che lanciò sul tavolino in corrispondenza della sedia di Lazzari.

Fu però Artemisia ad agguantarlo. Slegò i lacci e tirò fuori alcune schegge di cinque o sei centimetri di lunghezza. «Che roba è?»

«Forse il professore può rispondere», disse l’uomo.

Lazzari diede un’occhiata ai frammenti. «Sono presumibilmente scaglie di gusci di tartaruga». Lanciò una breve occhiata al Lupo e poi, dando per scontato le intenzioni del venditore, spiegò senza perdere altro tempo: «I romani, quando dovevano nascondere oggetti sacri per motivi di sicurezza, costruivano sotto terra teche in travertino, in cui depositavano orci sigillati, chiamati doliola. In quasi tutti gli orci ritrovati sono stati rinvenuti frammenti di gusci di tartaruga. Credo fossero indispensabili per il rito con cui i pontefici conferivano la loro protezione magica ai doliola».

«Rappresentano il mio biglietto da visita, professore», disse l’uomo visibilmente soddisfatto che Lazzari avesse colto nel segno. «So del suo scetticismo, ma tengo a farle presente che durante il prosciugamento delle paludi, a cui presero parte centinaia di uomini, furono rinvenuti numerosi reperti romani. Alcuni furono confiscati, altri venduti sottobanco, altri ancora conservati di nascosto. Mio nonno era uno di quegli eroici braccianti, e anche lui ne mise da parte alcuni. Nel corso degli ultimi quarant’anni mi sono dato da fare per recuperare, da coloro che ne erano in possesso, quanti più reperti possibili tra quelli saltati fuori dalle paludi. Ora posso vantare una collezione invidiabile. Vengono da tutte le parti del mondo per visionarli e comprarli. Ho saputo delle vostre ricerche e ho pensato che forse volevate dare un’occhiata».

«Possiamo andare ora a vedere la sua collezione?», domandò Artemisia.

«Ci sono delle procedure di sicurezza da rispettare, signorina. Precauzioni, capisce? Posso portarvi là, diciamo dopodomani, se per voi va bene. Ah, e un’altra cosa. Stavo quasi per dimenticare», disse l’uomo passandosi un fazzoletto di stoffa sulla fronte. «Si paga il biglietto per entrare. Come al museo. Capite, è per scoraggiare i semplici curiosi. I soldi, poi, vi verranno scalati dagli eventuali acquisti. Sono millecinquecento a testa, in anticipo».

«Questa poi», mormorò Lazzari senza nascondere il sarcasmo.

«Ti pagheremo dopodomani. Non ti preoccupare, avrai i tuoi soldi», disse con una certa ruvidezza il Lupo, agitandosi sulla sedia.

Artemisia lo guardò con aria di rimprovero, per avere parlato a nome loro senza il suo permesso, ma non gli disse nulla. «Come ti contattiamo?», domandò allo sconosciuto.

«Il signor Colonnello», rispose l’uomo, che non pareva affatto contento di non aver ricevuto l’anticipo richiesto. Si guardò attorno, come se non sapesse bene cosa fare, poi salutò e se ne andò senza aggiungere altro.

Dino si voltò verso il loro tavolo. Per un po’ rimasero tutti in silenzio, come se ciascuno dei quattro stesse ripassando la propria battuta.

«Non dire che l’avevi detto», fece all’improvviso Artemisia rivolta a Lazzari. «Dovevi insistere di più, cazzo! Convincerci che era tempo sprecato venire fin qui. Devi piantarla di dire sempre sì. Quel beccamorto ci ha fatto perdere un giorno intero».

«Speriamo soltanto quello», disse Lazzari.