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Il Colonnello sedeva al tavolo nascosto dietro la porta d’ingresso: da lì poteva controllare chi entrava senza essere visto. Fu il maître a indicarlo a Lazzari, che si avvicinò a grandi passi con la ferma intenzione di abbandonare l’incarico.

Al fianco del Colonnello vide una ragazza che sembrava pronta per un red carpet. L’abito nero faceva risaltare braccia e collo scoperti. Aveva lunghi capelli sciolti, ma la voce, quando disse «Pensavo fossi andato a nasconderti in un buco», si rivelò quella di Artemisia.

Le parole piene di rabbia gli morirono in gola. Cercò a tentoni la sedia alle sue spalle mentre prendeva posto.

«Signori, arriverò immediatamente al punto», esordì il Colonnello sfregandosi le mani.

«Il punto? Il punto è che qualcuno ci sta dando la caccia. Hanno tentato di rapirmi appena poche ore fa! E un bestione con barba e cappello ci sta dietro fin dall’inizio!», sbottò Lazzari, aggrappandosi al tavolo.

I bicchieri di cristallo tintinnarono gettando riflessi iridescenti contro il mogano che rivestiva la stanza, simile al coro di una cappella barocca.

«Questo è un corollario, non il punto, dottore», precisò il Colonnello senza scomporsi. «La questione centrale riguarda piuttosto la nostra missione, se così vogliamo chiamarla. Il Committente aveva previsto la possibilità che altri fossero sulle tracce del lituo. Ciò che però non aveva previsto era che la concorrenza desiderasse l’obiettivo almeno quanto noi e che fosse disposta a usare strumenti non proprio ortodossi per condurre in porto l’operazione».

«Teme la competizione, Colonnello?», intervenne Artemisia, giocando con uno dei suoi orecchini.

«Temo l’imprudenza e l’impreparazione», precisò il Colonnello spostando la lama del coltello verso il piatto.

«E chi sarebbero questi concorrenti, come li chiama lei? Quelli sulla Mercedes che hanno tentato di sequestrarmi? Lo sconosciuto con il cappello? Poche ora fa si è presentato nell’appartamento dove abbiamo dormito!», si intromise Lazzari.

«Le informazioni sui nostri concorrenti sono riservate e per giunta non funzionali allo svolgimento del suo compito. A cosa le gioverebbe sapere il nome dell’agenzia che è entrata in competizione con noi?», fece il Colonnello con voce di ghiaccio. Poi in tono più morbido: «Ora ascoltatemi. Il mio compito è quello di consigliarvi per il meglio. E il mio consiglio è quello di abbandonare la missione».

Lazzari indicò la parete piena di bottiglie. «Dunque potrò tornare a casa? Potrò riavere la mia enoteca? Intendo senza debiti e fastidi burocratici?».

Il Colonnello si pulì gli angoli della bocca con la punta del tovagliolo. «Farò in modo, per quanto è in mio potere, di riportare la sua vita al punto in cui si trovava due giorni orsono».

«Per quanto è in suo potere? Che significa?», saltò su Lazzari.

«Dottor Lazzari, mi stupisce. Dovrebbe sapere che non basta riportare il pedone indietro di due mosse, per garantirgli la salvezza. Nel frattempo si sono mossi anche gli altri pezzi».

«Che cosa sta cercando di dirmi?»

«Che se gli agenti della concorrenza venissero a cercarla, come temo, lei si ritroverebbe al di là della sfera della mia protezione».

«Insomma, significa che quelli mi daranno comunque la caccia? Questo mi sta dicendo? Sono in ogni caso con le spalle al muro?»

«Sono tutte parole inutili», intervenne Artemisia. Versò il vino nei bicchieri, alzò il suo per invitare a un brindisi, e bevve senza aspettare gli altri due. «Noi continuiamo. Eravamo a conoscenza degli eventuali rischi fin dal principio. Andremo avanti». Poi si rivolse al Colonnello: «Lei sa quello che deve fare».

«Io devo mettervi in guardia».

«Lo ha fatto».

«Il Committente non gradirà», insistette il Colonnello.

Artemisia si strinse nelle spalle. «Non sarà né la prima né l’ultima volta».

Lazzari si stupì per quell’improvviso cambio di ruoli, ma era troppo frastornato e spaventato per chiedere spiegazioni.

Il Colonnello posò i gomiti sul tavolo, chiuse una mano nell’altra e vi appoggiò contro il mento. Dopo alcuni istanti, aprì i pugni. «Signorina Della Rovere, io non ho detto che il Committente debba rinunciare in modo definitivo al progetto. Propongo semplicemente di organizzare una nuova squadra, con persone più idonee», disse marcando l’ultima parola.

«Persone idonee per cosa?», fece Lazzari.

Artemisia, però, era già in piedi. «Non sentirò una parola di più».

«In questo caso...». Il Colonnello infilò una mano nel soprabito, tirò fuori una grossa busta di carta marrone e la consegnò alla ragazza. «Dentro troverà le chiavi di un fuoristrada parcheggiato proprio nel vicolo qui dietro, quindicimila euro in contanti, un paio di carte di credito non riconducibili a voi, e due cellulari criptati di difficile identificazione. Le restanti disposizioni rimangono immutate».

«Non ho affatto dato il mio assenso», fece Lazzari.

«Lo darai per strada, andiamo», tagliò corto Artemisia e si avviò verso l’uscita. Gli sguardi dei clienti la accompagnarono fino alla porta, e solo quando il ticchettio delle scarpe scemò riprese quello delle stoviglie.

«Lazzari, lei mi pare l’unico uomo presente in questa sala che non sia ansioso di seguirla».

«Io sono ansioso solo di capire: prima ha voluto farmi intendere che se tornassi alla mia enoteca, gli uomini che hanno tentato di rapirmi oggi tornerebbero a cercarmi?»

«Rapirla? Non sia drammatico. Intendono semplicemente proporle di lavorare per loro. Certo se rifiutasse, non so come la prenderebbero. Vuole scoprirlo?»

«Mi sta ricattando in poche parole: se mi tiro indietro mi lascerà alla mercé di quegli uomini».

«Di quei paramilitari, sì. D’altronde mi dica, perché dovrei proteggere un uomo che non lavora più per me? Se invece riuscirà a ottenere i risultati sperati, le assicuro che non avrà più di che preoccuparsi».

Lazzari tenne gli occhi sulla tavola. Non aveva neppure avuto il tempo di ordinare qualcosa. «È tutto maledettamente assurdo, ma a quanto pare ancora una volta non mi lasciate scelta».

«Non se ne pentirà, stia tranquillo», garantì il Colonnello. «La signorina Della Rovere mi ha confidato che lei ha individuato una pista. Mi pare di intendere che lei non ritiene più frutto di fantasia l’esistenza di una setta che custodisce dei segreti su Roma. C’è voluto un morto per convincerla. Ma si sa... è un difetto tipico degli uomini: solo la morte è capace di mostrare loro la verità».

«Senta, non può dirmi nulla su questi paramilitari, come li chiama lei, che stasera hanno cercato di abbordarmi?», tornò alla carica Lazzari che non riusciva a toglierseli dalla testa.

«Nulla che potrebbe giovarle, gliel’ho detto, però posso darle un’ultima informazione», disse il Colonnello tirando fuori un’agendina nera. «Achille Vento è stato ucciso dal Syn-ake, un veleno a base di siero di vipera».

Lazzari lasciò cadere la forchetta che aveva allungato verso il piatto di Artemisia, in direzione del pesce che lei non aveva mangiato. «Oh merda».

«Che cosa ho detto?», domandò il Colonnello.

«La scelta del veleno di vipera non può essere casuale. Ha senza dubbio a che fare con la poena cullei, la “pena del sacco”. Il condannato a morte veniva infilato in un sacco di cuoio insieme a una vipera, un cane, un gallo e una scimmia e poi gettato nel Tevere. Un supplizio terribile, riservato solo ai crimini maggiori, come il parricidio per esempio. Secondo le fonti antiche la introdusse il re Tarquinio per punire il decemviro Atinio, colpevole di aver divulgato alcuni riti sacri. Ci pensi bene... proprio quello che si proponeva di fare Achille Vento».

«Ha visto? Grazie a me sta camminando per le strade dell’antica Roma».

«Ma a questo punto, non crede sarebbe il caso di informare la polizia?»

«Queste informazioni mi sono arrivate proprio da loro», rispose con aperta ruvidezza il Colonnello. «E mi permetta di chiarire un punto su cui forse non sono stato sufficientemente chiaro. Lei non si rivolgerà mai, e sottolineo mai, alla polizia. Per nessun motivo. Sarò io a occuparmi di tutto, compresa la sua protezione. La riservatezza dell’intera operazione deve essere garantita a ogni costo. Non sto a dirle quale sarebbe la mia reazione nel caso disubbidisse a quest’ordine. È chiaro?».

Lazzari annuì.

«Mio padre mi ha insegnato che le cose funzionano quando ciascuno svolge il proprio compito. Lei cerchi di portare a termine il suo. Alla sua incolumità penserò io».

«Deve averle insegnato molte cose suo padre».

Il Colonnello lo studiò per cogliere una qualche ironia, e quando fu certo di non trovarne, disse con voce perentoria: «Una su tutte, che la pregherei di rammentare. La chiamava la regola d’oro del mondo moderno. Diceva sempre che il bravo venditore vende il suo prodotto, ma quello eccezionale riesce a vendere due volte lo stesso prodotto».

 

Trovò Artemisia appoggiata all’auto. Evidentemente doveva essere sicura che la avrebbe raggiunta. Gli lanciò le chiavi e salì dietro. «Guida tu, intanto io mi cambio».

Lazzari entrò e sbatté la portiera con rabbia, intenzionato a mostrare tutto il suo fastidio. «Pensi che sappia dove diavolo dobbiamo andare?»

«Non lo penso, l’ho visto».

«E dove? Nella sfera di cristallo?»

«Ce l’hai scritto in faccia». Artemisia si sfilò il vestito rimanendo in mutande e reggiseno. Lazzari distolse lo sguardo dallo specchietto, ingranò la prima e partì. Era troppo stanco, e di colpo affamato, per alimentare la propria rabbia. «Per caso hai letto sulla mia faccia anche il nome preciso del luogo dove intendo andare?»

«Piantala... Tu, piuttosto, hai visto in volto quelli che secondo te avrebbero cercato di rapirti?»

«Sì, certo che li ho visti, ma non li conoscevo. Hai sentito il Colonnello: secondo lui erano uomini di un’agenzia concorrente», disse Lazzari. «Paramilitari».

«Non sei contento? Tutti ti cercano».

«A quel disgraziato di Vento hanno fatto ingerire siero di vipera: abbiamo a che fare con pazzi che credono di vivere nell’antica Roma».

Artemisia si intrufolò tra gli schienali e prese posto al suo fianco. Indossava dei pantaloni chiari e un ampio cardigan sopra una T-shirt bianca. «Il Colonnello penserà a proteggerci, noi concentriamoci sull’obiettivo. Dove si va?».

Lazzari assestò una manata al volante e sbuffò. «Al mare», rispose secco. «Andiamo a trovare un esperto di sette antiche. Forse lui può aiutarci a capire chi siano davvero gli uomini che hanno ucciso Vento e magari fornirci qualche indizio per rintracciarli. So che è una pazzia, ma non saprei proprio da dove altro ripartire».

Artemisia gli passò una mano sulla testa. «Che fine hanno fatto i tuoi capelli anni Settanta?»

«La stessa fine del mio cervello...».

Percorsero i viali interni della città e imboccarono l’autostrada alla barriera sud di Milano. Gli sbadigli di Lazzari erano sempre più ravvicinati e profondi.

«Vuoi che guidi io?», gli domandò Artemisia.

«Al prossimo autogrill».

Nell’area di sosta, sotto i cartelloni pubblicitari illuminati, i camion erano parcheggiati gli uni accanto agli altri, come auto in un drive in. Il locale era deserto, ma caldo. Bevvero un caffè doppio a testa e ripartirono.

«Pensavi che fosse tutta una pagliacciata, vero? Non ti aspettavi che la setta esistesse realmente e che fosse pronta a uccidere», disse Artemisia dopo qualche chilometro.

Lazzari aprì un occhio. Senza rendersene conto si era addormentato. Si sentì a disagio pensando che lo avesse sentito russare. In fondo lei era una perfetta estranea. Si stirò cercando una posizione per alleviare i dolori alla schiena e mosse il collo avanti e indietro, inspirando ed espirando come gli aveva spiegato l’osteopata. «Sapevo che esisteva nei tempi antichi e che ne facevano parte gli uomini dell’epoca, ma francamente credevo fosse scomparsa molti secoli fa, al più tardi con la caduta di Roma».

«Roma», ripeté Artemisia. «Perché non mi racconti della sua fondazione?»

«Non saprei da dove partire».

«Parti da Romolo e Remo».

«Dovresti dire Remo e Romolo, allora. I romani citavano sempre Remo per primo; era lui il primogenito».

«Non vorrai dirmi che sono esistiti davvero?»

«Esiste Roma ed esiste la loro leggenda. Possono cambiare i fattori, ma non il risultato finale».

«Ma tu mi hai detto che ci sono tante varianti della stessa leggenda».

«Io credo che ne esista una originale, ed è quella incentrata sul cosiddetto “nucleo albano”, su cui poi sono fiorite le altre narrazioni. I primi racconti greci sull’argomento, ad esempio, risalgono al settimo secolo avanti Cristo. Esiodo racconta che Ulisse e Circe, genitori di Latino e Fauno, da un luogo nell’entroterra del Lazio, verosimilmente Alba, governavano sui tirreni, nelle Isole dei Beati. Stesicoro ed Ellanico, di poco posteriori, raccontano di Enea in Italia. Tutti questi elementi vanno ad aggiungersi e a incrostare la narrazione originaria di Remo e Romolo».

«Ieri mi accennavi di Silvia, la madre dei gemelli. È una figura che mi piace... vergine e madre».

Lazzari sospirò, in fondo era un modo per non pensare al cadavere di Vento e agli uomini che forse gli stavano dietro. «Silvia era la figlia di Numitore, che era stato re di Alba prima che suo fratello Amulio gli portasse via il trono. Amulio, quando divenne re, costrinse Silvia a diventare sacerdotessa di Vesta. Le Vestali custodivano il fuoco sacro di Vesta, che non doveva mai spegnersi, perché simboleggiava la perennitas del patto tra uomini e dèi. Un giorno Silvia era al torrente per attingere l’acqua necessaria alla pulizia degli arredi sacri ma si addormentò e fu presa da un dio, forse Marte».

Artemisia sorrise. «Presa?»

«Ovidio scrive esattamente: “vista, la bramò. Bramatala, la possedette”».

«Non male».

«La poesia o la situazione?», scherzò Lazzari, cercando di leggere l’espressione della ragazza nella penombra rischiarata a intervalli dai fari.

Artemisia non lo deluse. «La situazione».

«Peccato che se una Vestale rimaneva incinta doveva subire la condanna di essere sepolta viva. Agli occhi di Amulio la sua colpa era addirittura doppia, perché i suoi figli avrebbero potuto reclamare il trono di Alba, un giorno. Amulio pertanto ordinò l’uccisione degli infanti. Però i servi, impietositi, li abbandonarono sulle rive del fiume Albula».

«Che è il vecchio nome del Tevere, ricordo bene?».

Lazzari annuì. «Si chiamava Albula perché era bianco o forse perché scorreva attraverso Alba. Secondo altre interpretazioni, invece, il Tevere era originariamente chiamato Rumon, che deriverebbe da ruo, “scorrere”».

«Lascia perdere il Tevere», disse Artemisia pentendosi di averglielo domandato. «Poi che accadde?»

«La cesta viaggiò per chilometri e infine si incagliò davanti a una grotta, che poi sarà detta Lupercale, presso il colle Cermalus, dove i due neonati vennero tratti in salvo e allattati sotto il fico ruminale dalla lupa. Fu lì che li trovò il pastore Faustolo, che li portò a casa dalla moglie Acca Larenzia. Questa Acca secondo alcune versioni era una prostituta e secondo altra una dea».

«E poi?»

«E poi crebbero, un po’ pastori e un po’ briganti. Quando compirono diciassette anni e scoprirono la loro vera identità, mossero guerra ad Amulio, lo uccisero e rimisero sul trono di Alba loro nonno, Numitore. Poi decisero di fondare una città proprio nel punto in cui erano stati salvati dalle acque».

Artemisia suonò il clacson all’indirizzo di un camion che occupava la corsia di sorpasso. «Continua, mi interessa».

«I gemelli decisero di affidarsi al volere degli dèi per sapere a chi dei due spettasse il diritto di fondare l’Urbe», riprese Lazzari in modo affannato, sempre tenendo d’occhio la strada. «Remo vide per primo un uccello, o sei secondo altre fonti; Romolo, anche se in un secondo tempo, scorse dodici avvoltoi e pertanto primeggiò. Dopo aver inaugurato la città, Romolo scavò sulla cima del Cermalus la fossa della fondazione per deporvi delle primizie e vi fece edificare un’ara, su cui accese un fuoco nuovo e puro».

«Perché?»

«Ogni città doveva avere il proprio: rappresentava il legame con gli dèi. Quindi soffiò nel lituo, il bastone cerimoniale che era anche una sorta di piccola tromba ricurva, e proferì i nomi della città: per primo quello vero e segreto, e solo dopo quello di facciata, ossia Roma. Poi tracciò alla radice del monte il solco primigenio, dove successivamente avrebbe fatto costruire le mura».

«E Remo?»

«Remo, pieno di collera, scavalcò il solco e il pomerium, il sacro limite, violando la sanctitas del luogo e così il gemello lo uccise».

«Una brutta fine, ahimè», commentò Artemisia. «E quanto al nome che hai definito di facciata? Roma deriverebbe da Romolo?»

«Se ne discute da secoli. Secondo alcuni linguisti è vero il contrario, ossia che il nome Romolo deriva da Roma. Il suffisso -ulus avrebbe un valore etnico, o addirittura indicherebbe un rapporto di filiazione: come a dire il romano o il figlio di Roma».

«Ma tu non la pensi così...».

«Come fai a saperlo?»

«Perché mi sono accorta che ti piace sempre esprimere il parere altrui, prima del tuo».

«Un corrispettivo gentilizio etrusco del nome Romolo è attestato su una lapide del sesto secolo avanti Cristo: il nome dunque esisteva».

Artemisia lampeggiò a un’auto, che ritornò prontamente nella corsia di destra. «Ma insomma, il nome “Roma” cosa significa? Almeno questo lo sappiamo?»

«No, nemmeno questo. Per alcuni deriva da ruma, ossia “mammella”, che potrebbe essere quella della lupa che allattò i neonati oppure la forma del Palatino. Ricordi che ti dicevo che le cime arrotondate e gemelle del Palatium e del Cermalus formavano due seni? Per altri proviene da Rumon, il nome etrusco del Tevere».

«Questa è la leggenda, ma la storia?»

«E chi ti ha detto che non siano la stessa cosa?»

«Be’, pensavo...».

«Lo hanno pensato tutti, almeno fino a quando gli scavi non hanno cominciato a parlare. Sul Palatino sono stati trovati reperti dell’ottavo secolo compatibili con il rituale di fondazione descritto dalle fonti: le capanne romulee, le mura, la fossa-ara di fondazione...».

Artemisia non riusciva ad arrestare le domande. «Ma perché...».

«...non rallenti?». Erano fissi sui centoventi all’ora da un pezzo e la pianura nera scorreva ai loro lati come un tappeto volante.

«Ma perché fondarono la città proprio il ventuno aprile? Mio padre se lo domanda spesso».

«Tuo padre?»

«Rispondi alla mia domanda».

Lazzari annuì. «Perché in quel giorno cadevano i Parilia, una festa pastorale dedicata alla dea Pale. Era una solennità a carattere purificatorio: il rito che si compiva era incentrato sugli elementi di acqua e fuoco e prevedeva prima la lavatura degli stalli e poi l’accensione di un fuoco su cui preparare la mola, una sorta di salsa di cui si cospargevano le vittime dei sacrifici. Quell’anno avvenne nella notte di plenilunio successiva all’equinozio di primavera».

Artemisia era perplessa. «Che strana scelta...».

«Non così strana, se è vero che fu fatta allo stesso modo anche da un altro popolo, per una festa straordinariamente simile, e da un altro uomo per portare a termine la sua missione».

«Ma di che stai parlando?»

«Della Pasqua ebraica e di Gesù».