Capitolo venticinque
Stephanie
Quando uscii dal bagno, Chase era andato via.
Quella situazione gli aveva spezzato il cuore, per quanto avesse provato a nascondermelo. Mentre ero in piedi a respirare il vapore della doccia, cercando di sentirmi di nuovo normale, fui tormentata dal suo dolore.
Dopo aver tamponato i capelli con un asciugamano ed essermi messa addosso vestiti puliti, volevo solo che mi stringesse a sé: l’unico posto sicuro al mondo erano le sue braccia.
Rimasi perplessa quando non lo trovai. Non se ne sarebbe andato senza un buon motivo. Lo schermo del mio telefono lampeggiava e c’erano un sacco di messaggi, messaggi terribili di persone che avevano visto il video e pensavano di sapere cosa ci fosse dietro. Tra quelli, c’era anche il messaggio di Chase.
“Ti amo, Steph”.
“Dove sei?”, gli risposi.
Aspettai. Feci avanti e indietro, impaziente, continuando a guardare l’orologio. Passarono dieci minuti, ancora nessuna risposta. L’inquietudine che mi attanagliava lo stomaco diventava più forte ogni secondo che passava.
Perché non rispondeva?
Chase non mi dava la colpa, quello lo sapevo. La sua espressione era afflitta e si era asciugato subito la lacrima che non voleva vedessi. Ma aveva continuato a chiedermi chi mi avesse fatto del male.
Mi bloccai. Dal video non avrebbe potuto ricavare niente: ero visibile solo io, gli uomini erano rimasti dietro l’obiettivo. Ma Chase era intelligente, e se era deciso a trovare Xavier e Dustin e tutti quelli che mi avevano umiliata, avrebbe trovato il modo. La sua impulsività e il desiderio di vendetta l’avrebbero portato dritto nella traiettoria di uomini molto pericolosi. Merda. Non avrei lasciato che succedesse.
Cinque minuti dopo stavo bussando alla porta dell’appartamento che Chase condivideva con i suoi fratelli e Saylor. Ovviamente non fu lei ad aprire. E nemmeno Cord. Fu Creed. Era sudato e senza maglietta, come se stesse facendo attività fisica.
Inarcò le sopracciglia e restò sulla soglia. «Sì?».
Risposi con il suo stesso sguardo storto. «C’è Saylor?»
«No».
«Ah. E Cord?».
Sibilò. «No. E non c’è nemmeno Truly. E neanche Chase, ma immagino tu lo sappia già. Ci sono io».
Così non ne sarei uscita. Iniziai ad allontanarmi, pensando di andare allo studio di tatuaggi in cui lavorava Cord.
«Stephanie».
Mi girai. Creedence Gentry mi guardava con uno sguardo sospettoso e irritato. Sospirò.
«Cosa vuoi?», chiese, e il suo tono si era addolcito. Immaginai dovesse essere stato uno sforzo enorme per lui.
Scalciai la ghiaia ai lati del marciapiedi. «Devi chiamare Chase. Non mi risponde».
Sentii l’improvvisa tensione di Creed a tre metri di distanza. «Perché? Che succede?».
Feci un respiro profondo e lo guardai negli occhi. Non era più ostile, era preoccupato. Aprii la bocca per raccontargli il motivo, ma non riuscivo a parlare, quindi tirai fuori il telefono dalla tasca e aprii il video: avrebbe parlato per me. Dopotutto, cosa importava se Creed lo vedeva? L’avevano visto tutti, che cazzo.
Mi prese il telefono e fece partire il video. Si fece subito confuso. «Non capisco».
«Sono io…», iniziai a spiegare, ma mi interruppe.
«Sì, quello lo vedo. Quindi cos’è, sei una spogliarellista? Non l’avrei mai detto, tutto qui. Che cavolo c’entra questo con mio fratello?»
«Non sono una spogliarellista!», gridai.
Abbassò lo sguardo sul telefono. Il video stava andando avanti. Creed schioccò la lingua. «Questo dimostra il contrario».
«Porca puttana, ti giuro su Dio che non sono una spogliarellista!». Ecco, un altro attacco isterico. Rimasi in piedi sulla soglia a singhiozzare come una bambina di cinque anni.
Bisognava dargliene atto: Creed decise di non fare più lo stronzo. «Ehi», disse piano. «Forza, Stephanie, entra».
Barcollai dentro casa. Creed mi restituì il telefono, chiuse la porta e mi fece sedere sul divano. Restò lì vicino per un attimo, guardandomi mentre tentavo di riprendere il controllo. Sparì per qualche secondo e tornò con una scatola di fazzoletti. Li usai.
Creed si sedette accanto a me e aspettò. Gli raccontai tutto con titubanza, fermandomi solo per asciugarmi gli occhi e fare respiri profondi. Senza fare nomi, gli dissi di Xavier e di cos’era successo la notte in cui era stato fatto quel video. Gli raccontai che quel pomeriggio avevo pianto tra le braccia di Chase e gli riferii quello che mi aveva detto prima di andarsene.
«Sistemerò tutto, tesoro».
Quando finii di parlare, Creed mi prese di nuovo il telefono. Sapevo chi stava chiamando.
«Non risponde», dissi in tono piatto.
Creed scosse la testa e allontanò il telefono dall’orecchio, fissandolo come se potesse obbligare Chase a rispondere. Fece un’altra chiamata.
«Sono io, Cordero. Devi venire a casa, è successa una cosa».
Mentre aspettavamo che Cord arrivasse, sarebbe stato difficile stabilire chi fosse più a disagio tra me e Creed. Senza dire niente, andò in cucina e mi portò un bicchiere d’acqua.
«Grazie», farfugliai. Lui sospirò e si risedette. Bevvi l’acqua e cercai di calmarmi. «Mi dispiace per tutto questo».
Creed mi guardò con tristezza. «Quello che ti hanno fatto quelle bestie è terribile. Li vorrei quasi uccidere, quindi posso immaginare come si senta mio fratello».
In quel momento Cord spalancò la porta e si precipitò dentro casa. Corse nel salotto, confuso e col fiato corto. «Be’, ora che mi hai fatto cagare addosso dalla paura, che ne dici di raccontarmi che succede? Dov’è Saylor?»
«Ancora al lavoro».
Cord mi guardò. «Dov’è Chase?»
«È per questo che siamo tutti qui».
Tenni la testa bassa mentre Creed spiegava la situazione. Cord imprecò e si sedette accanto a me. Sapeva, senza bisogno di dirlo, cos’era andato a fare Chase.
«Hai idea di dove potrebbe aver cominciato a cercare?», mi chiese.
Scrollai le spalle. «In realtà non ha indizi. Non ho mai fatto nomi e non c’è niente che possa collegarlo a…». Mi bloccai. I fratelli si sporsero in avanti e aspettarono che finissi la frase.
C’era qualcosa che lo collegava a quel mondo: avevamo un amico in comune. La sera prima Chase aveva anche ammesso che l’uomo che un pomeriggio avevo visto con lui in un parcheggio non era solo un conoscente della riabilitazione.
Eppure, Chase non aveva motivo di credere che Alonzo avesse qualcosa a che fare con il video.
Con ansia crescente, tirai fuori il telefono e avviai il video. Creed mi posò una mano sulla spalla. «Non c’è bisogno di vederlo, Steph».
«Sì, invece». Dovevamo sapere se si vedeva qualcuno che Chase avrebbe potuto riconoscere. Cord non riusciva a guardare: lanciò un’occhiata allo schermo e il suo viso assunse un’espressione compassionevole che non agli avevo mai visto prima, poi distolse lo sguardo. Creed osservò con freddezza lo spettacolo della mia umiliazione. Sapevo che era addolorato, che stava pensando a come avrebbe reagito se Truly fosse stata al mio posto. Si stava mettendo nei panni di Chase.
Alla fine, quando mancavano pochi secondi alla fine del video, trovai quello che temevo. C’era qualcuno che riuscii a identificare con chiarezza, anche se aveva la testa bassa e le spalle incurvate. Era salito sui gradini del palchetto e mi si era avvicinato, porgendomi i vestiti. Digitai il numero senza esitare.
«Perché cavolo nessuno risponde al telefono? Alonzo, sono Stephanie. Devi richiamarmi subito. Subito, porca puttana!».
I fratelli di Chase erano già in piedi prima che avessi finito di gridare al telefono.
«Sai dove trovare questo tizio?», mi chiese Creed.
«So dove abita», risposi. «Guido io».
Era strano essere da sola con i fratelli di Chase. Nell’abitacolo buio si somigliavano di più, somigliavano di più a lui, in un modo che mi fece stringere lo stomaco. Volevo solo trovare Chase e portarlo a casa.
«Non è violento», dissi ad alta voce, forse più che altro per convincere me stessa.
«No», confermò Cord dal sedile posteriore.
«Non di solito», dichiarò Creed, tamburellando le dita sulle gambe mentre ansioso guardava fuori dal finestrino.
Cord sospirò. «Si sono invertiti i ruoli ora», disse.
«L’ho pensato anch’io», commentò piano Creed.
«Che volete dire?».
Fu Cord a darmi una spiegazione. «Sai che Chase è stato aggredito, vero? Che dei pezzi di merda l’hanno attaccato alle spalle e l’hanno quasi ammazzato?».
Tremai. Ovviamente avevo visto le cicatrici, ma non gli piaceva parlare dell’aggressione. Era stato in quel brutto periodo che aveva iniziato a prendere le pillole che sarebbero diventate un problema che non era riuscito a gestire da solo.
«Avevamo scoperto chi erano i colpevoli», continuò Cord. «Avevamo intenzione di fargliela pagare a tutti i costi, al diavolo le conseguenze. Sangue, galera, non importava. Volevamo solo che quei bastardi avessero quello che meritavano».
Creed intervenne. «Chase ci ha chiesto di dimenticare la vendetta e stare con lui. Ci ha pregati».
Non conoscevo quella parte della storia. «E l’avete fatto?»
«No», ammise Creed. «Io no. Per fortuna, Cordero sa ascoltare meglio di me. Si è messo tra me e la violenza. E poi siamo tornati da Chase, dove dovevamo essere». Espirò, tenendosi la testa tra le mani. «Questa situazione lo starà uccidendo».
«Lo so», gracchiai, pensando a quando avevo visto l’espressione di Chase poco prima. Cord allungò una mano e mi diede una pacca rassicurante sulla spalla.
«Eccoci», dissi, fermandomi davanti al piccolo edificio malandato in cui c’era il monolocale di Alonzo.
«E lì c’è il furgone», indicò Cord aprendo la portiera.
Creed saltò giù e fu il primo a raggiungere la Chevrolet parcheggiata male. Entrambi guardarono dai finestrini e osservarono l’ombra, come se Chase potesse materializzarsi in qualche modo.
«Qual è l’appartamento?», chiese Cord.
«Non lo so», ammisi. I fratelli si guardarono intorno incerti, ma io andai a grandi passi alla prima porta che vidi e iniziai a bussare.
Aprì un ragazzo asiatico che sembrava particolarmente infastidito dall’interruzione.
«Conosci uno che si chiama Alonzo?», gli chiesi.
«No», rispose seccamente, poi sbatté la porta.
«Stronzo», borbottai, e sentii Creed ridacchiare. In realtà, mi stava guardando con qualcosa di molto simile al rispetto, quando andai alla porta successiva e ripetei la scenetta. Alla fine, dopo altre tre porte, una donna bionda con una brutta cicatrice sulla guancia annuì stancamente quando nominai Alonzo. Mi disse che abitava proprio sopra di lei.
«Aspetta», ringhiò Creed tirandomi indietro quando iniziai a salire le scale. Insistette per essere il primo della fila e fece un cenno a Cord di tenermi dietro di lui. Immaginai stessero cercando di proteggermi, ma quello era il mio mondo. Era il mio casino, e dovevo essere la prima ad affrontarlo.
Cord fu sorpreso quando lo superai con uno scatto, e Creed imprecò quando lo spinsi di lato per raggiungere la porta.
«Alonzo!», gridai, prendendo a calci la parte inferiore della porta. «Apri questa cavolo di porta!».
Probabilmente se l’aspettava. Aprì la porta così all’improvviso che quasi cascai dentro l’appartamento. Creed mi afferrò e cercò di mettersi davanti a me per proteggermi, ma non avevo intenzione di lasciarglielo fare. Mi liberai dalla sua presa e affrontai l’uomo che era stato amico di mio fratello, che forse era ancora amico mio.
«Entrate», disse Alonzo in tono pacato mentre teneva aperta la porta. La parte destra del viso era gonfia e non sembrava sorpreso di vederci.
«Chase!».
Era in piedi accanto a un vecchio divano, ma si mosse subito e mi strinse in un abbraccio fortissimo prima ancora che riuscissi a fare un altro passo verso di lui. Non riuscivo a parlare, riuscivo solo a godere della sua stretta solida.
«Andiamo a casa», sussurrai, ma lui scosse la testa. Si girò per guardare una persona. Quando ero entrata, avevo avuto occhi solo per Chase, quindi non avevo notato l’uomo seduto sul divano alle sue spalle.
«Ciao, Steffie», disse piano l’uomo, e io mi limitai a fissarlo.