Capitolo ventotto

Chase

Finché era tra le mie braccia, non avevo bisogno d’altro. Potevo aspettare finché il trauma di quell’incubo passasse e si sentisse di nuovo a suo agio. Avrei aspettato per tutto il tempo necessario.

Truly arrivò a casa presto, prima che Stephanie si svegliasse. Creed era andato a prenderla al lavoro dopo che lui e Cord se n’erano andati da casa di Al. Le aveva raccontato tutto ed era molto preoccupata. Voleva tornare a casa e parlare con Stephanie, ma Creed l’aveva convinta che la mia presenza era sufficiente.

«Non l’ho guardato», disse con le lacrime agli occhi. «È stato già abbastanza terribile sentirne parlare. Come sta, Chase?»

«Starà bene», risposi convinto, sedendomi al tavolo della cucina. «Stephanie è un tosta».

«Già», sorrise Truly, «lo è». Buttò per terra la borsa e iniziò ad armeggiare in cucina. «E quando si sveglierà, avrà fame».

«Ehi, non dimenticarti di me. Ho fame anch’io».

Rise. «Non potrei dimenticarmi di te neanche volendo, Chase».

Bevvi una tazza di caffè mentre Truly mischiava vari ingredienti in una terrina, canticchiando. Dopo dieci minuti, aveva già una teglia pronta da infornare. Quando tornai in camera per controllare Stephanie, Truly mi fermò.

«Grazie», disse piano, guardandomi con affetto con i suoi occhi castani.

«Per non vedere l’ora di mangiare quello che cucini? Non c’è di che».

«No». Truly Lee piegò la testa e mi sorrise. «Perché sei un bravo ragazzo, Chase. E perché ami la mia amica».

«Be’, sull’essere un bravo ragazzo, ammetto che ci sto ancora lavorando. Ma continuerò a farlo. Per quanto riguarda amarla, è la cosa più facile che abbia mai fatto».

Stephanie si stiracchiò quando mi sedetti sul bordo del letto. Era la cosa più bella su cui avessi mai posato gli occhi: aveva i capelli sparsi ovunque e le scostai un ricciolo dalla fronte mentre sbatteva le palpebre e stringeva le labbra sottili.

«Ciao, tesoro», dissi piano.

Lei si mise a sedere e annusò l’aria. «È odore di involtini alla cannella quello che sento?»

«Sì». Le porsi la mia tazza di caffè e iniziò subito a bere mentre la guardavo.

«Non lo fare», borbottò, restituendomi la tazza.

«Cosa?».

Si strinse le ginocchia al petto e mi guardò con serietà. «Non compatirmi, Chase. Ti prego. Giuro che non crollo».

Non la stavo affatto compatendo. Le stavo guardando le labbra mentre beveva e avevo desiderato sentirle in varie parti del mio corpo, ma non potevo dirglielo.

«Non ti compatisco», ringhiai, e posai la tazza per terra. Mi sedetti meglio sul letto e la strinsi a me. Lei si accoccolò contro il mio petto e si lasciò sfuggire un sospiro soddisfatto mentre io trattenevo un gemito perché mi stava venendo duro.

Steph mi accarezzò il braccio con le dita, su e giù, e guardammo le ombre del mattino filtrare dalle tende.

«Vai a lezione oggi?», le chiesi.

«Sì», rispose con decisione. «E poi al lavoro. Sia chiaro, preferirei nascondermi qui, ma se oggi non esco, domani sarà ancora più difficile».

«Ho controllato stamattina: il video è stato eliminato, se ti fa sentire meglio».

«Pensi che spunterà da qualche altra parte?».

Era inutile mentirle. «Sì».

La voce allegra di Truly ci chiamò dalla cucina. «La colazione è pronta!».

«È una santa», mugolò Steph scendendo dal letto. Mi diede le spalle mentre indossava una maglietta lunga sopra la biancheria intima. Il mio uccello gradì comunque la vista.

Truly diede un abbraccio fraterno a Stephanie, e quello fu l’unico riferimento tra loro sugli eventi terribili del giorno prima. Si sedette con noi e parlò allegramente del suo menù per il Ringraziamento. La cosa magnifica di Truly era che non pretendeva niente dalle persone.

«Uhm, avevo scordato che la prossima settimana c’è il Ringraziamento», disse Steph stiracchiandosi. Guardai il modo in cui la maglietta tirava all’altezza del seno e quasi mi cadde di mano il piatto.

«Tutto bene?», chiese Truly aggrottando le sopracciglia.

«Certo». A parte il fatto che ero un pervertito. Un maniaco del cazzo. Ma se non avessi pensato da solo a risolvere la situazione, e presto, non sarei riuscito a ingranare per tutta la cavolo di giornata. Quindi pensai a dei conigli morti finché non fui in grado di alzarmi senza scandalizzare le signore presenti, poi mi scusai e dissi che dovevo tornare a casa per farmi una doccia e cambiarmi.

Stephanie mi seguì fino alla porta; mi allacciò le braccia al collo e si premette contro di me, scatenando una reazione immediata che neanche cento conigli morti avrebbero potuto bloccare.

«Non è che non voglio», mi sussurrò all’orecchio.

Le tenni il viso tra le mani e le sfiorai le labbra con le mie. «Va tutto bene. Purtroppo sono un bastardo allupato, ma non voglio nella maniera più assoluta farti pressioni».

Intrecciò le dita con le mie. «Ci vediamo dopo?»

«Certo. Hai lezione all’una, giusto? Passo a mezzogiorno per portarti a pranzo e poi ti accompagno».

Mi ero preparato a discutere, mi aspettavo mi dicesse che poteva andare per conto suo, ma col cavolo l’avrei lasciata entrare da sola all’università, quel giorno. Ma non discusse, in realtà mi sorrise.

Quando tornai a casa, Cord era già uscito per andare al lavoro, ma Creed e Saylor erano seduti in salotto come se mi stessero aspettando.

«Risponderò a tutte le domande», farfugliai, «ma datemi un quarto d’ora».

Mi infilai subito nella doccia, aprii l’acqua calda e mi masturbai come se il futuro del mio uccello dipendesse da quello.

Quando tornai in salotto, avvolto in un asciugamano, Saylor stava leggendo un libro e Creed giocava alla Xbox. Fece un ghigno quando mi vide.

«Ora stai meglio, moccioso?».

Mi sedetti sul divano. «Sto sempre meglio dopo aver cagato».

«Non è quello che hai fatto lì dentro».

«Vaffanculo, Creedence».

Saylor mi stava guardando seriamente. «Come sta?».

Non risposi subito. La mano di Saylor era posata sul pancione e mi girò un attimo la testa quando mi resi conto che era seduta nello stesso posto in cui era seduta una mattina di qualche mese prima, a maggio, quando era tornata nelle nostre vite, ferita e perduta. Se c’era qualcuno che sapeva come superare abusi e umiliazione, quella era Saylor.

«Fa del suo meglio», sospirai. «Vuole stare bene».

«E sta bene?»

«Non lo so. Lo spero». Mi interruppi e pensai alla ragazza che amavo. Volevo che le altre persone che amavo la conoscessero, quindi raccontai qualcosa di lei: che in realtà era introversa, addirittura timida. Il che rendeva la situazione ancora più straziante.

Creed ascoltò a testa bassa e Saylor mi strinse la mano un paio di volte. Sospirai e mi appoggiai allo schienale.

«Chase», mi chiamò Saylor con dolcezza. «Sarebbe comunque difficile, al di là del carattere. È stata violata e tutto il mondo lo può vedere. Non voglio paragonare la mia esperienza alla sua, perché siamo diverse. Non possiamo tirare a indovinare cosa le serve per andare avanti; tutto quello che puoi fare è stringerla quando piange e starle vicino quando smette».

«Tutto quello che serve», dissi subito, e lo intendevo davvero. Poi feci un cenno a Creed. «Senti, dopo Steph lavora al ristorante. Volevo stare lì per tutto il suo turno, giusto per assicurarmi che non finisse nei guai, ma è da un po’ che non vado a un incontro e…».

«Vado io», mi interruppe. «Terrò d’occhio la situazione. Se qualcuno dovesse darle fastidio, si pentirà di essere nato».

Sorrisi. Creedence, nonostante i suoi difetti, era una cara persona. «Lo apprezzo molto».

Ricambiò il sorriso. «A che servono i fratelli?».

Stephanie era silenziosa, ancora più del solito, mentre nel primo pomeriggio ci dirigevamo all’università. Socchiuse gli occhi per il sole e tenne le braccia incrociate. Una volta mi girai sentendo un fischio sgradevole, ma non c’era nessuno in vista. Si aggrappò a me per un minuto prima di entrare nella facoltà di economia, poi respirò veloce ed entrò con determinazione, a testa alta. La gente l’avrebbe fissata, avrebbe spettegolato. Non potevo impedirlo. Ma, alla fine, qualcun altro avrebbe attirato l’attenzione e si sarebbero stancati.

Un’ora dopo, fu incredula quando mi trovò esattamente dove mi aveva lasciato. «Hai aspettato qui per tutto il tempo?»

«Certo», risposi con un sorriso arrogante. «Avevo paura che ti saresti persa senza di me».

Alzò gli occhi al cielo e mi prese il braccio. «Mi ricorda di quella volta che ti sei vantato del tuo senso dell’orientamento eccelso».

L’attirai a me e le baciai la tempia. «Era tutto vero, anche se allora stavo cercando di sbatterti di nuovo».

«Be’, ha funzionato». Fece un respiro profondo e sorrise. «È una bella giornata».

«Infatti. Si può anche stare al sole più di dieci minuti senza che ti venga un colpo di calore. Dovremmo goderci questo momento di clima temperato nel deserto».

«Okay, andiamo a fare una passeggiata. Tanto devo essere al lavoro tra due ore».

Le portai lo zaino mentre percorrevamo la breve distanza per salire sulla A Mountain. Mi prese la mano e guardammo la vista dell’università e, oltre il campus, il resto di Tempe; mentre a ovest c’erano gli agglomerati di uffici del centro di Phoenix.

«Non avevo solo bisogno di qualcuno», le dissi.

Mi guardò come se non avesse capito.

«Riguardo quello che hai detto ieri, sul fatto che ci siamo trovati in un momento in cui entrambi avevamo bisogno di qualcuno. Non è mai stato così per me».

«Mi dispiace, Chase, non volevo…».

La abbracciai forte, stringendola a me in un modo che non era sessuale ma che sembrava più urgente. «Ascoltami lo stesso».

Deglutì e si rilassò. «Va bene».

«Ti potrei raccontare centinaia di storie in cui mi comporto da coglione, Stephanie. Sì, ho avuto un’infanzia terribile; e sì, portare il nome dei Gentry significava essere considerato un verme come mio padre e mio nonno, e con ogni probabilità anche mio bisnonno. Non sto cercando di giustificare le cose che ho fatto, perché non posso. E non posso neanche far finta che certi giorni non siano durissimi, per me. E ora mi rendo conto che potrebbe succedere sempre. Ma giuro sui miei fratelli che non stavo cercando qualcosa a cui aggrapparmi quando sono entrato in quell’ascensore a Las Vegas. Non avevo bisogno di qualcuno, avevo bisogno di te. Non dubitare di me, Steph».

Non distolse lo sguardo neanche una volta, ma lasciò passare un po’ di tempo prima di parlare, come se stesse cercando di riordinare i pensieri. «Non so sempre come parlare delle cose che contano per me. Immagino che, dopo aver perso tutto, sia stato più facile fingere che niente era importante». Le sue labbra si piegarono in un sorriso. «Ma tu mi sorprendi ogni giorno, Chasyn. Mi fai sentire fiduciosa e felice, a volte anche arrabbiata, ma sempre molto fortunata. Non dubito di te, Chase. Per niente».

Volevo portarla a casa; c’era una lunga lista di cose che le volevo fare, una volta lì. Ma era più importante che si riprendesse, in qualsiasi modo. E se ciò significava passare molto tempo sotto la doccia nei giorni a seguire, almeno avevo la mano forte.

Stephanie si appoggiò al mio petto, posando la guancia contro il cuore. La tenni tra le braccia e mi beai del sospiro che si lasciò sfuggire. Era un momento bellissimo.