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Lazzari passò da casa, infilò qualche indumento in una sacca, chiuse il gas, staccò il contatore dell’elettricità, mise i due mazzi di chiavi e una busta con l’affitto del mese successivo nella cassetta postale della signora Fattori poi prese il primo autobus per la stazione.

Il Colonnello gli aveva ordinato di non perdere tempo, avrebbe pensato lui all’enoteca, a regolare i conti e sistemare le pendenze amministrative. Era più facile ubbidire a quell’uomo che ribellarsi.

A eccezione della bicicletta e dei libri, portava con sé tutti i suoi pochi beni materiali: mille euro in contanti, la collanina della madre, un codice miniato del Vangelo di Giovanni, e il suo paio di pantaloni preferiti.

Arrivò alla stazione senza guardare neppure una volta dal finestrino dell’autobus, tanto era immerso nei suoi pensieri. Prese il regionale per Rimini e una volta arrivato decise di non andare subito in albergo. La fretta degli altri non era la sua.

Inoltre, aveva ancora troppa ansia da smaltire. Percorse il ponte romano e si fermò all’incrocio tra il cardo e il decumano, le attuali via Garibaldi e via IV Novembre. Si guardò attorno come se in quel punto preciso potesse sopraggiungere un’illuminazione.

E se fosse stata tutta una montatura?, si domandò lasciandosi alle spalle il Tempio Malatestiano. Forse all’hotel avrebbe trovato i suoi vecchi amici, gli avrebbero detto che erano stati loro a organizzare quell’incredibile scherzo, ad assoldare un bravo attore di teatro per interpretare il Colonnello e poi a coinvolgere anche tutti gli altri, l’impiegata del Comune, i falsi ispettori, le biblioteche... No, sembrava assurdo.

Quei vagheggiamenti lo fecero camminare più spedito di quanto desiderasse e senza accorgersene si ritrovò sotto l’albergo.

Un uomo in galloni gli aprì il portone. L’atrio era come se lo aspettava, un salone asburgico con i lampadari di cristallo, il pavimento in marmo lindo, le colonne di candido rosa, i tavolini di legno con le zampe arcuate e le tende in tinta con i divani. Se fosse stato ricco, pensò, gli sarebbe piaciuto vivere spostandosi da un albergo all’altro.

Si guardò attorno indeciso sul da farsi. Nessuno sembrava accorgersi di lui. Alla reception, due impiegati in giacca e cravatta confabulavano tra di loro: quello più basso e anziano sembrava impartire lezioni all’altro. Si sentiva come a una di quelle feste dove non si conosce nessuno se non il festeggiato, e non si sa bene cosa fare di se stessi.

«Il suo bagaglio, signore», lo sorprese un altro portiere comparendo alle sue spalle. Era alto, con le sopracciglia unite sopra il naso aquilino.

«Sono solo di passaggio», balbettò Lazzari.

«Non è nostro ospite?»

«È mio ospite», si intromise una ragazza.

Lazzari non l’aveva mai vista prima, ma era convinto di aver già sentito quella voce, roca, suadente e allo stesso tempo stanca, come se fosse abituata a farsi ubbidire e quell’abitudine le fosse venuta a noia. Indossava un paio di sneakers, jeans sbiaditi, grandi occhiali scuri e una felpa verde che portava impresso il logo di un’università americana. Dal cappuccio spuntavano alcune ciocche di capelli. La maglia le lasciava scoperto un tratto di schiena all’altezza della cintura, mentre sul davanti un lembo della T-shirt penzolava sopra la tasca sinistra dei pantaloni.

Il portiere annuì, fece due passi indietro, poi si voltò e se ne andò.

«Grazie», le disse Lazzari.

«Aspetta a ringraziarmi. Il viaggio è lungo».

Lazzari lasciò cadere il borsone. «Sei tu?»

«Il Colonnello non ti ha detto niente? C’era da aspettarselo. È fatto così, pensa che siano gli uomini a dover viaggiare e non le informazioni».

«Pensa a sproposito».

«A proposito, mi chiamo Artemisia».

«Avevano terminato tutti i nomi?», le domandò Lazzari stringendole la mano.

Artemisia si sistemò con calma gli occhiali. «Se fossi stato attento alle lezioni di storia greca, invece di giocare con i soldatini o guardare gli slip della tua compagna, avresti imparato che Artemisia è stata una grande regina dell’Asia Minore: quando morì suo marito Mausolo, di cui era perdutamente innamorata, fece costruire ad Alicarnasso un mastodontico sepolcro, una delle sette meraviglie del mondo antico. Da allora ogni tomba monumentale porta il suo nome: mausoleo per l’appunto...».

Lazzari si grattò l’orecchio. «Pensavo che cercaste un esperto di storia romana, e non di storia greca, scusate tanto».

«Spero tu sia esperto anche di altre cose. Dovremo passare del tempo insieme e io mi annoio facilmente. Sai guidare?»

«Guidare? Certo che so guidare».

Era un’Audi station wagon grigia. Lazzari infilò le borse nel bagagliaio e salì al posto di guida. Impiegò qualche minuto per regolare gli specchietti e il sedile, mentre Artemisia lo osservava in silenzio scuotendo il capo. Infine si immisero sulla via che costeggiava il mare e sfilarono sotto gli alberghi vuoti e silenziosi.

«Mi dispiace per la battuta sul nome, non volevo offenderti», le disse Lazzari.

L’ironia era sempre stato il suo modo per avvicinare gli altri. Con il tempo aveva imparato a disprezzare quell’approccio, ma quando si sentiva in difficoltà o in imbarazzo non riusciva a farne a meno.

«L’ha scelto mio padre. Ha una fissa per l’antichità. Pensa che il passato sia un bel posto dove vivere, se capisci cosa intendo».

«Lo capisco».

«È un terribile egocentrico, ma ha anche i suoi pregi...».

«Ecatomno, intendi

«Chi?», saltò su Artemisia.

Lazzari staccò la mano dal cambio per indicare qualcosa oltre il parabrezza. «Se avessi studiato con più attenzione storia greca, invece di fissare le gambe dei tuoi compagni che giocavano a calcio, avresti imparato che Ecatomno era appunto il padre di Artemisia, moglie e sorella di Mausolo».

«È ora che mi racconti qualcosa di questa vicenda, non trovi?», gli domandò Artemisia.

Avevano appena imboccato l’autostrada e Lazzari pensava a tutte le città che erano disseminate davanti a loro – si trattava solo di proseguire sempre dritti, magari su fino al Mare del Nord. «Io?», fece sorpreso, ridestandosi di colpo dai suoi pensieri. «Credevo che sarei stato io quello che avrebbe ottenuto informazioni da te. Tu non lavori per questa fantomatica Fondazione?»

«Tu, semmai, lavori per la Fondazione SigmaPiTau, che non è affatto fantomatica. A questo punto dovresti essertene accorto. Io sono qui solo per impedirti di metterti nei guai o di mettere nei guai la Fondazione».

Lazzari fece un gesto con la mano come a dire che era lo stesso. «Che cosa vorresti sapere?»

«Tutto».

«Tutto è troppo. Come faccio a spiegarti in due minuti quello che ho cercato di imparare in vent’anni di studio?»

«Abbiamo tre ore fino a Milano, o forse cinque se insisti con questa andatura da villeggiante della domenica».

«Ci proverò. Partiamo da quello che sai tu».

Artemisia si tolse le scarpe e si mise a gambe conserte. «D’accordo. Il Committente, come lo chiama il Colonnello, vuole a tutti i costi conoscere il vero nome di Roma e il segreto sulle sue origini; e vuole quel benedetto bastone da far vedere agli illustri ospiti che frequentano abitualmente casa sua per poter dire a ciascuno di loro: “Lei è il presidente di quel bellissimo Stato, o di quella potente banca, ma io tengo in mano il legno con cui Romolo fondò Roma, la città delle città”».

«Il Colonnello mi aveva parlato di un circolo di mecenati».

«Il Committente è il presidente della Fondazione SigmaPiTau. È lui a comandare. Gli altri fanno numero».

«È quello che facciamo tutti, in un certo senso», si lamentò Lazzari.

«Ora è il tuo turno».

«Parola».

«Cosa?», scattò Artemisia.

«È un’espressione del poker di un tempo. Mai sentita? Significa che tocca ancora a te parlare. Chi ci aspetta a Milano?».

Artemisia scuoteva la testa. «Abbiamo appuntamento con Achille Vento, quello che ha messo la pulce nell’orecchio del Committente. Tramite gente del giro, il Committente è venuto a sapere di questo Vento e della setta di cui fa parte. Pare che custodiscano il segreto su Roma fin dalle origini».

«Gente di quale giro?», domandò Lazzari.

«Appassionati di oggetti storici, antiquari, galleristi...».

«Tombaroli, ricettatori, trafficanti internazionali...».

Artemisia sbuffò. «Se sai già le risposte, evita di fare le domande».

«Io mi pongo solo le domande di cui conosco già la risposta», borbottò sottovoce Lazzari.

«Bel modo di fare per uno studioso».

«Come fate a sapere che è una fonte affidabile, questo Vento?»

«La Fondazione ha incaricato il Colonnello di verificare. Lui ha preso le sue informazioni e ha decretato che è una fonte attendibile».

«Che cosa vuole questo Vento in cambio delle informazioni?»

«Soldi, ovvio. Gli è stato già dato un acconto, ma fino a oggi non ha svelato nulla: pretende di parlare con un esperto, dice che le informazioni in suo possesso sono in codice e vanno decifrate da uno specialista in materia. Quelli della Fondazione hanno fatto le loro ricerche e hanno scelto te. Ora sai tutto quello che so io. È il tuo turno: vuoi parlarmi di questo benedetto segreto che riguarda Roma? Cosa c’è di tanto importante e misterioso da far perdere la testa a uno degli uomini più ricchi d’Italia?»

«Passo».

«Non puoi passare».

«Invece sì, ho bluffato».

Artemisia reclinò il sedile, distese le gambe e intrecciò le braccia sul petto. «Ma certo, è come sospettavo», aggiunse dopo un po’, come se parlasse da sola. «Tu devi essere uno di quelli che non ha capito nulla della vita».

«Quello che io non so a proposito della vita potrebbe riempire un’intera enciclopedia, hai ragione», disse Lazzari.

 

Non parlarono più fino a quando, poco oltre Parma, Artemisia gli disse di fermarsi al successivo autogrill.

«Dove ci aspetta quel tipo a Milano?», le domandò Lazzari.

«A casa sua», rispose Artemisia. Si era tolta la felpa e se l’era avvolta intorno al collo. La T-shirt lasciava scoperta la pelle delle braccia, solcata da un’evanescente peluria bionda. A Lazzari faceva venire in mente l’estate e i granelli di salsedine baciati dal sole.

«E dove abita?», insistette Lazzari.

«In piazza Pompeo Castelli».

«Oh cazzo».

«Che c’è? Qualcosa non va?»

«Ci ho abitato per qualche anno».

«E qual è il problema?»

«Lo stesso del fantasma dell’uomo che torna nel luogo dove è stato ammazzato».

 

Al bar dell’autogrill Lazzari prese un caffè lungo e andò a berlo davanti all’espositore dei giornali. Dopo aver letto i titoli dei principali quotidiani si diresse verso un tavolo per posare la tazza, ma si scontrò con un uomo sui trentacinque di almeno un metro e novanta. Indossava un cappellino verde con una D rossa cucita sulla tesa e un paio di occhiali scuri sopra la barba di un mese.

«Scusa», gli disse.

Il ragazzone gli posò una mano sulla spalla. Pesava come un mattone. «Man, cerca di stare più attento».

Artemisia, già sulla porta, gli fece un cenno spazientito. «Dài, dài, andiamo! È tardi!».

«Tardi per cosa?», le domandò Lazzari appena furono ripartiti.

«Non vorrei metterci tutta la vita per scoprire questo segreto».

«In ogni caso non basterebbe».