Capitolo sette

Stephanie

Truly non lo sapeva. Avevo passato ore temendo il momento in cui sarebbe entrata, perché immaginavo mi avrebbe riferito la versione di Chase riguardo gli eventi della sera prima. Ma, incredibilmente, arrivò a casa nel tardo pomeriggio, coccolò la gatta e si cambiò prima di andare al lavoro, senza dire neanche una parola di rimprovero o compassione. Aveva notato il modo in cui le stavo andando dietro e mi aveva guardata in modo strano prima di fermarsi davanti allo specchio del bagno per truccarsi.

«Che succede, Steph?»

«Niente», borbottai, appoggiandomi contro il muro.

Truly mi sorrise assente e applicò un po’ di rossetto sulle labbra. Non c’era niente di falso in lei: se avesse saputo di me e Chase, non l’avrebbe nascosto.

Mi schiarii la gola, pensando di dover confessare. «Ehm… Senti, Truly…».

Mi guardò e mi mancò il coraggio. «Grazie per avermi convinta ad andare al matrimonio», le dissi invece. «È stata una cerimonia piacevole, ed è stato bello stare fuori città per un paio di giorni».

«Figurati», sorrise. «Mi fa piacere che ti sia divertita, anche se ci saresti dovuta essere stamattina per vedere il muso lungo di Chase perché non c’eri».

«Davvero?», chiesi un po’ stordita.

«Già. Creed dice che Chase è fin troppo abituato a ottenere quello che vuole. Potrebbe fargli bene aver incontrato una ragazza che gli dice di no».

Ah, ma non gli ho detto di no, Truly. Sono andata fino in fondo e ho pregato di avere di più.

Risi, staccando un pezzetto di intonaco. «Sì, immagino di sì».

Truly percepì che c’era qualcosa di strano. Aggrottò leggermente le sopracciglia e poi uscì dal bagno, i suoi occhi scuri mi osservavano in modo comprensivo. «So che non ti va tutto bene, Steph. So che sei ferita e non ti chiederò più di parlarmene. Ti prego, non pensare che sto cercando di farti pressioni. Non è così». Sospirò. «Per quanto riguarda Chase, forse è meglio se gli stai alla larga. È un ragazzo dolce che ha i suoi problemi, ma non saprei dirti dove ha la testa. E, anche se gli voglio un bene dell’anima, se facesse qualcosa per ferirti temo che le cose cambierebbero».

Non ci sarebbe mai stata un’amica migliore di Truly Lee. Almeno, non nella mia vita. Un tempo avevo moltissimi amici, ma si erano mostrati per quello che erano veramente quando la mia famiglia era caduta in disgrazia. Nessuno alla White Hills voleva essere associato alla figlia di un galeotto, sorella di un criminale assassinato. Sapevo che se ci fosse stata Truly mi sarebbe rimasta accanto. Non ne dubitavo affatto.

«Tranquilla», le dissi. «È già abbastanza difficile cercare di risolvere i miei casini, al momento non ho intenzione di aggiungere anche quelli di qualcun altro».

«Un giorno», rispose con serenità, ed era in buona fede. Sapeva di cosa stava parlando: aveva avuto i suoi trascorsi dolorosi da affrontare prima di trovare Creed.

Dopo che uscì per andare al lavoro, girovagai per casa per un po’. Gestire un giro di scommesse sportive mi aveva tenuta impegnata per così tanto tempo che tra il lavoro e l’università avevo a malapena il tempo di fermarmi a pensare. Ma ora ne avevo fin troppo.

Le prime due settimane, i miei clienti continuavano a chiamarmi; volevano sapere perché ero sparita dalla faccia della terra. Li avevo mandati da Alonzo perché non sapevo che altro rispondere. Avevo incontrato Alonzo la settimana prima all’Insalata e Dintorni e mi aveva guardata a bocca aperta, come se avesse visto un fantasma, perché non ci eravamo più sentiti da quella sera. Non era stato uno di quelli che aveva gridato e fatto video; era rimasto lì in silenzio a testa bassa, poi mi aveva allungato i vestiti quando Xavier aveva stabilito che ne avevo avuto abbastanza.

Alonzo doveva aver pensato al suo amico morto mentre mi guardava. Probabilmente era dispiaciuto perché era la sorella di Robbie quella che veniva umiliata davanti ai suoi occhi. Ma mi aveva avvertita di non superare mai i limiti con Xavier. Non odiavo Alonzo. Ma altroché se odiavo Xavier.

Xavier Monroe era in cima alla catena alimentare, nella zona. Non si poteva gestire un giro decente di scommesse sportive senza il suo permesso, e aveva dozzine di sub-allibratori che spremevano gli ingenui universitari locali. Quando l’avevo conosciuto, avevo capito che non considerava molto le donne, se non sotto l’aspetto fisico, ma sorrise quando sentì che ero la figlia di Nick Bransky.

«Allora ce l’hai nel sangue», rise, e mi permise di entrare nella sua squadra. «Non ricordare a tutti che hai la figa e potresti farcela».

Per un po’, le cose erano filate lisce. Ero molto puntigliosa e non tolleravo le cazzate. Quando qualche ragazzo mi chiamava alle otto di mattina, con i postumi della sbornia e preso dal panico per aver sperperato tutti i soldi per le spese mensili, provava spesso a raccontarmi una favoletta.

«No, no. Non ho puntato sulla Tulane. Cazzo, sono sicuro di non aver puntato sulla Tulane. Ho puntato sulla Wake Forest. Stai cercando di incularmi, brutta stronza».

Non avevo mai ceduto; non ero così ingenua da commettere errori del genere. Mio padre annotava tutto in modo maniacale, e io ripetevo sempre la puntata, la scrivevo, la ripetevo di nuovo e la facevo ripetere ancora una volta a chi chiamava. Per quanto riguardava il bugiardo che sudava sette camicie dall’altra parte del telefono, gli facevo sapere che, a meno che non mi avesse dato quello che mi doveva, nessun allibratore gli avrebbe rivolto la parola finché sarebbe rimasto nel Sud-est. Inoltre, avrebbe dovuto guardarsi le spalle per un po’, nel caso in cui Xavier avesse deciso che doveva imparare la lezione.

Pensavo che le tragedie della mia vita e lo stato di necessità avessero eliminato ogni briciolo di pietà che provavo, ma a quanto pareva non era così, perché quando un giovane padre mi aveva supplicato di aiutarlo, avevo ceduto. Forse era stata la mia parte migliore che era tornata in superficie, o forse ero alla resa dei conti. Mio padre stesso diceva che prima o poi sarebbe arrivata per tutti, e lui lo sapeva bene.

Jose Renato era un mio cliente abituale. Con un neonato all’ospedale che aveva bisogno di cure mediche costose, era ossessionato dalla possibilità di fare il colpaccio. Avevo capito subito cosa mi stava chiedendo e conoscevo le quote. Gli avevo detto in piena sincerità che avrebbe avuto più fortuna con la lotteria.

«Non farlo», gli avevo detto chiaro e tondo. «Se vuoi scommettere sulla differenza punti più commissioni in qualsiasi partita della National Football League va bene, ma niente puntate inverse, bello. Saresti fottuto».

Jose sospirò. «Ti rifiuti di prendere i miei soldi?»

«In questo caso, assolutamente sì».

Jose non mi aveva dato retta. Qualcuno l’aveva messo in contatto con Dustin O’Shea, un viscido che lavorava per Xavier e che avrebbe venduto senza battere ciglio pure sua madre.

Non l’avevo scoperto finché Jose non mi aveva chiamata.

«Avevi ragione», aveva detto, e nella sua voce avevo sentito il senso di sconfitta.

«Quant’è grave?», avevo chiesto, lasciandomi sfuggire un sibilo quando mi aveva riferito le cifre. Quel poveraccio, già disperato e con il cuore a pezzi, si era inguaiato per diecimila dollari. Non era una cosa che Xavier avrebbe lasciato correre.

«D’accordo», avevo detto sfregandomi gli occhi e cercando di elaborare un piano. «Mantieni un basso profilo, resta con tuo figlio in ospedale e vedo che posso fare per tirarti fuori da questa situazione».

Jose tossì. «Non mi devi niente, Stephanie».

«Forse. O forse devo un sacco di cose a un sacco di persone».

Dopo aver chiuso la chiamata, avevo telefonato a Dustin e gli avevo urlato contro per avermi rubato un cliente, dicendo che Xavier non sarebbe stato contento.

«Hai ragione», aveva risposto, e avevo sentito il sorriso nella sua voce. «Xavier non è per niente contento, stronza. Hai rifiutato di accettare scommesse fruttuose perché hai ragionato con la figa».

Mi si era gelato il sangue. Avevo lanciato il telefono e avevo imprecato a raffica. Dovevo aver fatto un bel po’ di casino, perché Truly si era fermata fuori dalla porta della mia camera e mi aveva chiesto preoccupata se fosse tutto a posto. Le avevo risposto che stavo bene.

Era stato Alonzo a venirmi a prendere. C’erano lui e altri due tizi che avevo riconosciuto essere dei tirapiedi di Xavier. Per fortuna Truly era già andata al lavoro; non volevo che si ritrovasse coinvolta nei miei casini, e quelle due bestie vicino ad Alonzo avrebbero potuto cercare di farle qualcosa.

Per quanto riguardava l’amico di mio fratello, aveva una faccia smunta e addolorata. «Forza, Steph», aveva detto tristemente, «Xavier vuole vederti».

Xavier gestiva la sua attività da un vecchio locale chiuso che aveva preso in affitto nel centro di Phoenix. Mi ero seduta sul sedile posteriore vicino ad Alonzo, mentre gli scagnozzi di Xavier erano davanti. Gli avevo lanciato un paio di occhiate interrogative, ma lui non mi aveva mai guardata. L’avevo preso come un brutto segno.

Uno dei tizi mi aveva tirata fuori dalla macchina e mi aveva trascinata alla porta. Ero riuscita a liberare il braccio e l’avevo spinto.

Alonzo si era subito avvicinato. «Stai calma», mi aveva sussurrato, «non peggiorare le cose».

Xavier stava aspettando dietro un tavolo sul retro del bar poco illuminato. Soffriva di una qualche malattia per cui non poteva stare molto al sole; era sempre coperto dalla testa ai piedi. Bella sfortuna, visto che si trovava in uno dei posti più caldi della Terra.

Mentre gli occhi si abituavano, mi ero resa conto che c’erano anche altri uomini. Alcuni li avevo riconosciuti, altri non li avevo mai visti.

Ero rimasta davanti a Xavier a testa alta. Quanto poteva essere brutta la situazione? Non era il torto peggiore del mondo rifiutare una scommessa, se faceva pena. L’unico problema era che sapevo che non lo era dal punto di vista dell’allibratore. Era una vincita assicurata. E io non lavoravo in proprio, ma lavoravo per Xavier. Non potevo permettermi il lusso di avere una coscienza.

C’era anche un secondo problema: quando avevo conosciuto Xavier, avevo capito che era il tipo d’uomo che non aveva una grande considerazione delle donne, a meno che non fossero sdraiate. Mentre ero in piedi in quel locale traboccante di ostilità, mi ero resa conto di essermi sbagliata. Xavier non aveva scarsa considerazione delle donne: le odiava. Mi odiava.

«Sapevo che non sarebbe riuscito a coprirla», mi ero giustificata, cercando invano di nascondere il panico della voce.

Xavier annuì. «Be’, qualcuno deve farlo».

Incrociai le braccia. «Prenditi i soldi dalla mia parte. Che cavolo, tanto recupererò durante il precampionato della NFL».

Xavier rise, e gli altri uomini presenti si unirono a lui. «Non è abbastanza», rispose in tono gelido.

«Be’, e che cazzo vuoi?». Indicai la stanza. «Una gang bang del dopocena?». Mentre pronunciavo quelle parole avevo una paura folle che rispondesse di sì. Non avrei ceduto senza lottare, avrebbero dovuto uccidermi.

«Nooo», aveva detto piano, godendo senza nasconderlo della mia paura. Mi aveva squadrata con freddezza e aveva indicato la zona buia alle sue spalle, illuminata all’improvviso da un faro.

«Sali sul palco, Stephanie Bransky. Sarai la star».

E poi mi aveva detto cosa dovevo fare.

Avevo pianto solo una volta, quando la ferita era ancora fresca e stavo così male da avere la sensazione di non poter vivere con me stessa. Quella notte, dopo che Alonzo mi aveva riaccompagnata, mi ero fiondata dentro casa singhiozzando e avevo spaventato a morte Truly. Le lacrime si erano fermate presto, ma la mia paranoia era aumentata. Ero pietrificata da quello che Xavier mi aveva fatto. Avevo iniziato a dormire con una mazza da baseball, e avevo quasi colpito Truly quando l’avevo scambiata per un intruso. Era stato a quel punto che mi aveva fatta sedere e mi aveva costretta a raccontarle un paio di cose su di me.

Quando il sole iniziò a tramontare all’orizzonte, portai una delle sedie della cucina nel cortile sul retro e mi sedetti al buio. Ricordai che avevo un esame imminente ma ero troppo distratta per affrontare modelli finanziari, in quel momento.

La mia mente non era piena solo di paure e brutti ricordi. Per quanto non lo volessi, Chase mi era entrato sottopelle. Capii che era inutile pensare a lui in quel modo: avrebbe significato desiderare che fosse diverso da com’era e sperare che mi avrebbe considerata come qualcosa di più di un buco in cui infilare l’uccello. Ma per un po’, quando Chase mi aveva tenuta tra le braccia, prima che entrambi fossimo travolti dalla passione, mi ero sciolta per la sua forza, per la sua determinazione. Ormai, tutto ciò che riuscivo a ricordare era quanto mi fossi sentita bene e al sicuro tra le sue braccia.