16

 

 

 

Lazzari si sentiva la penisola di un continente sommerso, mentre sedeva con le guance strette tra i pugni sotto il portico di una locanda sulla cima di un colle perso nella campagna umbra: un posto per centauri, a giudicare dal numero di moto parcheggiate in ordine sparso davanti all’ingresso. La strada era un nastro srotolato verso il basso. Il cielo era terso e orlato da poche nuvole bianche.

Dino Vermiglio, così aveva detto di chiamarsi il barbuto, era entrato a ordinare. Artemisia rivolgeva lo sguardo al sole e non parlava. Due motociclisti con la parte superiore della tuta slacciata sorbivano birra seduti sulla staccionata e intanto la tenevano d’occhio.

Lei e Lazzari si erano scambiati appena un paio di parole durante il viaggio. Gli pareva che non ci fosse più nulla da dire. A che potevano valere le spiegazioni? Nessuna domanda lo avrebbe avvicinato di un centimetro alla verità.

Dino Vermiglio uscì spingendo la porta con un piede, tra le mani un grande vassoio su cui c’erano un filone di pane, un tagliere, un salame, un coltello, due medie chiare e una bottiglia di Coca-Cola. Si sedette a cavalcioni sulla sedia e iniziò ad affettare.

«Non ti chiederà nulla, lo conosco», esordì all’improvviso Artemisia. Spostò la sedia e si avvicinò a Dino. «Spiegagli tu come stanno le cose. Ci risparmieremo tempo e fastidi».

Dino si ficcò una fetta di salame in bocca e annuì guardando Lazzari, che gli sedeva di fronte. «Lavoro per il Colonnello».

«Questo spiega ogni cosa», lo interruppe in modo brusco Lazzari, lasciando intendere che per lui non c’era bisogno di aggiungere altro.

«Faccio parte dell’operazione fin dal principio. C’ero anch’io a Cesenatico», continuò Dino ignorando il messaggio dell’altro. «Sono entrato nel tuo appartamento mentre non c’eri e ho invertito le colonne dei libri accanto alla finestra. Il Colonnello era certo che la cosa ti avrebbe per lo meno incuriosito. Poi mi sono fatto vedere dalla tua padrona di casa, e la sera ho sparato quel colpo in aria nel vicolo dall’altra parte della strada. Tutte operazioni di guerriglia psicologica: servivano per convincerti».

«Si è convinto facilmente», disse Artemisia, mentre con la punta del coltello incideva il tavolo, ricoperto di date e scritte.

«L’uccello nascosto nel cespuglio sente il rumore del cacciatore e si spaventa, allora abbandona il riparo per scappare e questo gli è fatale», spiegò Dino, indicando Lazzari con il coltello con cui stava affettando il pane. «Molto meglio rimanere nel cespuglio. Tieni a mente questo consiglio, man».

Un paio di Harley ripartirono in uno scoppiettare di motori. Lazzari le seguì con lo sguardo fino al primo tornante. Nel frattempo arrivò la cameriera con un’altra Coca, oltre a un vassoio pieno di carne alla brace e verdure grigliate. Dino si attaccò direttamente alla bottiglia di Coca. «Spero di avere indovinato i vostri gusti».

Artemisia e Lazzari mossero entrambi le mani verso le verdure. Lazzari la ritrasse per primo e prese il boccale. La schiuma si era ritirata e ora striava appena la superficie del liquido ambrato.

«Vi sono sempre stato appiccicato, giorno e notte, come un angelo custode», proseguì Dino. «Gli ordini del Colonnello erano questi. A Milano ho avvistato per la prima volta i due agenti della Tauros. Tenevano sotto controllo la casa di Achille Vento. Ho occhio, io, per gli ex militari. Hanno tutti un’aria terribilmente professionale, e questo li frega. Non sapevo cosa pensare, ma intuivo che da gente simile non potevamo aspettarci nulla di buono. Quando li ho visti entrare nel portone di Vento ho chiamato la polizia e poi ho dato fuoco al cestino dei rifiuti per avvertirvi. Come immaginavo, i due della Tauros si sono allontanati alla prima sirena. Così vi ho salvato la prima volta».

«Per poco non ci arrestavano», borbottò Lazzari facendo scorrere il dito sul bordo del boccale.

«Quando stavano per intercettarti davanti a Sant’Ambrogio li ho speronati, e così ti ho salvato per la seconda volta. Nel frattempo il Colonnello aveva svolto le sue indagini appurando che quei due tizi erano della Tauros, un’agenzia paramilitare che si occupa di spionaggio industriale, dossieraggio e altre cosette poco piacevoli. Sono stati ingaggiati da un concorrente. Non si sa come, ma qualcuno è venuto a sapere della nostra operazione e si è messo in testa di impadronirsi del lituo».

«Non sappiamo ancora niente su chi siano?», domandò Artemisia.

«Non ancora, ma vi posso dire una cosa: si tratta di qualcuno di poco raccomandabile. I generali si riconoscono dagli ufficiali che scelgono. Quelli della Tauros sono tipi estremamente pericolosi, gente che lavora sporco. Per questo il Colonnello vi ha consigliato di rinunciare, ma voi avete scelto altrimenti».

«Scelto? Io non ho scelto propria nulla», si lamentò Lazzari.

Dino continuò imperturbabile. «Vi ho seguito fino a Bologna e poi vi ho preceduti a Sanremo...».

Lazzari si riscosse di colpo dal torpore con cui aveva ascoltato il racconto. «Come facevi a sapere che saremmo andati lì?»

«Mi ha avvertito Artemisia», confidò tranquillamente Dino.

Lazzari la guardò in faccia per la prima volta da quando avevano lasciato la Garfagnana.

Lei sostenne lo sguardo con disinvoltura. «Motivi di sicurezza», disse.

«Ma sono arrivato tardi», riprese Dino. «Gli agenti della Tauros avevano già ripulito il tuo magazzino. Ho tentato di fermare il loro furgone, ma ho fallito».

«La sparatoria di cui hai letto sul giornale...», spiegò Artemisia a Lazzari.

«Perché gli hai detto che saremmo andati a Sanremo?». La voce di Lazzari rivelò tutta la delusione, ormai priva di rabbia, di chi si sente tradito da qualcuno di insospettabile.

«Non lo immagini?», fece Artemisia.

Dino non si lasciò turbare da quello scambio di battute, che svelava fin troppo la natura del rapporto tra i due, e insistette nel racconto. «A Sarzana la situazione si è fatta complicata, quando vi hanno sequestrato al bar. Pericolo nove in una scala da uno a dieci. Non sapevo come tirarvene fuori. Non potevo certo ingaggiare uno scontro a fuoco in pieno giorno. Allora mi sono rivolto alla polizia dicendo che avevo visto due uomini puntare la pistola contro una coppia di turisti stranieri. Così vi ho salvati per la terza volta».

«Come fanno a starci sempre attaccati al culo e addirittura ad anticiparci? Sei tu a passargli le informazioni?», lo attaccò Lazzari.

Dino smise di masticare perdendo di colpo l’espressione bonaria: deglutì, bevve un sorso di Coca, si passò il tovagliolo sulla barba e infine si aggiustò il cappellino. «Capisco che tu ti senta scavalcato, man, ma non è colpa mia. Avevo degli ordini precisi da parte del Colonnello: scortarvi senza farmi vedere. Non piacevano nemmeno a me, ma non sono pagato per esprimere il mio parere: sono pagato per tenere gli altri in vita. Il compito, al momento, è assolto. Se non avessimo agito in questo modo forse qualcuno di noi ora non sarebbe seduto a questo tavolo. Il Colonnello è indecifrabile, ma sa il fatto suo. Non ha mai fallito una missione».

Lazzari posò il boccale. «Mi stai dicendo che dovrei ringraziarti?»

«Man, ti sto dicendo quello che hanno detto a me in Africa: ringrazia ogni giorno di essere vivo».

«Cerca di capire», lo incalzò Artemisia.

«Io capisco tutto, ma perché non dirmi che avevamo una guardia del corpo al seguito?»

«Non è necessario che tu sappia tutto, ricordi?», lo stuzzicò Artemisia. «E poi l’idea è stata del Colonnello: te l’ha detto anche Dino».

«Non sapevamo da dove potesse arrivare un eventuale pericolo: con il senno di poi possiamo dire che è stata un’ottima strategia. Se ci avessero visti insieme fin dal principio, io non avrei potuto aiutarvi come ho fatto. A Milano e a Sarzana saremmo finiti in trappola», spiegò Dino.

«D’accordo non farci vedere insieme, ma perché non mettermi a conoscenza del piano?», insistette Lazzari.

«Il Colonnello non voleva: forse non si fida del tutto di te», aggiunse Artemisia.

«Lui non si fida di me? Lui non si fida di me?»

«Be’, a Sarzana sembravi pronto a schierarti con quelli della Tauros».

«Roba da pazzi!», sbottò Lazzari scuotendo la testa. Poi più calmo: «E ora cosa è cambiato?».

Dino ripulì il piatto con un pezzo di pane. «I paramilitari della Tauros hanno scoperto che avete un angelo custode al seguito. Una volta giocato, l’asso non può essere rimesso nella manica. Meglio stare uniti: ora il pericolo aumenta».

«Ho fatto da esca in poche parole», li accusò Lazzari, ma qualcosa nello sguardo che passò tra Dino e Artemisia gli fece intuire di avere sparato a salve. Era stato manipolato ancora più di quanto sospettasse. Non aveva capito nulla: non era l’esca, ma il pesce e per di più aveva abboccato fin dal primo giorno. E ora non era che una marionetta nelle mani del Colonnello... «C’è qualcosa che non so, vero?», domandò.

Artemisia e Dino continuarono a guardarsi, senza che nessuno dei due si decidesse a parlare.

Lazzari, allora, sfoggiò un sorrisetto molto simile a una smorfia, e si lasciò andare contro lo schienale alzando gli occhi.

«Molto bene, non fa niente», disse infine con fare allusivo.

Anche lui era a conoscenza di qualcosa che loro due non sapevano.

 

Appena furono in auto, Lazzari reclinò il sedile, forzò uno sbadiglio, chiuse gli occhi e consigliò ad Artemisia di fare altrettanto. «Svegliami quando saremo a qualche chilometro da Leonessa».

«Se mi dici l’indirizzo preciso, ti sveglio direttamente a destinazione», si intromise Dino indicando il navigatore.

Lazzari lo studiò con un occhio solo: la sua ironia non era mai chiara.

«Il posto dove dobbiamo andare non è segnato su nessuna mappa», spiegò Lazzari a Dino.

Dino scosse la testa. «Non ci sono segreti per i satelliti».

«Per fortuna esistono segreti impenetrabili anche per la più sofisticata delle macchine», disse Lazzari.

«Che cosa vuoi dire?», gli chiese Artemisia.

«Sto già dormendo, mi spiace», sussurrò Lazzari e chiuse anche l’altro occhio.

 

Quando li riaprì, due ore più tardi, impiegò qualche secondo per scavare nella sua memoria e riconoscere la facciata pallida del duomo di Terni. Una serie di palme si stagliavano contro il porticato del Bernini.

«Che ci facciamo qui?», domandò a Dino, che sedeva al suo fianco con le mani sul volante.

«I turisti», rispose il barbuto e gli indicò Artemisia che usciva da un bar sull’altro lato della strada. Si era cambiata e ora indossava un giubbotto di pelle sopra i jeans sbiaditi e strappati. La temperatura era decisamente più primaverile da quelle parti.

«Pensavo comandassi tu», disse Lazzari.

«Pensavi male, man».

«Non è una novità».

«Possiamo andare», disse lei risalendo in auto.

«Non ancora», fece Lazzari e saltò giù.

Attraversò la strada sbattendo i piedi per recuperare sensibilità, entrò nel bar e ordinò un caffè doppio. Lo bevve, andò in bagno e quando uscì ne ordinò un altro. Quanti ne servivano per svegliarsi da quell’incubo? Si specchiò nei ritagli di vetro che facevano capolino tra le bottiglie. Gli occhi tradivano il vacuo luccichio dello sbandamento, che lo assaliva ogni volta che era a un passo dal mandare al diavolo tutto quanto. Uscì senza prendere il resto.

La macchina era sparita. Meglio così. Riparò in chiesa e si sedette nell’ultimo banco. Abbassò la testa e allargò le braccia. Non sapeva nemmeno lui cosa dire: era andato tutto storto, ancora una volta. Ma in fondo era entrato per cercare un’ispirazione e così raggiunse il leggio davanti al pulpito.

Il messale era aperto sul brano delle vergini che si addormentano in attesa dello sposo. Tutte e dieci si lasciano andare al sonno, ma cinque di esse conservano olio nelle loro lampade e all’arrivo dello sposo possono accendere le lampade ed entrare con lui. Chi brucia vive. Occorre ardere per vivere.

Tornò fuori con un altro piglio. Il fuoristrada era fermo davanti al sagrato con la portiera aperta. Saltò su e ripartirono. Nessuno gli disse niente. Abbassò il parasole per ripararsi dai raggi obliqui del tramonto.

«Tieni», gli disse Artemisia dopo un po’ porgendogli un pacchetto.

Lazzari lo prese e lo scartò senza dire una parola. Dentro un’elegante confezione c’era un paio di occhiali da sole. Li infilò e si specchiò. Ora almeno non doveva fissare il proprio smarrimento. Poi alzò la testa, per cercare il volto di Artemisia nello specchietto retrovisore e si ricordò di quando a Sanremo le aveva detto che le invidiava gli occhiali... sembrava passata una vita.

«Questo non significa che ti sposerò», scherzò la ragazza.

 

Quando oltrepassarono Leonessa, Lazzari si tolse gli occhiali e disse a Dino di rallentare. Scrutava i boschi sulla sua destra con attenzione scrupolosa. Era stato lì soltanto una volta, anni prima, ma era sicuro di riconoscere il viottolo tra gli alberi, non appena lo avesse scorto.

«Ecco!», gridò eccitato a un certo punto.

Dino controllò gli specchietti, poi scalò e svoltò bruscamente. Imboccarono la strada in terra battuta che si inerpicava per la collina. Il fondo era sconnesso, pieno di grosse buche e punteggiato di pietre e radici. Non c’erano tracce recenti di pneumatici. Erano in pochi ad avventurarsi lì.

Ogni tanto un sasso rivoltato cozzava contro il fondo della vettura producendo un rumore metallico. Ben presto furono costretti ad avanzare con le marce ridotte. All’altezza di una curva a gomito un torrente tagliava la pista ma l’acqua era alta pochi centimetri. Il fuoristrada lo guadò senza problemi e dopo circa due chilometri giunsero in un piccolo spiazzo circolare. Era impossibile proseguire oltre.

«Abbiamo sbagliato strada», constatò Dino lanciando occhiate perplesse a destra e a sinistra.

«Niente affatto. Si procede a piedi da qui in avanti», disse Lazzari e uscì senza ulteriori spiegazioni.

Artemisia lo seguì immediatamente e Dino, senza perdere tempo a riflettere, infilò due pistole nelle fondine ascellari e indossò il suo piumino. Poi prese un borsone dal bagagliaio, se lo mise a tracolla e li raggiunse a grandi passi sul sentiero che spariva nel bosco. «Vado io per primo. Non sappiamo dove possono essere quelli della Tauros», disse loro.

Lazzari indicò qualcosa alle proprie spalle. «Credo che Parodi abbia parlato, prima di morire, rivelando come mettersi in contatto con il Lupo. A quest’ora saranno sulle sue tracce».

Dino lo guardò male. «Ma allora cosa ci facciamo qui? Era meglio seguire loro. Dovevi dirmelo».

«Non sono io l’esperto di sicurezza e protezione».

Dino incassò con un sorriso a labbra serrate. «Non sono io quello che ha bisogno di protezione».

«Già», ammise Lazzari. «Comunque non ti preoccupare. Il Lupo non si lascerà trovare».

«Quelli sono specializzati nel trovare chi non vuole farsi trovare».

«Che avremmo dovuto fare? Metterci a seguire i nostri inseguitori? Se davvero la Tauros riuscirà a scovare il Lupo prima di noi, non ce lo lascerà di sicuro. Per questo siamo qui: sono certo che il Maestro Foglia può rintracciare il Lupo prima di loro...», disse Lazzari, lasciando all’improvviso la frase in sospeso.

«Ma?», lo incalzò Dino.

«Ma non sono altrettanto convinto che lo farà».

«Lo convinceremo», garantì Artemisia.

«Non è quel genere di uomo. Se ha preso una decisione, non potremo farci nulla», disse Lazzari e poi piantò l’indice nel petto di Dino. Un gesto improvviso che sorprese tutti. «Allora, decidi. Vuoi fare un tentativo qui oppure metterti sulle piste di quelli della Tauros?».

Dino indicò il sentiero con un cenno del capo. «Mi fiderò del tuo giudizio».

 

Camminarono per mezz’ora prima di abbandonare il sentiero e su indicazione di Lazzari svoltarono verso nord all’altezza di una quercia cava. In pochi minuti di marcia sostenuta raggiunsero una capanna di tronchi: camuffata nella vegetazione, era invisibile anche a due metri di distanza.

La porta non era chiusa a chiave. All’interno c’era solo un piccolo camino di pietra e una piramide di ceppi impilati con cura. Sull’architrave di legno annerito erano sistemate due grosse pigne e una scatola di fiammiferi.

«Passeremo qui la notte», annunciò Lazzari.

«Come qui?», domandò Artemisia guardandosi attorno.

Si era fatto buio nel frattempo. Dino accese la torcia elettrica e la tenne puntata verso il camino davanti al quale Lazzari si chinò per accendere il fuoco.

«È la regola. Dobbiamo passare la notte in questa capanna, se vogliamo che domattina all’alba il Maestro Foglia ci riceva. Altrimenti ci respingerà. Nessuna alternativa possibile. Lui abita in cima alla collina».

«Ma che cazzate sono queste?», sbottò Artemisia. Continuava a scuotere la testa e a guardarsi intorno incredula.

«Lascia che ti aiuti», disse Dino accovacciandosi al suo fianco. Gli bastarono pochi istanti per accenderlo. «Ho imparato in Etiopia», disse quasi per scusarsi dell’abilità dimostrata.

«Il fumo gli segnalerà la nostra presenza», spiegò Lazzari posando una mano sul comignolo che saliva fino al tetto e oltre.

«Questo Foglia mi sentirà domani», minacciò Artemisia.

Dino raccolse la propria sacca. «Vi cedo la suite. Io starò di guardia qui fuori. Non mi piace per niente questa situazione. Pericolo sei. Una baracca in mezzo a un bosco a volte è il migliore dei ripari, altre volte la peggiore delle trappole. E io non voglio svegliarmi sotto le armi di quelli della Tauros».

«Non avevi detto di fidarti del mio giudizio?», gli ricordò Lazzari.

«Mi fido del tuo, ma scelgo il mio».

 

Artemisia e Lazzari, rimasti soli, si sedettero ai lati del camino, una da una parte e uno dall’altra. La capanna era fredda e il fuoco ancora debole. Dal pavimento saliva intensa l’umidità. Il calore pareva richiamarla, anziché allontanarla.

«Ci aspetta una lunga veglia», fece Lazzari.

«Che vorresti dire?»

«La regola prevede la veglia fino all’alba, non il sonno. Ti avevo detto di dormire in auto».

Artemisia emise un verso beffardo. «Il tuo Maestro verrà a controllare?»

«Lo farà domattina guardandoci in faccia».

«Ce l’avremo comunque distrutta, non ti preoccupare». E in un sussurro nervoso aggiunse: «Questa storia ci è sfuggita di mano».

Lazzari si sporse oltre il camino. Cercava di decifrare nella penombra rossastra la sua espressione. C’era rabbia, ma anche altro. C’era sempre qualcos’altro. «Te ne sei resa conto finalmente. Lo vedi che avevo ragione io? Dovevamo ascoltare il Colonnello e rinunciare».

«Lo vedi? Non capisci mai niente», disse Artemisia. Poi si voltò e si sdraiò rannicchiata.

«Che vorresti dire?».

Artemisia sbadigliò. «Mi spiace, sto già dormendo».