Capitolo ventiquattro

Chase

Mi sedetti sul bordo della fontana e fissai l’acqua scorrere. Mi chiesi quanto ci metteva una singola molecola a scorrere dalla base di cemento per poi essere spinta nella pompa e ricominciare il solito viaggio prima di essere riciclata. Era tra mezzogiorno e l’una, e il campus era affollato. Dal momento che non sapeva che ero lì, non la stavo aspettando. Non stavo aspettando nessuno.

«Ehi, bello», salutò una voce, e quando alzai lo sguardo vidi il volto amichevole di Brayden McCann, il ragazzo che una volta aveva avuto il coraggio di darmi un pugno per vendicare l’onore della cugina. Mi sforzai di sorridergli.

«Come va, McCann?».

Bray si sedette accanto a me. «Mi sembra di non vederti da una vita».

«Be’, sono un ragazzo popolare».

Brayden doveva aver notato il tono acido, perché mi squadrò. Speravo sapesse che non era diretto a lui, perché non avevo la forza di stare lì a dare spiegazioni.

«Stai bene, Chase? Vuoi parlare?»

«Mi piacerebbe, sì». Mi alzai e mi guardò preoccupato. «Ma ora devo andare a lezione a fissare la ragazza che potrebbe non amarmi più».

«Ah», commentò in un soffio, capendo un po’ di più.

«Come fate a farlo sembrare così facile, Brayden? Tu e Millie, intendo. Ogni volta che vi vedo, siete in perfetta sintonia».

«Be’, non vedi tutto», rispose serio. «Nessuno vede tutto, Chase. Io e Millie ci amiamo. Siamo completi. Ma non siamo perfetti, non nel senso idilliaco che ci mostra Hollywood. Ma nella vita reale potrebbe non esserci una cazzo di cosa del genere».

Era probabilmente la seconda volta che sentivo Bray McCann dire una parolaccia; la prima era stata fuori dal bagno delle ragazze alla Emblem High School circa sei anni prima.

«Potrebbe non esserci una cazzo di cosa del genere», ripetei. «Sei saggio».

«E tu non vivi più senza pensare al domani».

«Te lo concedo, è proprio così».

«E allora fai in modo che sia un buona cosa».

«Ci provo, Bray. Continuerò a provarci».

Mentre mi dirigevo verso l’aula in cui avevo visto Stephanie Bransky per la prima volta, tolsi il telefono dalla tasca. Pensai di mandarle un messaggio per chiederle se stava arrivando, ma non lo feci. Mi venne di nuovo in mente che alcuni dei suoi atteggiamenti somigliavano a quelli di Creed. Entrambi tendevano a essere distanti con chi stava loro intorno, ed entrambi avevano il potere di farmi a pezzi con poche parole.

Quando mi sedetti sulla panchina in attesa che la lezione precedente finisse, notai che alcune persone mi guardavano. All’inizio non ci feci troppo caso, ma continuava a succedere. Riconobbi alcuni di loro, e gli sguardi furtivi che mi lanciavano iniziarono a darmi sui nervi. Ero sicuro di non essere seduto lì con l’uccello di fuori, quindi che cavolo volevano?

«Chase!». Non era Stephanie. Era Robin, una che mi ero fatto e che si era tenuta alla larga quando era diventato chiaro che non avrei guardato nessun’altra oltre a Stephanie. Ma in quel momento si stava avvicinando con un sorriso smagliante e le guance arrossate. Mi afferrò il braccio. Non avevo proprio voglia di parlarci, quindi mi appoggiai al muro e chiusi gli occhi, ma lei continuò a parlare.

«Oddio», stava dicendo. «Ho visto il video. Oddio. Sta bene? Oddio, morirei se fossi stata io e fosse di dominio pubblico. Ma tanto non mi sono mai spogliata davanti a un obiettivo. Ahahah».

Non avevo idea di cosa stesse parlando e non me ne fregava niente. Grugnii e tenni gli occhi chiusi.

«È per questo che oggi non è con te? Oddio, ma almeno lo sapevi?».

Aprii gli occhi. «Robin, di cosa cavolo stai parlando?».

Era trionfante: aveva qualcosa da condividere e non vedeva l’ora di farlo. Per qualche motivo, iniziò a farmi male lo stomaco.

Robin incollò il naso al cellulare, si morse il labbro inferiore per l’aspettativa. Poi girò lo schermo per farmi vedere il video. Altre persone lì vicino stavano guardando. Guardai anch’io. Sbattei le palpebre. Poi le risbattei, perché quella scena era assurda.

Robin premette un pulsante e il volume si alzò. Stephanie, la mia Stephanie, stava ballando su un palchetto di merda mentre si toglieva i vestiti. Lo stava facendo lentamente, in modo seducente. Si era voltata e sembrava avesse sorriso agli uomini invisibili che gridavano per avere di più. E lei obbedì. La vidi fare cose che non aveva mai fatto neanche davanti a me nei nostri momenti più appassionati.

Avevo la gola secca, il cuore mi sanguinava. Restituii con calma il telefono a Robin. «Mandami il link, per favore», dissi, e poi lasciai tutti a spettegolare.

Una volta uscito dall’edificio camminai di fretta, facendo grandi passi senza avere idea di dove stessi andando.

Ma che cazzo di storia è ?

Stephanie, che a malapena si era spogliata davanti a me quando avevamo iniziato la relazione, si muoveva come una pornostar davanti a una stanza piena di uomini. Uomini che gridavano le cose disgustose che volevano facesse mentre lei si toccava, davanti alla cazzo di telecamera, in modo che chiunque avesse qualcosa da vedere per svuotarsi le palle. Era drogata? Ubriaca? Di sicuro non lo sembrava. Stava giocando con il pubblico di proposito, seguiva le istruzioni oscene e aveva sorriso tutto il tempo come se si stesse divertendo.

Mi sentii la bile in gola e mi dovetti coprire la bocca con il braccio per paura di vomitare. La vibrazione nella mia tasca annunciò l’arrivo del link che avevo chiesto a Robin. Tutta quella storia non aveva nessun senso. Nessuno.

Girai i tacchi di colpo e tornai verso la facoltà di psicologia. La lezione era già cominciata. Spalancai la porta ed esaminai i presenti. Alcuni mi guardarono con curiosità, altri si diedero delle gomitate e risero. Stephanie non c’era, quindi me ne andai. Forse era troppo imbarazzata per tutta l’attenzione che il video stava ottenendo; ovviamente quel cazzo di filmato era diventato virale. Ma quando si era tolta i vestiti davanti a un pubblico con le telecamere, doveva aver tenuto conto che potesse succedere una cosa del genere.

Ho mai saputo chi sei davvero?

Anche mentre una parte della mia mente, lontana e assillante, mi diceva che qualcosa non quadrava, a ogni passo la mia rabbia aumentava. Avevo fatto di tutto per corteggiarla, per farle sapere che aveva il mio cuore e per cercare di entrare nel suo. Stephanie Bransky mi doveva una spiegazione per quella merda, e non avevo intenzione di chiederla con le buone.

Ci misi meno di un quarto d’ora ad arrivare a casa sua. Buttai lo zaino per terra e bussai alla porta. Passò un minuto e bussai di nuovo.

«Stephanie!».

Sentii il rumore della serratura; la porta si stava aprendo con troppa lentezza, quindi la spinsi ed entrai.

Ogni pensiero rabbioso che avevo in testa sparì. All’improvviso provai un’enorme vergogna per essere andato lì ad affrontarla.

Era distrutta.

Stephanie si era coperta con una felpa pesante e pantaloni spessi anche se faceva caldo, e aveva le braccia strette al corpo come se cercasse di difendersi da qualche colpo. La sua voce era a metà tra il singhiozzo e il lamento. «Lo sai, vero?».

Crollò sul pavimento, tremava e singhiozzava disperata. Era terribile. Non desideravo altro che riportarla indietro, dimostrarle che la situazione non era così tremenda.

«Steph», sussurrai, andandole vicino. Cercai di abbracciarla ma si scostò, singhiozzando più forte. «Va tutto bene, tesoro. Guardami. Queste cose succedono di continuo. È uno degli svantaggi di vivere nell’era della tecnologia». Continuò a piangere come se non avesse sentito neanche una parola. Stavo malissimo. Deglutii e provai un’altra tattica, cercando di mantenere un tono leggero. «Hai ballato, tesoro. E allora?».

Quella frase la bloccò. Alzò lentamente la testa; non riuscivo a vederle il viso quindi le scostai di lato i capelli. Mi guardò incredula, le lacrime le scorrevano copiose sulle guance.

«Pensi che l’abbia voluto? È questo che credi? Me l’hanno fatto fare. Mi hanno obbligata, Chase».

No. NO!!!

Quella storia non aveva senso, ma ecco che un senso c’era. Terribile e devastante, per quanto volessi il contrario.

Steph non mi respinse quando cercai di abbracciarla di nuovo. Si aggrappò a me come una bambina spaventata, mentre la portavo in camera. Restai seduto con lei al buio per un bel po’. Alla fine i suoi singhiozzi si placarono, e mentre si faceva sera mi raccontò cos’era stata costretta a fare e perché. Anche se fui sollevato nel sentire che non l’avevano toccata, il suo tormento era ancora terribile. Non si trattava di sesso: avevano voluto mortificarla e ci erano riusciti. Non c’era stato bisogno che me lo dicesse, lo sapevo già.

«Chi sono, Steph?».

Chiuse gli occhi e scosse la testa, rifiutandosi di dirmelo. Immaginai si trattasse di qualche pezzo di merda viscido che lavorava dietro le quinte, di uomini che aveva conosciuto tramite i giri di scommesse clandestine che gestiva. Avevo visto abbastanza bastardi di quel genere quando io e i miei fratelli combattevamo per soldi.

Ricominciò a piangere piano. «Mi dispiace tanto, Chase».

Un’unica lacrima mi scivolò sulla guancia destra. Altre minacciavano di uscire, ma le ricacciai indietro: non potevo mostrarle quanto la sua ammissione mi avesse fatto a pezzi.

«Stai tranquilla, andrà tutto bene. Forza, appena ti sarai lavata e cambiata, ti sentirai meglio».

Mi seguì docile quando andai in bagno. Aprii la doccia e aspettai che l’acqua fosse abbastanza calda.

Inizia a spogliarla con delicatezza, ma oppose resistenza comunque, terrorizzata. «No! Non voglio che tu mi veda!».

Fu più straziante di un pugno nello stomaco. Un altro secondo e non sarei più riuscito a restare in piedi. «Steph».

Non mi permise di toccarla. «Ti prego, Chase».

«D’accordo». Le baciai la fronte e le sollevai piano il mento. «Sistemerò tutto, tesoro».

I suoi occhi si riempirono di nuovo di lacrime. «Non puoi. Ormai è fatta, non si può sistemare».

Avevo il cuore a pezzi. Era letteralmente in frantumi, cazzo. Avrei sistemato tutto, fosse stata l’ultima cosa che avrei fatto. «Shh», la tranquillizzai. «Basta lacrime, ora. Sei meravigliosa e coraggiosa, ricordati solo che ti amo».

Si calmò ma non volle comunque spogliarsi davanti a me. Chiusi piano la porta del bagno e andai nel salotto. Era come se fossero passati dieci anni da quando ero entrato in casa nel pomeriggio. Mi lasciai cadere sul divano e feci l’ultima cosa che avrei voluto fare.

Presi il telefono e aprii il video.

In totale, durava setti minuti e trentotto secondi. Si intitolava Universitaria selvaggia e aveva già mezzo milione di visualizzazioni. Mi sforzai di scorrere le scene della mia ragazza che veniva maltrattata. Si capiva che era stato ripreso in un pub o una discoteca, e sembrava buio e vecchio. Quasi tutti gli edifici di Tempe erano relativamente nuovi. Quel posto poteva trovarsi a Phoenix, in uno dei quartieri degradati vicino al centro. Cercai altri indizi ma non trovai molto altro. Gli uomini non venivano mai inquadrati, e riuscii a vedere solo un braccio che si muoveva ogni tanto. Non sapevo come cavolo avrei fatto a trovarli, ma l’avrei fatto. Non ci sarebbe stato posto sulla Terra in cui potessero nascondersi da me. Mancavano pochi istanti alla fine del video quando l’acqua della doccia smise di scorrere. Misi in pausa e tornai un po’ indietro. Quattro secondi prima della fine, era comparso un uomo vicino al palco.

Non potevo crederci, era una persona che conoscevo. Una persona che potevo trovare.