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Lazzari aprì gli occhi consapevole di una presenza nella stanza. Nei pochi istanti che impiegò per individuarla il suo cuore accelerò fin quando non emise un sospiro di sollievo. Ma sapeva bene che sarebbero serviti diversi minuti al suo corpo per metabolizzare quello spavento mattutino.

Artemisia era seduta sulla poltrona accanto alla finestra e lo osservava, le gambe accavallate e l’indice sulle labbra. Aveva aperto le tende di raso e dalle persiane filtrava una luce ambrata che restaurava i pesanti e antichi mobili di legno.

«Non ricordo il tuo nome di battesimo», gli disse quando fu certa che fosse completamente sveglio.

Lazzari si strofinò la faccia. Gli fischiava l’orecchio sinistro e non sapeva perché. «Non lo hai letto sul dossier preparato dal Colonnello?»

«In quel genere di documenti non si usano nomi e cognomi. Il soggetto, così viene chiamato l’interessato», rispose Artemisia.

«Mi sento molto più tranquillo nel sentirtelo dire».

«Perché?»

«A questo punto dovresti averlo capito: se non conosci il mio nome, non puoi incidere sul mio destino. Iside, per farti un esempio, divenne la più potente delle dee egizie perché scoprì il nome segreto di Ra. Conoscere il nome vero del gran dio significava prendere con sé anche tutti i suoi poteri».

«E tu che poteri hai?», domandò Artemisia, con il suo registro roco.

«Lo scopriremo presto». Lazzari si mise a sedere sul bordo del letto. Con i piedi nudi sul pavimento e i gomiti sulle ginocchia, le dava la schiena. «Ma perché adesso non parliamo un po’ del tuo di nome?»

Artemisia si sporse, rimanendo seduta. La fronte corrugata attenuava appena la smorfia di indispettita curiosità con cui lo fissava. «Che vorresti insinuare?».

«Non vorrai dirmi che Artemisia è il tuo vero nome... Nessuno si chiama così al giorno d’oggi».

«E tu che ne sai?», replicò Artemisia, incapace di nascondere curiosità e fastidio.

«Secondo me, Artemisia è il tuo secondo nome ed è il tuo doppio. Alle volte lo indossi, come un vestito diverso o un nuovo look. Gli egiziani, per continuare con l’esempio di prima, inserivano nei corpi imbalsamati, al posto del cuore, uno scarabeo sul quale scrivevano il nome grande del morto, a cui era intimamente legato il ka, ossia il doppio del defunto».

Artemisia allungò le gambe e incrociò le braccia. «Stellina, lascia stare le congetture e pensa piuttosto al nome segreto di Roma».

«È proprio ciò a cui stavo pensando. Come ti ho già detto, il vero nome di Roma era legato a doppio filo al misterioso nume patrono della città. Nome, potere e divinità sono un tutt’uno per gli antichi, capisci? Gli eruditi romani scrissero cose criptiche a riguardo, ma per fortuna ci aiutano le altre tradizioni a comprendere questo nesso. Secondo la Cabala ebraica, ad esempio, la conoscenza dei nomi segreti di Jahvè conferisce potere sulle cose e sugli esseri. Ogni essere, infatti, possiede un nome vero, un nome che precede la confusione degli idiomi. Adamo, prima della caduta, chiamava per nome gli animali, esercitando così il dominio su di essi», disse Lazzari. Si alzò e si sentì nudo e con un gesto rapido e impacciato infilò la maglietta. «Antonio da Alba Docilia diceva che gli animali vengono verso di noi, se li chiamiamo per nome; esattamente come gli uomini».

«Vediamo dove vuoi arrivare...».

«A Roma, come mi hai chiesto tu. Il vero nome della città e quello della divinità tutelare potrebbero essere un tutt’uno. Anche Giove, infatti, aveva un nome segreto. Per questo i pontefici romani nei riti si rivolgevano a lui con una formula dubitativa: “Giove Ottimo Massimo o con qualunque altro nome tu voglia essere chiamato”. E sul Campidoglio era conservato uno scudo dedicato al “genio della città, maschio o femmina”», disse Lazzari.

«Ottimo Massimo? Era così che si chiamava Giove?»

«All’apparenza, ma il vero appellativo rimase nascosto», rispose Lazzari. «Sia la città sia il dio avevano un nome segreto e ci sono buone probabilità che fosse il medesimo per entrambi, tanto più che i romani intendevano la fondazione della città come una rifondazione del mondo. Ricordi quando ti parlavo del fico come albero della creazione e come centro dell’universo?».

Artemisia lo studiò in silenzio qualche secondo prima di parlare. «Ricordo che mi hai detto che il termine Roma potrebbe avere un doppio significato legato agli dèi. Che la parola Roma farebbe riferimento a Romolo, quindi a suo padre Marte se non sbaglio... E se invece leggiamo la parola Roma al contrario otteniamo Amor, che indicherebbe Venere, antenata o addirittura madre dei gemelli...».

«Ogni cosa che riguarda la fondazione di Roma è doppia. I gemelli, Remo e Romolo; i popoli delle origini, latini e sabini; le due vette del Palatino, Cermalus e Palatium; gli uccelli che nutrono i neonati, una parra e un picchio; i numi tutelari, Fauno per Remo e Marte per Romolo; lo stesso Marte, identificato ora come Gradivo ora come Quirino; il primo degli dèi, Giano dal doppio volto; i signori di Alba, Amulio e Numitore; le madri dei gemelli, Silvia quella naturale e Acca quella adottiva; la stessa Silvia...».

«Finirai la lista un’altra volta», disse Artemisia abbandonando inaspettatamente la stanza.

 

Lazzari rimase ancora un paio di minuti a fissare il pavimento, poi infilò i calzoni e raggiunse il bagno che dava sul corridoio al centro del piano.

Mentre si sciacquava la faccia udì il Lupo parlare al telefono nella stanza attigua. «Sì direttore, mi conferma? Settantacinquemila? È sicuro? Settantacinque...».

Lazzari chiuse il rubinetto e si mise in ascolto, ma le parole scemarono all’improvviso. Forse l’uomo era uscito a parlare sul balcone. Restò ancora qualche secondo imbambolato a fissare lo specchio, poi finì di lavarsi e tornò in camera.

Quando scese di sotto trovò il Lupo e Dino nell’atrio già pronti alla partenza.

«E Artemisia?», domandò il barbuto tradendo nervosismo. L’ombra del cappellino nascondeva solo in parte le pesanti occhiaie.

«Pensavo fosse giù».

Mentre aspettavano, Lazzari cercò di esaminare di nascosto l’espressione del Lupo. L’avrebbe definita sorpresa, sebbene mal si sposasse con il volto nervoso e spesso sarcastico di quell’uomo. Eppure gli sembrava proprio la faccia di qualcuno che, ricevuta una notizia imprevista, non sa come giudicarla. O forse vedeva solo fantasmi, come al solito.

«È tardi», disse il Barbuto sollevando i borsoni non appena vide Artemisia sul ballatoio. «Muoviamoci, mangerete per strada».

Il Lupo si rivolse ad Artemisia: «Scusate se ho dubitato di voi. Ho ricevuto conferma dalla banca. Trasferimento già effettuato. Siete persone di parola».

«Ma con chi credeva di avere a che fare questo?», disse Dino e uscendo si lasciò sfuggire un verso di disappunto.

«Il Maestro dov’è?», domandò Artemisia, guardando interrogativamente le scale.

«È partito stanotte», rispose Lazzari.

«Come partito?»

«L’aveva detto, ricordi? Ci aveva promesso di condurci fino al Lupo, ma non un passo oltre».

Artemisia era stupefatta e irritata, come chi scopre che l’ospite d’onore ha abbandonato la festa prima ancora di tagliare la torta e aprire i regali. «Ma che dici? Non è possibile. È assurdo!».

«È fatto così».

«Meglio, dico io. Mi sento molto più leggero senza il corvo sulla spalla», commentò il Lupo mentre usciva.

Artemisia stava per chiedere spiegazioni, ma Lazzari le posò una mano sulle labbra. «Chi ha fatto il bonifico al Lupo?», le domandò a bassa voce.

«Il Colonnello, ovvio».

«Soldi suoi?»

«Soldi della Fondazione».

«Quarantacinquemila come concordato?»

«Sicuro. Che cosa te ne importa?»

«Niente, andiamo», fece Lazzari e andò fuori seguito dalla ragazza, che non ne voleva sapere di arrendersi.

«Lazzari, pretendo dei chiarimenti. Il Maestro...». Artemisia si interruppe di colpo, perché oltre il cancello di metallo intravide due taxi in attesa.

«Io e Artemisia saliremo su uno, voi due sull’altro», annunciò Dino.

«Che significa?», chiese Artemisia.

Lazzari si accorse che era stata colta di sorpresa dalla decisione di Dino, ed era la prima volta che accadeva da quando si era unito a loro. Si erano sempre confrontati su ogni questione e le scelte finali erano sempre state, almeno all’apparenza, compito della ragazza.

Dino sembrava in imbarazzo. «Lasciamo il nostro fuoristrada qui. Ora non ho il tempo di controllarlo per vedere se c’è una microspia o un indicatore di posizione a distanza», spiegò in tono rude, come se non sapesse bene come uscire da quella situazione e avesse deciso di appellarsi all’autorità che gli derivava dalla forza fisica.

«Che diavolo è successo?», volle sapere Lazzari.

«Stanotte ho visto una Mercedes passare per tre volte sulla strada qui davanti. Non mi fido. Non sono riuscito a leggere la targa nemmeno con il binocolo perché era offuscata da quegli spray che si usano contro gli autovelox: nessuna persona raccomandabile si premura di camuffare la targa».

«Tauros?», fece Lazzari.

Dino annuì. «Tu e il Lupo chiedete al taxista di prendere l’autostrada e fatevi lasciare al primo autogrill dopo Cerveteri. Una volta lì, fate attenzione a chiunque vi si avvicini e soprattutto alle macchine in sosta. Visto il tipo di posto, sarà facile capire se qualcuno vi ha seguito e vi tiene d’occhio. Noi ci procureremo un’auto pulita e passeremo a prendervi lì prima di sera».

«Non sai nemmeno dove dobbiamo andare», gli disse il Lupo.

«Per il momento non voglio saperlo».

 

All’autogrill il Lupo e Lazzari si sedettero accanto alla vetrina affacciata sul parcheggio. Gli avventori arrivavano a ondate e si accalcavano prima alla cassa e poi al bancone.

Lazzari si chiedeva se sarebbe stato in grado di gestire un simile flusso nel suo locale, ma era una domanda oziosa. L’enoteca non avrebbe mai avuto così tanta clientela e lui, forse, non avrebbe più rivisto la sua enoteca.

Verso le dodici fu approntato il banco di servizio del ristorante e anche i tavoli si riempirono rapidamente. I due uomini furono avvolti da una nube di chiacchiere e di aromi. Mangiarono una bistecca a testa, ma bevvero solo metà della bottiglia di Cerveteri rosso che avevano ordinato. Non avrebbe saputo dire se fosse il vago sentore di tappo, come diceva il Lupo, o piuttosto quello della tensione, come sospettava Lazzari, ma non riuscirono a finirlo.

Alle tre erano di nuovo gli unici seduti all’interno della stazione di sosta. Nessuno faceva caso a loro. Quando passò il ragazzo con la scopa si limitarono a sollevare le gambe. Ogni tanto ordinavano una tazza di caffè e a turno si alzavano per andare al bagno o a prendere una boccata d’aria fuori.

Le auto nel piazzale si avvicendavano. Soltanto una di quelle già presenti al loro arrivo era ancora lì, ma il Lupo aveva visto una delle ragazze del bar entrarci per prendere qualcosa.

«Dato che ora lavoriamo per la stessa squadra, è giusto che te lo dica. Tra sodali si fa così», disse a un certo punto il Lupo. Pareva aver riflettuto a lungo sull’eventualità di confidarsi. «Nel nostro ambiente è sempre girata una storia molto attendibile secondo cui il lituo sarebbe stato ritrovato a inizio Novecento. Erano giorni gloriosi per il nostro mestiere, avventurieri e cacciatori di tesori setacciavano l’Italia e ogni giorno poteva essere quello per una nuova scoperta».

Lazzari finì il caffè e prese nota mentalmente del fatto che la confidenza del Lupo stava saltando fuori a compenso pagato. «Avvenne durante la campagna di scavi sul Palatino?»

«Ne hai sentito parlare anche tu, eh? Lo immaginavo. Non fu una vera e propria campagna di scavi. Diciamo che l’amministrazione mise in piedi una vasta azione di riqualificazione in quella zona dell’Urbe. E furono molti quelli che brandirono la vanga nella speranza di mettere le mani sui tesori del passato. In quel periodo furono riportati alla luce numerosi elementi architettonici delle origini, o almeno ciò che ne rimaneva, come le vestigia delle scale di Caco o i cippi votivi che segnavano il pomerium o...».

«O le capanne palatine».

«Una di esse, quasi un secolo dopo, è stata riconosciuta come la Regia di Romolo da alcuni archeologi».

«Con gli annessi sacrari di Marte e di Opi».

«E fu precisamente nel sacrario della dea Opi che un avventuriero dell’epoca rinvenne uno scrigno di tartaruga che conteneva al suo interno un bastone ricurvo. O, almeno, così si tramanda».

Lazzari interruppe quello che stava diventando un incalzante racconto a due voci e con tono disincantato disse: «È solo una storia».

«Può darsi, ma di testimoni ce ne furono. E affidabili. E ne hanno parlato per un pezzo», insistette il Lupo.

Lazzari si alzò, infilò le mani in tasca e guardò fuori dove i camion sfrecciavano spostando roboanti montagne d’aria. «Si è tramandato anche il nome dell’avventuriero?».

Il Lupo intrecciò le dita dietro la nuca e si dondolò sulla sedia in bilico. «Sì. Se la memoria non mi inganna, si chiamava Casini».