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L’aria aveva un sapore diverso quando ritornò in superficie. Lazzari si godette quei momenti di intensa gioia. Tutto pareva improvvisamente avere un senso.

Dino dovette ripetergli due volte la domanda. «Man, ma dov’è il lituo?»

«Il lituo», ripeté Lazzari, come se cercasse di tradurre un vocabolo straniero di cui aveva dimenticato il significato.

«Il bastone di Romolo», ruggì Dino agitando il fucile. La sua era l’agitazione del toro angustiato dalle banderillas, una rabbia pericolosa e magmatica: Lazzari non ne era la causa, ma rischiava di divenirne l’oggetto.

Il Lupo si spostò di qualche metro, l’espressione sorniona del ragazzino che sta per gustarsi la scazzottata tra due compagni.

Lazzari tornò in sé di colpo. Il lituo, certo. Era quello che volevano, fin dal primo momento. Il mistero sul nome segreto di Roma era soltanto un’esca per convincerlo ad accettare l’incarico. “Il sogno della sua vita”, così lo aveva definito il Colonnello. Come aveva potuto lasciarsi ingannare? Il Colonnello lo aveva adescato facendo leva sul suo orgoglio. Maledetto orgoglio: ecco il nome proprio del peccato originale. I signori della Fondazione volevano il bastone. Era il bastone a valere per loro. Nient’altro.

Fu così che si decise una volta per tutte. E lo fece con il trasporto di chi decide di correre un rischio, sperando in una svolta.

«Molto presto lo avremo tra le mani», garantì nascondendo il fastidio e l’amarezza in una smorfia di risolutezza, che così poco gli si addiceva. A ogni passo si allontanava da se stesso, ma che importanza aveva ormai?

«Non c’è nessun bastone là sotto», ripeté per l’ennesima volta il Lupo, rivolgendosi a tutti indistintamente, sebbene fosse il solo Lazzari a insistere sulla presenza del lituo nella tomba. «Avete problemi di udito, forse? Ho spostato l’arca, niente. Ho preso a martellate le pareti, niente. Ho sondato il pavimento, niente. Nessuna nicchia, o doppio fondo o corridoio nascosto. Mi credete forse uno sprovveduto?», domandò dopo aver contato sulle dita ogni azione. Poi aggiunse con più calma: «Io sono uno che pensa positivo per natura, credo che lo abbiate capito, e non mi spaventano né gli ostacoli né i muri, ma so distinguere un vicolo cieco quando ne vedo uno».

«L’affresco», gli disse Lazzari. Teneva lo sguardo su di lui, ma pareva fissare qualcosa alle sue spalle, tanto che il Lupo fu tentato di voltarsi a guardare.

«Che c’entra l’affresco?»

«L’affresco non ti ha permesso di vedere oltre».

«Che vorresti dire?»

«Non hai sondato la porzione di parete dietro l’affresco».

«Si capisce. Non volevo danneggiarlo», si difese il Lupo come se non ci fosse nemmeno bisogno di spiegare.

Lazzari, toccando il muro affrescato, si era accorto che era di laterizi a differenza degli altri che formavano la camera mortuaria sotterranea. Inoltre non gli erano sfuggiti nemmeno i segni di piccone sulle pareti laterali in pietra, come se gli operai dell’epoca avessero cominciato a rompere per poi bloccare di colpo il lavoro: il progetto originario della tomba doveva prevedere almeno un paio di camere secondarie, ma per qualche motivo che poteva solo supporre non se ne era fatto nulla.

Con ogni probabilità l’idea iniziale era quella di un ciclo completo di affreschi, corredato magari da una serie di fregi, ma poi, evidentemente, i costruttori avevano dovuto rinunciare. Il tempo doveva essere finito all’improvviso e perciò si erano limitati a quell’unico affresco: preparare la pietra grezza per l’intonaco sarebbe stato molto più lungo e difficoltoso che non tirare su un semplice muro di mattoni, su cui stendere molto più agevolmente la calce. E così avevano fatto.

«Secondo me il muro nasconde una cavità. Se il lituo c’è, è là dietro», disse Lazzari.

«Come fai a esserne certo?», domandò Dino. Lo afferrò per le spalle, squadrandolo dall’alto al basso. Si vedeva che voleva credergli, ne aveva anzi un disperato bisogno.

«Non mi avete ingaggiato per questo?», si sfogò Lazzari liberandosi dalla sua presa. Decise che era il momento di dare voce a tutti i ragionamenti che si erano venuti formando nella sua mente, e vedere se le parole avrebbero retto la prova: «Del lituo non si hanno più notizie a partire dalla metà del primo secolo dell’era precristiana: l’ultimo testimone oculare a scriverne è Cicerone, fatto decapitare nel quarantatré avanti Cristo da Marco Antonio proprio a pochi chilometri da qui. Mi seguite?».

Dopo che ebbero annuito, riprese: «Ora, la tomba che abbiamo sotto i piedi è doppiamente contrassegnata dal famigerato simbolo che conosciamo tutti bene, quello tatuato sul petto di Vento, il fico ruminale tra due colline: uno dei due emblemi è presente sul bordo inferiore dell’affresco e l’altro sul medaglione trovato a suo tempo dal Lupo nella bara, e poi venduto a Parodi. Da questi due indizi possiamo affermare che con ogni probabilità qui è stato sepolto un importante membro della Confraternita che custodiva il segreto delle origini. E non è finita: sappiamo che era un senatore grazie all’anello d’oro che portava al dito e sappiamo inoltre che è morto verso la metà del primo secolo circa, come testimoniano le analisi fatte fare dal Lupo sui reperti ritrovati all’interno».

«E quindi?», fece Dino facendogli cenno di stringere.

«Il lituo sparisce da Roma in concomitanza con la costruzione di questa tomba. Io non credo si tratti di una semplice coincidenza. Roma stava andando a fuoco in quegli anni. Cadeva un mondo: guerre civili, crisi della Repubblica, dittatori, fazioni e bande armate. Il lituo andava preservato a ogni costo». Lazzari si accovacciò e con l’indice disegnò sopra la morbida terra rivoltata il simbolo della Confraternita. «Inoltre, soltanto pochi anni prima Valerio Sorano aveva divulgato l’esistenza del segreto sul nome di Roma nell’Epoptidon: certo, il libro era stato bruciato e l’autore ucciso, ma era chiaro a tutti che il nome vero dell’Urbe era in pericolo. La situazione non era mai stata tanto grave. I membri della Confraternita dovettero decidere, seppure a malincuore, che per salvare la città era necessario mettere in sicurezza e nascondere per sempre i pegni che garantivano il patto tra la città e gli dèi: il suo vero nome e il bastone celeste con cui fu fondata». Si alzò e si pulì le mani sui pantaloni. «In questa tomba non solo è adombrato il nome arcano dell’Urbe, ma è anche nascosto il lituo».

«Allora sfondiamo il muro», propose Dino.

Lazzari scosse la testa. «Abbiamo bisogno di una macchina per tagliare i laterizi senza rovinare l’affresco». Quindi per dare peso a quelle parole, aggiunse: «Ha un enorme valore».

«Posso procurarmi quella macchina», gli venne in aiuto il Lupo.

«Non dicevi che non c’era niente là sotto?», gli ricordò Dino a muso duro. L’ex soldato pareva disorientato tanto dal convincimento granitico di Lazzari, quanto dal cambio di opinione del Lupo.

«Sicurissimo, lo dicevo, ma io sono un tipo che sa ascoltare, e il nostro professore mi ha incuriosito e, non so se ve l’ho già detto, la curiosità è la mia forza e insieme il mio limite maggiore. Non sono capace di resistervi. E poi, a questo punto, dare un’occhiata non ci costa nulla. Se volete, in mezza giornata posso recuperare lo strumento che ci occorre per asportare la porzione di muro».

«Io verrò con te», disse Lazzari. Senza che il Lupo se ne accorgesse, ammiccò a Dino che, dopo una breve riflessione, gli fece cenno di andare.

Artemisia, insolitamente, non aveva detto nulla. Lazzari temeva che si mettesse di traverso, invece la ragazza si limitava a studiarlo con un’espressione indefinita, gli occhi di giada che parevano annidarsi nella penombra come quelli di una statua orientale nascosta nella vegetazione.

«Noi terremo d’occhio la tomba. E spero nell’arrivo al più presto dei rinforzi», disse Dino.

«Saremo qui domani all’alba», promise il Lupo.

 

Artemisia accompagnò Lazzari fino al vecchio casolare dove avevano lasciato l’auto. Il Lupo camminava una ventina di passi davanti a loro e non si voltava mai.

La luce del sole pomeridiano scontornava gli alberi. I fiori tracciavano scie di profumi nel sottobosco. Pareva impossibile, in un pomeriggio come quello, che qualcuno preparasse un agguato. Eppure Lazzari sapeva che gli uomini della Tauros non dovevano essere lontani.

Soltanto quando arrivarono nel cortile, la ragazza trovò l’ispirazione per parlare. «Perché ho l’impressione che mi stai nascondendo qualcosa?».

Lazzari era troppo agitato per assaporare la meraviglia che quelle parole gli suscitarono. Parlandole, aveva spesso l’impressione di scoprire cose su se stesso, ma quella frase fu un autentico shock. Fu come apprendere che l’isola, dopotutto, non era affatto deserta e che l’indigena parlava addirittura la sua lingua. Solo che lui era già salito sulla barca e si stava allontanando...

Da quale parte stava lei? Forse si era sempre sbagliato. Continuò a guardare davanti a sé, sforzandosi di impiegare un tono neutro, temendo che Artemisia potesse indovinare i suoi pensieri. «Sì, ci sono cose che non ti ho detto», ammise. «Se la mia interpretazione dell’affresco fosse vera...».

«Cosa significherebbe?», lo pressò Artemisia.

«Lasciami ancora questa notte per rifletterci. Domani saprai», prese tempo Lazzari.

Il Lupo salì sul fuoristrada dal lato del passeggero e richiuse la portiera. I loro passi crepitavano sulla ghiaia nel rinnovato silenzio mentre si avvicinavano.

Lazzari aveva già la mano sulla maniglia quando Artemisia lo prese per il gomito e lo fece voltare: «Dimmi almeno una cosa, però. Perché il lituo non era insieme al medaglione, dentro il sarcofago? Perché il senatore o quelli che lo hanno seppellito avrebbero dovuto nasconderlo in una nicchia? Ammesso davvero che esista come sostieni tu».

«Per ragioni di sicurezza», mentì Lazzari, pregando che la ragazza prendesse per buone le sue argomentazioni. «Nel caso la tomba fosse stata scoperta e depredata, come infatti è avvenuto, anche se molti secoli dopo. E lo stratagemma ha funzionato, se è vero che il Lupo non l’ha trovato».

«Allora perché non nascondere anche il medaglione nella nicchia?»

«Il medaglione, per quanto importante, era un semplice simbolo, e apparteneva all’uomo, mentre il lituo era un oggetto divino, e apparteneva alla città. Era il lituo che andava salvato a ogni costo».

Artemisia non era ancora convinta. «Davvero intendi scavare dietro l’affresco? E se dovesse rovinarsi? Sbriciolarsi? In un colpo solo cancelleresti tutte le possibili prove alla base della tua teoria sul vero nome di Roma. Mi chiedo se sai quello che stai facendo».

«Conosco a memoria un paio di versi», rispose evasivamente Lazzari dopo un passaggio a vuoto di quasi trenta secondi. «“Per arrivare a ciò che non sai, devi passare per dove non sai”».

«Sono del tuo amico Antonio da Alba Docilia?»

«No, ma gli sarebbero piaciuti».

Gli occhi di Artemisia non si indurirono. Fin da quando erano usciti dalla tomba sembrava osservare Lazzari in modo nuovo, come se si fosse accorta di un particolare che prima le era sfuggito e che ora faceva pendere in modo diverso la bilancia. «Piacciono anche a me».

Lazzari non sapeva dove guardare. «Questo significa che...».

«...Mi fido di te. Fides, ricordi quello che diceva il Maestro Foglia? Io ho fiducia in te».

Lazzari si sentì mancare il fiato. Annuì a occhi bassi, aprì la portiera e salì. Per lui, in quel momento, non poteva esserci notizia peggiore. «Tornerò appena possibile», disse chiudendosi all’interno.

Artemisia sollevò l’angolo sinistro della bocca e attraverso il finestrino disse: «Un po’ prima sarebbe meglio».

Lazzari ingranò la prima e partì. E mentre vedeva la ragazza che spariva nello specchietto retrovisore, provò dentro di sé una sensazione strana, come se avesse scritto una canzone meravigliosa e l’avesse perduta, conscio di non poterla più ritrovare.