Capitolo otto
Chase
Ero solo in casa quando Saylor e Cord arrivarono da Las Vegas.
«Mettimi giù», rise lei mentre entravano facendo un gran baccano.
«Col cavolo», rispose mio fratello. La teneva ancora in braccio quando furono in salotto.
«Ne deduco che la luna di miele è andata bene», gridai dalla cucina prima di infilarmi in bocca un’altra cucchiaiata di cereali.
Saylor si scostò i capelli dalla spalla e mi fece l’occhiolino. «Tuo fratello ha insistito per portarmi in braccio oltre ogni soglia del Paese». Sorrise a Cord. «Davvero, tesoro, ora puoi mettermi giù».
La posò a terra ma le tenne un braccio intorno alla vita.
«Mi siete mancati, ragazzi», dissi con sincerità. Era stato il periodo più lungo in cui non avevo visto Cordero. Inoltre, l’appartamento era stranamente vuoto senza di loro. Ero rimasto molto in camera mia e avevo cercato di non ascoltare Truly e Creed che ci davano dentro ogni sera in fondo al corridoio.
«Ohhh», ridacchiò Saylor, e venne da me per abbracciarmi. «Anche tu ci sei mancato, Chasyn».
Cord si sedette sulla sedia davanti a me. «Spero tu non abbia ucciso Creedence mentre non ero qui a impedirtelo».
«No, ma potrei averlo picchiato un po’. Ho buttato a terra quel ragazzone e l’ho fatto gridare come una donnina una dozzina di volte, prima di avere pietà di lui».
«Certo», ridacchiò Cord.
Saylor si stiracchiò. «Credo che mi butterò nella doccia e mi laverò di dosso la stanchezza del viaggio».
Cord le lanciò uno sguardo significativo. «Non finire prima che ti raggiunga».
Saylor gli sfiorò la guancia. «Non finirei mai senza di te, amore».
Mio fratello si mosse sulla sedia mentre guardava sua moglie sparire nel corridoio.
Risi. «Gli ormoni della gravidanza sono alle stelle, eh?».
Cord si mosse di nuovo. «Non sai quanto, figlio mio».
Grugnii e tornai a occuparmi dei miei cereali.
Cord mi diede un calcio sotto il tavolo e chiese: «Tu che mi dici?».
Feci il finto tonto. «Che ti dico?»
«Sei finito di nuovo insieme a Stephanie?»
«No». Lasciai cadere il cucchiaio nella scodella. «Non la vedo da Las Vegas. Ma seguiamo lo stesso corso, che inizia tra quattro ore».
«Non che tu stia contando i minuti che mancano».
«Fottiti».
Cord rise. «L’hai già detto a Creed?»
«Cristo santo, no. Pensa ancora che sia un’idea di merda».
«E tu sei sicuro che non lo sia?».
Misi la ciotola nel lavandino, sentendomi sempre più irritabile. Ogni volta che pensavo a Stephanie, e ci pensavo parecchio, c’erano due momenti in primo piano: uno era quando ero nella sua camera a Las Vegas, sopra di lei, mentre ansimava e mi pregava di entrare; l’altro era dieci minuti dopo, quando si era avvolta nel lenzuolo e mi aveva gridato di levarmi dai coglioni.
«No», risposi a mio fratello, «non sono sicuro che non sia un’idea di merda».
Cord mi stava fissando comprensivo. Incrociò le braccia e gli spuntò un sorrisino sulle labbra.
«Odio quando fate così», gli dissi. «Sia tu che Creed».
Il sorriso si allargò. «Fare cosa?»
«Vi sedete lì e mi esaminate come se nella mia testa non ci fossero segreti».
Mio fratello scoppiò a ridere. «Questa Stephanie ti piace. Lo puoi ammettere. Che succede, tu non piaci a lei?»
«Sì che le piaccio», borbottai. «Tranne quando cambia idea. E, a proposito, tu per me sei trasparente come io lo sono per te. Tipo quando eravamo ragazzini e avevamo appena imparato a cosa serviva l’uccello e tu te ne andavi tutti i giorni dietro il vecchio capannone a smanettarti. Perché l’hai sempre negato, Cordero? E so anche che ora ce l’hai duro da matti e hai solo voglia di sbatterti di nuovo tua moglie».
Cord rise di nuovo e si alzò. «Non essere così permaloso, Chase. Cerca solo di comportarti bene, okay? Vedrai che qualsiasi ragazza con cui valga la pena stare apprezzerà lo sforzo». Dopodiché si diresse verso il bagno dove Saylor era già sotto la doccia. Lo sentii sbottonarsi i pantaloni nel tragitto.
Dal momento che mi ero stancato di sentire persone che facevano sesso mentre io non battevo chiodo, andai in biblioteca. Trovai un tavolo isolato dietro pile di vecchi libri e mi sedetti, poi con tristezza tirai fuori il telefono e presi a fissarlo. Durante la settimana, avevo quasi chiamato Stephanie almeno una dozzina di volte, ma poi mi era mancato il coraggio. Nonostante non avessi parlato direttamente con Truly dal giorno in cui eravamo tornati da Las Vegas, Creedence mi avrebbe fatto il culo se avesse saputo cos’era successo. Visto che non mi aveva rotto le palle più del solito, immaginai che Stephanie non avesse detto niente a Truly. Non sapevo come interpretare la cosa: non sapevo se si sentiva in imbarazzo, se si vergognava o se era solo indifferente.
Controllai di nuovo l’ora. Era difficile che Stephanie saltasse una lezione, quindi immaginai che avrei avuto l’opportunità di chiederglielo direttamente entro breve. Rimisi in tasca il telefono e presi lo zaino. Mentre camminavo sotto l’onnipresente sole dell’Arizona, iniziai a rimpiangere di non aver stretto i denti e averla chiamata almeno una volta, in quegli ultimi giorni.
La lezione precedente non era ancora finita, quindi mi sedetti su una panchina in corridoio e aspettai. Stephanie di solito sgusciava in aula meno di un minuto prima dell’inizio della lezione, quindi non temevo di non riuscire a intercettarla.
A volte mi annoiavo a psicologia, quindi iniziavo a studiare le persone che mi stavano intorno. Mi sedevo sempre al centro dell’ultima fila per avere più visuale possibile. Eravamo a più di metà semestre; ogni cavolo di mercoledì o venerdì pomeriggio, tra centosessanta e i duecentoundici persone si presentavano per ascoltare un’ora e un quarto di cani di Pavlov o del complesso di Edipo. La maggior parte della gente restava incollata al telefono, cercava futuri partner sessuali o fissava il soffitto a bocca aperta mentre il professor De Range si dedicava a trasmettere il sapere.
Stephanie era un caso a sé: non dormiva mai sul banco né mostrava il minimo interesse per le persone che la circondavano, alcune delle quali erano ragazzi che cercavano un qualsiasi segnale che li avesse notati. Steph sembrava sempre seguire attentamente la lezione; solo un osservatore acuto avrebbe notato che i suoi occhi erano di rado concentrati sul professore: gli guardava attraverso, oltre la finestra, oppure fissava un punto nel muro mentre muoveva la penna tra le dita. Era sempre tesa, come se nella sua testa ci fosse un chiasso infernale che non aveva nulla a che fare con i dettagli della psicanalisi di Freud. I nostri sguardi si erano incrociati qualche volta prima che ci conoscessimo, e avevo capito che anche allora stava cercando di convincersi che non ero niente di speciale. Poi, quando avevo scoperto che era la coinquilina di Truly, avevo immaginato che fosse la migliore opportunità che potessi avere.
Naturalmente Stephanie mi aveva respinto quando le avevo chiesto di uscire, ma tanto non ero serio e mi aspettavo dicesse di no. Fin dalla prima volta che le avevo parlato, quando le avevo detto di mettersi un vestito e venire con me a mangiare un cestino di pollo fritto alla Gallina Pazza, mi ero reso conto di quanto mi eccitasse farla arrabbiare. A Las Vegas ero al limite, soprattutto perché non battevo chiodo da quando mi ero disintossicato. Non avevo mai desiderato niente così tanto come avere Stephanie Bransky nuda e disponibile.
«Ciao, Chase», salutò una voce allegra, e alzai lo sguardo. Si chiamava Robin ed era una cheerleader, quindi la vedevo spesso quando lavoravo come addetto alla sicurezza alle partite di football. Era carina, e quando era iniziata la stagione, in agosto, mi aveva fatto una sega. In quel momento, però, avrei voluto cancellare quei dieci minuti di divertimento di due mesi prima, perché evidentemente lei ci stava ancora pensando.
«Ciao, Robin». Le sorrisi perché non volevo fare lo stronzo.
Si guardò intorno. «Che stai facendo?». Me lo chiedeva ogni volta che parlavamo. Ogni cacchio di volta.
«Aspetto che inizi la lezione».
«Ah», annuì. “Ah” era un’altra cosa che diceva spesso. Infilò una mano in tasca e tirò fuori una catenina d’oro, poi sorrise con dolcezza. «Mi aiuti a metterla? Il gancio è un po’ duro».
Resistetti all’impulso di sospirare. Era una cazzata, non aveva bisogno di aiuto con la catenina, voleva solo che la toccassi. Maledissi di nuovo la mia mancanza di discrezione. Non avevo bisogno di una ragazza appiccicosa appesa al braccio mentre cercavo di fare progressi con Stephanie. Ma non potevo fare lo stronzo con Robin solo perché le piacevo, quindi la aiutai con la catenina mentre la lezione finiva e gli studenti si riversavano nel corridoio.
«Ecco», borbottai, chiudendo veloce il gancio mentre lei teneva su i capelli e cercava di strusciare il sedere sul mio pacco.
Si girò e mi sorrise. «Grazie». Mi restò più vicina del necessario e mi cinse i fianchi anche se non avevo fatto un cavolo per incoraggiarla.
Pessimo tempismo: Stephanie era arrivata ed era a poco più di un metro di distanza. Mi fissò, il suo viso era impassibile. Poi scosse la testa e mi diede una spallata mentre entrava stizzita in aula.
«Merda», imprecai, dimenticandomi di Robin.
Stephanie si sedeva sempre a sinistra, in fondo. La seguii e mi sedetti accanto a lei. Finse di non notarmi e sospirai. Robin o meno, che cavolo pensavo sarebbe successo quando avrei rivisto Stephanie? Non era come le altre ragazze, non mi si sarebbe lanciata addosso né avrebbe sorriso solo perché le rivolgevo la parola.
Cavolo, volevo parlarle. Volevo che almeno mi guardasse.
L’aula si riempì rapidamente e il brusio si calmò quando il professor De Range entrò e si lanciò in una lungo e noiosissimo discorso sugli stati di coscienza. Studiai il profilo di Stephanie: c’era qualcosa di leggermente diverso in lei. La maglietta che indossava non era uno dei soliti modelli sformati in cui tendeva a nascondere il corpo, era una maglietta blu navy più aderente con lo scollo a V. Il suo viso era bello senza bisogno di trucco, ma sembrava avesse un po’ di rossetto. Mi stava facendo impazzire. Non potevo stare lì seduto a guardarla in silenzio per l’ora successiva senza andare fuori di testa.
«Ehi», sussurrai, sfiorandole il braccio con le nocche.
Si scansò e mi lanciò uno sguardo duro. Sorrisi. Lei non ricambiò. Decisi di essere sfrontato e avvolsi le spalle con un braccio, poi mi sporsi e le sussurrai: «Vieni fuori con me».
«Hai già abbastanza amiche, Chase», sibilò. «Non hai bisogno di me, che cazzo».
«Sì che ho bisogno di te, Steph. Ti voglio».
Mi era sfuggito. E mi resi conto di quanto avevo parlato ad alta voce quando una cinquantina dei miei colleghi e il professore si girarono a fissarmi. Per Stephanie fu abbastanza. Con il viso rosso, afferrò lo zaino e corse fuori. Dovevo seguirla. Era veloce.