Capitolo diciannove
Stephanie
Entrò in aula quando la lezione era appena iniziata. Sorrise, vedendo che gli avevo tenuto un posto, e si precipitò giù dalle scale per raggiungermi.
«Ciao», sussurrai, godendomi la solita sensazione di piacere che sentivo ogni volta che lo vedevo. Chase rispose con un bacio. Mi fece l’occhiolino e mi posò una mano sulla gamba. Il brutto momento della sera prima era ormai dimenticato; non mi aveva fatto pressioni per parlarne e io feci finta che non fosse mai successo.
«È meglio che alcuni demoni restino in gabbia. Se gli si dà voce, gli si dà troppo potere».
«Scusa il ritardo. Avevo da fare», mi sussurrò all’orecchio.
«Senza di me?», sussurrai in risposta.
«Non vedo l’ora di farti vedere cos’ho organizzato per stasera», disse mordicchiandomi il collo.
Gli passai la mano sulla coscia. «Non voglio aspettare. Fammelo vedere ora».
Si bloccò e mi fissò. A volte Chase mi guardava in maniera così intensa da farmi perdere il filo dei pensieri. Ridacchiai quando mi prese per mano e mi tirò su, trascinandomi sugli scalini dell’aula verso l’uscita.
«Vi ho già annoiati, ragazzi?», commentò sarcastico il professore con voce nasale. Grazie al microfono che aveva tutti i presenti lo sentirono e si girarono a guardarci.
«Certo che no, professore», rispose Chase sventolando la mano. «È accattivante come sempre. Ma la nostra fuga è dovuta a questioni biologiche la cui urgenza supera lo studio della psiche umana».
Il professore non sembrava particolarmente divertito dalla risposta impertinente di Chase, quindi lo spinsi fuori dalla porta.
«Sei fuori di testa», risi. «Perché non sfrutti quel tuo intelletto superiore per cose più importanti?»
«Che cavolo credi che venga a fare qui ogni giorno?». Chase mi premette contro il muro e mi strinsi a lui, godendomi la vicinanza del suo corpo.
«Non so cos’è più grande», sussurrai, «il tuo cervello o il tuo uccello».
Chase finse di rifletterci su. «Dipende dall’umore. E da quanto sei vicina».
Gli cinsi le spalle. «Allora, cos’eri impegnato a fare?»
«Ah, quello». I suoi occhi azzurri brillarono. «Hai presente quando ti ho detto di preparati per una notte fuori?»
«Sì. Andiamo in campeggio?»
«Campeggio», sbuffò, prendendomi la mano e trascinandomi fuori dall’edificio. «Ti ho detto che sarebbe stata una cosa romantica. Pensi che non mi possa venire in mente di meglio?».
Scrollai le spalle. «Mi piace il campeggio. Mio padre ci portava sui Catskills o negli Hamptons tutte le estati».
«Be’, io ne ho avuto abbastanza di dormire all’aperto. Io e i ragazzi campeggiavamo sempre da piccoli».
«Perché adoravate il deserto?»
«Perché non volevamo andare a casa».
C’erano pochissime cose su cui Chase non scherzava. La storia della sua infanzia era la più importante. Facevo ancora fatica a immaginare il posto da cui veniva e le cose che aveva dovuto sopportare. Sapevo solo che la maggior parte erano state orribili.
Chase volle sentire di più sulle mie vacanze in famiglia e mi spronò per avere i dettagli mentre passeggiavamo tranquilli mano nella mano. A volte mi sentivo un po’ a disagio sotto il suo sguardo. Non ero brava a raccontare storie o a parlare a lungo di qualsiasi argomento. Lui era un oratore decisamente migliore di me.
«I tuoi genitori si amavano?», chiese all’improvviso mentre stavamo attraversando University Drive.
La domanda mi sorprese un po’. «Sì», risposi, chiedendomi se mi avesse sentita nonostante il rumore del traffico. Anche se, dopo aver risposto, mi chiesi se fosse vero.
Hannah e Nick Bransky apparivano perfetti agli estranei che vedevano la casa grande, tre figli e nessun problema economico. Lei lo adorava. Tutti sembravano adorarlo. Nick era bello e affascinante. Quando parlava, le persone – sia uomini che donne – prestavano la massima attenzione. Migliaia di volte, seduta al tavolo della cucina, avevo visto mia madre arrossire quando le mani grandi di mio padre le cingevano la vita mentre si chinava a baciarle la guancia. Ma anche prima che il mondo crollasse sulla famiglia Bransky, almeno una volta ogni paio di mesi si verificava un episodio di urla notturne. Io restavo a letto e ascoltavo le accuse di mia madre, le smentite di mio padre. Robbie, fratello maggiore sempre attento, infilava la testa nella mia stanza e mi diceva: «Dormi, Steffie, va tutto bene». Ma anche se la mattina successiva era tornato tutto alla normalità, sapevo che sarebbe successo di nuovo. Non ricordo un periodo in cui non sapessi che mio padre era un bugiardo.
Chase mi accompagnò fino alla porta di casa, poi mi baciò. «Torno a prenderti tra un’ora in grande stile».
«Davvero? Hai finalmente lavato la Chevrolet?»
«No, ma ho appeso dei dadi di peluche allo specchietto. No, lascia perdere. Quei poveri dadi sono stati vittime di re Creed quando l’hanno colpito in fronte e l’hanno fatto arrabbiare talmente tanto che li ha presi e buttati fuori dal finestrino».
«Che stronzo».
«Altroché». La bocca di Chase si piegò leggermente all’ingiù. Sapevo che c’era ancora tensione tra lui e il fratello, e sembrava non riuscissero a chiarirsi.
«Ehi». Gli passai un braccio intorno alla vita e appoggiai la guancia al petto, ascoltando il battito del suo cuore. «Non vedo l’ora che arrivi stasera».
Chase mi accarezzò la schiena. «Ti amo tantissimo», sussurrò con voce roca, e il mio cuore si gonfiò talmente tanto che non riuscii a rispondere. Lo baciai e mi rattristai quando il suo corpo caldo si staccò da me.
«Tra un’ora», promise, prima di girarsi e andare via.
Dal momento che Chase non mi aveva dato indizi su cosa aspettarmi dalla serata, non sapevo cosa portare. Avevo messo nello zaino i principali prodotti per l’igiene personale e un cambio d’abito, dal momento che finivamo sempre a casa sua.
Avevo scoperto che mi piaceva farmi carina per Chase: ero felice nel provarci e nel vedere il suo sguardo ammirato. Quando, qualche giorno prima, l’avevo confidato a Truly, era scoppiata a ridere.
«Che scema, certo che ti piace farti carina per il tuo uomo».
Proprio il giorno prima avevo ricevuto il vestito che avevo ordinato su internet. Era verde scuro con le spalle scoperte, e la stoffa sottile ed elastica mi abbracciava la pelle. Andai in bagno per valutare l’effetto del vestito su di me, preoccupata come non mai del seno piccolo e della mancanza di curve; ma fui felice di constatare che in realtà non mi stava affatto male e che Chase era sempre insaziabile quando si trattava del mio corpo: mi faceva sempre sentire bellissima.
Quando tornò, un’ora dopo, lo stavo aspettando. Si fermò a guardarmi apprezzando quello che aveva davanti. «Cavolo, stasera ti rovino».
«Allora è valsa la pena comprare il vestito». Presi lo zaino e chiusi a chiave la porta di casa.
Ci dirigemmo a sud sulla I-10, uscimmo dalla valle e Chase ancora non mi diceva dove stavamo andando. Prese l’uscita per un albergo altissimo con il casinò, ma lo superammo.
«Sei sicuro che non stiamo andando a fare campeggio nel deserto?», chiesi quando ci allontanammo dall’autostrada e ci addentrammo nel paesaggio bruno.
«Fidati, Steph», disse, sorridendo e dandomi una palpatina veloce.
Poi svoltammo l’angolo e, come un miraggio fiabesco, si materializzò un albergo di lusso. Chase diede la mancia all’addetto alle auto e gli porse le chiavi del furgone sporco prima di prendermi il gomito e condurmi nella raffinata lobby. Sulla parte posteriore dell’edificio c’erano enormi finestre attraverso le quali vidi un grande lago privato circondato da una fitta vegetazione. Quasi pensai di non essere più in Arizona.
Chase aveva già la chiave della stanza e si fermò sulla porta. Mi tornò in mente l’ultima volta in cui eravamo stati nel corridoio di un albergo. Sembrava passata un’eternità, ma in realtà era trascorso soltanto un mese.
«Stephanie», disse con solennità, tenendomi stretta a sé, «stasera ti porto in questa stanza per amarti in tutti modi possibili. Ed è solo l’inizio, tesoro». Mi baciò con passione e continuò: «Puoi fidarti completamente di me», sussurrò.
Mi fece entrare per prima e feci solo due passi oltre la soglia prima di bloccarmi. Era una stanza bellissima: grande, arredata con stile e completa di letto gigante. Ma era stato altro ad avermi stupita: sul letto erano sparsi petali di rose e c’era un tavolino con unna vaschetta di fragole ricoperte di cioccolato, una bottiglia di vino e due bicchieri. Mentre Chase accendeva le candele sul tavolo, lo osservai. Chiunque avesse trascorso del tempo con lui, avrebbe pensato che quello fosse un gesto beffardo, perché era la facciata che mostrava al mondo la maggior parte delle volte. Ma sapevo che in quel caso non era niente del genere: Chase era serissimo.
«Porca puttana», dissi piano, e lui alzò lo sguardo un po’ preoccupato.
«C’è qualche problema?»
«Niente», scossi la testa. «Non c’è nessun problema, Chase. Sono solo sopraffatta, tutto qui».
Spostò la sedia per farmi accomodare. «E questo è niente», rise, e notai un lampo della sua tipica allegria. «Aspetta di vedere come sarai sopraffatta da me appena sarai su quel letto con il vestito tirato su fino alle tette».
«Ti amo», dissi di colpo.
Si inginocchiò accanto a me e mi sorrise dolcemente. «Ti amo anch’io».
Chase versò un po’ di vino e poi mi esortò a mangiare qualche fragola.
«È la cena migliore che abbia mai fatto», dissi, sorseggiando il vino e masticando il frutto.
Chase giocherellò con la fiamma di una delle candele. «Possiamo ordinare altro da mangiare, più tardi». Sorrise malizioso. «Cioè, dopo».
Indicai il suo bicchiere vuoto. «Non ti piace il vino?». Poi mi ricordai: «Aspetta, non puoi bere?».
Lui ridacchiò. «Non proprio. Ma tieni conto che sono un impasticcato, non un alcolizzato». Si versò un po’ di vino e lo mandò giù in un sorso.
Mi guardai intorno. «Quanto ti è costato tutto questo?».
Chase non gradì la domanda. «Non pensare neanche a cagate del genere. Ci penso io».
«Sissignore».
Il suo sguardò si illuminò. «Dillo di nuovo. Aspetta, mettiti a quattro zampe prima di dirlo».
Alzai gli occhi al cielo.
Ma Chase si stava solo riscaldando. «Chiamami “signor Gentry” e dimmi che eseguirai tutti i miei ordini».
«Tra poco», risposi alzandomi. «Tutto quel vino mi è finito dritto nella vescica».
Mentre mi davo una controllata davanti allo specchio del bagno, venni inondata da un senso di irrealtà. Mi sentivo un po’ stordita, e in parte era per il vino. Ma era Chase che mi aveva inebriata del tutto solo guardandomi, amandomi. Era quasi troppo da sopportare.
Quando barcollai fuori dal bagno, era seduto sul bordo del letto senza camicia.
«E ora che cavolo combini?», sorrisi, chiedendomi se stesse ricreando di proposito la scena a Las Vegas.
Lo stava facendo. «Avevo caldo», ghignò.
Mi tolsi le scarpe e andai da lui. Rimase seduto e mi passò le mani sui fianchi e poi giù sulle cosce. Iniziò a sollevarmi il vestito ma lo fermai.
«Facciamo un gioco», dissi in un soffio.
Aveva lo sguardo incollato al mio viso, e si stava sbottonando i pantaloni. «Quali sono le condizioni?»
«Se sei eccitato, allora ti scopo fino a svenire».
Chase si abbassò i pantaloni. «Ho vinto».
«Sì», sussurrai. Iniziai lentamente ad abbassare la manica destra. Avrei potuto far scivolare tutto il vestito con facilità ma esitai, sentendomi stranamente nervosa. Ero mille volte più a mio agio con il mio corpo rispetto alla prima volta che avevo fatto sesso con Chase, quando non gli avevo permesso neanche di togliermi la maglietta. Eppure, a volte, uno sprazzo di quella paura si faceva strada dentro di me, nonostante sapessi quanto Chase mi desiderava. Non avrei dato voce a quei dubbi, non più. Lasciai cadere il vestito sul seno.
Chase si appoggiò ai gomiti e mi guardò, l’erezione in attesa e sull’attenti. Non indossavo slip né reggiseno, per cui, caduto il vestito a terra, rimasi completamente nuda. Lui non disse niente. Quando mi avvicinai lentamente, mi sfiorò la pelle e mi attirò a sé per baciarmi. Cademmo sul letto e ci baciammo con passione. Poi Chase si mise a sedere, mi fece allacciare le gambe intorno alla sua vita ed entrò dentro di me. Il mio sospiro si trasformò in un ansito quando iniziò a muovermi. Qualche volta ci era successo di essere talmente presi da non aver usato protezioni, ma Chase era sempre uscito in tempo.
«Steph», gemette quando iniziai a muovermi più forte. Stavo già arrivando a quell’estasi che solo lui poteva farmi raggiungere. Chase voleva andare più veloce; mi afferrò i fianchi e aumentò il ritmo. Venni subito, e tremando lo abbracciai cercando di tenerlo il più vicino possibile, più in fondo possibile.
«Non ti fermare», supplicai, fremendo per quella felicità perfetta.
Lui ringhiò e andò avanti. «Cazzo, non riesco a trattenermi».
Non trattenerti! Non voglio che ti trattenga! Voglio tutto!
Chase era arrivato al limite. Mi fece stendere sul letto e con un ruggito di passione selvaggia affondò di più e venne dentro di me.
Ci eravamo spinti troppo oltre e nemmeno mi interessava. A Chase non interessava. Ci baciammo e ci toccammo finché non fu di nuovo pronto, dopodiché lo guidai con urgenza dentro il mio corpo perché lo amavo e non me ne fregava niente di quello che sarebbe successo dopo.
Passarono ore ed eravamo ancora famelici; continuammo a rischiare sfidando il destino. Alla fine Chase mi trascinò sui cuscini e ci coprì con la coperta spessa. Si fece sfuggire un sospiro beato e mi strinse a sé, protettivo. Ero felicissima, più di quanto fossi mai stata nella mia vita. Eppure, appena prima di addormentarmi, sentii nella testa l’avvertimento di Truly.
«Amatevi, ma state attenti a non perdere voi stessi».
Chase doveva aver sentito il leggero brivido di paura, perché mi strinse ancora di più.