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Quando scesero, capannelli di persone punteggiavano la piazza trapezoidale: i brusii correvano tra di loro come da cavi elettrici difettosi. Dai bar usciva odore di caffè tostato, cornetti e pane abbrustolito. Il sole scaldava il selciato, ma l’aria era fredda e le montagne all’orizzonte non sembravano poi tanto lontane.

«A quanto pare abbiamo due giorni da far trascorrere... Ci sarebbe una casa a Paraggi, dove possiamo rilassarci nell’attesa», disse Artemisia.

Lazzari volse le spalle alla piazza e si incamminò in direzione del parcheggio dove avevano lasciato l’auto. «Un’altra casa di un tuo amico? Non ci penso nemmeno. Non voglio rimanere in nessun luogo troppo a lungo. Andiamo a pranzo».

«Sono le dieci del mattino», fece Artemisia, a cui erano bastati pochi passi per raggiungerlo.

«Andiamo a pranzo a Bologna. Conosco qualcuno che può raccontarci quanto è davvero capitato a Poliziano».

«Mi era parso di intuire che non credessi alla possibilità che siano stati quelli della Confraternita ad assassinarlo...».

«Non lo so più che cosa credo».

«Ma perché pensi che sia importante per la nostra ricerca?»

«Se davvero avessero ucciso Poliziano perché era arrivato a scoprire il nome segreto di Roma, avremmo un anello di collegamento tra l’omicidio di Sorano e quello di Vento, una prova in più che la Confraternita è sopravvissuta nei secoli».

«Non ci basta sapere che esiste ancora oggi?»

«Non capisci? Se la Confraternita non ha mai cessato di esistere, significa che forse davvero custodiscono ancora il lituo!».

«Ascolta, so che me ne hai già parlato, ma in concreto cos’è questo lituo? Io non l’ho ancora capito».

«Hai presente il vincastro del pastore?»

«No».

«Il pastorale del vescovo?»

«Sì, certo».

«Ecco, è molto simile».

«Quindi era...».

«Un bastone».

«Tutto qui?».

Lazzari indicò in alto. «Un bastone capace di dividere il cielo».

«Che significa dividere il cielo?»

«Non puoi capire rimanendo qui».

«Che vorresti dire? Che dovrei fare?».

Lazzari indicò i boschi sullo sfondo. «Immagina di essere sul Cermalus quel fatidico ventuno aprile. Il rito di fondazione deve essere perfetto per garantirti l’imperium, ossia quello che noi definiremmo l’imprimatur di Giove. Pertanto la futura Urbs viene effata, ossia definita, liberata da eventuali numina, e inaugurata».

Artemisia lo prese per mano e lo obbligò a fermarsi. Erano a cinquanta metri dall’auto. «Per me è arabo».

«Sono termini del linguaggio sacerdotale. Remo e Romolo, come principi albani, erano àuguri per diritto divino, vale a dire interpreti del volere celeste. Quella mattina, per prima cosa, il fondatore contemplò il cielo, ovvero con il lituo in pugno ne circoscrisse una porzione che diventò sacra. Contemplare, in latino arcaico, significa appunto dividere, circoscrivere il cielo ed è un verbo formato da cum e templum, che a sua volta deriva dalla radice indoeuropea tem, che esprime il senso di tagliare. Dalla stessa radice provengono anche i termini greci temno, taglio, e Temenos, il recinto sacro alla divinità».

«Non ti seguo».

«Ascolta, la faccio semplice. Romolo con il lituo segnò in cielo i confini di un tempio: i corrispondenti limiti terrestri diventavano allo stesso modo sacri. Capisci?»

«Più o meno».

«Per fare ciò erano necessarie due cose, tanto semplici quanto onnipotenti per i romani: il lituo e la parola. Le fonti parlano di effari templa, un’espressione del lessico augurale che significa stabilire il tempio mediante la potenza della parola rituale, che per i romani è sempre creatrice. La parola crea. Quindi grazie al lituo e alle formule rituali, Romolo creò un tempio in cielo e uno corrispondente sul Palatino, chiamato auguraculum, ma anche tescum, calvaria, inteso come luogo del cranio, perché doveva essere necessariamente spoglio, libero da qualsiasi presenza».

«Perché non mi è nuovo questo nome?»

«Perché l’hai già sentito, almeno qualche volta. Forse è un’altra semplice coincidenza, ma il luogo in cui fu crocifisso Gesù è detto Calvaria in latino e Golgota in aramaico. Il significato è il medesimo: luogo del cranio».

«C’è di che uscire pazzi».

Lazzari passò oltre. «L’augure compiva tutte le operazioni rituali con il lituo, un bastone ricurvo, simile appunto a un pastorale, che non doveva avere nodi, perché al suo interno si incanalava la potenza divina, che non conosce ostacoli. Il termine lituo pare derivare dal verbo litare, che significa “ottenere un presagio favorevole”, ma anche “propiziare un nume”».

«Aspetta un momento, ieri mi avevi detto che il lituo è una tromba».

«Hai ragione, era anche una tromba rudimentale: era infatti cavo all’interno, con un’imboccatura per soffiare. Dopo l’inauguratio, Romolo soffiò nel lituo e proferì i nomi della città: prima quello di copertura, ossia Roma, e poi quello segreto e vero. Scavò una fossa-ara, accese un fuoco e concluse con una preghiera a Giove, Marte e Vesta. Ségnati questi due ultimi nomi, perché prima o poi finirà che mi domanderai anche di loro».

«Non ne vedo il motivo».

«Lo vedrai tra breve».

«E che ne è stato del lituo?»

«Fu conservato per secoli nella Curia dei Salii sul Palatino, che era anticamente connessa alla Regia. I Salii erano un collegio sacerdotale consacrato a Marte. È molto interessante il fatto che i Salii...».

«Il lituo, Lazzari!».

«Certo, hai ragione. Be’, Cicerone scrive che il lituo sopravvisse incolume a un incendio che bruciò l’intero edificio all’epoca dell’invasione dei galli di Brenno, che mise a sacco la città: gli antichi calendari romani in nostro possesso riportano la notizia che il lituo fu ritrovato intatto il ventitré marzo», spiegò Lazzari, intimamente dispiaciuto per non aver potuto raccontarle dei Salii. «Intorno al cento avanti Cristo un certo Lutazio Catulo, uno dei più ricchi politici dell’epoca, acquistò il terreno adiacente a quello dove Romolo aveva scavato la fossa originaria e si fece costruire una grande villa per vegliare le vestigia della fondazione. Quella villa fu poi acquistata nientedimeno che dall’imperatore Ottaviano Augusto».

«Ce la fai a finire il discorso sul lituo?».

Lazzari si arrese. «Cicerone fu l’ultimo testimone oculare a scriverne. Da allora se ne sono perse le tracce».

«E tu pensi che sia possibile ritrovarlo?».

Lazzari tirò fuori il cellulare. «Penso che inviterò un vecchio amico a pranzo, non ti dispiace?».

 

Pioveva sui viali di Bologna. Il traffico scorreva lento. Impiegarono parecchi minuti per superare la stazione e alla fine, esasperati, lasciarono l’auto e proseguirono a piedi.

Il professor Enrico Gianotti li aspettava sotto i portici che riparavano l’ingresso del ristorante bolognese prediletto da Lazzari. Con lui c’era una ragazza in tailleur e tacchi che presentò come la professoressa Veronica Bianchi. Probabilmente era vicina ai quaranta, ma apparteneva a quel genere di donne che dimostrano trent’anni per lo meno fino ai quarantacinque.

«Appena mi hai telefonato mi sono subito attivato per trovare la persona che facesse al caso tuo», disse Enrico a Lazzari. Pareva tutto infervorato, anche se Lazzari non ne capiva bene il perché. «La professoressa Bianchi ha partecipato alle ricerche condotte dall’università sulla morte del Poliziano. Nessuno meglio di lei può rispondere alle tue domande».

«È un piacere conoscerla, professore. La fama dei suoi studi la precede ovunque», esordì Veronica.

Lazzari si infilò le mani in tasca e sorrise dondolandosi sui talloni. «Il guaio è che io sono rimasto indietro».

Veronica sorrise. «Oh, non sia modesto».

«Secondo me potremmo continuare anche seduti, che dite», suggerì Artemisia. Passò in mezzo ai due ed entrò.

Nel sedersi all’unico tavolo libero, Artemisia notò stupita l’improvviso mutamento di Lazzari: era a disagio, ma in un modo elegante.

«Il professor Gianotti mi ha detto che lei desidera notizie precise sulla morte del Poliziano», disse Veronica. «Posso sapere il perché? Non che voglia farmi gli affari suoi, la mia è semplice curiosità».

«È per un libro che sto scrivendo», rispose evasivamente Lazzari.

«Quel saggio ormai leggendario? Quello che sta scrivendo da... quanti anni?»

«Più di quindici anni», fece Lazzari con una scrollata di spalle.

«Ah bene, contenta di poterla aiutare». Veronica si fece avanti sulla sedia, le mani sui braccioli. Parlava con entusiasmo e si spostava continuamente i capelli che le scivolavano sul volto. «Insegno antropologia. Tra il duemilasette e il duemilaotto ho partecipato al lavoro dell’équipe del professore Gruppioni sui tessuti e sui frammenti ossei prelevati dalle spoglie del Poliziano. Un’esperienza unica».

«Immagino», fece Artemisia e si alzò per appendere la borsa all’attaccapanni. Uno solo dei lembi della maglia era infilato nei jeans.

Lazzari si accorse che il suo amico non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Si sentiva in imbarazzo per quelle occhiate, quasi fosse lui il responsabile, ma provò a non farci caso.

«I risultati sono inequivocabili», proseguì Veronica, senza riuscire a contenere la foga. I capelli non ne volevano sapere di stare al loro posto. «L’alta concentrazione di arsenico conferma la tesi dell’assassinio».

«L’hanno ucciso perché aveva scoperto il...», stava dicendo Artemisia, ma Lazzari le mise una mano sul braccio.

Ma la ragazza sembrava decisa a ripetere la domanda e solo il sopraggiungere del cameriere la interruppe. Un ragazzo magro ed emaciato, i capelli corvini e lunghi rendevano il volto ancora più pallido. Spinse accanto al tavolo un carrello di acciaio, quindi tolse i coperchi rivelando tagli di carne, salse e contorni. «Bolliti o arrosti?»

«Misto per tutti, e da bere Lambrusco Vecchia Modena Premium di Chiarli», ordinò Enrico. «Spero non le dispiaccia se ho preso l’iniziativa», aggiunse poi rivolto ad Artemisia.

Quando tutti e quattro furono serviti, Lazzari tornò a rivolgersi a Veronica. «Quali sono dunque le ipotesi più accreditate sull’assassinio?».

Veronica lasciò subito le posate. «Per comprenderlo è necessario fare una premessa sulla sua vita. Poliziano studiò a Firenze insieme a Marsilio Ficino e ancora giovanissimo entrò nella cerchia di Lorenzo il Magnifico, che lo nominò precettore del figlio e suo segretario personale. Nel frattempo Poliziano proseguì i suoi studi e fu anche ordinato sacerdote. Nel 1478 la città fu scossa dalla congiura dei Pazzi, in cui fu assassinato Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo e amico di Poliziano».

«Scusate», si inserì Enrico riempiendo i bicchieri di vino.

Veronica lo assaggiò appena, poi proseguì: «Di lì a poco Poliziano litigò con la moglie del Magnifico, Clarice Orsini, e poi con lo stesso Lorenzo e abbandonò la corte dei Medici. Alcuni anni dopo fu richiamato da Lorenzo, che gli affidò lo Studio Fiorentino. A questo periodo risale l’amicizia con Pico della Mirandola e anche i prodromi di quelle dispute che lo porteranno a litigare, in modo anche violento, con altri intellettuali della cerchia dei Medici».

«Una vita turbolenta», ridacchiò Enrico.

«E un talento spiccato nell’inimicarsi i potenti!», ammise Veronica. «Nel 1492 morì il Magnifico e come sapete ne seguirono anni di grande apprensione per le sorti di Firenze. A quel punto il Poliziano si affidò al nuovo signore, Piero de’ Medici, figlio di Lorenzo e suo ex discepolo, per ottenere la nomina cardinalizia. Ma si spense nella notte tra il ventotto e il ventinove settembre 1494».

«Avvelenato con l’arsenico», disse Artemisia lanciando un’occhiata a Lazzari.

«Proprio così», confermò Veronica. «Dal poco che vi ho detto, avrete capito che si era fatto numerosi nemici durante la sua vita. Era celebre per essere un litigioso. Si potrebbe trattare di un omicidio politico, come di una vendetta».

«O forse aveva scoperto qualcosa che non avrebbe dovuto scoprire», insinuò Artemisia.

«Questo non lo», disse Veronica. «So solo che le voci sull’assassinio circolarono fin da subito, ma soltanto oggi ne abbiamo avuto la conferma grazie agli esami sui resti. La cosa curiosa è che anche il padre di Poliziano, un importante giurista, fu assassinato da un uomo che in passato aveva fatto condannare».

Lazzari posò il tovagliolo sul tavolo e fece correre l’indice lungo il bordo del bicchiere di vetro spesso. «La cosa curiosa è che ora so perché fu ucciso il padre di Poliziano, ma non perché fu ucciso Poliziano».

Era una semplice constatazione, ma Artemisia volle farla passare per una frecciata e aggiunse: «Sei deluso dalla professoressa? Non te la prendere e guarda il lato positivo. Ti stai gustando un ottimo bollito. Non pensavo potesse essere tanto appetitoso un piatto così osceno».

 

Uscirono dal ristorante quasi due ore dopo. Le bottiglie di lambrusco avevano sciolto la conversazione, e non si era più parlato di assassini e misteri.

«Quando questa storia sarà finita, potrai invitare a cena quella ragazza. Credo che se lo aspetti. Magari sarà curioso con un’antropologa», lo stuzzicò Artemisia e poi lo prese sottobraccio per attraversare la strada.

La pioggia si era trasformata in un nevischio che imperlava già le tegole. Da qualche parte suonava una campana. Lazzari si concentrò su quel suono orfano e intanto, con i sensi ovattati dal vino, si lasciava tirare dalla presa forte della ragazza.

«Sembra molto in gamba: purtroppo, però, non abbiamo scoperto granché sul Poliziano e la Confraternita».

«Io non direi. Ora sappiamo che fu avvelenato, proprio come Vento», disse Artemisia.

«E migliaia di altri uomini. Non mi sembrano elementi sufficienti per collegare i due omicidi».

«Dimentichi che entrambi avevano a che fare con i misteri di Roma...».

Lazzari si accorse che tremava e la abbracciò stretta. Lei non lo respinse. «Hai sentito quello che ha detto la professoressa. Poliziano era pieno di nemici: la nostra Confraternita non c’entra con la sua morte».

Erano quasi arrivati sull’altro lato della strada quando adocchiò un fuoristrada parcheggiato poco distante dalla loro auto. Guardò con più attenzione e si accorse che aveva il muso ammaccato.

«Merda!», imprecò riprendendosi di colpo.

Spinse velocemente Artemisia in auto, litigò con le chiavi, mise in moto e partì facendo slittare le gomme sull’asfalto viscido.

«Ehi!», fece Artemisia che fino a quel momento non aveva proferito parola per la sorpresa. «Che succede?».

Lazzari puntò deciso verso il centro, infischiandosene delle telecamere attive. «Credo che faremo il pieno di multe», disse cercando di stemperare la tensione.

«Non arriveranno mai a te, non ti preoccupare», disse Artemisia voltandosi a guardare la strada alle loro spalle. «Vuoi dirmi chi hai visto?»

«Il fuoristrada che a Milano ha tamponato la Mercedes su cui era quell’uomo che mi puntava la pistola. Come è possibile che ci abbiano trovati? Chi sono?»

«Stai calmo, per favore. E poi ieri sera dicevi di non averlo visto bene e che non avresti saputo riconoscerlo se lo avessi visto di nuovo».

«Sì, lo so, l’ho detto. Ma succede spesso. Pensi di non sapere, poi all’improvviso si accende una luce nella tua mente, ed eccola lì, la cosa che non ricordavi. Il fuoristrada è quello, ne sono certo».

«Ti ripeto che la situazione è sotto controllo. Fidati di me».

«Sotto controllo un corno».

«Lascia perdere e dimmi piuttosto dove stiamo andando. Abbiamo ancora due notti e un giorno prima che Parodi ci chiami».

Lazzari guardava costantemente gli specchietti. «In un posto sicuro».

«Dove?»

«A Sanremo. Ho un magazzino là, in cui conservo tutti i miei libri. Voglio controllarne alcuni. Mi servono delle conferme. Non riesco a capirci più niente, non so più bene cosa credere».

«Credere? Pensavo fossi uno storico».

Lazzari le lanciò uno sguardo obliquo, ma non disse nulla.

 

Avevano già percorso una ventina di chilometri in autostrada, quando lei interruppe il silenzio: «Senti, ma davvero hai scritto un libro sulla fondazione di Roma per sedici anni?»

«No».

«Me lo immaginavo», disse un po’ delusa.

«Ci ho lavorato per sedici anni».

«E non è lo stesso?», domandò lei, di nuovo appassionata. Da qualche parte scoppiò un tuono. Il cielo era un muro intonacato di fresco dove le scale di grigio arrivavano fino al nero.

«Non ho scritto nemmeno una riga».

«Non hai scritto nemmeno una riga?»

«Soltanto una valanga di appunti, ma alla fine li ho gettati via. Quanto al saggio vero e proprio, nemmeno una parola».

«E perché?».

Lazzari indicò qualcosa oltre il parabrezza. «Hai mai visto L’uomo che uccise Liberty Valance? È un film di John Ford».

«No, non mi pare proprio».

«Nel film, un anziano senatore rivela al direttore di un giornale che tanti anni prima il famoso bandito Liberty Valance non fu ucciso da lui, come tutti hanno sempre creduto, ma dal defunto John Wayne. È stata proprio la fama ottenuta per quell’uccisione a dare il via alla sfolgorante carriera politica del senatore, che ora è pentito e vorrebbe che fosse resa pubblica la verità. Il giornalista, però, gli dice che non scriverà neppure una riga di quella storia sul suo giornale. Loro vivono nel West, gli spiega, dove la leggenda vince sulla realtà, sempre».

«E questo cosa vorrebbe dire?»

«Cosa vuol dire non lo so, ma per me significa che le leggende vivono al di fuori di libri e resoconti, e che esistono cose che non si possono scrivere. La prima volta che ho sentito questa frase ho capito che era su misura per me. Hai presente quelle canzoni in inglese che ascoltavi da ragazzino, senza capire cosa dicessero, ma sapendo che ti stavano parlando? Capisci che intendo?»

«Ho fatto le elementari in una scuola dove si studiava italiano, inglese e francese».

Lazzari fece un sorriso amaro. «Hai visto quante cose si perdono nell’imparare troppo?»

«Sedici anni di lavoro, e poi hai mollato tutto di punto in bianco».

«Sì. Ho ammainato le vele e sono ritornato in porto, come si suol dire».

«Non ti chiederò il perché, tanto non sapresti rispondermi. Ormai mi sembra di conoscerti».

«Se lo dici tu».

«Ma spiegami una cosa però: perché aprire un’enoteca?».

Lazzari si strinse nelle spalle. «Ci deve pure essere qualcuno che rimane a riva per raccogliere i racconti dei marinai...».