17

 

 

 

Poteva fidarsi di Dino e di Artemisia? Chi diavolo erano in realtà? Per quanto ne sapeva Lazzari, potevano essere tali e quali ai due della Tauros. In fondo lavoravano per il Colonnello, un uomo che lo aveva messo in ginocchio per costringerlo ad accettare quell’assurdo incarico.

Se il Colonnello lo aveva trascinato in quel guaio, Artemisia ce l’aveva tenuto dentro. Certo, con ben altri modi, ma... Inutile, per quanto si sforzasse di ragionare lucidamente, subiva troppo il fascino di quella donna. Non sapeva bene cosa avesse significato quella notte per lei, ma lui invece, guardandola dormire, non nutriva molti dubbi.

D’un tratto avvertì un movimento fuori dal capanno. Si acquattò tenendo d’occhio l’uscio. Sapeva che avrebbe dovuto fare scudo ad Artemisia con il proprio corpo, ma la paura lo attanagliava. La porta si aprì senza un cigolio e una sagoma si stagliò nella penombra.

I nervi fecero scattare la sua mano: la sentì sollevarsi d’istinto a mezz’aria, inutile come una pistola scarica. Solo quando s’avvide del berretto tirò un sospiro di sollievo. Dino gli faceva cenno di raggiungerlo fuori.

Lazzari si alzò a fatica, i muscoli atrofizzati, controllò che Artemisia dormisse, rinvigorì il fuoco con un paio di ceppi cercando di regolarizzare il proprio respiro e uscì in punta di piedi.

Dino imbracciava un fucile e pareva nervoso. «C’è qualcuno nel bosco», bisbigliò piegando la testa.

«Animali?»

«Oltre agli animali».

Lazzari si morse le labbra. «Che vuoi che faccia?»

«Non sei in vacanza, prendi questo». Dino gli passò il fucile con il mirino per la visione notturna e lo aiutò a impugnarlo nel modo corretto. «Tieni d’occhio la parte a monte rispetto al capanno. Appena vedi qualcosa che assomiglia a un uomo, spara».

Lazzari tremava. «Ma che dici? Io non ho mai sparato a nessuno».

«Non succederà nemmeno stanotte, tranquillo man. Anche se ti capiterà di fare fuoco non beccherai nessuno, non ti preoccupare. Con questo mirino puoi avvistare un uomo a duecento metri. A quella distanza tu non centreresti nemmeno un elefante. Mi basta che li spaventi, chiunque siano».

«E tu?»

«Io scendo fino alla macchina. Se sono gli agenti della Tauros, l’avranno di certo messa fuori uso. Quella è gente che segue le procedure. Primo, tagliare ogni via di fuga. Secondo, circondare l’obiettivo».

«E terzo?», domandò stupidamente Lazzari, ma Dino era già sparito oltre il sentiero. Come faceva, grosso com’era, a non fare il minimo rumore?

Lazzari puntò il mirino verso la scarpata alberata, assaporando la sensazione di poter vedere mentre intorno tutto era buio. Gli pareva di sbirciare da uno spioncino: tremando all’idea di poter essere colto alle spalle, ogni tanto si voltava per dare un’occhiata, sebbene senza il mirino non vedesse nulla.

Il fucile pesava molto più di quanto immaginasse e faticava non poco a tenerlo sollevato. Sentiva le braccia formicolare dolorosamente e la spalla tremare.

I minuti sgocciolavano via con lentezza esasperante. Il silenzio del bosco era traditore: ogni più piccolo rumore veniva amplificato e tutto pareva in movimento. Un paio di volte fu sul punto di premere il grilletto, pur di allentare la tensione. Non riusciva a smettere di chiedersi come fosse stato possibile finire in quella situazione.

Quando fu sicuro di non farcela più, udì la voce di Dino alle spalle: «Terzo, innervosirli per farli venire allo scoperto».

«Ma che cazzo!», saltò su Lazzari e si affrettò a riconsegnargli il fucile. Aveva le mani sudate e il battito accelerato.

«La macchina è ok. Ho ricontrollato anche la strada: nessuna traccia di pneumatici dopo il nostro passaggio», spiegò Dino, che però sembrava ancora perplesso mentre si passava una mano sotto il cappello.

«Che c’è?»

«I conti non tornano comunque. Non ci ha seguito nessuno. Eppure qualcuno è venuto a dare un’occhiata qui intorno».

 

Lazzari non dovette impegnarsi troppo per rimanere sveglio per il resto della notte. Per la tensione sentiva le articolazioni indolenzite e i muscoli bruciare, come se qualcuno gli avesse iniettato una sostanza velenosa.

Appena il buio cominciò a diradarsi mormorò una preghiera, poi destò Artemisia e allargò le braci per spegnere il fuoco. Aveva disperatamente bisogno di una persona amica.

«Non hai chiuso occhio», gli disse la ragazza, quasi stupita. Il sonno le aveva ammorbidito i tratti e il lieve gonfiore ne accresceva la sensualità. Le labbra apparivano ancora più grandi e i capelli più folti.

«Dino è convinto che qualcuno sia venuto a spiarci stanotte. Forse quelli della Tauros sono là fuori da qualche parte».

«Se ci sono, sapremo come affrontarli», assicurò Artemisia.

«Non so se faccio bene a portarvi da Foglia. E se facesse la fine di Parodi? Quei bastardi ci stanno sempre dietro...».

«Non volevano uccidere Parodi, solo farlo parlare. È stato un incidente, al vecchio ha ceduto il cuore».

«Foglia non si farebbe mai legare a una sedia, lotterebbe e...».

Artemisia gli posò un dito sulle labbra. «La Tauros vuole te. E poi non commetteranno una seconda leggerezza dopo quella con Parodi. Non vorranno certo attirare l’attenzione con un altro morto. Hai visto come sono scappati di fronte alla polizia».

«Vogliono me? Già, questo mi rassicura molto», fece Lazzari con evidente sarcasmo.

«Di che ti preoccupi? Hai ben due guardie del corpo», sorrise Artemisia alzandosi.

Dino li aspettava con il fucile spianato all’imbocco del sentiero, cinquanta metri più in alto rispetto al capanno. «Io procedo in testa. Se gli agenti della Tauros ci hanno preparato una trappola, vi copro la fuga: scendete per la scarpata, raggiungete la provinciale, fermate la prima auto che passa e fatevi portare a Terni. Se non vi dovessi raggiungere entro un’ora, telefonate al Colonnello per ulteriori istruzioni».

«È la sua compagnia a renderti paranoico?», gli domandò Artemisia accennando a Lazzari.

«Semmai è la tua. Se ci succede qualcosa, io ho chiuso», precisò Dino.

Lazzari studiò prima uno e poi l’altra, ma non commentò. Preferiva passare ancora una volta per ingenuo e temporeggiare in attesa di chiarirsi le idee, piuttosto che manifestare il suo interesse per i messaggi ambigui che i due si scambiavano.

Si misero in marcia lungo il pendio punteggiato dai castagni e dai faggi. Dopo mezz’ora di cammino, il sentiero si fece irto. Da qualche minuto udivano rintocchi e versi sempre più nitidi.

Dino fece loro cenno di attendere e andò avanti, ma Artemisia lo seguì e Lazzari, dopo un’esitazione, si accodò.

Dino scosse la testa contrariato, ma non disse nulla.

Scorsero per prima cosa lo spiovente di un tetto e poi il resto di una casa: era a due piani in pietra, con grandi finestre di legno massello dipinte di fresco. Un uomo, alto quanto Dino, spalle larghe, una folta capigliatura grigia e una barba fluente ma curata, spaccava legna nell’aia.

«Qui non si viene armati», disse e menò l’ennesimo colpo di accetta. Il tronco si divise in due ceppi.

«È lui», fece Lazzari a Dino.

Dino posò il fucile e Lazzari si fece avanti. Un senso di timore lo colse. Era trascorso tanto tempo dal loro ultimo incontro e si sentiva studiato. E giudicato, per essere arrivato a quel punto tanto cambiato e ansioso. «Maestro...».

«...Ce n’è uno solo e non sono io», tagliò corto Foglia lasciando cadere l’accetta. Si avvicinò a Lazzari, si pulì la mano sui calzoni, gliela porse e lo abbracciò. «Benvenuto, concittadino».

«Siete dello stesso paese?», domandò Artemisia, che li osservava con le braccia conserte e il pollice premuto sul mento. Il tono era al limite del sarcastico, ma qualcosa l’aveva trattenuta dall’affondare i denti fino in fondo.

«Della stessa Repubblica», disse seriamente Foglia e li invitò a entrare. «Ho preparato il caffè in previsione del vostro arrivo. Seguitemi».

«Eri tu allora stanotte? Ti muovi bene e in silenzio», riconobbe Dino.

«Ho imparato dagli indios».

Dino si sfilò il cappello e se lo legò alla cintura, prima di entrare. Sul tavolo c’era una grossa caffettiera che sprigionava un forte aroma di caffè e una crostata alla marmellata ancora calda. Il camino in pietra era colmo di braci e in un angolo della stanza faceva bella mostra di sé un antico aratro.

Foglia indicò loro le sedie, mentre lui si prese dal frigo una bottiglia di birra.

«Anche quello lo hai imparato dagli indios?», gli fece Dino indicando la bottiglia.

«Da Ken Shiro Abe, oltre al judo si intende».

«Un giapponese?»

«Eccelso judoka e anche pilota di aerei. Abbatté ventuno aerei durante la seconda guerra mondiale. Venne in Italia per un periodo negli anni Settanta. Beveva una birra media tutte le sante mattine. “È una colazione completa ed equilibrata”, amava ripetere».

Dino sorrise insieme ai compagni, ma fu il primo a ridiventare serio. «Perché sei sceso a controllare la capanna stanotte? Non hai visto il fumo? Lazzari ci aveva detto che è il tuo sistema per ricevere gli ospiti».

Il Maestro incrociò le braccia sul petto. «Certa gente ha chiesto di me in paese. Ero in allerta».

«Chi sarebbe questa certa gente?», gli domandò Lazzari. Posò la fetta di crostata che aveva già addentato e lanciò un’occhiata ad Artemisia.

«Forestieri in giacca e cravatta. Hanno fatto una brutta impressione ai miei amici del paese».

Lazzari guardò una seconda volta Artemisia, ma fu Dino a parlare per primo. «Per fortuna dovevano essere sulle piste del Lupo, eh Lazzari?»

«Come diavolo hanno fatto a sapere che saremmo venuti qui? Non lo sapeva nessuno oltre a noi tre!», sbottò Lazzari con gli occhi spiritati.

«Continui a sbagliare bersaglio, man», gli fece notare Dino. «Non abbiamo a che fare con dei dilettanti. Quella è gente preparata. Come facevano a sapere che tenevi i libri in quel capanno sopra Bussana? Te lo sei chiesto? Di sicuro hanno un fascicolo completo e accurato su di te, conoscono tutto della tua vita: dove hai studiato, chi hai frequentato, i viaggi che hai fatto, le proprietà che possiedi, i tuoi acquisti degli ultimi anni, i libri che leggi, perfino il tuo gusto di gelato preferito. Come lo sappiamo noi lo sanno anche loro».

«Che vuoi dire... Che avete un dossier su di me?». Non ci fu risposta.

Foglia aveva ascoltato in silenzio la discussione. «Sei nei guai concittadino?», domandò infine. Pareva che la cosa lo riguardasse da vicino.

«Posso parlarle con franchezza, Maestro?», gli domandò Artemisia.

Foglia annuì. «Non accetterei un altro modo. E dammi del tu, ti prego».

«Siamo alla ricerca del nome segreto di Roma e del lituo con cui Romolo fondò la città», rivelò senza giri di parole Artemisia.

All’orecchio di chiunque altro quella stessa frase sarebbe risultata folle, ma il maestro non si sorprese affatto. Sembrava ancora più assorto e interessato. Annuì invitandola a proseguire.

Artemisia, nel frattempo, si era versata una tazza di caffè e ora lo sorseggiava con cura. «Lazzari, vuoi per favore esporre al maestro quanto abbiamo scoperto fino a oggi e perché abbiamo bisogno del suo aiuto?».

Lazzari raccontò tutta la vicenda senza omettere nulla se non le sue preoccupazioni circa la SigmaPiTau e i suoi due compagni, spiegandogli che avevano bisogno del suo aiuto per rintracciare il Lupo marsicano. «Mi dispiace di aver messo sulle tue tracce i bastardi della Tauros», terminò infine rivolto a Foglia.

«Non possono seguire le mie impronte, non ti preoccupare. La settimana prossima ho un volo per il Perú. Vado a dirigere un importante progetto di scavi per conto dell’università di Lima... Ormai insegno lì, forse non lo sapevi. Il Paese è molto interessato all’archeologia e alle proprie radici, a differenza dell’Italia, dove ho giurato di non scavare più».

Artemisia lo fissava con aperta curiosità. «Non sembri un uomo che giura a caso. Che ti è capitato?»

«L’ultimo episodio risale a due anni fa. Tenevo d’occhio da alcuni giorni proprio il tombarolo che cercate, Massimo De Feudis, che si fa chiamare il Lupo Marsicano. Riuscii ad acciuffarlo poco prima che depredasse una tomba sabina a ipogeo che aveva appena individuato tramite uno dei suoi informatori – ma la segnalazione era arrivata anche a me. Lo misi in fuga e avvertii la sovrintendenza regionale ai beni culturali, ma sapevo che lui mi avrebbe tenuto d’occhio e avrebbe aspettato il momento in cui mi fossi allontanato per saccheggiarla. Così io e Akira vegliammo la tomba per tredici giorni e altrettante notti, senza interruzione, dormendo all’addiaccio e mangiando scatolette. Il quattordicesimo si presentò finalmente un funzionario della sovrintendenza con una squadra di operai».

Foglia finì la birra e si pulì la bocca con il dorso ruvido della mano. Aveva la pelle di un uomo che aveva trascorso tutta la vita al sole e al vento, e negli occhi tante cose. «Mi congedarono senza un grazie, quindi delimitarono la zona con del nastro bianco e rosso e appesero un cartello con la scritta: vietato l’ingresso. Poi se ne andarono. La notte seguente, come da copione, il Lupo depredò la tomba».

Per quasi un minuto nessuno se la sentì di commentare. «Chi è Akira?», chiese alla fine Artemisia.

«La mia katana», rispose Foglia. Si avvicinò alla parete, staccò la spada dal gancio a cui era appesa e la mostrò alla ragazza. «Dunque volete rintracciare il Lupo?», domandò, come se fosse giunto il momento di tirare le fila del discorso. «Be’, non sarà facile. Ma possiamo provarci. Andiamo».

«Subito?», domandò Dino. Prese un altro pezzo di crostata e commentò: «Non sei uno che perde tempo».

Foglia gli mise una mano sulla spalla. «Un giorno ci sarà chiesto conto del tempo che ci è stato concesso». Aveva una fisicità esasperata, e un evidente carisma. Il tono basso con cui parlava e l’espressione risoluta parevano raggiungere e stringere le persone intorno a lui.

«Vieni di là con me», disse poi a Lazzari, che lo seguì.

Foglia indossò una camicia di lana, un giaccone a scacchi e prese quello che pareva un bastone da passeggio insolitamente spesso. Infine afferrò lo zaino rigonfio, che era appoggiato tra il guardaroba e il muro. «Ne tengo sempre uno pronto. Per le partenze improvvise».

Lazzari si limitò ad annuire. Foglia lo spinse davanti allo specchio che ricopriva l’anta dell’armadio e lo obbligò a guardarsi. «Dimmi, lo sai quello che stai cercando?».

Lazzari esaminò il proprio volto. Barba e capelli erano della stessa lunghezza. Le guance scavate e le borse sotto gli occhi gli indurivano l’espressione e mascheravano, almeno in parte, il senso di sbigottimento che traspariva dal fondo degli occhi. Era più che mai consapevole della propria debolezza, ma in qualche modo sapeva di poterla trasformare nel suo punto di forza. Era quella l’unica alchimia possibile. «Sì», rispose infine.

«È la stessa cosa che stanno cercando loro?», domandò ancora Foglia indicando con la testa la porta.

«No».

«Bene, ti aiuterò».

Quindi raggiunsero gli altri, che li stavano aspettando davanti alla porta e confabulavano a bassa voce.

Foglia alzò le mani per richiamare la loro attenzione. «Io vi condurrò fino al Lupo, ma poi non farò un passo di più. Vi sta bene?»

«Va bene», accettò Artemisia per tutti.

Lasciarono l’auto all’ingresso del centro storico di Leonessa e proseguirono a piedi. Gli edifici in pietra, alcuni più bassi degli alberi, parevano scaturire direttamente dalla roccia.

Lazzari camminava in coda al piccolo drappello e osservava le montagne che incombevano sullo sfondo, disinteressato ai discorsi degli altri.

Foglia indossava un cappello di paglia che gli oscurava il viso, e con il bastone segnava ogni passo. «Baiocco lavora per il Lupo da anni. È lui che cerchiamo», spiegò. «È uno dei suoi cani da cerca».

«Che cosa fa concretamente?», volle sapere Artemisia.

«Batte la zona della Sabina, frequenta i bar e ascolta».

«Ascolta?», fece Dino.

«Capita che un contadino scavando un campo trovi un cippo votivo, o un pastore raccolga un’anfora, o un passante si imbatta in una moneta. Che cosa fai in genere quando ti capita una cosa del genere?»

«Lo racconti a qualcuno», rispose Artemisia.

«E quel qualcuno lo racconterà a qualcun altro. Non c’è nulla che accada in Italia che non arrivi prima o poi in un bar. Quando la voce giunge al suo orecchio, Baiocco per prima cosa prende informazioni, verifica se la notizia ha un fondamento, e se è così va a ispezionare in prima persona il luogo del ritrovamento. Poi, se il sopralluogo lo soddisfa, avvisa il Lupo».

Artemisia camminava al suo fianco e non si perdeva una parola. «E capita tanto spesso di trovare reperti?»

«Capita», assentì Foglia e batté il bastone con maggiore forza sul selciato. «Suolo italico...».

A un centinaio di passi dalla piazza centrale Foglia ordinò a Lazzari e Dino di fare il giro largo per appostarsi alle spalle dell’edificio che indicò con il bastone. «Tu sai cosa intendo», disse al barbuto.

Dino annuì e spinse il compagno verso il vicolo che passava sotto un piccolo arco proteso tra due palazzotti e vegliato da un roseto. Il verde e il rosa guizzavano vividi contro il vecchio muro e Lazzari, se non fosse stato per il compagno, si sarebbe fermato qualche istante a osservarli.

Il Maestro e Artemisia, invece, proseguirono dritto verso la porta del bar che si affacciava sulla piazza. Il nome dipinto sopra l’architrave era del tutto scolorito. Rimaneva traccia soltanto della S iniziale. Foglia entrò per primo, imboccando uno stretto corridoio lungo una dozzina di passi.

«Maestro», lo salutò il barista.

Un uomo si affacciò dalla sala che si allargava davanti al bancone e appena li vide si lanciò verso la porta all’estremità opposta del bar, facendo cadere un paio di sedie.

Il Maestro e Artemisia attraversarono correndo tutto il locale sotto lo sguardo preoccupato del barista, un tipo magrolino con un paio di occhiali sul volto e l’altro appeso al collo.

La porta in fondo al bar si affacciava su un crocicchio incastonato tra le case. Dino aveva agguantato l’uomo che avevano visto scappare dal locale e adesso lo teneva fermo mentre Lazzari, al suo fianco, guardava nervosamente ora nella direzione da cui erano venuti Foglia e Artemisia e ora verso le finestre dei palazzi.

«Ti saluto, Baiocco», disse Foglia.

Era un uomo sui quaranta, i capelli vaporosi pettinati con cura, e indossava una camicia bianca aperta sul petto, una collana d’oro, jeans rossi stretti e scarpe nere a punta: sembrava appena uscito da una discoteca, ma degli anni Ottanta.

«Non scavo da anni», disse Baiocco. «Non sono più in quel giro, non ho fatto niente, niente», ripeteva.

«Farai una cosa per questi miei amici», gli disse Foglia.

«Cosa?»

«Dicci dove trovare il Lupo. Ci basta questo».

«Non lo vedo da anni».

«Non mentire».

«Io non voglio problemi».

«Camminiamo, non conosco modo migliore per risolvere i problemi», propose Foglia. Quindi si rivolse ad Artemisia: «Consiglio di lasciare un giro pagato per i clienti e cento euro al barista per il disturbo».

La ragazza saldò il conto e appena tornò fuori si allontanarono tutti insieme. Foglia li guidò fino alla bottega di un fabbro ed entrò seguito dagli altri.

«Possiamo metterci di là, Antonio?».

Il fabbro, che indossava spessi occhiali plastificati, arrestò a mezz’aria il martello e annuì, poi lo calò con forza sollevando una tempesta di scintille. Alcune lampeggiarono come lucciole sopra lo scuro camice di cuoio ricoperto di bruciature. «Non vi dispiace se continuo a lavorare, nel frattempo?», domandò con una smorfia.

«Tutt’altro», disse Dino, che ora guardava con aperta ammirazione Foglia.

Enrico Baiocco era troppo spaventato per urlare. Lo fecero sedere su uno sgabello e gli legarono le mani dietro la schiena, poi Dino tirò fuori entrambe le pistole. Solo il gesto severo di Foglia lo fece desistere. Il Maestro afferrò il proprio bastone con entrambe le mani, ruotò il manico in un senso e il corpo nell’altro e fece scattare un meccanismo nascosto. Rimosse la parte superiore, che era una copertura mascherata, e sfilò una spada da quello che si rivelò un fodero ligneo.

Lazzari si lasciò sfuggire un mormorio di preoccupazione. Non era affatto ciò che aveva previsto.

«Il tuo passato non mi interessa. Non mi interessano nemmeno i tuoi sporchi traffici. Questi amici devono trovare al più presto il Lupo», chiarì il Maestro.

Baiocco non staccava gli occhi dalla lama. «Ti ripeto che non lo vedo da una vita».

«Ma sai di certo dove si trova. Sei uno dei suoi informatori storici. È sempre reperibile per te. Il suo lavoro è tutta una questione di tempistica», insistette Foglia. La sua voce, profonda e pacata, era inesorabile. Non era chiaro se bisognasse temere più quella o la lama che luccicava nello stanzino rischiarato da un’unica lampadina appesa al soffitto.

«Se ve lo dico, posso dire addio al mio lavoro».

«Se non ce lo dici puoi dire addio alla tua lingua», si inserì Dino avvicinandosi.

«Invece avrai la lingua e il lavoro», promise Foglia, facendo cenno a Dino di calmarsi. «Questi miei amici sono venuti per proporgli un affare importante. Non siamo banditi».

Artemisia tirò fuori un rotolo di banconote per sottolineare il concetto. Contò tremila euro e li infilò nella tasca dei pantaloni dell’uomo.

«Ho la tua parola?», domandò Baiocco a Foglia.

«Ce l’hai».

«Troverete il Lupo a Tarquinia. È appena stata scoperta una specie di agorà all’interno dell’area del Tumulo della Regina».

«Ne ho sentito parlare», confermò Foglia.

«I fondi statali sono quelli che sono: i lavori di scavo vanno a rilento e la sorveglianza fa acqua da tutte le parti. Massimo è convinto di poter sfruttare a suo vantaggio la situazione, per portare via alcuni dei tesori sepolti là sotto. Ci sono pezzi di grandissimo valore, come per esempio...».

«Lascia stare le informazioni che non contano. Dicci piuttosto come facciamo a trovarlo», tagliò corto Dino.

«Lo troverò io», assicurò Foglia e uscì.