Capitolo diciassette
Stephanie
Glielo dovevo dire.
Non potevo dirglielo.
Ogni giorno, succedeva qualcosa che mi faceva innamorare sempre di più di Chase. Spesso si trattava di una piccola cosa, come quando mi toglieva lo zaino dalla spalla e me lo portava lui mentre giravamo per il campus. Chase non guardava mai le altre, per quanto cercassero di ostinatamente di attirare la sua attenzione. A volte litigavamo, ma sempre per motivi banali che sembravano fatti apposta per farci discutere e dopo riconciliare appassionatamente quasi subito.
Ma poi era arrivata la sera in cui l’avevo spaventato. Avevo fatto una cosa che non mi aveva mai visto fare prima, e aveva capito che dietro c’era un motivo grave.
Avevo già iniziato a lavorare alla Gallina Pazza. Era uno schifo. Non sapevo come cavolo facesse Truly a essere sempre così allegra, sempre a dover gestire le continue lamentele sulla croccantezza del maledetto pollo o le richieste della salsa al tabasco che esisteva solo nei Paesi vicino all’Equatore. Un paio d’ore di quel delirio farebbero diventare violento chiunque.
Alla fine del nostro turno, augurai la buonanotte a Truly e mi avviai verso casa di Chase. Avevamo iniziato a passare lì quasi tutte le notti, dal momento che la tensione tra lui e Creed era ancora piuttosto alta. Ci eravamo tacitamente accordati che lui e Truly sarebbero stati nel nostro appartamento, mentre io avrei dormito a qualche isolato da lì nella stanza di Chase.
«Mi manchi, Steph», mi disse Truly prima che mi allontanassi. «Dovremmo organizzare una giornata tra donne: solo io, te e Saylor». Sorrise. «Vietato l’ingresso ai Gentry».
«Ci sto», risposi, poi la salutai con la mano prima di sedermi al volante della mia Buick. Quando mi vibrò il telefono, diedi per scontato che fosse Chase. Non era lui.
«Ciao, zio Rocco», salutai. Rocco Colletti non era il mio vero zio; era amico di mio padre da quando erano ragazzini scapestrati nel Queens. Non si occupava solo di scommesse, aveva le mani in pasta anche in altre cose. Mi teneva d’occhio da quando mio padre era andato via e sapevo che era una richiesta di Nick Bransky.
«Scusa se ti disturbo così tardi, Steffie». Aveva la voce arrochita per i tanti anni di vita difficile e aveva usato il mio nomignolo di quand’ero piccola.
Guardai l’ora sul cruscotto. «Cavolo, dove sei tu dev’essere l’una di notte».
«Infatti», rispose a bassa voce, e capii che non era solo una chiamata di cortesia per sapere come stavo. Mi si contorse lo stomaco.
«È successo qualcosa a papà?»
«No, tuo padre sta bene. Ha imparato a lavorare a maglia, lo sapevi?»
«No». Era una cosa inimmaginabile. Mio padre era un uomo massiccio con le mani d’acciaio.
Rocco sospirò. «Sei nei guai, Steffie?».
Esitai. Quando era successo il casino con Xavier, avevo pensato di fare qualche telefonata. Anche se non avevamo mai parlato direttamente del fatto che avessi un giro di scommesse, ero sicura che Rocco lo sapesse. E la sua lealtà nei confronti di mio padre significava che si sarebbe occupato con piacere di chiunque mi avesse fatto un torto. Ma il mio orgoglio si era messo in mezzo: se avessi fatto quelle telefonate, sarebbe venuto fuori tutto e speravo ancora che non succedesse. La cosa peggiore, era che avrei dimostrato di non essere una di loro ma solo una ragazza.
«Non più», gli dissi con sincerità, perché non sarebbe servito raccontare balle a zio Rocco. Se mi aveva fatto quella domanda, probabilmente sapeva già la risposta. Era stato lui a presentarsi a casa mia il giorno dopo il funerale di mia madre, era stato lui a dirmi che Robbie era morto.
«Va bene, allora», rispose piano con il respiro un po’ affannoso. Probabilmente aveva fatto un tiro che lo stava facendo soffocare poco alla volta. «Avevo sentito il contrario, ma so che avresti chiamato se avessi avuto problemi seri».
«Infatti», risposi, e sospirò di nuovo. Mi chiesi con imbarazzo se il migliore amico di mio madre avesse visto il video in cui mi spogliavo davanti un gruppo di uomini fingendo che mi stesse piacendo.
«Mickey si è già fatto vivo?».
Fui sorpresa nel sentire il nome di mio fratello. «Non lo sento da più di un anno. È dalle tue parti?»
«No, Steffie, è dalle tue».
«È qui?». Guardai nel buio fuori dal finestrino, come se mio fratello potesse materializzarsi davanti a me. «Che cavolo ci fa Michael nella zona di Phoenix? Non è proprio vicino a Las Vegas o ad Atlantic City».
Rocco sembrò seccato. «Che il diavolo mi fulmini se so cosa combina quel ragazzo. Non mi tiene aggiornato. So solo che è arrivato nel deserto qualche settimana fa e che poi è sparito».
Quella notizia mi turbò. Immaginai il mio lunatico fratello maggiore nascondersi nell’ombra di Phoenix come un fantasma. E dovevo anche ammettere di sentirmi un po’ ferita: Michael sapeva esattamente dov’ero, se non mi aveva contattata era perché non voleva farlo.
«Terrò gli occhi aperti», dissi a Rocco. «Ma per ora sono fuori dal giro, forse per sempre. Sto lavorando come cameriera».
Si lasciò sfuggire una risata ansimante. «Steffie Bransky che fa la cameriera. Al tuo vecchio piacerà un sacco sentire la novità».
«Be’, a qualcuno dovrà pur piacere. Stammi bene, zio Rocco».
«Anche tu, ragazzina».
Guidai verso casa di Chase sentendomi a disagio. Prima era una sensazione quotidiana, ma da quando mi ero tirata fuori dal mondo delle scommesse e mi ero innamorata di Chase mi sentivo meglio, più calma.
Dopo una brusca manovra per infilarmi in un parcheggio, saltai giù dall’auto. Sentii un fischio e feci cadere per terra lo zaino, imprecando.
«Ciao», salutò Chase, e mi resi conto che era stato lui a fischiare. Era in piedi nel cortile sul retro di casa sua, al buio. Mentre raccoglievo lo zaino da terra, scavalcò il muro. Gli gettai le braccia al collo appena fu abbastanza vicino, e lui mi strinse a sé.
«Cos’è successo?», chiese tra un bacio e l’altro.
«Mi sei mancato», risposi in un soffio, sfiorandogli la mascella e il collo con le labbra. Volevo sfiorare ogni parte di lui.
Chase mi afferrò il viso tra le mani. «Ti sono mancato così tanto, Steph?». C’era un che di puerile e speranzoso nel modo in cui aveva fatto la domanda.
Volevo che mi baciasse ancora. Volevo sentirlo sopra di me, dentro di me. E poi volevo addormentarmi al sicuro tra le sue braccia.
«Mi manchi sempre, Chase. Anche quando siamo insieme inizi a mancarmi». Poi sibilai a denti stretti: «Merda. Non ha senso, vero?».
Chase mi sollevò tra le sue braccia e iniziò a portarmi dentro casa. Avevo un po’ paura che inciampasse da qualche parte e che saremmo finiti per terra, perché non stava guardando dove andava. Mi stava fissando dritta negli occhi. «Non ho mai sentito niente di più dolce».
Nascosi il viso nel suo collo finché non arrivammo in camera. Non sapevo se c’era qualcuno in casa; non mi interessava. Chase mi spogliò con dolcezza e mi fece stendere sul letto. Tremai quando rimase nudo e si infilò il preservativo.
«Forte», lo pregai. Lui eseguì, spingendo a fondo e a lungo, anche dopo che venni, e poi ancora.
Quando anche lui raggiunse l’orgasmo, si mise su un fianco e mi sfiorò l’anca con la mano. «Che ti è preso, stasera?».
Sorrisi. «Tu mi hai presa. Ti sei già dimenticato?».
Lui ridacchiò. «Iniziamo a parlare allo stesso modo».
«Allora dovresti esercitati con l’accento di Long Island».
«Io dico “pósto”, tu “pòsto”. Io dico “pénna” e tu “pènna”».
«Lascia stare», ridacchiai, «non ti viene bene».
Chase grugnì e si sdraiò sulla schiena, trascinandomi sopra di lui. «Siediti», ordinò, «No, a cavalcioni su di me».
Feci quello che voleva, ma ero scettica. «Non puoi già essere pronto per un altro round».
«Non ancora. Voglio solo guardarti. Copriti le tette con i capelli, come in quei quadri che ti ho fatto vedere».
Chase mi aveva illuminata sui suoi continui riferimenti all’arte preraffaellita. Gli piaceva dirmi che somigliavo alle bellezze eteree di quei quadri. Io ne dubitavo fortemente, ma gli diedi comunque corda.
«Meravigliosa», sorrise, allungando una mano per prendere il telefono dalla scrivania.
«Davvero? Hai intenzione di chiamare proprio ora? Posso allontanarmi dal tuo pacco mentre ti fai la chiacchierata?»
«Solleva le braccia», disse, puntandomi addosso il cellulare. «Ora girati».
«Che cazzo stai facendo?». All’improvviso diventai glaciale; saltai giù e raccolsi i vestiti dal pavimento. Me li strinsi al petto mentre Chase abbassava il telefono, fissandomi.
«Niente, Steph. Volevo solo divertirmi un po’ con te. Volevo avere qualcosa da guardare quando mi prende l’attacco d’ansia da separazione». Si accigliò quando capì che non avevo intenzione di cedere. «Pensavo ti eccitasse sapere quanto ti desidero. Cristo santo, ti puoi fidare di me. Lo sai, vero?».
Chiusi gli occhi. Mi tremava tutto il corpo.
«Togliti tutto. Te l’ho detto che mi appartieni, stronza. E ora fai in modo che sia un bello spettacolo, perché non ti pago finché non veniamo tutti quanti».
«Non provare mai più a fare una cosa del genere, pezzo di merda!», gridai, e riuscii a malapena a riconoscere il suono della mia voce. Stavo boccheggiando. Non riuscivo a respirare.
Sentii Chase scendere subito giù dal letto. Quando aprii gli occhi, mi aspettavo di trovarmi davanti un’espressione arrabbiata. Non ero stata ragionevole; Chase non aveva idea di quello che mi era successo. Certo, l’idea del video sul cellulare era stata pessima, ma voleva solo divertirsi un po’ con la sua ragazza; di sicuro non meritava di essere chiamato “pezzo di merda”.
«Stephanie», mi chiamò, e non era per niente arrabbiato. Era preoccupato e triste. Prese il lenzuolo dal letto e me lo avvolse intorno alle spalle. Lasciai che mi riportasse sul bordo del letto e che mi stringesse tra le braccia, baciandomi la fronte. Mi fece delle domande. Mi chiese chi mi aveva fatto del male e cosa mi avevano fatto. Non riuscii a rispondere a niente. Feci invece una cosa terribile e da debole, che sapevo l’avrebbe spaventato a morte perché non era da me: mi appoggiai al suo petto e piansi.
«Sono qui, tesoro», disse, accarezzandomi i capelli come se fossi una bambina. Sentii il dolore nella sua voce, e odiai di essere stata così fragile da provocare quella reazione. «Sono qui».