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«Per la verità sono tre i misteri che riguardano la fondazione di Roma», disse Lazzari, quando la ragazza si svegliò.
Si erano appena lasciati alle spalle il casello di Melegnano. La luce dei lampioni ammorbidiva la sagoma della città sullo sfondo.
Artemisia sbadigliò, si infilò la felpa e si sistemò sul sedile massaggiandosi le braccia con le mani. «Ti sei deciso finalmente a parlarmene!».
«Hai freddo? Accendo il riscaldamento?»
«Non mi dispiace avere qualche brivido. Ma torniamo a Roma».
«Il primo mistero riguarda il vero nome di Roma».
«E allora Roma cosa sarebbe?»
«Un semplice appellativo di facciata, utile per mascherare la realtà. Tutte le fonti antiche sono concordi nel ritenere che la città avesse un nome segreto che non poteva essere né pronunciato né tanto meno rivelato. Un nome che nessuno ha mai osato mettere per iscritto».
«E perché mai?»
«Nella mentalità arcaica conoscere il nome di una cosa significa poter incidere su quella cosa, modificarla, possederla, dominarla», spiegò Lazzari.
«Allora è questo che intende il mio psicologo quando ripete che i nomi dei bambini devono arrivare dalle madri. Dice che devono essere suoni interni, perché nel nome è contenuto il destino del bambino».
Lazzari annuì. «Nomen omen dicevano i latini».
«E il secondo segreto?», domandò Artemisia. Era incuriosita; non tanto dal contenuto di quelle spiegazioni, che pure la riguardavano, ma soprattutto dall’emozione con cui Lazzari ne parlava. Il suo tono era divenuto basso e in qualche modo sensuale. D’un tratto sembrava un uomo che sapeva quello che diceva.
«Il secondo segreto concerne il vero nume protettore di Roma, a cui i latini si rivolgevano con la formula sive mas sive foemina: “sia tu maschio o femmina”. Il nome della divinità patrona della città non poteva essere manifestato per evitare il rito dell’evocatio».
«Di che diavoleria si tratta?»
«Di una sorta di cerimoniale magico: i pontefici romani evocavano la divinità protettrice della città da conquistare prima dell’assedio o della battaglia, promettendole un posto a Roma in caso di vittoria».
«Ruffiani».
«È rimasta celebre la conquista di Veio e il trasferimento a Roma del culto principale della città, quello di Giunone Regina».
«Come no, celeberrima», fece Artemisia con evidente ironia.
«I romani assediavano Veio da molto tempo senza successo. Su consiglio degli aruspici, gli esperti di cose sacre, si rivolsero direttamente alla principale divinità dei nemici, Giunone Regina, promettendole un tempio a Roma in caso di trionfo. Poterono farlo, perché conoscevano il vero nome della dea patrona di Veio, ossia Regina. Le loro invocazioni ebbero successo: pochi giorni dopo presero la città e onorarono l’impegno trasferendo il simulacro di Giunone a Roma, dove le eressero un tempio. Capisci ora? Se i nemici non avessero conosciuto il nume segreto di Veio, non avrebbero mai potuto evocarlo e la città non sarebbe mai stata conquistata».
Artemisia si strinse le ginocchia al petto e appoggiò i piedi sul sedile. «Chi conosceva questi misteri? Tutto il popolo o...».
«Soltanto una cerchia ristretta, che li serbò gelosamente. Il terzo e ultimo segreto riguarda la stessa fondazione, per la quale tutti gli autori latini usano il verbo condere. Pensa all’opera dello storico latino Tito Livio, Ab urbe condita, che racconta appunto la vicenda della città a partire dalla fondazione».
«Credo di averne letto qualche pezzo al liceo».
«Condere significa “fondare”, ma anche e soprattutto “nascondere”. Che cosa nascose la città? Gli studiosi dell’epoca pensavano a un passaggio segreto. Devi sapere che nei resoconti dei riti che accompagnarono la nascita dell’Urbe, le fonti antiche citano incidentalmente almeno due passaggi misteriosi – quello per gli Inferi e quello per le Isole dei Beati – e almeno due possibili localizzazioni per questi ingressi: il mundus nel Foro e la cosiddetta “Roma quadrata”».
«Che cosa sono?»
«Il mundus era un pozzo scavato nel terreno e costituiva una sorta di porta tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Veniva aperto soltanto tre giorni all’anno: in quelle occasioni gli dèi inferi potevano attraversare la città».
«E perché mai avrebbero dovuto permetterglielo? Non ha senso».
«Per loro lo aveva. I romani credevano che a intervalli regolari occorresse dare sfogo a certe forze, affinché non si scatenassero in modo rovinoso. Per questo permettevano agli schiavi di essere liberi un giorno all’anno, o ai soldati di prendere in giro i generali durante il trionfo».
«E la Roma quadrata che cos’è?»
«Almeno tre diverse cose. Le fonti a riguardo sono contraddittorie. Roma quadrata indica il perimetro dell’intero Palatino, con entrambe le sue sommità, Palatium e Cermalus; ma anche, secondo altre fonti, un’area dello stesso colle davanti al tempio di Apollo o, ancora, una fossa con annessa una piccola ara, posta sulla sommità del Cermalus, il colle della fondazione».
«Un altro passaggio?»
«Forse».
«Quindi fu su quel colle che venne fondata la città».
«Sì. Anche il termine Cermalus deriva dalla stessa radice del verbo condere e significa pertanto sia luogo della fondazione sia luogo del nascondimento. Ma che cosa si nascondesse davvero sotto Roma, questa è a parer mio la questione fondamentale, la chiave con cui poter penetrare nel castello dove è custodita la verità».
Artemisia si tolse per la prima volta gli occhiali. Nella penombra Lazzari non riuscì a distinguere il colore dei suoi occhi.
«Tu pensi di avere una risposta a ciascuna di queste domande, non è così?», gli domandò.
«È così, ma non per questo ho smesso di pormele».
«E perché mai?»
«Perché ogni volta la risposta diventa più nitida, più precisa, più vicina alla verità».
Lazzari lasciò la tangenziale alla prima uscita. La detestava: l’eventualità terribile di rimanere bloccato nel traffico senza poter svicolare, la vista su un mondo circolare dove non accadeva nulla, i camion come elefanti in un circo lo disorientavano.
Imboccò la circonvallazione interna, guardandosi costantemente attorno. Aveva cenato in molti dei ristoranti che fiancheggiavano i viali, all’epoca in cui per lui la città era ancora un luogo da esplorare. Per ciascuno di essi conservava almeno un ricordo. Come se non volesse soffermarsi sui rimpianti, pigiò sull’acceleratore sfiorando i cento all’ora.
«Ti sei svegliato finalmente?», lo stuzzicò lei.
Lazzari si diresse verso la parte ovest tagliando a metà la città e soltanto all’altezza di piazza Diocleziano emerse dal prolungato silenzio. «Scusa se sono stato reticente».
«Rispetto a cosa?»
«Alla questione del segreto di Roma. Per un attimo, è stato come se mi avessi chiesto il giorno e l’ora della mia morte». Con la mano diede un colpetto sullo specchietto retrovisore. «Ciascuno di noi tende a scegliersi uno specchio e a vedere in esso se stesso e la propria sorte. Il mio è Roma».
«Lo dici come se fosse una colpa».
«Lo è».
Passarono sotto un cavalcavia, superarono il tram numero uno che sferragliava sotto una galleria di alberi e arrivarono a Villapizzone. Episodi di luce frammentavano il quartiere. L’insegna al neon di un bar accendeva un angolo della piazza. Sull’altro lato un gruppo di ombre ciondolava ai margini dei giardini. Ancora oltre, un lampione illuminava un campo di basket deserto.
Lazzari lanciò una seconda occhiata, ma sotto il canestro non c’era l’uomo panciuto in tuta grigia che all’epoca, quasi ogni sera, palleggiava metodicamente per ore, destro e sinistro, nell’area del tiro da due punti.
«In corso Marcello c’è una pizza al trancio da leccarsi i baffi», disse spinto dall’improvviso desiderio di ritrovare qualcosa del passato.
«Mangeremo più tardi. Ora muoviamoci», disse Artemisia.
Fece due volte il giro del palazzo e alla fine parcheggiò su un marciapiede tra due passi carrabili. Oltre la stazione di Villapizzone le luci soffuse della Triennale promettevano morbidi divani, beveraggi e belle signore da guardare.
Un gruppo di ragazzi senza età sedeva all’imbocco della via. Indossavano larghe canottiere sopra i maglioni e cappelli dalla visiera piatta. Alcuni dondolavano la schiena al ritmo della musica che gorgogliava da un grande stereo posato a terra come un macigno.
Artemisia suonò ripetutamente all’interno quindici, ma nessuno aprì.
«Ci ha ripensato», disse Lazzari.
«Nessuno ci ripensa, quando ballano certe cifre», assicurò Artemisia, e riprovò, premendo con forza il pulsante.
Un uomo in pigiama e giaccone uscì dal portone insieme al suo barboncino color neve sporca. Artemisia, senza pensarci due volte, scavalcò con un salto il guinzaglio teso e oltrepassò l’ingresso.
Lazzari fece un segno all’uomo come per scusarsi e fargli intendere che era tutto a posto, ma la ragazza lo trascinò dentro.
«Smettila di comportarti come un bambino», gli disse quando furono nell’ascensore.
Achille Vento abitava all’ottavo piano. L’appartamento si affacciava su un ballatoio che correva tutt’intorno al cortile interno, secondo lo stile rivisitato delle case di ringhiera della vecchia Milano. La porta d’ingresso e una finestra davano sul mezzanino. Artemisia suonò a lungo, ma ancora invano. Il suono del campanello rimbombava nell’androne, imponendosi sopra i borboglii che si diffondevano dai televisori accesi negli alloggi. A Lazzari parve di vedere una tenda muoversi nell’appartamento al di là del ballatoio.
«Torniamo domani», disse.
«L’appuntamento era per stasera».
«Allora vuol dire che il tuo amico è fuggito con la certa cifra».
«Non si può fuggire da certa gente», disse Artemisia con tono severo, provando a forzare la finestra. «E poi gli abbiamo dato per il momento solo un piccolo acconto».
Lazzari scattò per bloccarla. «Ma che diavolo fai?»
«Gli infissi sono vecchi e gonfi di umidità. Se spingiamo in due cedono».
«Sei matta? Si chiama violazione di domicilio».
«Non mi importa nulla di come si chiama. Dammi una mano», insistette la ragazza, alzandosi sulle punte per fare più forza.
La finestra cedette all’improvviso spalancandosi verso l’interno. Artemisia sbatté contro il davanzale, le braccia che annaspavano all’interno e le gambe protese indietro.
Lazzari allora la spinse dentro e, dopo essere entrato anche lui, la costrinse ad accucciarsi. Poi accostò la finestra e le intimò il silenzio con un cenno, ma nessun rumore proveniva dal pianerottolo.
«Non ci ha visti nessuno, vuoi smetterla...», cercò di rassicurarlo Artemisia, ma si bloccò quando si accorse dello sguardo sgomento di Lazzari. Si voltò e vide quel che lui aveva già notato. La finestra opposta era spalancata. Il chiarore che proveniva dai lampioni nella piazza sottostante illuminava un uomo disteso per terra, con le gambe unite e le braccia allargate, quasi a formare una croce. «Dorme», bisbigliò.
«Senza respirare, porca puttana! È morto, non lo vedi?».
Si avvicinarono carponi verso l’uomo. Doveva avere una trentina d’anni e sembrava piuttosto robusto. Il volto era tumefatto, lividi profondi gli deturpavano il naso e la guancia sinistra. Una ferita gli segnava l’arcata sopraccigliare.
Lazzari si chinò per ascoltare il respiro. «No, no, no», non faceva che ripetere, la voce sul punto di spezzarsi.
Gli piazzò due dita sulla giugulare, ma niente. Cercò ansiosamente di ricordare quello che gli avevano insegnato al corso di pronto soccorso che aveva dovuto frequentare prima di aprire l’enoteca. Da quanto tempo il cuore di Vento aveva cessato di battere? Forse, se fosse riuscito a rianimarlo... Che diavolo stava dicendo? Quello che stava toccando era un cadavere... Per puro scrupolo gli aprì la camicia, ma uno strano tatuaggio sul petto dell’uomo lo colpì e lo paralizzò, come se fosse stato morso da un animale. Artemisia tirò fuori il cellulare e fotografò il simbolo. Lo scatto echeggiò nel silenzio.
«Cos’è?», saltò su Lazzari. Era un fascio di nervi e non si era accorto del telefono che la ragazza impugnava.
Il flash lampeggiò una seconda volta nella modesta stanza. Il tavolo era ribaltato e la vetrina sopra la credenza infranta. Barattoli e oggetti giacevano sul pavimento alla rinfusa.
«L’hanno ammazzato», disse Artemisia. «E poi hanno setacciato l’appartamento. Cercavano qualcosa... Questo può significare soltanto che Vento nascondeva qui il libro che stiamo cercando o addirittura lo stesso lituo».
«Quale libro dannazione?», ansò Lazzari.
«Il Colonnello crede che la setta custodisca un libro millenario sui misteri di Roma».
«Lascia perdere e illumina questo punto con il telefono», le disse Lazzari, a cui era parso di notare una scritta sulle piastrelle, in parte nascosta dai capelli del cadavere.
S.E.
«No, no!», disse Lazzari, appena quelle lettere gli apparvero in modo distinto. Con le mani sulle tempie, scuoteva la testa in preda all’agitazione. «Non può succedere proprio a me, non a me, non a me!».
Artemisia lo prese per un braccio. «Che c’è? Che significa?».
Da fuori arrivò un piccolo boato seguito in rapida successione da una sorta di crepitio. Lazzari si liberò della presa e si lanciò sul terrazzino. Nella piazzetta sottostante un contenitore cilindrico per i rifiuti aveva preso fuoco, mentre un uomo si allontanava di corsa. Riuscì a intravederlo per un istante quando passò nel cono di luce di un lampione: era alto, con la barba, gli occhiali scuri e un cappellino. Era quasi certo che si trattasse del ragazzo con cui si era scontrato all’autogrill quello stesso pomeriggio. «Oh no, no, no!», fece aggrappandosi al corrimano.
Le sirene della polizia si avvicinavano rapidamente. Intanto dalle finestre e dai balconi circostanti si era affacciato un piccolo pubblico: uomini, donne e bambini. Tutti a scrutare il fuoco che illuminava il grande albero al centro della piazza. Qualcuno, su un terrazzo del palazzo attiguo, lo indicò: Lazzari si agitò e urtò con la mano la fioriera legata alla balaustra, che si inclinò cadendo e frantumandosi a nemmeno un metro di distanza dalla prima gazzella. Lazzari, spaventato, rientrò di corsa nell’appartamento e afferrò la ragazza che stava frugando nella stanza. «Andiamo via, sta arrivando la polizia!».
Uscirono dalla finestra da cui erano entrati, ma appena imboccarono le scale, sentirono lo scatto dell’ascensore.
«Più veloce», fece Lazzari saltando gli scalini tre alla volta. Per poco non cadde. Aveva le gambe molli e tremolanti.
A metà della discesa udirono qualcuno risalire dal basso a passi pesanti. Si guardarono attorno con angoscia. Erano sul punto di tornare indietro quando una porta si aprì e una donna fece segno di entrare. Vedendoli esitare, mormorò: «Non so cosa avete fatto voi, ma so cosa ha fatto la polizia a mio marito. Venite dentro, forza!». Appena furono dentro, si portò l’indice alle labbra, e poi controllò attraverso lo spioncino. Una bambina con i riccioli li guardava a occhi sgranati. Teneva tra le mani una bambola senza un braccio.
I passi ritmati si avvicinarono. Distinguevano persino i respiri pesanti. Lazzari, immobile, si teneva una mano sul petto. I rumori fecero tremare la porta di legno leggero, ma passarono oltre lasciandosi dietro un’eco che scemava.
La donna aprì, diede una rapida occhiata e poi sussurrò: «Via libera».
La ringraziarono e uscirono. Scesero a passi felpati, lanciando occhiate ansiose all’androne. All’ultima rampa si accorsero delle voci. Qualcuno piantonava l’ingresso.
«I locali dell’immondizia», disse Lazzari, prendendola per un braccio.
«Come lo sai?», mormorò Artemisia.
«Ho vissuto in uno di questi palazzi. Sono tutti uguali».
Saltarono dalla ringhiera e atterrarono in un mezzanino senza rivestimento. Lazzari spinse la porta di metallo e con Artemisia a rimorchio si inoltrò tra i bidoni di plastica e i cestelli di alluminio. In fondo al locale filtrava una luce, non era possibile distinguere se provenisse da una porta o solo da una finestrella. «Comincia a pregare», le disse accelerando il passo e inciampò sul cemento grezzo del pavimento.
Appena svoltato l’angolo videro uno spiraglio pallido sotto la parete. Si precipitarono in quella direzione cercando di capire cosa fosse. Artemisia trovò una maniglia, la spinse ed esultò vedendola cedere. Attraversarono di corsa il cortile interno e poi il locale rifiuti del palazzo opposto, e finalmente uscirono in strada.
«Dall’altra parte!», le gridò Lazzari.
I ragazzi con lo stereo erano spariti. Lazzari e Artemisia videro l’Audi, vi si precipitarono senza mai voltarsi indietro e saltarono dentro più in fretta che poterono.
“Respira e ragiona e tutto andrà bene”, si ripeté una volta al sicuro. La strada era senza uscita: da una parte la stazione e dall’altra i giardinetti. Sarebbero stati costretti a tornare indietro e passare per la piazza dove erano parcheggiate le volanti della polizia... Ma a quel punto parve ricordarsi di qualcosa.
Ingranò la retromarcia e fece tutta la via a ritroso. «Vicolo cieco», lo avvisò la ragazza, con la mano sullo schienale. «Non si passa, ti ho detto», gridò con più energia.
«E io ti ho detto che qui ci ho vissuto».
Scartò il muro e salì sopra il cordolo; percorse il giardinetto per intero schivando un paio di panchine e sbucò sulla piazza dove c’era il capolinea del tram. Mise la prima e imboccò il sottopassaggio per la Bovisa. I graffiti a tutta parete crebbero, si tinsero di verde e di rosso inferno sotto i fari, infine scemarono di nuovo nell’ombra quando si infilarono nel tunnel.
Risalirono verso il lato opposto della stazione, ai margini della zona industriale, e si diressero verso la circonvallazione. Nessuno dei due aveva detto una parola durante il tragitto.
Lazzari si sentiva il cuore scoppiare. «Devo bere qualcosa», disse.
«Anche io», fece Artemisia annuendo.
Lazzari rallentò solo quando furono in centro, dove i fanali posteriori delle auto disegnavano lunghi festoni iridescenti. In piazzale Oberdan svoltò a destra seguendo il percorso guidato per l’inversione. Un tempo avrebbe girato a sinistra senza pensarci, tagliando l’incrocio, ma quella sera intendeva seguire le regole.
Probabilmente la polizia li stava cercando, l’avevano visto in molti sul terrazzo di Vento. Sentirsi braccati: ecco una sensazione che non avrebbe mai pensato di provare. E poi il volto pesto di quell’uomo, il suo corpo immobile, e ancora quella scritta sanguinolenta. Cominciava ad avere paura sul serio e a capire il guaio in cui ormai si era infilato. Aveva bisogno di alcool, di una preghiera e una voce amica.
Lasciarono l’auto in un’area di carico e scarico e schizzarono dentro il Nottingham Forest. Due sgabelli liberi al bancone sembravano attenderli. Senza salutare si sedettero e ordinarono un paio di Margaritas.
C’era un chiacchiericcio compìto nel locale. Ciascuno sembrava badare agli affari propri. Cravatte allentate, pettinature stanche, trucchi sfatti. Un’atmosfera da concerto jazz senza jazz.
Soltanto dopo aver bevuto il secondo drink ritrovarono il coraggio di aprire bocca, anche se Lazzari non se la sentiva affatto di parlare di quanto era accaduto. Era ancora troppo frastornato.
Artemisia era rossa in viso e scarmigliata, ma la sua era un’agitazione viva, attiva, di chi era pronto ad agire. «Allora vuoi dirmi cosa significava quella scritta che hai visto accanto alla testa di quel cadavere?».
Lazzari si portò il bicchiere alle labbra e lo inclinò, ma non c’era più nemmeno una goccia. «Non so come dirtelo».
«Dimmelo e basta», tagliò corto Artemisia, facendo intanto cenno al barman.
«Come si fa a dire con parole semplici che hai preso un abbaglio, che ti sei infilato in qualcosa di più grosso di te, che tutto è diverso da come te lo eri immaginato, che te la stai facendo sotto dalla paura, che non sai da che parte cominciare e tanto meno dove andrai a finire, e che vorresti tirarti indietro... ma che forse è troppo tardi. Quali sono le parole giuste??».