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Lazzari aprì gli occhi intorno alle cinque, qualche minuto prima che la sveglia suonasse. Disinserì l’allarme e si fece il segno della croce. Seduto sul bordo del letto, si massaggiò lo stomaco e fece gli esercizi per i suoi dolori cervicali.

Dopo la doccia, notò un tagliacapelli elettrico sul ripiano del lavello. Gli bastò un’occhiata ai capelli che gli arrivavano quasi alle spalle per decidersi. Si rasò a zero, poi prese dall’armadio una camicia blu e un completo grigio, che valutò a occhio della sua taglia, li indossò e uscì senza più specchiarsi.

La notte precedente non si era accorto che il lungo corridoio proseguiva oltre la sua stanza fino a una parete mascherata da una tenda. Si avvicinò spinto dalla curiosità, scostò il pesante tendaggio e si ritrovò davanti a una porta blindata con a fianco una piccola tastiera.

Curiosò in giro, ma i domestici non erano ancora in piedi. Trovò un bloc-notes su una scrivania, scrisse un biglietto per Artemisia e glielo lasciò sotto la porta: Vado da un amico a chiedere consiglio. Resta fuori dai guai. Anzi, resta in casa. A stasera.

Una volta in strada, s’incamminò a piedi verso la casa del professor Casini, proprio di fronte alla basilica di Sant’Ambrogio. Casini era stato il suo mentore: gli aveva procurato borse di studio e contatti nel mondo accademico e, cosa ancora più importante, gli aveva trasmesso la sua grande passione per la ricerca.

Lazzari prese un caffè e gironzolò per il quartiere fino alle otto, quando suonò e salì. La signora Cecilia sollevò un sopracciglio appena lo riconobbe. «Alla buon’ora, il signorinetto. Chi non muore si rivede», disse prima di farlo accomodare nel vestibolo.

Era in servizio in quella casa da oltre quarant’anni e non ne voleva sapere di prendere congedo. Diceva sempre che il professore li avrebbe seppelliti tutti, senza specificare chi intendesse di preciso con quel “tutti”.

«La trovo bene, signora Cecilia».

«La strada, invece? Quella non l’hai più trovata, eh?».

Lazzari sapeva che sarebbe stata una lunga attesa. Lui, d’altra parte, lo stava facendo aspettare da quasi un decennio. All’epoca lavorava al suo saggio già da cinque anni. L’ultimo giorno che lo aveva visto, Casini lo aveva convocato nel suo studio e gli aveva dato un ultimatum: pretendeva la consegna del saggio, finito o non finito, per l’indomani mattina. In caso contrario poteva dimenticarsi il suo sostegno. L’indomani mattina Lazzari aveva preso il primo treno per Roma, dove il rettore di un’università privata gli aveva offerto un incarico, con la promessa di concedergli tempo e risorse per continuare le sue ricerche per il libro sulla fondazione di Roma.

Pochi minuti più tardi arrivarono i primi visitatori. Come un patrono romano, Casini aveva l’abitudine di dedicare la mattinata al ricevimento domestico di amici e ospiti. Lazzari riconobbe tra gli altri un giovane docente di filologia bizantina che doveva avere quattro o cinque anni meno di lui.

Alle dodici anche l’ultimo dei clientes fu congedato. Lazzari era rimasto solo nel vestibolo dai sedili foderati di cuoio. Si costrinse a inghiottire la frustrazione e a non protestare.

Cecilia gli portò un tramezzino e un bicchiere d’acqua. «Ma non dirlo al professore».

Verso le due si presentò un cardinale. Lazzari lo conosceva di vista e stava quasi per rivolgergli la parola, ma l’uomo fu subito ammesso alla presenza dell’anziano professore. Un’ora più tardi uscì imboccando senza esitazioni la porta. Al suono delle quattro Lazzari cominciò a dubitare che quell’attesa avesse un senso, ma poco dopo fu convocato.

Il vecchio sedeva sulla sua poltrona, con Giasone in grembo: con la sinistra grattava l’orecchio del gatto e con la destra agitava la sua vecchia pipa. A un certo punto la sollevò con un gesto perentorio.

«Nemmeno una parola sul passato. Ormai mi interesso solo del futuro. E non mi ricordare quanti anni ho, so benissimo di averne ottanta».

«Professore...», balbettò Lazzari senza staccare gli occhi dal pavimento.

«Una volta ti avrei fatto attendere almeno una settimana, anziché poche ore come oggi, ma da quando sono malato vivo ogni giorno come se fosse l’ultimo e pertanto non posso permettermelo. Inoltre so che avresti atteso perfino un mese, e questo mi è sufficiente».

«Professore, io...».

«Se sei venuto per chiedere il mio perdono, sappi che lo troverai un po’ freddo. È pronto da molti anni».

Lazzari si avvicinò per abbracciarlo. «Su, su», gli disse il vecchio. Avevano entrambi gli occhi rossi. «In piedi. Sappiamo che per diventare grandi dobbiamo ribellarci pro tempore prima ai genitori e poi alle auctoritates. E io per te rappresentavo entrambi».

«Grazie».

«Sì, sì, va bene, prendi la sedia e mettiti qui, al mio fianco. Hai visto quel porporato? Trovo piacevole la sua conversazione. Chi l’avrebbe mai detto? Ho sempre sofferto la presenza dei preti, mentre ora... è la maledizione di noi toscani, o mangiapreti o mistici. A proposito di mistici, ricordami cosa diceva quel tuo Antonio da Alba Docilia sulla grande mietitrice».

Lazzari pensò qualche istante prima di rispondere. «Che è come guardare il lato della vita non rivolto verso la luce».

«È un pensiero rincuorante, almeno così mi va di intenderlo. Chissà che non finisca per diventare credente, un giorno o l’altro. Sì, sì, lo so, dubitare è credere, non c’è bisogno che me lo ricordi».

«Professore...», attaccò Lazzari.

«So perché sei qui», lo interruppe Casini. «Alla fine ti ha persuaso, quel Colonnello... Persona sgradevole, con tutte quelle sue certezze. Sì, sì, non fare quella faccia. Sono stato io a indicargli il tuo nome. Dimmi, piuttosto: come ha fatto a convincerti?»

«Non mi ha lasciato scelta».

«Sì, sì, è il loro modo», confermò Casini senza specificare a chi o a cosa si riferisse.

«Perché gli ha fatto il mio nome?»

«Mi hanno chiesto quale fosse, a mio parere, il più dotato tra i giovani studiosi che si occupano della fondazione di Roma. Soltanto dopo mi hanno spiegato le loro intenzioni. Mi dispiace, figliolo».

«Non importa».

«Sei qui per avere il mio consiglio?»

«Sì», ammise Lazzari, che intanto pensava a come dare un minimo di senso alla domanda che si accingeva a fare. Sapeva, infatti, quanto Casini fosse suscettibile riguardo a certe derive sensazionalistiche di quella parte della storiografia sensibile alle tematiche esoteriche. Ma si fece coraggio. «Professore, sarò sincero... Lei sa per caso qualcosa a proposito di una setta che potrebbe custodire ancora oggi i segreti sulle origini dell’Urbe?»

«Una setta?... Be’, so quello che mi raccontava il mio compagno di studi Umberto Parodi. O almeno, lo saprei se fossi stato ad ascoltarlo», rispose tranquillamente il professore, sorprendendo Lazzari. «I suoi genitori avevano fatto i soldi con le macellerie. Ne avevano una dozzina nella sola Genova. Lui, però, aveva altre aspirazioni: si interessava di esoterismo, anche se non proseguì con la carriera universitaria. Invece divenne una sorta di antiquario, con la passione per le anticaglie e gli antichi segreti. Vive a Sarzana... sì, a Sarzana, in Liguria. A Natale ho ricevuto un suo biglietto. È vero che tre mesi sono molto tempo alla nostra età, ma secondo me è ancora vivo... Se vuoi informazioni su queste cose, lui è la persona che fa per te».

«Domani stesso sarò a Sarzana».

Cecilia entrò senza bussare. «Sono quasi le sette, la cena è in tavola professore».

«Mi tiranneggia», sussurrò Casini.

«La lascio, professore», disse Lazzari, e lo aiutò ad alzarsi.

«Certo certo, ma aspetta ancora un minuto. Prima che te ne vada voglio raccontarti una cosa. Vedi questa pipa?», domandò Casini, e gliela agitò sotto il naso. «Sai, mio nonno si dilettava di archeologia... Forse ti avrò parlato di lui, partecipò negli anni Venti alle campagne di scavo sul Palatino. Durante quei lavori venne divelto un albero secolare, o millenario, se si deve prestar fede alle leggende locali. Mio padre, quando riferiva il racconto del nonno, sosteneva che si trattasse di un olivo, ma io preferisco credere che fosse un fico. In ogni caso, dal tronco di quell’albero mio nonno si fece intagliare questa pipa. Lui la diede a mio padre, mio padre a me e... Ecco», disse porgendogliela con un’occhiata enigmatica. «Per fumare non vale niente, ma è un buon cimelio. Ora è tua».

Lazzari non finse di volerla rifiutare, ma la afferrò quasi con timore. Riuscì a dire soltanto: «Grazie».

«Ti ho insegnato, vero, a leggere nella storia?»

«Sì», mormorò Lazzari sorpreso.

Il professore lo guardò negli occhi ancora alcuni istanti, prima di lasciare la presa sulla pipa. «Se ti capitasse di finire in un ginepraio, soffiaci dentro».

«Comparirà una sorta di genio della lampada?», domandò Lazzari.

«No, no, ma ti trasformerai nel pifferaio magico e potrai menare le danze e condurre via i topi».

«Grazie, di tutto», ripeté Lazzari, senza avere afferrato il senso di quella frase, ma intenzionato a non chiedere ancora spiegazioni. Forse la malattia aveva indebolito la mente di Casini. Si chiese se lo avrebbe rivisto.

Il professore lo trattenne per il gomito, e avvicinandoglisi sussurrò complice: «Sai qual è il vero segreto di Roma figliolo?».

Lazzari avvertì le lacrime. Temendo che la voce gli si spezzasse, si limitò a scuotere la testa.

Il professore sorrise. «Che dopo tremila anni, qualcuno se lo domandi ancora».

 

Lazzari si gustò per qualche minuto l’atmosfera vespertina che cala sul centro di Milano dopo le sette, quando il traffico rifluisce, i pendolari ripartono, e in qualche modo si sa che il peggio è passato, e che il sonno o il vino metteranno a posto tutte le cose. Poi scese gli scalini che conducevano al quadriportico della basilica di Sant’Ambrogio, deciso a entrare.

Le luci soffuse riscaldavano l’interno bianco e mattone della chiesa. Accese una candela pensando ad Achille Vento e poi si sedette su una panca in fondo, accanto al confessionale, mentre dal pulpito un sacerdote concludeva la propria omelia. «E così i discepoli di Emmaus avevano camminato a lungo fianco a fianco con Gesù, lo avevano ascoltato, ma non lo avevano inteso. E quando finalmente lo riconobbero, lui sparì. Come diceva il tragico greco Eschilo: “gli uomini cercano Dio e nel cercarlo lo trovano”».

Lazzari uscì durante la benedizione finale. Sentiva di aver con sé qualcosa in più, ma non riusciva a distinguere cosa fosse. Camminava su via Carducci, pensando a tutte le persone che nella vita lo avevano amato e a quanto poco lui avesse fatto per meritarsi il loro affetto, quando una Mercedes scura si accostò bruscamente al marciapiede. Una delle portiere posteriori si aprì di botto e un uomo in giacca e cravatta si sporse per chiamarlo.

«Professor Lazzari, salga, presto!».

Lazzari non l’aveva mai visto prima. Cominciò a scuotere la testa e a tremare, senza riuscire a trovare le parole. Lo sconosciuto allora si sbottonò la giacca mostrando una pistola. «Salga, professore, per il suo bene».

Lazzari fece per muoversi, ma aveva le gambe di piombo. Proprio quando l’uomo dentro l’auto allungò la mano per afferrarlo, un fuoristrada scuro si accodò alla Mercedes senza rallentare e la speronò facendole fare un balzo in avanti di alcuni metri.

Il rumore dell’urto e la pioggia di frammenti dei fanali scossero dal torpore Lazzari, che si mise immediatamente a correre, infilandosi nei vicoli dove le auto non potevano passare e pregando che le gambe non lo abbandonassero. Pareti di mattoni scorrevano rapide alle sue spalle. Rallentò solo quando non ce la fece più. Si mescolò ai passanti e scese verso piazza XXIV Maggio a passo sostenuto, saettando occhiate allarmate in giro. Il panico lo spinse a correre fino al palazzo dove aveva trascorso la notte.

In casa non c’era traccia di Artemisia.

«Abbiamo ricevuto una telefonata per lei da un certo Colonnello. Ha lasciato un messaggio. Ha detto che la attende a cena per le nove presso il ristorante Giacomo in via Sottocorno», gli riferì Cesar.

«Artemisia dov’è?», domandò Lazzari che andava avanti e indietro lungo il salone in preda all’agitazione.

Cesar mosse i muscoli facciali, cercando di assumere un’espressione adatta a quanto stava per dire, e con un cenno del mento gli indicò il ficus beniamino che stendeva i suoi rami frondosi tra le due finestre laterali del salone. «La signorina Artemisia mi ha detto di augurarle buon Natale».

Lazzari si avvicinò alla pianta. I resti del biglietto che aveva lasciato alla ragazza pendevano come coriandoli e festoni dal ficus. «Merda», disse a denti stretti.

«È anche passato un uomo e ha chiesto di voi», disse ancora Cesar.

«Chi era?»

«Non lo ha detto, e io non l’avevo mai visto prima... Un signore molto alto, con la barba, gli occhiali scuri e un cappello verde».