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Nulla: quella parola sigillò il silenzio calato nel cortile dopo la partenza delle tre Mercedes. La polvere si depositò adagio. Il rumore dei motori si dissolse in lontananza. L’ombra proiettata dal fienile sull’aia si allungò verso l’opposto casolare.

Dino si lasciò cadere pesantemente a terra. Aveva lo sguardo perso nel vuoto. Non c’era più alcuna battaglia da combattere, tutto era perduto. Lazzari fissava come un cieco l’orizzonte ignorando i pensieri che gli vorticavano in testa.

«Cerchiamo un telefono. Mio padre scatenerà un inferno. Fermerà quel cazzo di volo», provò ad animarsi Artemisia.

«Non farà nulla», le fece eco Dino con voce piatta e sfibrata. «Mi è capitato di collaborare con quei paramilitari in passato. Sono al soldo di un magnate russo con talmente tanto denaro e potere da avere un esercito personale alle sue dipendenze: è gente fuori dalla nostra portata. Il lituo è perso per sempre».

«E chi sarebbe tuo padre?», le domandò Lazzari mentre si chinava per raccogliere l’involucro che gli aveva gettato il Colonnello. Lo soppesò senza particolare interesse: era avvolto in una comune carta da pacchi e piuttosto leggero.

«Non l’hai ancora capito?», lo aggredì Artemisia. Era furente, e a giudicare dal suo tono di voce sembrava attribuire la responsabilità di tutto a Lazzari.

«No», disse Lazzari, senza sollevare gli occhi dal pacchetto.

«Il Committente è mio padre».

«Tuo padre», ripeté Lazzari incredulo.

Artemisia proseguì accalorata: «Il Colonnello aveva già lavorato alcune volte per la nostra famiglia. Su suo incarico, Dino si è occupato della sicurezza di mio padre per un breve periodo di tempo circa due anni fa, all’epoca in cui vendette le proprie partecipazioni in una multinazionale farmaceutica. Ci siamo sempre trovati bene: lavori impeccabili. È per questo che ci siamo rivolti a lui anche per quest’operazione. Mio padre ha una passione smodata per Roma antica e ora che, in un certo senso, si è ritirato dagli affari...».

«Ma tutte queste cose non potevi dirmele prima?».

Il candore con cui le pose la domanda la fece infuriare ancora di più. Con la bocca aperta, gli occhi tristi e quel pacchetto tra le mani, le dava l’impressione di un questuante e lei aveva una gran voglia di strappargli il pacchetto dalle mani e poi sbatterglielo in testa. «Non venirmi a parlare di sincerità!».

«Non saprei di che altro parlare, a questo punto».

Artemisia sbuffò, restò come in bilico per alcuni istanti, le mani sollevate e le gote rosse, e infine parve arrendersi. «Volevo a tutti i costi partecipare alla missione per il ritrovamento del lituo e mio padre non ha potuto fare altro che acconsentire. Avevo bisogno di qualcosa di nuovo, emozioni fuori dall’ordinario. Il Colonnello, però, disse che rivelare la mia identità avrebbe fatto salire il fattore di rischio, e che per giunta tu eri una persona incapace di tenere un segreto».

«Sai cosa disse a me?», fece di rimando Lazzari. «Che il bravo venditore piazza il suo prodotto, ma quello bravissimo vende due volte lo stesso articolo a due acquirenti diversi. Lui si è superato: ha piazzato lo stesso pezzo a tre acquirenti distinti».

Dino sollevò la testa. «La Tauros...».

Lazzari annuì e con gli occhi sembrava dirgli “mi dispiace che ti abbia deluso, ma è quanto accade con gli idoli: se li tocchi, la doratura ti rimane appiccicata alle dita”. «Ora sai perché quelli della Tauros erano certi che non li avremmo inseguiti. Avevano la garanzia del Colonnello. Tu riferivi a lui e lui a loro... Deve aver preso contatti subito dopo il pasticcio di Sarzana, cogliendo con piacere l’opportunità insperata di un ulteriore guadagno».

«Il Colonnello ha accettato l’offerta che noi abbiamo rifiutato», mormorò Artemisia con il tono di chi scopre all’improvviso una verità evidente.

«Già», confermò Lazzari. «Per questo gli agenti della Tauros ci ronzavano attorno senza intervenire. Aspettavano. E il Colonnello a sua volta aspettava con i russi. Erano tutti in attesa che noi mettessimo le mani sul lituo».

«Ma come poteva prevedere...».

«È la sua specialità, no?», fece Lazzari. «“Il punto debole dell’uomo è la prevedibilità”, mi disse il primo giorno. E io non l’ho deluso. È stato lui d’altronde a suggerirmi l’idea. Vendere due volte la stessa cosa».

Dino prese un sasso e lo lanciò oltre il casolare. Lo udirono perdersi tra gli alberi. «Aveva previsto che ti saresti sbarazzato della Tauros in quel modo? Con una falsa copia del lituo? Mi pare assurdo».

«Non troppo, se ci ragioni bene. Quale altro modo avremmo potuto escogitare per toglierceli dai piedi? Tu stesso ti eri accorto che non era possibile procedere con quella gente alle calcagna, e per questo motivo avevi chiesto rinforzi al Colonnello. Lui te li aveva promessi per tenerti buono e non farti insospettire, ma non te li avrebbe mai concessi, e se io non avessi architettato la messinscena per liquidare la Tauros, ce l’avrebbe suggerita lui stesso».

«È grazie al Lupo se lui ha potuto seguire passo a passo le tue mosse», rimarcò Artemisia in tono duro.

«Sì, certo», confermò Lazzari, una smorfia amara sul viso. «Il Lupo ha informato il Colonnello sia della copia sia del lituo che mi aveva dato Casini».

«Il Maestro ci aveva messo in guardia», ricordò Dino.

«E tu ti sei fidato di quel tombarolo anziché di noi», tornò alla carica Artemisia, ma senza l’abituale impetuosità.

Dopo mezzo minuto buono di silenzio, in cui ciascuno contemplò la propria posizione all’interno di quella faccenda, Lazzari riprese: «Avrei dovuto capire che c’era un legame tra il Lupo e il Colonnello ieri mattina. All’alba il Lupo mi ha preso in disparte per convincermi a fare un salto a Roma, dove ci aspettava un suo amico in possesso di un brandello dell’Epoptidon. Lì per lì ho creduto che si trattasse semplicemente di qualcuno che volesse vendermi un falso, un modo per il Lupo di intascare qualche soldo in più».

«E poi la telefonata del Colonnello, già...», ricordò Dino.

«E quell’assurda puntata a Nettuno. L’uomo che si proponeva di venderci i tesori ripescati dalle paludi si è avvicinato senza indugio al nostro tavolo senza averci mai visto prima. E vi siete accorti di come il Lupo cercava di pilotarlo? Era con ogni probabilità uno dei suoi collaboratori. Tutta una messinscena ordita dal Colonnello e dal Lupo».

«Sai anche il perché?», fece Artemisia.

«L’ho scoperto poco fa. L’hanno fatto per guadagnare un giorno e permettere ai russi di arrivare e attrezzarsi per la trappola di oggi».

«Se tu ti fossi fidato di noi anziché del Lupo a quest’ora il lituo sarebbe nelle nostre mani», gli fece notare Artemisia.

«Sospettavo che il Colonnello fosse in contatto con la Tauros, d’accordo, ma se ve l’avessi detto mi avreste creduto? Non credo. E poi come potevo prevedere l’entrata in scena dei russi? Chi diavolo se lo sarebbe immaginato... Inoltre avevo tante altre cose in testa, dalla tomba al lituo, passando per quello che sai... E volevo vedere a cosa saremmo arrivati».

«E a cosa siamo arrivati? Dimmelo un po’».

«Alla realizzazione completa del piano del Colonnello», rispose al suo posto Dino.

Lazzari assentì. «Il Colonnello ha intascato soldi dal Committente, dalla Tauros e dai russi. Perché tutti pagano in anticipo il professionista che non ha mai tradito le aspettative di nessuno... Giusto?»

«Figlio di puttana», rimarcò Artemisia.

Artemisia si avvicinò a Lazzari. «Cosa c’è in quel pacchetto che ti ha lasciato il Colonnello?»

«Te lo dirò tra un istante». Lazzari lo scartò e si ritrovò tra le mani un’agendina nera. In basso a destra, sotto un sottile taglio, vide le iniziali C.V.R. e la riconobbe. «È quella del Colonnello», rivelò.

«Sì, è proprio la sua», confermò Dino.

Ma perché gliela aveva lasciata? Lazzari si ricordò di quando, seduto al tavolino dell’enoteca, il Colonnello aveva letto in quelle righe la storia della sua carriera universitaria. La aprì e la sfogliò incredulo. Tutte le pagine erano bianche. «Grandissimo figlio di puttana», sussurrò.

Artemisia prese l’agendina e fece scorrere i fogli a sua volta. «Che significa?»

«Che mi ha manipolato a suo piacimento, fin dal primo momento. Che lui ha vinto e io ho perso», rispose Lazzari.

«E c’era bisogno di fartelo notare? Non era già abbastanza chiaro? Ci ha fregati su tutta la linea: si è tenuto il lituo e pure i soldi!».

«Non basta sconfiggere un avversario; perché il trionfo sia completo occorre che il nemico sia consapevole della sua totale disfatta».

«E che motivo poteva avere per inscenare questa sfida? Non ce lo vedo a gingillarsi con le questioni personali. E poi tu lo conoscevi appena».

«Forse rappresentavo qualcosa per lui», azzardò Lazzari.

«Ormai non ha più importanza», si inserì Dino rialzandosi a fatica. Raccolse il berretto da terra e se lo sbatté contro la coscia un paio di volte per far cadere la polvere, infine ci ripensò e lo gettò via.

«Invece ce l’ha», insistette Artemisia. «Non possiamo arrenderci così».

«Ci siamo già arresi», le ricordò Dino.

«Andiamo al bar di Minturno», fece Lazzari. «Voglio mettere la parola fine a questa storia».

 

I locali del bar Centrale erano quelli di un’ex società di mutuo soccorso che avevano un gran bisogno di una ristrutturazione. Il salone era deserto tranne un tavolo dove quattro uomini giocavano a carte nella luce polverosa che pioveva da una finestra protetta dalle inferriate.

Artemisia e Lazzari si fermarono sulla porta. Dino, invece, puntò direttamente in bagno; dentro un vecchio armadio stipato di canovacci trovò il borsone con tutte le loro cose, compresi i cellulari e la sua pistola. Tornò all’ingresso e fece cenno ai compagni di raggiungerlo all’interno del bar.

Si sedettero a un tavolino al di là del biliardo che divideva in due la sala e si fecero portare tre bicchieri di whiskey.

«Puoi controllare in qualche modo se è partito quel volo?», domandò Lazzari a Dino.

«Conosco una persona che può scoprirlo facilmente», disse Dino afferrando il cellulare. «Un volo privato per Makachakala è decollato dieci minuti fa da Ciampino», riferì al termine della breve telefonata.

«Ora mi sento molto più leggero», commentò Lazzari e buttò giù il bicchierino.

«Che cosa avrebbe potuto farti ancora?».

Lazzari mormorò una preghiera di ringraziamento a occhi chiusi. «Spero di non vedere mai più quell’uomo. È come guardare la parte peggiore di me».

«Ti sembra il momento di fare della filosofia?», gli domandò Artemisia.

«Forse è finalmente il momento della verità...», annunciò Lazzari. «E la verità è che siamo tutti colpevoli. Non abbiamo fatto altro che ingannarci». Ordinò una bottiglia di vino alla donna dietro il banco: «Dobbiamo brindare e per farlo ci vuole del vino».

Dino temette che Lazzari fosse uscito di testa, ma non disse nulla. Lui stesso era a pezzi, si sentiva come un soldato greco al termine della guerra di Troia: vinto o perso, non aveva più importanza. E ora? Tornare a casa? Quale casa? «Abbiamo bisogno di riposo», disse semplicemente.

Lazzari tirò dritto: «Mi dispiace solo per il lituo. Ci ero affezionato».

Artemisia afferrò il tavolo con le mani e lo scosse con rabbia. I bicchierini si rovesciarono e nessuno si curò di rialzarli. «Ci eri affezionato? Era un cazzo di oggetto da milioni di euro!».

Lazzari si alzò e andò a sedersi sul davanzale della finestra. «Non più di qualche migliaia», rivelò.

«Il lituo con cui fu fondata Roma?»

«Il lituo con cui fu fondata un’oscura località etrusca alle porte di Tarquinia».

«Che vorresti dire?»

«La volpe conosce molti trucchi. L’istrice uno soltanto, ma buono. E noi siamo l’istrice».

«E la volpe sarebbe il Colonnello?», domandò Dino.

La donna del bar giunse ciabattando con tre bicchieri in una mano e nell’altra una bottiglia di rosso senza etichetta.

«La versiamo noi», disse Artemisia esasperata dalla sua lentezza.

Quando la donna si fu allontanata, Lazzari riprese: «Avete mai visto Rashômon? Quel film sull’omicidio di un samurai raccontato in modo diverso da ogni protagonista della vicenda?». Appena si accorse del cambio di espressione di Artemisia, si ravvide: «Come non detto, non fa niente. Però stamattina vi ho mentito. Non ho mai creduto alla storia della microspia. Sono sempre stato convinto che fosse uno dei nostri a informare la Tauros, ma sul principio non sapevo chi fosse, di voi».

«D’accordo, ora sappiamo che era il Colonnello. Però mi viene in mente che fu proprio lui a invitarci ripetutamente a rinunciare. L’hai sentito anche tu a Milano quando eravamo a cena da Giacomo», obiettò Artemisia.

«Era il suo ruolo e la sua copertura. E ti conosceva. Sapeva che se lui avesse insistito, tu avresti fatto il contrario. Così è stato. Senza dubbio era in contatto con i russi fin dal principio. Poi ha trasformato il pericolo Tauros in un’opportunità, accettando la loro offerta al nostro posto: li informava sui nostri spostamenti in modo che, quando il lituo fosse stato nelle nostre mani, sarebbero potuti intervenire per portarcelo via in tutta comodità».

«E poi lui e i russi l’avrebbero preso a loro?»

«Questa doveva essere la sua idea iniziale. Poi io gli ho offerto una soluzione migliore: più facile e molto meno rischiosa. Mi sono accordato con il Lupo per preparare la copia e la trappola per gli agenti della Tauros».

«E in quel modo la Tauros è finita fuori dai giochi», disse Dino.

«Tu però non potevi avere certezze circa l’accordo tra la Tauros e il Colonnello...», gli fece notare Artemisia.

«Ed è per questo che mi sono tenuto un asso nella manica».

«Il lituo che ti aveva dato Casini a Milano...».

«Esattamente», disse Lazzari, desideroso di svelare le motivazioni che lo avevano portato ad agire in quel modo. Per troppi giorni si era tenuto tutto dentro. «Fin da quella mattina in Garfagnana, quando Dino si è unito a noi, avevo deciso di tirarmi fuori da questa storia in qualsiasi modo. Ero consapevole che nessuno di voi mi avrebbe lasciato andare fino a quando non fosse saltato fuori il lituo. Ero disperato, finché, del tutto per caso, non capii che la pipa di Casini era in realtà un lituo; allora intuii il modo di liquidarvi: offrirvi dei falsi. Progettai di mettere di nascosto il lituo nella tomba scavata dal Lupo, ma sapevo di avere in realtà due nemici: non solo la Tauros, ma anche la vostra Fondazione. Così decisi di fabbricare la copia: con quella mi sarei sbarazzato della Tauros e del loro eventuale informatore, mentre con il lituo di Casini mi sarei liberato della Fondazione e di quelli di voi fedeli al Committente».

Artemisia non sapeva se essere disgustata o ammirata. «Eri sicuro che il Lupo ti avrebbe tradito e ne hai approfittato. Hai puntato sulla sua infedeltà. Un’impresa degna del Colonnello. Forse davvero gli somigli».

«Sì, ho puntato sul fatto che il Lupo mi avrebbe poi fregato. In fondo era il Colonnello a pagare. E così è andata».

«Ma come hanno fatto a mettersi in contatto tra di loro? E tu come facevi a saperlo? Poche ora fa hai detto di non esserti accorto del legame tra il Lupo e il Colonnello», disse Dino.

«Mentiva», disse Artemisia. «Non ha fatto altro, fin da quando si è sentito tradito. Non è così?»

«Mentire? Ho detto a ciascuno quello che voleva sentirsi dire... Ma lasciate che vi racconti i fatti. Il bonifico al Lupo non è stato di quarantacinquemila euro, come avevate concordato, ma di settantacinquemila. Ho origliato la telefonata tra il direttore della banca e il Lupo, che era sorpreso. Quel bonus era un chiaro messaggio e, a quanto ho potuto appurare subito dopo, non proveniva da voi due».

«Fu il Colonnello a occuparsi del bonifico», ricordò Dino.

«Infatti», fece Lazzari. «Il Colonnello voleva un alleato in più e se l’è comprato con i vostri soldi».

«I soldi di mio padre...», precisò Artemisia.

Lazzari chiese a Dino: «Tu ovviamente hai dato al Colonnello il numero di telefono del Lupo?»

«È la prassi».

«Deve averlo contattato per domandargli se aveva gradito il regalo extra di trentamila euro, e per dirgli che se lo avesse aiutato ce ne sarebbero stati altri, molti altri, e da lì si è instaurato un filo diretto tra i due. Il Colonnello lo avrà persuaso prospettandogli soldi e commissioni da parte dei russi, secondo quanto posso ricostruire ora. Avete sentito che cosa mi ha detto il Lupo prima di andarsene?»

«Che i russi finanzieranno tutte le sue prossime spedizioni», rispose Dino.

Lazzari annuì. «Così il Lupo ha fatto la sua scelta e al momento opportuno ha telefonato al Colonnello e gli ha confidato il mio piano per toglierci dai piedi la Tauros».

«Ma se invece il Colonnello si fosse dimostrato fedele alla Tauros?»

«Li avrebbe avvisati dell’inganno e nessuno si sarebbe presentato alla tomba. Ma anche in quel caso avrei avuto la conferma del legame tra la Tauros e il Colonnello. La prova definitiva dell’accordo tra il tombarolo e il Colonnello è stata l’insistenza con cui il Lupo ha provato a convincermi ad andare a Roma e poi le sue parole, apparentemente disinteressate, su Costantino Maes e il venditore di Nettuno. Il Colonnello gli aveva chiesto ancora un giorno di tempo e lui si è prodigato con ben due false piste».

«Non hai ancora spiegato come hai fatto a convincere il Lupo che quello che ti portavi appresso era proprio il lituo», disse Artemisia.

«Il professor Casini me lo ha regalato durante il nostro ultimo incontro a Milano, facendomi intuire a suo modo che mi stava offrendo una via di fuga. Immagino dovesse sentirsi in colpa per avermi messo in questo guaio, sebbene lo avesse fatto senza volerlo». Lazzari sorrise al ricordo. «Io lì per lì fraintesi il suo gesto... Ho capito la verità solo tempo dopo, quando ho guardato per la prima volta con attenzione quella che, come vi ho già spiegato, credevo una semplice pipa, per quanto antica».

«Quel vecchio ha la vista lunga. E anche la lingua. Ricordo quando ho accompagnato a casa sua il Colonnello...», cominciò Dino.

Artemisia gli fece cenno che ora non era importante e quindi invitò Lazzari ad andare avanti.

Lazzari ubbidì: «Il Lupo, d’altra parte, era fermamente convinto che a inizio Novecento Casini avesse davvero trovato sul Palatino il lituo di Romolo. Così, quando gli ho svelato che l’avventuriero in questione era il nonno del mio mentore e che il suo lituo era da tempo nelle mie mani è andato in visibilio. La grande occasione di tutta una vita».

«Gli hai mentito».

«Niente affatto. Il lituo era davvero quello. Solo che Casini senior non l’aveva trovato a Roma: sempre all’inizio del Novecento, pochi mesi prima dell’avvio degli scavi palatini, aveva partecipato al dissotterramento di una tomba presso una piccola località etrusca a dieci chilometri da Tarquinia. Nella fossa furono ritrovati tre simboli reali: uno scudo, un’ascia e appunto un lituo. Casini mi raccontò più volte questa illustre storia di famiglia. Ho ricontrollato l’altra notte sul catalogo on line del museo etrusco della cittadina laziale: ci sono lo scudo e l’ascia, ma non il lituo».

«Significa che...».

«Che Casini senior si tenne il lituo e qualche mese dopo lo aveva con sé a Roma, all’epoca della campagna di scavi sul Palatino. Qualcuno glielo vide o forse fu lui stesso a mostrarlo ai compagni: da lì nacque la leggenda del ritrovamento del lituo romuleo e Casini senior non fece nulla per smentirla».

Artemisia ebbe un improvviso dubbio. «Ma tutto quello che hai detto nella tomba...».

«Ne sono convinto, fino all’ultima parola», assicurò Lazzari.

«Perché allora interrompere la ricerca? Perché non provare a scoprire nuovi indizi per metterci sulle tracce del vero lituo? Non era ciò che volevi anche tu?»

«Te l’ho già spiegato, perché insisti a non capire? Mi ero accorto che non cercavamo la stessa cosa. Voi volevate il lituo, che si può vendere o comprare. Io cercavo invece il nome segreto di Roma, una semplice parola da pronunciare e da scrivere. Come potevo continuare ad assecondare il Colonnello? Ero però consapevole del fatto che non avevo altro modo per liberarmi di lui se non quello di procurarvi il lituo, e così ho fatto».

«Credi che si accorgeranno dell’inganno?», gli chiese senza quasi averlo ascoltato.

«Gli esami dateranno il lituo all’ottavo secolo avanti Cristo e i russi non sospetteranno di nulla», disse Lazzari, poi tornò al tavolo e finalmente versò il vino.

Ciascuno prese un bicchiere. Dino sollevò il suo. «Man, allora sei tu a vincere».

«Te l’ho detto, non ci sono vincitori».

«A che cosa brindiamo? Al Colonnello e ai suoi imbrogli o al nome segreto di Roma?», chiese Artemisia.

«Al nome segreto», disse Lazzari lanciando un’intensa occhiata ad Artemisia e svuotò il bicchiere.

Gli altri due fecero altrettanto. Artemisia posò il suo con forza e il rintocco parve ridestarle un pensiero spiacevole. «Ma se invece ti fossi sbagliato e il Colonnello fosse stato fedele? Avresti rifilato quel pezzo di legno fasullo a mio padre, vero?»

«Sì, lo avrei fatto», rispose a bruciapelo Lazzari. «Mi avevate ingannato e io volevo uscire da questa vicenda».

«Ti sei lasciato ingannare».

«Come volete, ma te lo ripeto: cercavamo due cose diverse».

«Ne sei sicuro?».

Lazzari si voltò e guardò fuori cercando il mare. «Il lituo è perduto per sempre».

«Te l’ho sempre detto che non capivi. A mio padre interessava tanto il lituo quanto il nome segreto di Roma. E ora abbiamo l’affresco e abbiamo il nome...».

«Solo un’ipotesi di nome. E anche quella, proprio come il lituo, l’avevo con me fin dal principio».