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Il cameriere ritirò le tazzine vuote e pulì sommariamente il tavolino di marmo con una spugna, poi si defilò goffamente, senza sapere dove guardare, e si scontrò con una sedia facendola cadere. Restò indeciso sul da farsi per alcuni istanti, gli occhi neri grandi come biglie; poi, per evitare ulteriori guai posò il vassoio, rialzò la sedia, riprese il cabaret e finalmente si allontanò rientrando nel bar.

Appena la porta si richiuse Fazio indicò Artemisia e Lazzari: «Ma voi, signori, non vi alzerete da lì».

«E invece lo faremo», disse Artemisia saltando in piedi.

«E perché dovremmo farlo?», le domandò timidamente Lazzari lanciandole un’occhiata dubbiosa.

«Come, perché dovremmo farlo?», lo assalì la ragazza, rossa in viso.

Alcuni clienti si voltarono per osservare la scena. Un cane attaccò ad abbaiare senza che il padrone riuscisse a quietarlo.

Lazzari allungò una mano verso i due paramilitari, cercando di assumere un’espressione conciliante nei riguardi della ragazza. «Loro mi offrono soldi, e inoltre protezione. Meglio amici in più, che nemici. Mi pare evidente».

Artemisia era esterrefatta. Aprì e richiuse la bocca un paio di volte, prima di attaccare: «Ma che cazzo vorresti dire? Sei impazzito?»

«Dico solo che dovremmo pensarci», rispose Lazzari facendo un rapido cenno che la ragazza non intese.

«Forse non hai capito che...».

«Signori», intervenne Prati, ma il compagno gli prese il braccio costringendolo a voltarsi.

Si stavano avvicinando due poliziotti in divisa. Un passo avanti a loro camminava un ragazzone in borghese con barba, cappello e occhiali scuri.

Lazzari riconobbe il barbuto e lo indicò ad Artemisia. «Ecco la nostra nemesi», balbettò in preda all’agitazione. «Merda, merda, merda! E ora?».

Fazio si pulì i pantaloni da immaginarie briciole. «Signori, mantenete la calma. Non sono qui per noi».

«Invece sì», obiettò Lazzari che tremava visibilmente. Ma allora era davvero un poliziotto il barbuto? E adesso?

I tre uomini erano a circa venti passi di distanza. Ormai era chiaro che stavano puntando verso il loro tavolo. Prati fece per alzarsi, ma un poliziotto sollevò la mano per invitarlo a sedersi.

Poi accadde tutto in un istante. Fazio rovesciò il tavolino e si fiondò con il compagno dalla parte opposta, mentre i due poliziotti si lanciarono all’inseguimento intimando più volte l’alt. Correvano con una mano sulla fondina, i cinturoni che sobbalzavano pesantemente, sotto gli sguardi allibiti di una piccola folla radunatasi davanti al dehors del bar, che vociava e si domandava cosa fosse accaduto.

Prima ancora di vedere dove fossero diretti i poliziotti, Lazzari scavalcò con un balzo goffo le fioriere e scattò verso la via che correva perpendicolarmente alla piazza, con Artemisia al seguito.

Il barbuto si affrettò dietro di loro. «Fermi!», gridò un paio di volte, ma la sua voce fu coperta dalla confusione generale.

«Merda!», imprecò Lazzari. Si sentiva lento e alle sue spalle i passi dell’inseguitore erano sempre più vicini. Ormai erano in trappola.

Oltrepassò la porta del bar che si affacciava su quella strada proprio qualche secondo prima che uscisse il cameriere spilungone con il conto in mano. Il ragazzo non si accorse dell’uomo con la barba che stava arrivando di gran carriera, né il barbuto riuscì a evitarlo. Persero entrambi l’appoggio, slittarono sull’acciottolato e caddero a terra allacciati l’uno all’altro.

«Più veloce!», urlò Lazzari alla ragazza ricominciando a sperare.

Artemisia lo raggiunse e lo superò. Guadagnò rapidamente terreno e svoltò per il vicolo che passava sotto le mura; ogni tanto si voltava rallentando per incitare il compagno e non perderlo di vista. «Muoviti», gli gridò, una volta arrivata all’auto.

Lazzari annaspava. La tensione e il poco allenamento lo avevano stremato. Quando fu a pochi metri da lei, le lanciò le chiavi. Artemisia le prese al volo, aprì, mise in moto e fece retromarcia. Lazzari saltò su e partirono.

«Non prendere l’autostrada, se la polizia conosce la nostra macchina saremmo in trappola», le disse tenendosi il fianco, la milza in fiamme.

«E allora dove vuoi che vada?»

«Prendi per Santo Stefano di Magra, ecco, di là».

«E dove si va poi?»

«Nell’entroterra. Posti sicuri. Mille vie». A ogni frase, faceva una pausa per riprendere fiato.

Artemisia alzò la voce: «E poi?»

«Poi non so, intanto gira di qui per la provinciale».

Artemisia scalò e svoltò. La strada puntava dritta verso le colline. Muri grigi e tetti rossi scorrevano via rapidamente ai lati dei finestrini. In tono nervoso, disse: «Dobbiamo pensare a un nuovo piano, non possiamo limitarci a fuggire».

«Lo dici a me? Io volevo solo starmene in pace a vendere vino».

«E anche da quello sei scappato alla prima occasione».

«Mi avete costretto».

«Vuoi fuggire davvero? Va bene, ti accontento subito», promise Artemisia e premette l’acceleratore. Guadagnò rapidamente velocità, superò un furgone e prese la curva successiva a ottanta all’ora.

Lazzari puntò i piedi e si aggrappò alla maniglia. «Frena, frena!».

L’auto sfrecciò ai limiti della carreggiata sollevando schizzi di ghiaia. Un uomo in bicicletta si fermò per maledirli.

Lazzari sentì la paura trasformarsi inaspettatamente in rabbia. «Se non vuoi frenare, allora accelera. Forza! Vediamo dove arrivi», disse e con la mano le spinse la gamba con cui pigiava l’acceleratore. L’agitazione gli aveva dato al cervello come il più potente dei vini.

«Quei figli di puttana hanno osato trattenerci come fossimo ostaggi», disse infine Artemisia e, liberandosi della mano di Lazzari, rallentò di colpo.

«Almeno ora sappiamo per chi lavora il barbuto. È della polizia. Chissà, magari siamo finiti in un’inchiesta sul riciclaggio di opere d’arte e reperti archeologici».

Artemisia inarcò le sopracciglia, come spesso fanno le donne di fronte alle ingenuità maschili. «Ma se non abbiamo rubato niente».

«Però abbiamo intenzione di farlo».

«Vogliamo solo ritrovare il lituo».

«O lo custodisce un uomo o la terra: in entrambi i casi si tratta di appropriazione indebita».

«Inutile perdere tempo con queste supposizioni. Dimmi piuttosto: davvero volevi accordarti con quei due bastardi?».

Lazzari deglutì. «Volevo solo prendere tempo».

«Non mi pare... Secondo me eri pronto a calarti i pantaloni».

«Quando eravamo al bar, avevo visto da lontano i poliziotti avvicinarsi, ben prima che se ne accorgessero Fazio e Prati».

«Li hai visti all’ultimo invece».

«Se è questa la tua idea, non sarà certo io a fartela cambiare. In ogni caso quei due senza volerlo ci hanno aiutato: se non fossero scappati attirando i sospetti su di loro, i poliziotti avrebbero beccato noi».

Artemisia non riusciva a scacciare il fastidio. «E con che accusa?»

«Non capisci? Credono che siamo stati noi ad ammazzare Achille Vento».

«No, non capisco proprio».

«Io sì, invece. Il barbuto ci sta dietro fin dal principio anche se non so proprio il perché. Chissà, forse indagava su un traffico di reperti e oggetti d’arte rubati e magari qualcuno gli ha spifferato delle nostre intenzioni di mettere le mani sul lituo. Non lo so... Ma ora ci bracca anche per l’accusa di omicidio. Lui ci ha visti nell’appartamento di Vento!», disse Lazzari prima di voltarsi di colpo verso la ragazza. «Un momento, e se quell’uomo fosse invece della Confraternita? In questo caso...».

«Lascialo perdere, ti ho detto», lo interruppe in modo brusco Artemisia. «Pensiamo piuttosto a quei due bastardi che ci hanno sequestrato».

«Ci penso, non ti preoccupare. Quei due ci stanno addosso per costringerci a lavorare per loro. E forse, se dobbiamo fidarci di quello che ci hanno detto, ci stanno dando la caccia pure quelli della Confraternita, barbuto o non barbuto. Siamo braccati, ti rendi conto!».

«Della polizia non ti preoccupare. Il Committente può risolvere facilmente il malinteso».

«Allora digli di farlo, e in fretta anche!!».

«Gli chiederò anche di occuparsi dei paramilitari. Ci sarà pure un modo per sbarazzarcene».

«Sbarazzarcene?», disse Lazzari e poi ammutolì.

Possibile che lei non si rendesse conto del grosso guaio in cui si erano cacciati? Sembrava quasi che qualcuno la avesse addestrata a non avere paura. O forse non era questione di addestramento. Forse lei era dotata di un istinto e un’intelligenza nell’affrontare la vita che lui non possedeva. Che avrebbe dovuto fare? Raccontarle della paura folle che gli bruciava dentro? Era inadeguato, sempre in ritardo su tutto, ansioso, pieno di dolori veri o presunti, e di ogni possibile timore...

Si guardò attorno, come un cane in gabbia, poi qualcosa colpì prepotentemente la sua attenzione. «Fermati un attimo qui, ti prego Artemisia».

La ragazza si stupì di essere stata chiamata per nome: Lazzari non lo faceva mai. Accostò in un piccolo slargo. Sopra di loro si stagliava la sagoma di una pieve medievale. Una costruzione semplice, una capanna di pietre che pareva immutata da mille anni, un posto dove ci si sarebbe aspettati di veder passare un pellegrino con il suo bastone.

Lazzari saltò giù dall’auto, imboccò la ripida rampa e si infilò in chiesa. La ragazza si sorprese di vederlo uscire con gli occhi rossi qualche minuto più tardi. Risalì e ripartirono senza una parola.

La strada, dopo un paio di tornanti, correva dritta lungo la cresta di una collina. Il sole ravvivava il verde sterile degli arbusti. Il mare si allontanava e si allargava all’orizzonte.

«A che stai pensando?», gli chiese Artemisia dopo un po’.

Lazzari si morse le labbra. «Che non voglio finire come Parodi e Vento».

 

Accostarono quasi un’ora più tardi ai bordi della strada e scesero per sgranchirsi le gambe. La provinciale, sotto di loro, era la scia fumosa di un aeroplano che spariva lentamente nell’aria. Tutto sembrava sospeso.

Artemisia gli passò una mano sulla nuca. «E ora che cosa facciamo?».

Lazzari indicò a sud con la testa. «Cerchiamo il Lupo Marsicano. Quello che ha scavato questo complesso di tombe per Parodi e ha ritrovato il medaglione. È l’unica pista che abbiamo».

«Allora tu non sei superstizioso come Parodi».

«Com’era... vorrai dire», disse tristemente Lazzari. «Merda, siamo noi che abbiamo portato da lui quei bastardi».

«Non farti carico di colpe che non hai. Aveva ottant’anni e gli abbiamo regalato le sue ultime emozioni. Era felice come una Pasqua, sarebbe perfino venuto con noi se avesse avuto qualche anno in meno».

Lazzari scosse la testa e cambiò discorso: «Dobbiamo scovare il Lupo prima dei paramilitari».

«Ma come? Pensavo volessi abbandonare qualsiasi ricerca...».

«Ho scelta?»

«In realtà sì», ammise Artemisia. Per la prima volta affiorò un tono di stanchezza nella sua voce. «Posso parlare con il Colonnello e sistemare le cose».

Lazzari raccolse un sasso, senza smettere di scrutarla. «Hai questo potere?»

«Posso procurarmelo. Non preoccuparti di questo. Il Committente ha un debole per me. Sai come sono gli uomini...».

«A dir la verità no. Ho passato tanto tempo lontano dagli uomini. E poi... Se oggi davvero decidessi di mollare e tornare indietro, a Cesenatico, da domani comincerei a guardare la porta della mia enoteca chiedendomi chi sarebbe il prossimo a entrare: i due paramilitari, il Colonnello oppure il barbuto. All’inizio proverei quel misto di paura e ansia che così tante volte mi ha tormentato negli ultimi anni, poi inizierei a svegliarmi nel cuore della notte, in preda agli attacchi di panico, a vedere fantasmi ovunque, e ad aver paura della mia ombra; e infine, forse, finirei per invocare il loro arrivo».

«Quindi mi stai dicendo che intendi proseguire?». Artemisia scuoteva la testa, mentre un sorriso si posava sulle sue labbra. Lazzari adorava quel suo modo repentino di voltare pagina, come se ogni minuto non fosse figlio del precedente.

«Quando senti chiamare il tuo nome, che altro puoi fare?», domandò Lazzari stringendosi nelle spalle.

Artemisia si accigliò di nuovo. «Parli del destino?»

«No, parlo di te».