15
Lazzari guidava adagio, aspettando il tramonto, mentre si inoltrava nella Garfagnana, una terra felicemente appartata, incastonata tra Appennini ed Alpi e coperta di alberi. Il posto ideale per nascondersi: anfratti, piste sterrate, sentieri che si perdono nei boschi, fiumi che diventano laghi, paesi chiusi e arroccati, frazioni sperdute.
Prese una delle svolte della regionale e scelse un borgo a ridosso del fiume Serchio per passare la notte. Roseti e rampicanti rivestivano le basse case in pietra. Il fumo dei camini vagava oltre i tetti, congiungendosi alla foschia che si sollevava dal fiume, mentre luci dorate si accendevano alle finestre una dopo l’altra.
Lasciarono l’auto a un chilometro di distanza dal centro del paese, al principio di una strada in terra battuta che conduceva chissà dove. Evitarono la pensione e presero una stanza in affitto da una signora che non chiese loro i documenti. Aveva modi di fare spicci ma gentili, e a Lazzari ricordò la signora Fattori.
Cenarono in una trattoria con i tavoloni di legno ricoperti dall’incerata, in compagnia di una settantenne azzimata, che ogni tanto usciva a fumarsi una sigaretta, e di una coppia di adolescenti che si strinsero per tutto il tempo la mano. Artemisia provò a conversare con la signora, ma quella si limitava per lo più a sorridere sbattendo le ciglia stillanti mascara.
Più tardi passeggiarono per le stradine deserte. I pochi lampioni fendevano la nebbia sempre più fitta. L’aria era fredda, ma nessuno dei due pareva aver fretta di tornare nella piccola stanza dalle pareti umide. Si fermarono sul ponte medievale che collegava le due parti del borgo. Artemisia si issò con le mani e si sedette sul parapetto. «Adesso che Parodi è morto, come faremo a scovare quel tombarolo? A quanto pare, è uno che usa mille precauzioni e, una volta che verrà a sapere della morte di Parodi, diverrà uccel di bosco».
«Temo non esistano più boschi sicuri dove rintanarsi».
«E quindi come pensi di procedere?»
«Andiamo a Ocre di Leonessa», rispose Lazzari indicando le montagne che chiudevano la valle a meridione. «Lì conosco un archeologo che potrebbe aiutarci. Si chiama Mario Foglia, ma tutti lo conoscono come il Maestro. Ha una cultura sconfinata ed è anche una sorta di rabdomante».
«In che senso?»
«Riesce a individuare la presenza di tombe antiche nel terreno. Non so come faccia».
«Magia?»
«Non la chiamerei così».
«Lavora per i tombaroli?»
«Stai scherzando? È il loro peggiore nemico. Li combatte da una vita. Ma sai come vanno le guerre... si finisce con il conoscere i propri nemici».
Artemisia allungò le gambe piegandosi all’indietro e Lazzari scattò d’istinto per afferrarla. «Non cado, tranquillo».
«Lo diceva anche Icaro».
L’espressione della ragazza mutò all’improvviso. «Per te questo non è più un lavoro, vero?»
«Non lo è mai stato. E per te?»
«Mio padre direbbe che è un capriccio. Ma a me la vita piace così».
Lazzari si infilò le mani in tasca e rivolse lo sguardo verso i boschi. La bruma nascondeva i tronchi e le chiome tonde parevano fluttuare come verdi meduse. «Mi hai stupito oggi. Corri come un ghepardo».
«Da ragazzina ero quel che si dice una speranza dei quattrocento metri. Ho vinto molte gare».
«E poi?»
«Non ho sentito il bisogno di vincerne altre, ma non ho mai smesso di correre».
«Me ne sono accorto».
Artemisia balzò a terra e si pulì le mani una contro l’altra. «Non mi pare».
Tornarono nella loro stanza. I due letti in ferro battuto erano addossati alle opposte pareti. In mezzo c’era un tappeto logoro e un pesante comodino di legno. Il vetro dell’abat-jour era offuscato da uno strato di polvere.
Spensero la luce e si sdraiarono ancora vestiti. «Secondo te ci troveranno?», domandò Artemisia dopo alcuni minuti.
Lazzari fu sorpreso dalla domanda. «Qui? In questo posto? No, non credo...», disse ostentando una sicurezza che non possedeva. Ma era stanco della propria paura: lo accompagnava costantemente. Decise di continuare a mentire: «Io penso che ci siamo guadagnati un paio di giorni di tranquillità».
«Davvero?», fece Artemisia, forse avvertendo la nota insincera nella voce.
«Dobbiamo solo trovare il Lupo prima di loro».
«Pensi che vorrà guidarci in quelle tombe?»
«Non so se vorrà, ma noi possiamo pagarlo abbastanza?»
«Possiamo comprarlo».
«Allora lo convinceremo a farci da guida. Sappi però che non so cosa troveremo là sotto».
Lazzari tese un braccio e Artemisia gli accarezzò le dita, un gesto dal sapore consolatorio: Lazzari avvertì l’assenza di passione e ne fu ferito.
«Però sento che lo immagini...».
«Lo sai che non mi faccio una domanda prima di avere trovato la risposta», le ricordò Lazzari ruvidamente.
Artemisia gli sfiorò il palmo come se potesse leggerlo, poi gli lasciò andare la mano. Intuendo il suo risentimento disse: «Dobbiamo stare concentrati sul lavoro, non siamo bambini. Quello che è successo in quel casolare... è stato un incidente, piacevole, ma pur sempre un incidente».
«Parla per te», disse Lazzari.
«Non fraintendermi... Non intendo che non abbia significato niente, ma...».
«Ma?».
Non arrivò risposta. Qualche minuto più tardi, con la voce roca di chi parla nel sonno Artemisia aggiunse: «In ogni caso... Se non fosse stato per te me la sarei persa... qualunque cosa sia stata».
Si svegliarono all’alba. La luce che penetrava dalle persiane sembrava portare con sé anche spifferi gelati. L’umidità era un’edera incollata alle pareti. Il boiler emetteva un fischio acuto e non funzionava. Si lavarono con l’acqua fredda imprecando a denti stretti.
Artemisia si accorse della tensione di Lazzari, molto diversa da quella che aveva imparato a conoscere. Il silenzio non faceva che amplificarla. «Ho fatto un sogno strano stanotte. Posso raccontartelo?», gli domandò con il tono di chi cambia discorso al termine di un’infinita discussione.
«No, i sogni hanno significato solo per il sognatore», tagliò corto Lazzari e finì di preparare il bagaglio.
Artemisia si avvolse i capelli in un asciugamano e uscì dalla vasca nuda e gocciolante. Con l’aria di una Venere sofisticata e annoiata dall’ingenuità maschile disse: «Mi dispiace che tu abbia pensato a qualcosa d’altro tra noi».
«Io non pensavo niente», farfugliò Lazzari. Poi agguantò le valigie e uscì senza chiudersi la porta alle spalle.
Artemisia lo raggiunse in strada mezz’ora più tardi. Filamenti di nebbia si alzavano dal fiume. I campi che circondavano il borgo erano lucidi di brina. Si strinsero nelle giacche e batterono i piedi intorpiditi. Oltre la foschia le guglie di roccia emergevano come torrioni di spettrali fortezze.
Si incamminarono verso la macchina senza parlare. Al centro del ponte che univa le due parti del borgo distinsero una figura massiccia affacciata al parapetto. Erano a pochi passi di distanza, quando l’uomo si voltò. Aveva la barba e indossava un cappellino da baseball verde con una D rossa per stemma.
Lazzari lasciò cadere le borse e si voltò per fuggire, finendo a sbattere contro Artemisia, che era rimasta ferma.
«Prova a scappare un’altra volta e giuro che ti sparo», gli urlò il barbuto armando il cane della pistola. «Ora seguitemi», aggiunse dopo che Lazzari si fu voltato, e abbassò l’arma.
Lazzari si guardò attorno. Il fiume scorreva su un letto di pietre: buttarsi equivaleva a sfracellarsi. La nebbia, però, si addensava rapidamente intorno al ponte nascondendo il paesaggio circostante. Se fosse riuscito a colpire o a distrarre il barbuto in qualche modo, forse lui e Artemisia ce l’avrebbero fatta a scappare. Avvertì un’inaspettata fiammata di temerarietà e prese per mano la ragazza. Che cosa aveva da perdere ormai?
«D’accordo», disse Lazzari, e lasciò scivolare una mano sulla balaustra. Fece pressione e sentì sotto le dita una delle pietre traballare: strinse più forte, la staccò stando bene attento a non produrre il minimo rumore e cercò di impugnarla saldamente senza farsi accorgere. Infine tirò il fiato, pronto a lanciare il sasso. Tutto quello che serviva era un movimento repentino e fluido.
«Sei della polizia?», domandò al barbuto per distrarlo, ma non aveva nessuna intenzione di ascoltare la risposta. Quell’uomo, ormai se ne rendeva conto, non era affatto delle forze dell’ordine; la quieta minacciosità che esprimeva faceva pensare a un altro genere di persona, forse apparteneva veramente alla Confraternita. Ma in quel momento non aveva importanza. Ancora un istante, il tempo di un’ultima preghiera, e avrebbe scagliato la pietra, poi sarebbe corso via con la ragazza. Confidava nel fatto che mancare il bersaglio a quella distanza era impossibile e che nessuno, nemmeno quel tizio, sarebbe stato in grado di schivare un sasso e insieme mirare con precisione.
Artemisia avvertì l’improvvisa tensione nei muscoli del compagno e lo bloccò con un gesto gentile ma deciso. Lazzari la guardò e si sentì mancare il respiro. Schiuse le labbra, ma non ne uscì alcun suono.
«Mi dispiace», sussurrò, e lo costrinse a lasciar cadere la pietra che impugnava.
Il rumore con cui colpì l’acciottolato arrivò alle orecchie di Lazzari come l’ultimo rintocco di una campana che si smorzava in lontananza.
«Avrete modo di spiegarvi in macchina», tagliò corto il barbuto invitandoli con cenni impazienti a precederlo sul ponte. «Muoviamoci. Non ho intenzione di farmi sorprendere dagli agenti della Tauros».
«Tauros?», fece Artemisia.
«I due simpaticoni che vi hanno offerto il caffè ieri a Sarzana. Forza, muoversi».
Lazzari raccolse come un automa le borse e si avviò con passo pesante. La nebbia gli bagnava le guance. O forse erano solo lacrime. Non sapeva più in quale gioco era finito né chi fossero le persone che camminavano dietro di lui. Le udì scambiarsi alcune parole dure, ma non ne distinse il senso. Provò a concentrarsi: ogni pensiero, però, pareva dissolversi sul nascere.
«Il Colonnello me ne dovrà rendere conto», si lamentava Artemisia.
«È stata una decisione mia. La situazione è cambiata», tentava di spiegarle il barbuto.
Lazzari si accorse di avere anche la borsa di Artemisia in mano: la aprì di colpo, come se l’impugnatura fosse stata rovente, e la lasciò cadere a terra. Sentì qualcuno raccoglierla alle sue spalle e subito dopo la voce di lei: «Si può sapere che ti prende? Ti avevo detto di non preoccuparti...».
Ci fu un doppio suono elettronico e poi due luci arancioni lampeggiarono nella nebbia. «Lasceremo qui la vostra auto. Poi manderò qualcuno a recuperarla», spiegò il barbuto aprendo il portellone posteriore del fuoristrada. L’ammaccatura sul muso era stata riparata, ma in modo sommario. C’erano ancora i segni dello speronamento di Milano. Lanciò le borse dentro e lo richiuse.
«Tu, man, davanti con me», disse a Lazzari assestandogli sul petto quella che voleva essere una manata amichevole. «Non mi sembri il genere di uomo che si prende la briga di voltarsi per litigare».
«Non sottovalutarlo...», disse Artemisia.
«Fino a oggi non ho fatto che sottovalutarlo, e per poco io non ci ho rimesso l’ingaggio e lui la testa».
Appena saliti in auto, il barbuto si tolse il cappellino e lo gettò fuori dal finestrino. Poi aprì lo sportello davanti alle ginocchia di Lazzari, ne tirò fuori uno blu senza scritte e lo indossò. «È il mio portafortuna», spiegò senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Uno nuovo all’inizio di ogni missione».
Aveva folti capelli scuri, occhi castani e un ricordo di acne che la barba non riusciva a mascherare del tutto. C’era una forza trattenuta in ogni suo gesto, come se fin da bambino avesse imparato quanto potesse fare male agli altri, anche involontariamente. Lazzari si sentiva un peso piuma accanto a quell’Ercole in occhiali scuri e cappello.
«Per chi lavori?», gli domandò Lazzari con voce spenta.
«Per te, non te l’ha detto?», gli domandò il barbuto indicando con la testa il sedile posteriore.
«È lui l’uomo delle spiegazioni», si limitò a ribattere Artemisia accennando a Lazzari, che non si voltò.
Stanco di quel gioco, il barbuto si rivolse direttamente a Lazzari: «Per il momento ti basti sapere che sono la vostra guardia del corpo. Parleremo dopo, sulla strada. Prima dimmi quale strada, però».
Lazzari indicò la nebbia davanti a sé con una smorfia ambigua.
«Andiamo a Ocre di Leonessa, in provincia di Rieti», si inserì Artemisia.
«Perché là?»
«Andiamo a caccia di lupi», rispose lei.