Capitolo sei
Chase
Quando ci si sta disintossicando, è normale sognare di arrendersi alla propria dipendenza, di ricadere tra le grinfie di quegli stessi demoni da cui ci si stava liberando. Quindi non ero mai sorpreso di svegliarmi con la terribile sicurezza di essere tornato al punto di partenza. Quando riaprivo gli occhi e sentivo il sudore freddo sulla pelle, per un attimo ero sicuro che ogni giorno in cui avevo lottato in quell’ultimo mese era stato inutile.
Quella volta avevo sognato una scorta segreta di Vicodin che a Cord era sfuggita quando il mese prima mi aveva ripulito la stanza. Avevo ingoiato le pasticche avidamente, dicendomi che era solo per il dolore che ancora sentivo dopo mesi dall’intervento chirurgico. Anche il mio inconscio mentiva: l’unico vero dolore era nella mia testa.
Dopo che nel sogno avevo finito le pastiglie, avevo iniziato a cercare altro. Mi sentivo stordito, era una bella sensazione, ma stava anche passando l’effetto sedativo. Volevo solo stare bene. Avevo iniziato a cercare con frenesia sotto il materasso e nei cassetti. Il mio battito era terribilmente forte e stavo iniziando a disperarmi. Dovevo andare via dalla stanza, dall’edificio, dallo Stato prima di affogare nell’oblio. Quando era comparso un tavolo con la superficie di vetro graffiata non mi ero stupito: dopotutto era familiare, dal momento che aveva occupato un angolo del piccolo salotto nella casa della mia infanzia. Sopra vi erano sparse un bel po’ di pasticche colorate. Non sapevo di cos’erano, ma sapevo che dovevo mandarne giù un po’ per stare meglio.
Ne avevo preso una manciata con l’intenzione di ficcarmele in gola e sbattermene delle conseguenze, ma senza volerlo avevo anche ripulito una porzione del tavolo. Quando avevo sbattuto le palpebre, avevo visto attraverso il vetro. C’era qualcosa sotto il tavolo; non volevo vedere cosa fosse, ma non avevo scelta. All’improvviso ero a Emblem, nel posto che volevo lasciarmi alle spalle anche se non ci riuscivo. Da una finestra sporca filtrava la luce del sole che mi permetteva di vedere cosa c’era sotto il tavolo. Era un cadavere. Avevo guardato gli occhi spenti di mia madre e tutto era diventato scuro.
Nel momento in cui riaprii gli occhi, sapevo che era stato un incubo. Non ero a Emblem, non ero neanche nell’appartamento che condividevo con i miei fratelli e Saylor. Ero da solo nella stanza di un albergo a Las Vegas.
Le tende pesanti erano state tirate la sera prima, quindi anche se la sveglia sul comodino diceva che erano le otto di mattina passate, la stanza era buia come se fosse stata mezzanotte. Ero sdraiato sopra le coperte, nudo e sudato, anche se non per un buon motivo. Cercai di scacciare dagli occhi le immagini del sogno, ma la brutta sensazione che sentivo era più difficile da far sparire. Cord era perseguitato da incubi vividi fin da quando eravamo bambini. Era stato solo in quegli ultimi mesi, da quando aveva trovato Saylor, che le urla e i pianti durante il sonno erano spariti. I miei erano una novità.
Anche se gli effetti immediati del sogno erano spariti, provavo ancora un senso di colpa terribile. Non era reale. Era il rimorso per aver inciampato ed essere caduto, per essere tornato alle pillole anche se non l’avevo davvero fatto. Il ricordo del cadavere di mia madre mi fece trasalire e chiusi di nuovo gli occhi. Non era morta, non ancora, anche se l’ultima volta che l’avevo vista era praticamente un cadavere animato. E l’avevo lasciata lì. L’avevo lasciata lì con lui. I ragazzi avevano sempre sostenuto che non potevamo fare nient’altro per Maggie Gentry. E, con molta probabilità, avevano ragione.
Feci una serie di respiri profondi e indirizzai la mente verso qualsiasi cosa che non fosse Emblem. La prima cosa a cui pensai fu Stephanie e mi eccitai all’istante. Ora, l’accoppiamento selvaggio nella sua stanza non era stato un sogno. Steph non era come pensavo. Credevo che tra le lenzuola fosse scatenata, che sfogasse la stronzaggine con il sesso violento, e non vedevo l’ora di averla alla mia mercé. Ma sul momento mi ero reso conto che era molto più titubante, e molto meno esperta, di quanto credevo. Stephanie Bransky, con il suo modo aspro di parlare e l’atteggiamento duro, era in realtà timida. Incredibilmente, la sua ritrosia mi aveva eccitato ancora di più, mi aveva fatto venire voglia di farla cedere pian piano. Stephanie era una ragazza bellissima che cercava di non esserlo. Mi chiesi se avessi combinato un casino, seducendola così in fretta.
La volevo rivedere, non solo perché ce l’avevo duro come una spranga di ferro e volevo risolvere la situazione, ma perché non mi era piaciuto come ci eravamo lasciati la sera prima. Abbassai la mano e iniziai a massaggiarmi pigramente riassaporando la sensazione di pura beatitudine di quando ero affondato nella sua femminilità stretta. Era incredibile: una tentatrice innocente che sembrava essere uscita da un quadro del Novecento. Era una combinazione delle mie fantasie, quello che avevo sempre cercato da quando avevo scoperto cosa fare con una donna. E, cazzo, era così bagnata, così pronta.
Cambiai posizione, inginocchiandomi sul letto e aumentando il ritmo, ripensando a quando Stephanie aveva mugugnato l’unica parola che volevo sentirle dire.
«Ti prego ».
«Sì, così», gemetti nella stanza vuota immaginando di strapparle quella cavolo di maglietta di dosso e affondare dentro di lei mentre chiedeva di più. «Lo desideravi tantissimo. Ci avevi pensato. Non sai quanto mi è piaciuto farti venire, tesoro». Pronunciai il suo nome e venni forte e subito nella mano, annaspando. Sì, dovevo averla ancora.
Dopo essermi ripulito senza troppa attenzione la gamba dal mio stesso umore, mi infilai dritto nella doccia. Aprii il rubinetto dell’acqua calda e rimasi sotto il getto bollente per un bel po’. Quando uscii, avevo deciso di andare a bussare alla sua porta. Forse potevamo andare a fare colazione, sederci insieme sull’aereo più tardi. Le avrei fatto sapere che non volevo solo scopare, anche se avevo in programma di rifarlo presto. Mi vestii e stampai un enorme sorriso in faccia.
Due minuti dopo, stavo bussando alla sua stanza. Guardai nello spioncino in attesa della sua ombra. Se mi avesse ignorato, avrei iniziato a parlarle dal corridoio. In un modo o nell’altro, avrebbe aperto quella maledetta porta.
Bussai di nuovo e aspettai. Non era venuta alla porta e non sentii nessun rumore provenire dall’interno. Non avevo il suo numero, altrimenti avrei provato a chiamala.
Passati cinque minuti, iniziai a sentirmi un deficiente, lì in mezzo al corridoio a fissare una porta chiusa. Il cellulare mi vibrò nella tasca e alzai gli occhi al cielo quando vidi che era Creed. Quel ragazzo non ce la faceva proprio a mandare messaggi.
«Che ho fatto, ora?», sospirai, preparandomi a una paternale per chissà cosa.
«Truly mi ha detto di chiamarti per invitarti a colazione».
«Che offerta sentita».
Mio fratello ridacchiò. «Ho fatto colazione con te per quasi ventitré anni. Ma non mi dispiace se vieni. Siamo sotto al buffet».
«La tua generosità mi stupisce ogni volta».
Creed era annoiato dalla conversazione. «Vieni o no?»
«Sì». Mi guardai intorno. «Senti, sai se Truly ha invitato Stephanie?»
«Che cazzo ne so».
Davvero, a volte l’avrei voluto strozzare. «Glielo puoi chiedere, brutto stronzo?».
Grugnì disgustato ma lo sentii fare la domanda a Truly.
«È andata via», disse poi. «Ha preso il volo del mattino».
Ne restai sorpreso. «Davvero? Perché?»
«Non ne ho idea, moccioso. Forse a Phoenix c’è un raduno di ragazze scorbutiche».
«Ah». Mi sentii sconfitto. Poi mi sentii uno stupido perché mi sentivo sconfitto.
Creed sospirò. «Datti una mossa e scendi. Truly non mi fa sedere finché non ci raggiungi e mi girerebbero le palle se finissero le salsicce mentre ti aspetto, imbecille».
Ghignai. «Ti riempi la bocca di salsicce? Molto fallico da parte tua».
«Di che cavolo stai parlando, ora?»
«Lascia stare. Arrivo tra novanta secondi. Cronometra».
Truly Lee era bella come sempre in piedi accanto a mio fratello in attesa che arrivassi. Non mi sfuggì lo sguardo adorante che gli lanciò, né mi persi quello di lui in risposta.
«Hai vinto alla lotteria con lei, fratello», gli dissi, avvolgendo le spalle della sua ragazza.
«Lo so», rispose aggrottando le sopracciglia e attirandola di nuovo a sé.
La colazione fu piacevole. Evitai di parlare di Stephanie, immaginando che a Creed sarebbero venute le coliche o, ancora peggio, che potesse capire cos’avevo fatto la sera prima quand’ero sparito dal rinfresco.
Dopo colazione non era rimasto molto da fare a parte lasciare l’albergo e andare in aeroporto. Avrei preferito essere arrivato in macchina, come avevo in programma all’inizio. Non mi piaceva stare rinchiuso in un cilindro che sfrecciava in cielo. Inoltre, stare con Creed e Truly mi faceva sentire come un terzo incomodo. Mi entusiasmava poco l’idea di starmene seduto in aereo con Creed che cercava di farsi fare una sega. A volte era peggio di me, ma di certo Truly non si lamentava.
C’erano slot machine anche in aeroporto. In quei giorni avevo evitato i casinò, in parte perché avevo riconosciuto la mia sfrenatezza: sapevo quanto sarebbe stato facile sperperare i pochi soldi che avevo. Ma ormai stavamo andando via, quindi immaginai che non sarebbe successo niente se avessi buttato via qualche spicciolo. Mi venne un colpo quando le luci della macchinetta lampeggiarono e iniziarono a uscire fuori soldi.
Mentre raccoglievo quella montagna di monete in bicchieri di plastica, la gente mi fissava. Andai al bancone dove ricevetti 468 dollari in banconote. Prima di tornare al gate, dove Creed e Truly si sbavavano addosso, mi fermai in un negozio per comprare un libro che aveva attirato la mia attenzione.
Truly e Creed erano in fila per imbarcarsi quando li raggiunsi. Infilai il libro, un volumetto sottile sull’arte delle scommesse sportive, nella tasca posteriore dei pantaloni e sventolai i contanti sotto il naso di mio fratello.
«Stasera offro la cena».
Mi fissò. «E quelli dove li hai presi?»
«Alle slot. Ti va la pizza?».
Creed alzò gli occhi al cielo. «Perché, per una volta, non provi ad andare al supermercato?».
Scrollai le spalle. «In effetti, dovrei. Ho finito i cereali. Ma voglio comunque la pizza».
«E va bene, prendi la pizza». Creed tornò guardare davanti a sé, ma all’improvviso si girò di nuovo e mi posò una mano pesante sulla spalla. «Stai bene, Chasyn?».
Scrollai nuovamente le spalle. «A meraviglia». Sul serio, ero un po’ deluso per non essere riuscito a sistemare le cose con Stephanie prima di partire da Las Vegas, ma ci sarebbero state altre occasioni. Frequentavamo lo stesso corso di psicologia due volte a settimana ed era la coinquilina di Truly: non avrebbe potuto evitarmi neanche se ci avesse provato.
Creed non sembrò soddisfatto della mia risposta, ma per il momento lasciò perdere. Cinque minuti dopo il decollo, mio fratello si addormentò con Truly che riposava appoggiata alla sua spalla. Tirai fuori il libro sulle scommesse sportive e lessi con avidità per i tre quarti d’ora successivi che separavano Las Vegas da Phoenix. Mi fece riflettere su cose che non avevo mai considerato prima.
Quando arrivammo a casa, entrai e rimasi sorpreso da quanto sembrava diversa. Aveva ancora i mobili spaiati, anche se Saylor aveva cercato di ravvivare un po’ con qualche pezzo di contrasto qua e là. No, era più qualcosa di immateriale. Noi tre ci eravamo trasferiti lì più o meno un anno e mezzo prima, orgogliosissimi: era il posto più bello in cui avessimo abitato. Tre giorni dopo, Saylor e Cordero sarebbero tornati come coppia sposata in attesa della nascita dei loro gemelli.
«Cord ti ha parlato della sua intenzione di prendere una casa in affitto?», chiesi a Creed mentre lanciava il borsone in camera sua. Zoppicava ancora un pochino a causa della botta al ginocchio che aveva preso il mese prima durante quell’incontro terribile. Truly era andata dritta in cucina e stava preparando dei toast al formaggio.
«L’ha accennato», rispose scrollando le spalle. «Non mi sorprende, visto che la moglie partorirà in primavera».
Ero elettrizzato per Cordero, davvero. Ero serio quando gli avevo detto che sposare Saylor era stata la cosa migliore che avesse fatto, ma, allo stesso tempo, non riuscivo a non sentirmi un po’ triste. Era la fine di un’era. Noi tre avevamo vissuto insieme per tanto tempo; non riuscivo a immaginare che non avrei più visto i miei fratelli ogni giorno.
Creed stava dicendo qualcosa. «Ti è arrivata della posta prima che te ne andassi. È sul tavolo».
Presi la lettera in questione. «Cazzo», farfugliai, dopo averla aperta. Mi lasciai sfuggire un fischio. «È una cifra mica male».
Creed sbirciò da dietro la mia spalla. «Pensavo li avessi chiamati per cercare di stabilire un piano di pagamento».
La fattura dell’ospedale del mio sfortunato ricovero di giugno era lunga tre pagine. Fissai le cifre alla fine, chiedendomi come cavolo avrei fatto a pagare una cosa del genere. Sembrava il tabellone del debito pubblico a Time Square. Piegai i fogli e li rimisi nella busta. Ci avrei pensato in un altro momento.
Truly posò sul tavolo qualche toast e Creed le fece un sorriso grato. Truly Lee aveva davvero tutti i pregi: era bella, intelligente, sexy e con un’indole premurosa. Mi chiesi quante possibilità ci fossero che Stephanie Bransky mi preparasse da mangiare. Mi avrebbe molto più probabilmente tirato una pagnotta in faccia dicendomi di andare a farmi fottere.
Non va bene: non riesco a evitare di desiderarla.
Creed mi diede un colpo sulla mano quando cercai di iniziare a mangiare prima che Truly si fosse seduta. Gli feci un gestaccio, ma aspettai comunque per educazione.
«Allora, Chase», iniziò allegramente Truly, «che programmi hai per oggi?».
Guardai l’orologio. «Stasera c’è uno spettacolo al Gammage e lavoro alla sicurezza del parcheggio». Diedi una gomitata a Creedence. «Lavori anche tu?».
Scosse la testa. «Non lì. Suono in un locale nuovo a Scottsdale. Se va bene, potrebbe diventare un ingaggio fisso».
«Andrà bene», disse Truly fiduciosa. «Ogni volta che sali su un palco sei incredibile».
Creed la fissò per un attimo, poi la fece alzare dalla sedia. «Vieni qui», le disse con voce roca facendola sedere sulle sue gambe. Si divorarono la faccia per un po’ mentre io masticavo il pane tostato. Li osservai: Truly e Creed non erano come Saylor e Cord, ma si amavano davvero.
Truly si scansò quando Creed iniziò a diventare un po’ troppo vivace, e rise quando lui le sfiorò il collo con il naso lamentandosi.
«Finisci il toast», gli ordinò.
Misi il piatto nel lavandino e mi rivolsi a Creed. «Senti, prendo la Chevrolet per qualche ora, va bene?». Prima noi tre fratelli condividevamo il furgone sgangherato, ma qualche settimana prima Cord aveva trovato un’offerta per un minivan usato e aveva dato indietro la macchina di Saylor. Io e Creed usavamo ancora il vecchio pick-up.
«Certo», rispose scrollando le spalle. «Dove te ne vai?».
Esitai. «A un incontro», dissi piano. «Oggi pomeriggio ce n’è uno in biblioteca».
«Bene», annuì mio fratello. «Molto bene».
Era in buona fede. Sapevo che era sollevato dal fatto che stessi continuando a seguire il programma. Per un po’ avevo pensato che anche a lui avrebbero fatto bene i Dodici passi. Per anni, Creed aveva bevuto spesso e tanto. L’estate precedente aveva preso una brutta, bruttissima piega, ma da quando aveva iniziato a frequentare Truly, due mesi prima, era riuscito a restare lontano dalla bottiglia. Se anche lui, come me, sognava la ricaduta, non lo dava a vedere.
Rimasi lì un altro po’, a guardare Creed e Truly insieme, felici e a loro agio. Pensai a Stephanie. Lei e Truly erano amiche, ma sarei rimasto molto sorpreso se avesse detto alla coinquilina che avevamo fatto sesso.
Mentre la coppietta era occupata, notai il telefono di Truly sul bancone. Lo presi e fui felice di constatare che non aveva la password. Dopo aver dato un’occhiata veloce alla rubrica, trovai il numero di Stephanie e lo memorizzai.
«Che stai facendo?», mi chiese Truly curiosa.
«Scusa». Rimisi il telefono dove l’avevo trovato. «Credevo fosse il mio».
Me ne andai poco dopo e guidai per un po’ senza meta. L’appartamento di Truly e Steph era a pochi isolati di distanza, ma in quel momento non mi andava di bussare e sentirmi dire di togliermi dalle palle.
C’era già una dozzina di persone che aspettava l’inizio dell’incontro. Era un gruppo molto eterogeneo. Scelsi un posto vicino a un tizio con cui avevo già fatto amicizia.
«Ciao, bello», mi salutò Al, dandomi una pacca amichevole sulla spalla. «Non ti vedevo da qualche giorno».
Sorrisi. «Sono molto richiesto».
«Ci scommetto», rise, indicando una donna sulla trentina che avevo visto qualche volta agli incontri. Mi stava fissando; sapevo cosa significava quello sguardo, ma non avevo intenzione di fare niente. Quando le persone si disintossicavano, iniziavano a cercare altri modi per occupare il proprio tempo. Le relazioni nate durante la riabilitazione erano molto comuni. Ma non significava che dovevo farlo anch’io. E poi mi ero reso conto da poco che ero stanco di tutta quella lunga serie di scopate occasionali.
«Come stai?», chiesi, cambiando argomento.
Al si stravaccò sulla sedia e si batté le dita sulla gamba. Era magro, con la pelle scura e non stava mai fermo. Mi piaceva, era uno a posto.
Mentre raccontava di due sorelle ninfomani che aveva incontrato al Burger King, risi. Sapevo che diceva un sacco di cazzate, ma andava bene.
L’incontro iniziò qualche minuto dopo. Era sempre la solita storia: c’erano quelli che erano sempre presenti e lo sarebbero sempre stati; gli esperti che si bloccavano al terzo passo ma che con arroganza dicevano a tutti gli altri come vivere; c’erano alcune persone silenziose che stavano ancora cercando di venire a patti con qualcosa che era fuori dal loro controllo. E poi c’erano quelli come me e Al, che cercavano solo di arrivare a fine giornata.
A volte mi alzavo e parlavo, altre volte no. Quel giorno non lo feci.
Mentre uscivamo, Al accennò al fatto che non avrebbe avuto la patente prima di qualche settimana.
«Ti serve un passaggio?», gli chiesi. Non era un problema per me, avevo ancora un’ora prima di dover andare al lavoro.
Al abitava in un monolocale a circa un chilometro e mezzo a sud dell’università. Quando mi fermai davanti a casa sua, disse che nei giorni seguenti sarebbe stato molto occupato.
«Sta iniziando la World Series. E poi c’è la stagione di football: i Giants giocano contro i Cowboys domenica. Nel mio ambito lavorativo è un evento importante».
Al non aveva mai parlato del suo lavoro. Sapevo che non era uno studente, e il suo accento dell’Est era più marcato di quello di Stephanie, ma a parte quello era un mistero.
«E che ambito sarebbe?», chiesi con noncuranza.
Mi studiò con attenzione. Era ovvio che aveva qualcosa da nascondere e stava pensando se volesse parlarmene o meno.
«Gestisco un piccolo giro di scommesse per arrotondare».
«Ah, sì?». Mi sporsi. Mi ricordavo quello che aveva detto Stephanie sul fatto che solo i coglioni pensavano di riuscire a guadagnare con le scommesse sportive, ma mi ricordavo anche come mi ero sentito quando le luci della slot machine erano impazzite e la macchinetta aveva iniziato a vomitare soldi. «Potrei essere interessato».
Al restò in silenzio per un attimo, poi annuì. «Lasciami il tuo numero, Chase».
Glielo diedi e lui lo memorizzò. «Ti mando un messaggio, così anche tu hai il mio». Sorrise. «Se decidi di usarlo». Saltò giù dal furgone e mi salutò con la mano. «Grazie per lo strappo. Ci vediamo».
Il lavoro era noioso, come sempre. Indirizzai le auto nei vari parcheggi e poi girai per qualche ora alla ricerca di qualcuno che avrebbe potuto avere problemi.
Quando tornai a casa, l’appartamento era vuoto. Avrei voluto aver chiesto a Creed dove si sarebbe esibito quella sera, così ci sarei andato. Ma molto probabilmente si stava già preparando a salire sul palco e non volevo disturbarlo. L’immobilità dell’appartamento mi stava torturando, quindi misi un po’ di musica. Non che non avessi delle opzioni: c’erano diverse ragazze che potevo chiamare e che sarebbero state disponibili a divertirsi un po’, ma l’unica che volevo vedere era Stephanie. Non avevamo lezione fino a mercoledì e non avevo intenzione di lasciare le cose com’erano per così tanto tempo. Iniziai a digitare il numero che avevo memorizzato, ma poi mi tornò in mente il modo in cui mi aveva gridato di levarmi dai coglioni e che aveva preso il volo prima da Las Vegas, forse proprio per evitare di avere a che fare con me. Mi sentii in colpa e non sapevo perché. Non l’avevo certo obbligata ad aprire la gambe.
Misi giù il telefono. Per quanto fosse difficile per me, avrei dovuto lasciare le cose come stavano per qualche giorno, darle la possibilità di calmarsi. Non mi sarei arreso.