Capitolo sedici

Chase

L’unica volta nella storia in cui Cord ce l’ha avuta a morte con me era stato per Saylor McCann.

Il giorno in cui era successo, la tutor della Emblem High mi aveva convocato nel suo ufficio subito dopo pranzo. Era la signorina Stiraks e la sua famiglia era retaggio di Emblem come i Gentry, ma non era per niente come noi: noi eravamo la feccia, stavamo in fondo alla piramide. Non c’era nessuno come noi.

«Chasyn», aveva sospirato serrando le labbra, e le setole che aveva sul mento si mossero. «Se ti rimetti in carreggiata ora, potresti ancora riuscire ad andare all’università».

Le avevo fissato i peli che aveva sul viso. Quello che aveva detto non aveva senso per me. Università? Ma chi cazzo voleva prendere in giro?

«Ecco», aveva detto, porgendomi un foglio con sopra numeri e grafici. «I risultati degli esami indicano il tuo potenziale, se ti dessi una regolata e la piantassi di fare il diavolo a quattro con i tuoi fratelli».

Avevo piegato il foglio con attenzione. «Grazie, signorina Stiraks», avevo detto, per niente grato. «Porto questo foglio a casa e lo faccio vedere ai miei genitori. Sì, ne parleremo a cena e avremo una discussione sincera e aperta sul mio futuro».

La signorina Stiraks aveva sospirato. Sapeva com’era mio padre; sapeva che all’orizzonte non c’era nulla di idilliaco come una cena di famiglia. E, sicuro come la morte, non ci sarebbero state discussioni sull’università e sul mio futuro. Ma tanto non le interessava davvero. Emily Stiraks stava facendo ciò per cui lo Stato dell’Arizona la pagava.

Ero di cattivo umore quand’ero uscito dal suo ufficio. Dopo aver buttato il foglio che mi aveva dato nel cestino della spazzatura più vicino, avevo deciso di prendermi una pausa ed ero andato verso l’uscita est.

Quando avevo girato l’angolo, avevo quasi falciato Saylor McCann. Aveva il viso rosso e i grandi occhi verdi erano colmi di dolore. Nelle ore precedenti mi ero dimenticato di lei, ma quella mattina ci avevo pensato molto perché avevo una storia da raccontare.

Era da un po’ che pensavo di farmela, perché era carina e perché una volta aveva detto una cosa che mi aveva fatto girare le palle. I grandi capi avevano cercato di spedirmi nei corsi avanzati, dove stavano Saylor McCann e quelli come lei. Era seduta vicino a me ad algebra mentre facevo del mio meglio per assicurarmi che tutti in quell’aula sapessero quant’ero spassoso. Saylor mi aveva ignorato finché, un giorno, quando era suonata la campanella, si era girata verso di me e mi aveva detto con sdegno: «Cosa cavolo credi di ottenere facendo finta di essere più stupido di quello che sei, Chase?».

Qualche sera prima, mentre io, Creed e Cord stavamo facendo campeggio nel deserto, avevo tirato fuori un’idea che fino a quel momento era rimasta a macerare. Solo guardandola, si capiva che non era mai stata toccata. Avevamo fatto una scommessa sulla verginità di Saylor McCann e avevo intenzione di vincerla. Ma aveva vinto Cord. Ero a casa il pomeriggio seguente, quando mi aveva placcato e mi aveva trascinato dietro la roulotte per raccontare i dettagli sordidi. Neanche un minuto dopo, Creed ci aveva raggiunti. Sapevo che Cord non stava mentendo perché non ci avrebbe mai raccontato bugie. All’inizio aveva riso, ma man mano che proseguiva con il racconto la sua voce si affievoliva. Alla fine aveva dato un calcio a un sasso e aveva sospirato.

«Ehi, questa storia resta tra noi, va bene? Ormai è fatta, non c’è bisogno che lo sappiano tutti gli impiccioni di Emblem».

Creed aveva scrollato le spalle. Sapevamo entrambi che Cord lo stava dicendo solo a me, visto che Creed grugniva qualche frase ogni tanto. Ma non avevo promesso niente, Cord l’aveva dato per scontato. E siccome la sconfitta bruciava, l’avevo raccontato al pubblico del bagno dei maschi del primo piano. Poi avevo sussurrato i dettagli a qualche ragazza a cui piacevano storie del genere, dopodiché mi ero dimenticato completamente di tutta la questione. Finché non avevo visto il viso di Saylor. Aveva stretto i pugni e mi aveva guardato malissimo.

«Ti odio», aveva singhiozzato. «Vi odio tutti e tre».

«Saylor», avevo iniziato, ma lei era scappata nel bagno delle ragazze.

Ero rimasto impalato per un minuto a fissare la porta chiusa e mi ero sentito uno schifo. Poi avevo sentito uno sguardo addosso e mi ero girato: era quello stecchino nerd del cugino di Saylor, Brayden.

«È lì dentro?», aveva chiesto.

«Sì».

Aveva annuito e si era avvicinato. Ero rimasto sorpreso quando mi aveva dato un pugno. Era stato pessimo e mi aveva a malapena sfiorato il mento, ma non avevo reagito. Era rimasto lì, a guardarmi male con il respiro affannoso. Poi mi aveva spinto forte contro il muro.

«Gentry del cazzo», imprecò, e seguì la cugina in bagno.

Be’, dopo quella catena di eventi, mi ero preso il resto della giornata. Ero andato in un capannone abbandonato a quasi un chilometro dal quel tugurio che era casa mia. Io e i ragazzi ci andavamo spesso, nonostante un colpo di vento avrebbe potuto portare via il tetto in lamiera arrugginito e faceva un caldo infernale per la maggior parte dell’anno. Andavamo lì quando non potevamo più stare nella stessa stanza di Benton, ed era il posto in cui nascondevamo le cose che non volevamo trovasse, come la scorta di roba buona che ci aveva portato nostro cugino Deck l’ultima volta che aveva preso il congedo dal corpo dei Marine.

Mi ero sbronzato e mi ero sdraiato per terra. Non mi interessava l’università, volevo solo scappare da quel cesso di posto insieme ai miei fratelli. Me ne sarei andato anche il giorno dopo, ma Cord diceva che prima dovevamo diplomarci. Ci mancavano meno di due anni. Solo altri due squallidi anni.

Ero ancora mezzo ubriaco quando Cordero aveva aperto la porta e mi si era avventato contro furioso. Mi aveva trascinato fuori e mi aveva sbattuto la faccia contro una larrea iniziando a darmele.

Per un attimo mi ero scordato il perché. Cord di solito non dava di matto così, ma avevo immaginato fosse incazzato perché avevo finito le nostre scorte. «Cristo santo, ce ne procureremo dell’altra!», gridai, provando a scrollarmelo di dosso. In risposta, mi sferrò un gancio destro sulla mascella. Non era stato per niente come il pugno di Brayden; avevo visto le stelle, un’intera galassia. Poi mi ero reso conto che c’era anche Creedence e che stava cercando di allontanare Cord.

Cord si tolse di dosso. Si mise a sedere e si passò una mano tra i capelli prima di fissare il vuoto. «È uscita prima da scuola», disse in tono afflitto.

A quel punto, mi ero ricordato. «Saylor».

«Sì», aveva risposto con una risata sarcastica. «Saylor. Perché cavolo sei andato a raccontarlo a tutti, Chase?».

Avevo staccato un fico d’India da un cactus e gliel’avevo lanciato addosso. «Ehi, sei tu che te la sei scopata, ricordi?»

«Sì, e vorrei non averlo fatto», aveva detto a bassa voce. «Non è il tipo. È stata una carognata».

Rotolai e mi misi in ginocchio. Iniziava a farmi male la mascella e sentivo le costole un po’ ammaccate. Avevo già incassato pugni, in più modi e in più posti di quanti volessi ricordare, ma quella volta avevano fatto più male perché venivano da Cord.

Creedence si era seduto tra di noi. Non era abituato a fare da paciere, e si capiva che quel ruolo non gli piaceva. «Piantatela tutte e due, che cazzo», aveva detto in modo spiccio. «Non abbiamo mai permesso che una figa si mettesse tra noi, e non inizieremo ora». Ci aveva poi guardati entrambi con attenzione. «Chase, quello che hai fatto è uno schifo. Cord, a te non frega comunque un cazzo di quella ragazza, altrimenti non te la saresti fatta per poi riderci su. Ecco, le cose stanno così. Ora scambiatevi un abbraccio o qualche stronzata del genere».

Io e Cord ci eravamo guardati ed eravamo scoppiati a ridere. In parte perché era stranissimo sentire Creed parlare così tanto, e in parte perché era esilarante sentirlo che ci ordinava di abbracciarci.

«Col cavolo che ti abbraccio, pazzoide», mi aveva detto Cord, ma mi aveva aiutato a tirarmi su.

Avevamo girovagato e sparato cazzate finché non si era fatto buio. Mi brontolava lo stomaco. «Che facciamo per cena?». Domanda regolare. Lo era da sedici anni.

Cord aveva ghignato al buio. «Scommetto che mamma sta facendo lo sformato».

Creed si era grattato la testa. «Non so neanche che cazzo è lo sformato».

«È una cosa che mangia solo la gente in TV», gli avevo risposto.

Ci eravamo diretti a casa, scherzando e spintonandoci. Quand’eravamo a un centinaio di metri, ci eravamo bloccati come animali che avevano avvertito la presenza di un predatore. Avevamo fissato l’obbrobrio fatiscente davanti a noi. Era l’unica casa che avevamo conosciuto.

«È dentro?», avevo chiesto. La domanda non aveva scatenato il terrore viscerale come un tempo. Eravamo più grandi e più forti, e nostro padre aveva imparato che non era saggio romperci i coglioni. Ma non voleva dire che eravamo dell’umore per incontrarlo.

«Non credo», aveva risposto Cord aggrottando le sopracciglia. Poi si era diretto verso la casa mobile, io e Creed al seguito.

C’era una puzza tremenda. Nel lavello lurido c’era una pila di piatti uno diverso dall’altro; il cibo marcio che c’era dentro aveva già attirato un bel po’ di mosche. Cord aveva imprecato e li aveva tolti con cautela dal lavello, poi l’aveva riempito d’acqua per lavarli. Creed aveva preso una bottiglia di tequila dal tavolo della cucina. La mattina non era lì: o Benton era svenuto nel suo stanzino, o se n’era andato in giro ubriaco a cercare rogne. Creed aveva bevuto un sorso dalla bottiglia e me l’aveva allungata, ma io avevo scosso la testa. Ero andato nella piccola camera da letto che dividevamo. Non c’era molto lì dentro: tre vecchi materassi per terra e un vecchio comò che usavamo in comune. Ero crollato sul letto e avevo desiderato essere da un’altra parte, ovunque.

«Un giorno», avevo sussurrato, guardando gli altri due materassi e facendo una promessa silenziosa a miei fratelli: un giorno ci saremmo lasciati tutto quello schifo alle spalle.

Poi avevo sentito un lamento venire dall’altra camera. Creed stava aiutando Cord a pulire la cucina, non avevano sentito niente. Mi ero alzato e avevo attraversato il corridoio. Ero nervoso mentre aprivo piano la porta. Se Benton fosse stato lì, mi avrebbe prima preso a cinghiate, poi avrebbe fatto domande. Ma mio padre non c’era, mia madre era sola.

Avevo visto il laccio sporco ancora legato al braccio e sapevo che era sotto l’effetto di qualsiasi cosa si fosse iniettata. Le ciocche di capelli unti le ricadevano sul viso e il vestito stracciato non le copriva i lividi sulle gambe. Se non avessi visto le foto, non avrei mai creduto che mia madre un tempo era stata bella. Ma l’avevo sempre ricordata in quel modo, malconcia. Le ciglia avevano iniziato a tremarle e mi ero inginocchiato vicino a lei. Le avevo posato il dito sul collo e avevo sentito il battito lento e irregolare.

«Mamma?», avevo sussurrato. Avrei voluto scuoterla e farla diventare una vera madre, avrei voluto che si trascinasse nel corridoio e si sedesse con noi per un po’, avrei voluto che mi vedesse, cazzo.

I suoi occhi azzurri si erano posati sul mio viso e si erano riempiti di tristezza. «Ti amavo», aveva sussurrato prima di coprirsi la testa con le lenzuola sudice. «Giuro che ti amavo, Benton».

Ero sconvolto. Riuscivo a malapena a reggermi in piedi, ma dovevo uscire da lì prima che mi chiamasse di nuovo col nome di mio padre. Non potevo sopportarlo.

Quando ero uscito di corsa, i miei fratelli mi avevano chiamato gridando. Avevo corso veloce come il vento per quasi mezzo chilometro, poi mi ero fermato. Avevo alzato gli occhi al cielo con il respiro affannoso. Dopotutto, dove cavolo credevo di andare?

I ragazzi mi avevano raggiunto. Quando avevo sentito il calore dei loro corpi mi ero sentito subito meglio. Era sempre stato così. Mi ero chiesto cosa sarebbe successo se fossimo stati separati alla nascita e avessi vissuto tutti quegli anni da solo. Avrei sempre avuto la sensazione che mancasse una grande parte di me stesso? E loro l’avrebbero sentito?

«Mi dispiace», avevo detto a Cord, e poi mi aveva abbracciato davvero, per quanto in imbarazzo.

Non avrei dovuto tradire la sua fiducia, ed ero stato un infame per aver ferito una ragazza innocente solo perché potevo farlo. Cord aveva compiuto l’impresa, ma ero stato io ad architettare il piano. Ero un Gentry.

E sì, mi dispiaceva.

«Steph», sussurrai al buio, distogliendo la mente dal passato. Ero rimasto disteso a guardare il soffitto per ore, mentre Stephanie dormiva accanto a me. Le baciai la spalla, poi spostai le labbra sul suo seno. Avevamo fatto tremare i muri, come avevo promesso. Mi aveva fatto impazzire tutta la sera vederla così provocante con il suo vestito rosso mentre altri ragazzi la guardavano e sapendo che era mia. Mia! Avrei voluto svegliarla, avrei voluto che mi stringesse e che mi dicesse cose che volevo sentirmi dire solo da lei. Borbottò nel sonno e mi spinse via.

Con un sospiro, scesi dal letto e mi infilai un paio di boxer, deciso ad andare in cucina. All’improvviso mi era venuta fame.

La moglie di mio fratello era seduta al tavolo in silenzio, con un bicchiere di latte davanti.

«Che succede?», le chiesi, sedendomi davanti a lei.

Saylor fece una smorfia. «Bruciore di stomaco. Non riesco a dormire. Avevo paura che il mio rigirarmi avrebbe svegliato Cordero». I suoi occhi verdi mi studiarono. «Stai bene, Chase?»

«Sì. Mi sento solo un po’ inquieto».

Mi strinse leggermente il braccio. «È per la discussione con Creed? O c’è un altro motivo?».

Sospirai. «Ce ne sono un sacco, di motivi».

«Be’, ti posso dire una cosa di cui sei sicuro». Sorrise. «Stephanie. Anzi, non ti ho mai visto tanto sicuro di qualcosa».

«Puoi dirmi la verità, Say».

«Lo faccio sempre, Chasyn».

«Pensi che sia una buona cosa che stiamo insieme?».

Era confusa. «Che cavolo di differenza fa quello che penso io? Nessuna. Senti», disse, sporgendosi in avanti, «me ne sono sempre sbattuta di quello che la gente aveva da dire su me e Cord. Sapevo che il mio posto era accanto a lui».

«Il mio è con lei», dissi deciso. «Lo so».

Mi lanciò un’occhiata risoluta. «E allora non permettere a nessuno di dire il contrario, che cavolo».

Mio fratello aveva fatto il colpaccio, sposandola. Le feci un sorriso smagliante. «Sei fantastica, Saylor Gentry. Comunque, come hai intenzione di chiamare i bambini? Voglio avere il diritto di dire la mia».

Parlammo per un altro po’, poi Saylor iniziò a sbadigliare. «Provo a dormire», disse, e si toccò la pancia. «Ora voi dovete collaborare, altrimenti lo dico a papà».

Fece per andare in camera, ma la chiamai. Mi guardò curiosa. Gliel’avevo già detto mesi prima che mi dispiaceva per quello che le avevo fatto e che l’aveva ferita in passato, e sentii l’impulso improvviso di dirglielo di nuovo. Ma sapevo che sarebbe stato più per me che per lei; avrei riesumato un dolore ormai passato solo per essere in pace con la mia coscienza.

Quindi mi limitai a dirle: «’Notte, sorella».