Capitolo ventisei

Chase

Il giorno in cui avevo riaccompagnato Alonzo a casa, avevo visto in che appartamento era entrato. Sapevo con esattezza dove cercarlo. Mentre ero davanti alla sua porta, lo chiamai e sentii il telefono squillare dall’altra parte.

«Gentry», sospirò quando rispose, «sapevo che ti avrei sentito presto».

«Allora, vuoi aprire la cazzo di porta o la devo buttare giù?».

Aprì. La sua espressione dispiaciuta mi bloccò, ma solo un attimo. Mi fiondai contro il suo petto e lo feci cadere, poi sbattei la porta alle mie spalle.

«Merda», gridò mentre sbatteva contro una sedia. «Datti una calmata».

«Vaffanculo. L’hai capito perché sono qui, pezzo di merda?».

Chinò la testa e deglutì. «Sì. Non sapevo che Stephanie fosse la tua ragazza, altrimenti ti avrei avvertito».

La sua frase mi fece ruggire e mi avventai di nuovo su di lui. Lo colpii forte sulla parte destra del volto e fu soddisfacente fargli male almeno un po’. Dal poco che ero riuscito a vedere nel video, non era lui il capobanda, ma si trovava comunque lì e tanto bastava. E, al momento, era l’unico che avevo davanti.

«Maledizione, Chase», borbottò, tenendosi il viso e barcollando. «Senti, ti capisco, e se hai solo bisogno di riempirmi di botte, allora continua».

Stavo per colpirlo di nuovo, ma mi fermai. «Pensi di poter giustificare quello schifo? Fai pure, Al, o Alonzo, o come cazzo vuoi che ti chiami. Raccontami di come ti sei svuotato le palle guardando una ragazza costretta a umiliarsi».

«Non l’ho fatto!», gridò, il viso deformato in un’espressione di dolore. «Cristo santo, è stato orribile vederla lì sopra».

«Non come lo è stato per lei», ringhiai, e lo colpii di nuovo.

Al barcollò e si sedette per terra. Ormai avevo capito che non avrebbe reagito; il palese senso di colpa per la crudeltà che Stephanie aveva dovuto subire sembrava genuino. Quello che non sapevo era in che cavolo di rapporti fossero, quindi glielo chiesi.

Sospirò e risposte triste. «Suo fratello Robbie era il mio migliore amico. Quando l’ho rivista qui ho giurato di proteggerla, di tenerla fuori dai guai». Fece una smorfia e si appoggiò al muro. «Invece l’ho portata in mezzo ai lupi».

Strinsi gli occhi, il sangue mi ribolliva nelle vene. «Che lupi?».

I suoi occhi scuri si posarono sul mio viso. «Lascia perdere, Gentry. Non pensarci nemmeno. Torna a casa e prenditi cura di lei meglio che puoi».

«Voglio i nomi, Al».

«Col cazzo che te li do. E, prima che tu lo dica, devi sapere che non sono loro quelli che voglio proteggere». Si alzò con fatica e mi guardò implorante. «Vattene, Chase».

«È un ottimo consiglio», disse una voce, e così mi accorsi che non eravamo soli.

Non sapevo come cavolo avessi fatto a non notare quel tizio, dal momento che l’appartamento era piccolo, ma era lì, seduto su uno schifo di divano a osservaci in silenzio. C’era qualcosa di stranamente familiare il lui, e la combinazione del suo atteggiamento teso e dello sguardo pungente che leggevo nei suoi occhi castani rivelavano che doveva essere uno tosto. Notai anche che teneva la mano destra dentro la tasca di una giacca che non c’era bisogno di indossare al chiuso.

«Chi cavolo sei?», chiesi, fissando la mano nascosta, come se stesse tenendo qualcosa che non potevo vedere.

Un coltello? Una pistola?

Qualsiasi cosa nascondesse, non mi avrebbe fermato dallo scoprire il suo ruolo in quella situazione.

Al mi lanciò un’occhiata ammonitrice e si schiarì la gola, prima di rivolgersi a quell’uomo. «Lui è Chase Gentry».

«L’avevo intuito», annuì l’uomo, e mi resi conto che aveva lo stesso accento che ero abituato a sentire da Stephanie.

«Eri lì anche tu?», sibilai. «Applaudivi?».

Il suo viso si adombrò e riconobbi una rabbia a malapena controllata. «Se fossi stato lì», disse a denti stretti, «sarebbe finita in modo molto diverso da quello che hai visto». Spostò lo sguardo pungente verso Al, che chiuse gli occhi.

«Chi sei?», chiesi di nuovo, ormai più curioso che ostile.

All’improvviso, sentii dei rumori fuori e sembrò che un ariete stesse cercando di buttare giù la porta.

«Alonzo!», gridò Stephanie. «Apri questa cavolo di porta!».

Al lo stava già facendo, e un attimo dopo Stephanie era nella stanza. Lanciai un’occhiata all’uomo sul divano. Non sembrava essere sul punto di fare cose strane, ma mi misi davanti a lui per sicurezza. Stephanie inciampò e la presi tra le braccia, mentre i miei fratelli si precipitarono dentro subito dopo di lei.

Steph mi gettò le braccia al collo. «Andiamo a casa», supplicò, ma scossi la testa perché non avevo ancora finito. Mi girai e guardai l’uomo alle mie spalle. Stephanie si accorse di lui e sbiancò.

«Ciao, Steffie», la salutò con voce dolce.

Si staccò da me e fece un passo incerto verso di lui, che nel frattempo si era alzato.

«Michael», sussurrò.

Ma certo, è Michael Bransky.

Lui aveva i capelli scuri e lei li aveva chiari, ma ora che erano vicini vidi i tratti che indicavano la parentela. Avevano lo stesso naso e gli stessi occhi. Michael finalmente tolse la mano dalla tasca e fissò la sorella.

«Dove sei stato?», gli chiese in tono scioccato. «E che cavolo ci fai, qui?».

Cord e Chase erano sulla soglia, a disagio. Al lanciò loro un’occhiata, poi andò nella piccola cucina e tirò fuori una bistecca dal freezer.

«Usciamo, signori. Lasciamo che i Bransky parlino in privato». Fece una smorfia mentre premeva la carne surgelata sulla parte destra del viso. «Non credevo mi avresti colpito così forte, cazzo», farfugliò sofferente, dandomi una gomitata mentre usciva.

I miei fratelli mi guardarono interrogativi, ma io annuii e tutti e tre seguimmo Al fuori. Appena prima di chiudere la porta, vidi Stephanie e Michael sedersi sul divano e fissarsi.

Creed indicò la stanza con il pollice. «Chi cavolo è quello lì?»

«Suo fratello», rispose Al.

Cord lo guardò dall’alto in basso. «E tu chi cavolo sei?»

«Lui è un amico», risposi. Al si tolse la bistecca dal viso e mi sorrise.

Creed stava ancora guardando la porta con sguardo accigliato. «Siamo certi che è al sicuro lì dentro con quello?»

«Non le farebbe mai del male», dissi, guardando Al per avere conferma. Stephanie aveva detto che non aveva mai avuto un rapporto stretto con Michael, anche prima che la famiglia andasse in rovina, ma avevo visto il modo in cui lo sguardo di lui si era addolcito quando l’aveva vista. Per quanto potesse essere losco sotto altri aspetti, ci teneva alla sorella. Ne ero sicuro.

Creed grugnì e si appoggiò alla ringhiera del secondo piano. Al scese le scale e si sedette sul primo gradino, fissando in silenzio il parcheggio buio. Forse aveva intuito che i ragazzi mi dovevano parlare.

Cord mi posò una mano sulla spalla. «Stai bene?»

«Cosa? Sì che sto bene». Ero in piedi accanto a Creed. «Ve l’ha detto, eh?».

Creedence fece una smorfia, ed era evidente che nonostante i dubbi che nutriva su Stephanie gli dispiaceva davvero per quanto le era successo.

«Bastardi», borbottò, e sputò per terra.

Cord era ancora preoccupato. «Cos’avevi intenzione di fare quando sei venuto qui, Chase?»

«Merda, ma che ne so», sospirai. «Ma vederla così, sapere cosa le avevano fatto e che l’avevano fatta franca era insopportabile. Le ho promesso che avrei sistemato tutto. Ci dovevo provare, in qualche modo».

Cord scosse la testa. «Non funziona proprio così. La vendetta non guarisce il cuore».

«Lo so».

«Ce l’hai insegnato tu», intervenne Creed a bassa voce.

«Lo so», ripetei.

Se chiudevo gli occhi, riuscivo a vedere la disperazione nella voce di Stephanie mentre, tra i singhiozzi, mi raccontava i dettagli di ciò che aveva subito. Ma dovevo smetterla. C’erano troppe altre cose, cose belle, a cui pensare. Per molti versi, quella ragazza era una contraddizione vivente: sfacciata e complicata da una parte, timida e dolce dall’altra. Ne ero totalmente affascinato ogni giorno; volevo ogni centimetro del suo corpo e tutto il suo cuore. Lei il mio ce l’aveva già.

«La amo», dissi con voce rotta. Volevo che i ragazzi capissero.

«Allora amala», esortò Creed, e mi resi conto che aveva davvero capito. Dopotutto, mi stava ricordando una cosa che gli avevo insegnato io. Significava che quella notte non mi sarei dovuto allontanare da Stephanie, neanche per un attimo; significava che da quel momento in poi avrei dovuto starle accanto e dimenticarmi della vendetta e di tutte le altre cose che potevano finire male.

Non passò molto tempo prima che Stephanie aprisse la porta dell’appartamento. Allargai le braccia e mi fece un sorriso meraviglioso prima di farsi abbracciare.

«Ora possiamo andare a casa?», mi chiese, stringendomi forte.

«Sì, tesoro», le risposi, accarezzandole i capelli. «E ci possiamo restare».