Capitolo undici

Stephanie

Le scarpe erano un problema. Mi ero messa un semplice vestito nero che non vedevo da quando l’avevo buttato nell’armadio, ma non avevo scarpe decenti. Al matrimonio di Saylor non era importato perché il vestito lungo di Truly mi arrivava ai piedi e aveva coperto le infradito. Quello che avevo addosso in quel momento, invece, era abbastanza casual da indossare con le infradito, ma quella sinistra si era rotta qualche giorno prima e non ne avevo altre. Truly portava un numero più piccolo, quindi non potevo andare a saccheggiare il suo armadio.

Avevo promesso a Chase che ci avrei messo cinque minuti, ma il tempo stava per scadere. Il cuore mi batteva fortissimo al pensiero di lui seduto in salotto ad aspettarmi. Quando avevo sentito bussare alla porta, poco prima, avevo smesso di respirare. Volevo fosse lui.

Dopo aver scelto un paio di Converse grigie, frugai nel cassetto della scrivania alla ricerca dei pochi trucchi che ancora avevo. Applicai un po’ di cipria e scossi i capelli, contenta che fossero quasi asciutti dopo la doccia di poco prima. Dopo aver messo con molta attenzione un po’ di eyeliner e un po’ di rossetto, presi la borsa che Truly mi aveva prestato per il matrimonio. In casa non c’erano specchi interi, ma immaginai che, a parte le calzature strane, fossi messa abbastanza bene. Il modo in cui mi guardò Chase quando tornai nel salotto lo confermò.

Era esattamente dove l’avevo lasciato. «Cinque minuti e trentasette secondi», disse. Sorrise ma nei suoi occhi azzurri c’era un calore che mi fece capire che stava prendendo molto sul serio la situazione.

Deglutii e mi lisciai nervosamente il vestito, anche se non ce n’era bisogno. Chase si alzò e mi venne incontro. Pensai mi avrebbe baciata o toccata, che avrebbe fatto qualche battutina sconcia, ma non fece nulla di tutto ciò: mi porse il braccio e inarcò un sopracciglio. «Andiamo, bella signorina?».

Chase era deciso a portarmi fuori a cena. Gli avevo detto che il fast food sarebbe andato bene perché non volevo spendesse soldi che non aveva.

«No», ribatté palesemente offeso. «Questa non è un’uscita da hamburger e patatine, è un evento da bistecca e caviale».

«L’hai mai assaggiato il caviale?».

Chase guidava con una mano, l’altra era fuori dal finestrino del furgone. «No. Tu?»

«Sì. Faceva schifo».

«Sono uova di pesce, ovvio che fa schifo. Ma noi siamo tenuti a mangiarlo comunque e a fare i presuntuosi perché possiamo permetterci di pagare cento dollari una cucchiaiata di una roba che sa di merda».

«Ai ricchi piace la merda».

Mi guardò con sarcasmo. «Parli per esperienza?»

«Non ho mai assaggiato la merda, ma sì, quand’ero ragazzina in casa mia giravano parecchi soldi. Ma ora non importa più».

«Capisco», disse, poi cambiò argomento. «Che ne dici di Medley’s? E non lamentarti per i prezzi. Offro io e questa è una serata speciale».

«Davvero?», chiesi piano.

Chase guardò dritto davanti a sé e non provò a toccarmi. «Sì», rispose con decisione.

Medley’s era un locale tranquillo e con le luci soffuse. Chase chiese un tavolo appartato. Mi lasciai sfuggire un fischio quando vidi i prezzi delle portate.

Chase mi sentì. «Piantala», ordinò guardando il menù.

«Fottiti», sorrisi.

Lui ricambiò il sorriso e rispose con un lampo di malizia: «Ti avevo detto che non ci avrei riprovato. Non oggi, almeno». Alzò lo sguardo quando il cameriere si avvicinò. «Piatto mari e monti per due, grazie».

«Chase», sospirai dopo che il cameriere si fu allontanato.

«Che c’è? Hai intenzione di arrabbiarti perché ho ordinato per te? Se hai intenzione di sgridarmi, ti prego di usare un linguaggio scurrile».

«Come facevi a saperlo?», chiesi piano.

Era confuso. «Che ti piacciono bistecca e aragosta? Non piacciono a tutti? E poi è quello che costa di più, quindi vuole sicuramente dire che è il piatto migliore», mi fece l’occhiolino.

Mi mossi a disagio e posai il tovagliolo sulle gambe. «È una mossa un po’ da maschio alfa, ma non mi dà fastidio. Volevo chiedere un’altra cosa, però. Posso?».

Era tutto orecchie. Di Chase c’era da dire che quando decideva di ascoltare ascoltava davvero. Mise da parte il sorrisino da cattivo ragazzo e intrecciò le dita con le mie. «Puoi chiedermi tutto quello che vuoi, Stephanie».

Mi bloccai quando il cameriere ci portò l’acqua. Non c’erano altri clienti vicino a noi, ma era comunque seccante chiedere a Chase Gentry, la sessualità fatta persona, di spiegare un commento che aveva fatto quel pomeriggio.

Mi schiarii la gola e sputai il rospo, perché avevo bisogno di sentire la verità. «Prima hai detto che dopo che siamo stati insieme a Las Vegas avevi capito che ero fuori dal giro da un po’. Come facevi a saperlo? Insomma, era così ovvio?».

Ero davvero così arrugginita?

Chase mi guardò con dolcezza, poi si alzò e venne nel mio lato del tavolo. Mi avvolse le spalle con un braccio, si sporse e mi sussurrò: «È stato talmente bello che non riesco a pensare ad altro, Steph».

Tornò di corsa al suo posto e bevve un sorso d’acqua, mentre io restai seduta immobile cercando di non dare a vedere quanto fossi scossa. Cosa cavolo gli stavo permettendo di farmi?

Di tutto. E di più.

Chase posò il bicchiere e mi lanciò un’occhiata maliziosa. «Ora posso fartela io una domanda?»

«Sì». E la risposta era davvero sì. Qualsiasi fosse stata la domanda, la mia risposta sarebbe stata un istantaneo e sicuro sì.

Chase incrociò le braccia e sembrava si stesse scervellando su di me. «Chi sei, Stephanie Bransky? Tutto quello che so di te è che vieni da New York, vuoi che il mondo ti creda una stronza sempre incazzata e che mi fai impazzire in un modo scandalosamente accattivante». Si sporse di nuovo, dandomi un colpetto con il ginocchio sotto il tavolo.

«Cosa vuoi sapere?».

Chase fece domande dirette e io gli risposi con sincerità. Sapevo che la sua infanzia non era stata una favola e che non mi avrebbe guardato storto una volta scoperto della mia mia famiglia. Mi stava bene parlare del processo di mio padre. Nick Bransky aveva superato il limite quando aveva allargato il suo giro d’affari dalle scommesse sportive clandestine all’estorsione e alle corse truccate. Potevo accettare che l’agiatezza di quando era piccola non ci fosse più, ma avevo qualche problema a parlare della morte di mia madre.

«Che tipo di cancro?», chiese Chase con delicatezza.

«Al pancreas».

Si accigliò. «È una brutta diagnosi. Mi dispiace, Steph».

Tagliai la bistecca, non avevo mangiato molto. «Almeno è morta due giorni prima di Robbie. Non ha mai saputo che suo figlio è stato ucciso. Ne sarò sempre grata».

«E l’altro tuo fratello?».

Scrollai le spalle. Se davvero avessi voluto, avrei potuto rintracciare Michael. Ma poi di cosa cavolo avremmo parlato, a parte l’agonia della nostra famiglia a pezzi? Michael era poco più grande di un anno ed era sempre stato un tiranno. Mi sarei stupita se non fosse stato coinvolto in qualcosa di brutto, in giro per il mondo per conto suo.

«E i ragazzi?», mi chiese con un sorriso. Aveva già fatto fuori tutto quello che aveva nel piatto.

«Ne ho conosciuto qualcuno».

«Nessuno di speciale?»

«Tu che dici?».

Non stava più sorridendo. «Secondo me, qualcuno ti ha fatto del male. E credo anche non mi dirai niente in merito».

Sarei stata disposta a riassumergli la mia limitata esperienza con gli uomini, ma neanche morta gli avrei raccontato di quello che avevo subìto per gentile concessione di Xavier. Gli avrei fatto pena e non c’era niente di peggio. Mi resi conto del sarcasmo nella mia risposta, anche se sapevo che Chase non se lo meritava. «Cavolo, Gentry, come fai a essere così figo e conoscere così bene l’universo femminile? Starai scoppiando, sotto quei muscoli».

A quanto pareva, Chase non si offendeva facilmente. Si appoggiò allo schienale e scoppiò a ridere.

«Ancora», disse con gli occhi che brillavano.

«Ancora cosa?»

«Sgridami ancora».

«Sei malato».

«E sono anche figo, a quanto pare».

«Come se avessi bisogno che te lo dica io. Sei Chase Gentry, che cazzo. All’università hai un fan club».

Chase inclinò la testa e mi osservò. «Dio, sei stupenda».

Deglutii e fissai il tavolo. Non ero mai stata brava ad accettare i complimenti, anche se rispetto agli ultimi anni erano più frequenti e gratuiti.

Chase chiese il conto e pagò in contanti. Si seccò quando cercai di contribuire.

«Sto cercando di fare il gentiluomo», borbottò, lanciandomi uno sguardo risoluto. «Quindi fammelo fare».

Mi prese di nuovo a braccetto quando andammo via dal ristorante. Sentire i suoi muscoli sotto la maglietta stava per farmi vacillare. Continuava a tornarmi in mente il modo in cui gli avevo passato le mani sulle spalle, quel pomeriggio, mentre si metteva sopra di me e posava la bocca sul mio seno.

«Che succede?», mi chiese. Stava di nuovo sorridendo. Accidenti a lui, sapeva benissimo cosa mi stava passando per la testa. Ma non aspettò che rispondessi: mi cinse la vita e fece un cenno verso la strada. «Andiamo al Buco. Creed stasera si esibisce lì».

La strada era silenziosa, e mentre camminavamo il suo braccio restò avvolto al mio corpo. Quando lo guardai, la sua espressione era pensierosa.

«Cosa sai di me?», mi chiese serio.

Quella domanda mi prese alla sprovvista. Sapevo che era sexy da morire, che sembrava gli piacesse ricevere attenzioni e che il suo sarcasmo cronico si mischiava in modo strano alla sua intelligenza acuta. Sapevo che mi affascinava da morire.

Da quello che mi aveva raccontato Truly, sapevo anche che aveva avuto un ambiente familiare violento, che adorava i suoi fratelli e che nell’ultimo periodo aveva lottato contro la dipendenza da antidolorifici.

«So che non c’è niente di semplice, in te».

Chase mi strinse di più a sé. Per qualche motivo, capii che la mia risposta l’aveva reso felice. Si fermò un attimo e mi schioccò un veloce bacio sulle labbra.

Il locale era l’unico posto animato in una strada altrimenti buia. Riuscivo già a sentire la musica e riconobbi la voce di Creed. Aveva un enorme talento. Nonostante l’atteggiamento burbero con cui si presentava, era in grado di mettere sentimento nelle canzoni che cantava.

Non essendo fan della musica country western, non ero mai stata in quel locale conosciuto come Il Buco. Era piccolo e leggermente più illuminato rispetto ad altri posti, e la dozzina di tavoli attaccati al muro erano tutti occupati. Anche la piccola pista da ballo era affollata. Eppure, Truly ci vide subito.

«Oddio!», squittì, afferrandoci per le braccia incredula. «È quello che penso?».

Chase era dietro di me, e incrociò le braccia sul mio petto. «Sì, ora sono la sua puttana».

Truly era attonita. «Steph?».

Non sapevo che cavolo dire. Chase mi pungolò. «Forza, diglielo».

«È la mia puttana», dissi, sentendomi ridicola.

Truly si limitò a fissarci. «Che ti è successo alla mano?».

Mi ero proprio dimenticata del polso slogato. Chase decise di scherzare anche su quello.

«Si è fatta male cercando di mettermi in riga». Si stiracchiò e gemette. «Ha fatto più male a me che a lei».

Truly alzò gli occhi al cielo: sapeva quando non bisognava prenderlo sul serio. Mi tornò in mente quando mi aveva detto che non sapeva dove Chase avesse la testa e che sarebbe stato saggio stargli alla larga.

Mi liberai d’impulso dalla stretta di Chase e mi sporsi per sussurrarle: «Non ho potuto farci niente, Truly».

Mi rispose anche lei in un sussurro. «Lo capisco, dolcezza». Poi lanciò un’occhiata a Chase. «Fai il bravo».

Lui ghignò. «Lo sono sempre. Garantisci per me, Steph».

Gli diedi una gomitata. Lui mi prese all’improvviso il volto tra le mani e mi baciò. In sottofondo, sentii Creedence finire l’esibizione e ringraziare il pubblico. Quando Chase si staccò, guardai il palco: Creed mi stava guardando, e la sua espressione non era felice.

Io e Chase chiacchierammo con Truly nel brusio del bar in attesa che Creed ci raggiungesse. Si era ripresa bene dalla vista scioccante di noi due insieme e, mentre osservava il modo in cui Chase mi abbracciava, capii che era contenta.

Finalmente Creed comparve con la sua chitarra. Quando Truly lo abbracciò e lo baciò sorrise, ma tornò serio quando guardò me e Chase.

«Cos’è questo?», chiese con una nota di ostilità.

«La messa di mezzanotte», scherzò Chase, poi iniziò a trascinare me e Truly verso l’uscita. «Usciamo, sto diventando claustrofobico».

«Allora, che programmi avete adesso?», chiese Truly una volta fuori.

Chase ci rifletté. «Non lo so. Cosa si fa durante un appuntamento tipico?».

Truly lanciò uno sguardo a Creed. «Be’, credo che noi andremo a mangiare un boccone, se volete unirvi».

Creed restò in silenzio. Non era strano per lui, ma era un tipo di silenzio ostile. Forse preferiva stare solo con Truly.

«Andate pure», le risposi, «noi abbiamo appena cenato».

Chase schioccò le dita. «Che ne dici di una passeggiata nel parco? Possiamo respirare la puzza di acqua stagnante e scacciare le zanzare».

«Romantico», commentò Truly, poi diede una leggera gomitata a Creed, cercando di portarlo via. «Buon divertimento».

Creed si girò e ci guardò, ma non salutò.

Chase li guardò allontanarsi, poi si girò verso di me e mi sfiorò il braccio. «Sei fredda».

La temperatura era scesa di colpo, come succedeva spesso di notte nel deserto. Chase camminava allegramente e mi condusse dove aveva parcheggiato. Frugò per un minuto nell’abitacolo e tirò fuori una vecchia camicia di flanella che mi posò sulle spalle.

«Ti avverto: non è stata lavata nell’ultimo anno solare, ma ti terrà al caldo».

«Grazie», dissi piano. Poi lo presi di nuovo a braccetto mentre passeggiavamo nel parco.

C’erano poche persone in giro. Quando ci avvicinammo alla ringhiera che sovrastava l’acqua, ci volò sopra la testa un piccolo stormo. Il cinguettio acuto risuonò nella notte.

«Pipistrelli», disse Chase indicandoli.

«Non ci credo. Sei sicuro?»

«Certo. C’è una caverna vicino al Biltmore in cui se ne vedono a migliaia. Si raggruppano e poi la notte si dividono per cacciare, per accoppiarsi, per fare cose da pipistrelli. Scenario appropriato, a qualche settimana da Halloween».

Mentre parlava, mi aveva distrattamente avvolta tra le sue braccia. Poi si girò e mi guardò. Rimase a fissarmi per molto tempo.

«Piantala», farfugliai turbata.

Lui ghignò. «No».

Incrociai le braccia e abbassai la testa. Un attimo dopo, sentii la sua mano sotto il mento. La sua voce era dolce.

«Perché fai così, Steph? Ti chiudi a riccio ogni volta che qualcuno ti guarda. Quante volte devo dirti che sei bella? No, non fare quella faccia. Lo sai che non ti sto dicendo cazzate, non su questo».

«Chase», dissi, e desiderai che si avvicinasse, che mi stringesse di più, ma si limitò a sospirare.

«Vorrei averlo fatto prima», disse con un sorriso sbilenco.

Un rumore forte mi fece sobbalzare e alzai lo sguardo in tempo per vedere un paio di ragazzi sullo skateboard che ci stavano passando vicino. Ma non sapevo cosa intendesse dire. «Che cosa?».

Si infilò le mani in tasca e guardò i ragazzi sparire nel buio. «Vorrei averti portata fuori prima di averti portata a letto».

«Ah», arrossii. «In realtà, credo tu ci abbia provato. E io ti ho risposto con la versione volgare di “No, grazie”».

Ci rifletté. «È vero», disse incredulo. «Non mi sentirò più in colpa. È soltanto tua la responsabilità se abbiamo scopato prima di aver mangiato insieme».

«Ma smettila». Gli presi la mano con esitazione. «Mi dispiace di averti detto di levarti dai coglioni, Chase. Non sopportavo l’idea di essere un trastullo, per te. Non volevo davvero che te ne andassi».

Si avvicinò di un passo. «E cosa volevi davvero

«Non lo so», risposi imbarazzata.

Non gli piacque quella risposta. «Sì che lo sai». Mi prese il viso tra le mani, poi mi passò il pollice sulle labbra. Vedere che in così poco tempo potesse trasformarsi da dongiovanni ironico a uomo intenso, mi fece mancare il fiato. Ed ebbi la conferma di quello che iniziavo a sospettare: il suo atteggiamento sarcastico era solo un sottile strato artificiale.

«Dimmelo», incalzò con la voce roca, e sentii di nuovo il battito accelerare. Stargli vicino mi faceva sentire così ogni volta. Ogni cavolo di volta. Era impossibile fermarsi.

«Volevo che restassi», sussurrai. «A Las Vegas e anche oggi pomeriggio. Volevo di più. Più di un po’ di sesso. Volevo… volevo stare tra le tue braccia». Le parole vennero fuori esitanti, insicure, ed ero incazzata con me stessa perché non l’avevo detto bene, perché non avrei proprio dovuto dirlo. Era una cosa stupida.

L’espressione di Chase non cambiò. Continuò a fissarmi con curiosa intensità finché non cercai di allontanarmi. Allora mi afferrò per la vita e mi strinse a sé in una maniera così improvvisa da farmi sussultare.

«Non fare così», ringhiò, facendo scivolare la mano sulla schiena e poi tra i miei capelli. «Non puoi dirmi una cosa del genere e poi cercare di scappare».

Alzai il mento con espressione di sfida. «E allora perché non sputi il rospo? Dimmi quello che vuoi tu».

«Va bene», acconsentì, allentando un poco la presa. «Voglio scoparti di nuovo, Stephanie. Voglio farti venire in mille modi diversi e usarti come voglio, finché il mio uccello regge. Porca vacca, donna, piantala di cercare di scappare da me! Fammi finire, poi se vorrai ancora andartene non ti fermerò».

Mi ero arrabbiata per la sua volgarità e avevo tirato via il braccio dalla sua presa, ma quando aveva alzato la voce ero trasalita.

Chase non batté ciglio, ma il suo tocco era gentile quando mi passò le mani sulle spalle e poi sulle braccia. «Voglio sapere com’è addormentarsi con te vicino. Voglio avere il privilegio di svegliarmi con te la mattina. Voglio stringerti. Voglio che tu sia mia».

«Chase», dissi guardandolo dritto negli occhi e cercando di non tremare alle sue parole. «Non voglio essere una delle tante».

«Non lo sei», rispose subito. «Non voglio nessun’altra, Steph. Non penso a nessun’altra e di sicuro non toccherò nessun’altra finché ci sei tu. Voglio solo dare una possibilità a noi due. E tu?».

Chase faceva battute e scherzava in continuazione. Lo sapevo fin da prima che ci conoscessimo, quando era solo il ragazzo figo che continuava a fissarmi mentre era al centro di tutte le attenzioni del mondo. Ma in quel momento non stava scherzando, non stava più giocando con me.

Lo baciai. Sentii tutto il suo vigore, soprattutto quando mi attirò con forza contro il suo corpo mentre la nostra passione raggiungeva il punto di rottura. Mi staccai, senza fiato.

«Sì», sussurrai mentre lui mi teneva in piedi. Se non l’avesse fatto, avrei rischiato di crollare. «Portami a casa. Portami a casa e dimostramelo, Chase».