Capitolo uno
Stephanie
Cercai di allungare il collo per vedere la televisione montata sopra il bancone del bar, ma un gruppo di ubriachi con le teste enormi mi intralciavano la visuale. Di solito non si facevano molte scommesse sul baseball, ma quella era la sesta partita delle finali di National League tra i Cubs e i Dodgers. La gente si emozionava ogni volta che si parlava degli sfavoriti Cubs. E le emozioni portavano a decisioni affrettate che a loro volta svuotavano i portafogli. Se fossi stata ancora nel giro delle scommesse sportive, quella sarebbe stata una giornata parecchio movimentata.
Ma non lo ero.
Dopo il casino che era successo il mese prima, non avevo recuperato il mio sangue freddo. Nessuno, soprattutto una donna, poteva gestire le scommesse sportive senza un bel paio di palle quadrate.
La sala in cui ci avevano condotti dopo la cerimonia era piccola, ma eravamo solo poco più di una ventina. Il matrimonio era stato veloce ma bello. Mi piacevano gli sposi: Saylor era molto amica della mia coinquilina, Truly, ma in quell’ultimo periodo ci eravamo frequentate parecchio e mi aveva invitata a Las Vegas per l’evento. Le avevo chiesto perché non si era sposata in Arizona, e lei aveva prima sorriso e poi risposto: «Sarà la festa più importante della mia vita, quindi deve essere la migliore». In qualche strano modo aveva senso, eppure non ci sarei andata se Truly non mi ci avesse trascinata.
Nonostante dubitassi che il “per sempre felici e contenti” fosse per tutti, non potei fare a meno di sorridere guardando Saylor e Cord Gentry insieme. Sarebbe stato difficile non farlo. Sorseggiavo dello champagne e li osservavo: Saylor era radiosa con il suo semplice vestito bianco; i capelli castani erano stati arricciati e le ricadevano sulla schiena. Continuava a passarsi in maniera distratta la mano sul ventre leggermente gonfio mentre Cord, possessivo, la teneva stretta a sé. Avevano dei trascorsi, ma non conoscevo tutta la storia e non ero abbastanza impicciona da chiedere. Si conoscevano fin da ragazzini e lei l’aveva odiato per parecchio tempo. A quanto pareva, da piccolo era decisamente un bel tipetto. Tutti e tre i Gentry lo erano stati.
Sapevo che Cord e i suoi fratelli erano gemelli, ma non dovevano essere omozigoti perché riuscivo a distinguerli senza problemi. Erano tutti e tre massicci, biondi e con la mascella squadrata. Anche solo uno di loro avrebbe fatto cascare le mutande di tutte le donne nel raggio di un chilometro, ma vederli insieme era quasi ipnotico.
Cord aveva un sacco di tatuaggi e sembrava essere il più giudizioso dei tre. Forse era stato uno stronzo in passato, ma doveva aver voltato pagina perché dava l’impressione di essere un tipo a posto. Potevo vantarmi di riuscire a vedere la differenza. Creedence era il ragazzo di Truly: era forte come un toro e aveva lo sguardo di ghiaccio, ma di lui potevo dire che non era certo falso. Andava avanti fregandosene del giudizio della gente. La prima volta che l’avevo visto avevo pensato fosse uno stronzo, ma era anche vero che l’avevo scambiato per suo fratello Chase.
Chase Gentry.
Era seduto al tavolo accanto con Creed e Truly quando il cameriere portò le bistecche per tutti gli invitati. Mi stava guardando di nuovo. Seguivamo lo stesso corso di psicologia, e quando si era reso conto che avevamo delle conoscenze in comune aveva preso l’abitudine di venirmi a cercare. Proprio come un gatto che cercava di acchiappare una pallina con gli artigli, ogni approccio era risultato disastroso. Di solito le nostre conversazioni finivano in maniera brusca e irriverente. In realtà, Chase era talmente figo che facevo fatica a guardarlo senza battere ciglio, e avrei giurato che quello stronzo ne fosse consapevole. Era abituato ad avere qualche ragazza sempre spalmata addosso e pensava di dover solo fare un sorrisetto malizioso per ottenere ciò che voleva.
Posai il bicchiere e iniziai a tagliare la bistecca. Mi sentivo fuori posto. Inoltre, anche se non avevo scommesse in ballo, morivo dalla voglia di seguire la partita. Mi sarei sentita più a mio agio davanti a un televisore o a fissare piena di tensione il telefono, mi prudevano le mani dalla voglia di tirarlo fuori. Normalmente, avrei avuto gli occhi incollati allo schermo, ma non sembrava carino attaccarmici nel bel mezzo di un matrimonio. L’avevo lasciato nella borsetta che Truly mi aveva obbligato a portare al posto dello zaino.
Brayden, il cugino di Saylor, e Millie, la sua ragazza, erano al mio tavolo e sembravano decisi a fare amicizia.
«Allora», disse allegramente Millie, «torni spesso a New York?».
Scossi la testa. Non ci tornavo da tre anni, non ce n’era motivo. Robbie e mia madre erano morti, mio padre era rinchiuso in una qualche prigione in mezzo alla tundra settentrionale, e non parlavo con Michael. Non sapevo nemmeno dove fosse, in quel momento. «Non ci torno mai».
«E com’è», chiese Brayden con un pizzico di ammirazione, «crescere in un posto come New York?»
«Long Island, in realtà», risposi. «A una cinquantina di chilometri dalla città».
Brayden annuì. «E ci andavi spesso?»
«In città? No, forse quattro o cinque volte all’anno quand’ero piccola». Ogni volta che prendevamo il treno per Manhattan, sembrava di ritrovarsi in un universo parallelo pieno di gente e rumore e odori mischiati. Mia madre odiava la città, sentiva sempre la mancanza della sua casa sui monti Catskills. Ma adorava la spiaggia: non potevo pensare a lei senza ricordare il vecchio lungomare di Jones Beach.
Millie appoggiò la testa sulla spalla di Brayden e mi sorrise mentre masticavo senza entusiasmo un boccone di carne. I miei due compagni erano delle brave persone, e stare vicino a loro mi fece venire voglia di fare uno sforzo per fare conversazione.
«Da quant’è che state insieme?», chiesi in un tono che speravo suonasse amichevole.
«Un anno e mezzo», rispose Millie. Era una ragazza stupenda: snella, con i capelli neri lucidi e la pelle scura perfetta. Parve ancora più bella quando alzò gli occhi su Brayden. Mi chiesi se l’amore faceva sempre quell’effetto alle persone, se le faceva sembrare più belle. Spostai lo sguardo verso Saylor, radiosa mentre si alzava in punta di piedi per baciare il marito.
Di solito non bevevo, e bastava qualche sorso di champagne per stordirmi un po’. Non era una sensazione che mi piaceva, preferivo rimanere sempre lucida.
Dopo aver guardato l’ora ed essermi resa conto che sarei dovuta restare lì per un’altra ora almeno, tornai a chiacchierare con Millie e Brayden. A un certo punto si avvicinò Saylor, che abbracciò il cugino e mi disse di essere felice che fossi andata fino lì. Le sorrisi e le dissi che era una sposa bellissima. Dicevo sul serio.
Saylor abbassò lo sguardo e si diede una pacca sul ventre. «Giusto in tempo. Ancora una settimana e non sarei riuscita a entrare nel vestito».
Millie allungò la mano e la posò sulla pancia di Saylor. «Come ti senti?»
«Stanca», sospirò. «Ma sto bene», ridacchiò poi. «Non riesco ancora a credere che non sia unico. Ma avrei dovuto aspettarmelo».
«Cioè?», chiesi.
«Sono gemelli», rispose felicissima.
«Che bello», ribattei, sentendomi una stupida perché non sapevo nulla di gravidanze o parti gemellari o cose del genere. E non sapevo nemmeno perché cavolo una ragazza di vent’anni volesse sposarsi e fare figli, ma Saylor era così felice che conclusi che semplicemente non eravamo fatte della stessa pasta.
Saylor rise e mi chiese di bere un altro bicchiere alla sua salute, prima di proseguire il suo giro verso gli altri invitati. Non conoscevo la maggior parte di loro. C’era un tizio sulla quarantina e avevo sentito qualcuno riferirsi a lui come al padre di Saylor ma, a quanto pareva, la bionda immusonita che gli stringeva il braccio non era la madre della sposa. Non sembrava felice di essere lì. I genitori di Cord non erano presenti, e Truly mi aveva detto che i ragazzi e i loro genitori non erano in buoni rapporti. L’unico altro Gentry presente era un cugino; si chiamava Dreck o Decker, o qualcosa del genere. Non avevo prestato molta attenzione durante le presentazioni. Era in un angolo mentre un’oca bionda gli stava facendo una lap dance.
Gli altri invitati erano un misto di colleghi di Cord dello studio di tatuaggi in cui lavorava e amici vari. A quanto ne sapevo, ero l’unica senza accompagnatore. A parte Chase, e probabilmente solo perché gli piaceva restare disponibile.
A proposito di Chase, notai che mi stava ancora guardando mentre mi aggiustavo il vestito per la millesima volta, digrignando i denti. Quel maledetto affare era una tortura. La sera prima, mentre ci stavamo preparando per andare in aeroporto, Truly mi aveva chiesto come cavolo avrei fatto a far entrare un vestito nello zaino. Avevo scrollato le spalle e le avevo detto che al matrimonio mi sarei messa un paio di jeans: dopotutto, era una piccola cerimonia all’Excalibur, non una festa VIP al Bellagio. La mia risposta aveva fatto materializzare il suo accento del Sud, come succedeva sempre quando si innervosiva.
«Stephanie Bransky, ti proibisco in maniera categorica di indossare jeans a questo o a qualunque altro matrimonio». Poi aveva lasciato cadere la sua valigia ed era corsa in camera. L’avevo sentita frugare nell’armadio e imprecare non proprio a bassa voce.
Alla fine, era ricomparsa e mi aveva sbattuto in mano un vestito azzurro leggero. «Ti metterai questo», aveva ordinato, e aveva aperto un’altra valigia in cui infilarlo.
«Non penso proprio», avevo sbuffato. «Guardati e poi guarda me. Dovrei imbottire la parte di sopra con dei calzini di spugna, e a quel punto nessuno guarderà la sposa perché saranno tutti incantati a guardare le mie cazzo di tette finte».
Truly aggrottò le sopracciglia, poi sventolò una mano. «Cavolate. Quando saremo lì, te lo stringerò un pochino».
Ci aveva provato, ma per un risultato decente avrebbe dovuto ricucire tutto da capo. Ecco cosa succede se si prende il vestito di una ragazza con la quarta e si cerca di aggiustarlo per una che non riempie la seconda neanche il giorno del mese in cui è più gonfia. Truly era chiaramente esasperata quando mi ero rifiutata di imbottirmi il reggiseno, quindi avevo finito per navigare dentro quel maledetto affare dalla vita in su. Mi sentivo ridicola, come se avessi addosso il vestito del ballo di fine anno di mia sorella maggiore. Immaginai fosse quello il motivo per cui Chase continuava a guardarmi: probabilmente rideva di me, il bastardo.
Quando Saylor si avviò verso gli altri ospiti, Brayden e Millie continuarono a cercare di chiacchierare con me e mi resi conto che mi stavano facendo un favore: se non fosse stato per loro, sarei rimasta seduta da sola a disagio. Eppure, continuavo a guardare l’ora e a chiedermi quanto ancora dovessi restare prima di scappare in camera mia.
«Non pensarci neanche», mi avvertì Truly sedendosi accanto a me. Mi fece un sorriso vittorioso. I suoi fitti capelli scuri erano acconciati con stile e le incorniciavano il viso a forma di cuore come una nuvola. Il vestito verde scuro che indossava era un’altra delle sue creazioni, ci aveva lavorato per una settimana. Truly era il tipo di bellezza mozzafiato che faceva cadere gli uomini dalla sedia.
«Non te ne vai», mi disse in tono piatto mentre prendeva del pane.
«Ci sono le finali di baseball», ribattei. «E poi devo togliermi questo vestito».
«Perché?».
Toccai la stoffa del busto. «È troppo stretto», dissi sarcastica.
Truly strinse le labbra. Eravamo coinquiline da quasi un anno, ma ci eravamo avvicinate da poco tempo. Le uniche altre persone con cui avevo a che fare erano conoscenti o soci in affari. Per molto tempo era così che avevo preferito. Mi ero lasciata alle spalle gli amici con cui ero cresciuta e la famiglia allargata che non voleva avere alcuna relazione con me, e non pensavo mai a loro. Avevo scelto l’Arizona solo perché non aveva niente a che fare con New York, e avevo pensato che sarebbe stato più facile uscire dall’ombra di mio padre, Nick Bransky. Ma cominciare da capo non è mai facile, e farlo senza soldi è quasi impossibile. L’università era costosa e non mi era rimasto niente della mia vita privilegiata. Tutto quello che i miei genitori avevano era stato risucchiato da sanzioni amministrative, parcelle degli avvocati e cure mediche. Quando le tasse universitarie avevano iniziato ad accumularsi, mi ero rivolta a dei vecchi conoscenti e avevo iniziato a fare l’allibratrice. Siccome non potevo mandare avanti gli affari nel dormitorio dell’università avevo cercato casa, immaginando di riuscire a cavarmela in un appartamento con due camere e un coinquilino disposto a dividere le spese e a starmi fuori dai piedi. Era stato così che avevo conosciuto Truly e la sua gatta.
«Non stai neanche cercando di divertirti», mi rimproverò dandomi un colpetto sulla spalla.
«Invece sì, solo che non mi diverto come tutti gli altri».
«Lo so. Ma, Steph, dalla tua faccia sembra tu stia mangiando un limone».
«Ah», risposi con una smorfia. «Faccio così schifo?».
Truly sorrise. «Per Chase no».
«Non dire scemenze, non te l’ha detto».
«Non ce n’è bisogno. Ti guarda ogni volta che può. Avresti dovuto vedere come l’ha presa male quando non sei venuta a cena, ieri sera».
«Ero stanca».
«Stronzate».
Guardai furtiva in direzione di Chase Gentry. Stava raccontando una storiella agli amici di Cord, e da come gesticolava doveva trattarsi di qualcosa di sconcio. Di solito lo era. Il suo cervello era un po’ più lurido di una fogna. A Truly piaceva ripetermi che, sotto la scorza da libertino, Chase era un ragazzo dolce e intelligente. A volte era troppo ottimista.
«Pensi che a Saylor dispiacerà se me la svigno?».
Truly sospirò. «No, ma vorrei che non lo facessi».
Apprezzavo che tentasse di aiutarmi a essere normale, davvero. Da quando si era innamorata di Creed Gentry il suo mondo era tutto arcobaleni e polvere di stelle, e voleva che tutti intorno a lei fossero felici. Inoltre, sapevo che era preoccupata per me dopo essere crollata e aver confessato qualcosa su quello che aveva fatto Xavier. Non avevo dato i dettagli, ma ero a pezzi e Truly lo sapeva.
«Mi appartieni, maledetta stronza».
«E ora che c’è che non va?», chiese Truly. «Ti sei seduta su una puntina?»
«No», borbottai, cercando di rilassare il viso. Dovevo aver assunto un’espressione omicida al pensiero di Xavier e del suo disgustoso branco di delinquenti. Truly mi stava fissando preoccupata. Mi infastidiva pensare a quella sera; mi sarei volentieri infilata una dozzina di aghi sotto ogni unghia se fosse servito a cancellare quel ricordo. Nell’ultimo mese, avevo vissuto nella paura che sarebbe tornato a tormentarmi, ma le minacce, i fischi e la vergogna non erano mai davvero spariti dalla mia mente, erano sempre lì. «Però sono un po’ stanca», dissi infine.
Truly sapeva che stavo mentendo, e sapeva anche quando farsi da parte e lasciarmi in pace. Era uno dei motivi per cui andavamo così d’accordo.
«Va bene», sospirò mentre mi alzavo.
«Te l’ho detto che riparto con il volo prima, vero?». Dovevo andare via dall’albergo alle sette per arrivare in tempo per il volo delle otto; il cambio mi era costato cinquanta dollari, ma non volevo tornare con tutto il gruppo.
Truly annuì. «Sissignora. Quindi ci vediamo direttamente a Tempe?»
«Direi di sì», borbottai, cercando con lo sguardo la sposa e lo sposo per fare le mie congratulazioni prima di ritirarmi. Saylor era seduta da sola, con i gomiti appoggiati sul tavolo: sembrava stranamente triste e non volevo disturbarla. Cord rideva con Creed e alcuni amici, ma non avevo abbastanza confidenza per interrompere. Però salutai Brayden e Millie, che furono molto cordiali e mi dissero che speravano di rivedermi presto.
Appena fui fuori dalla saletta del ricevimento, mi sentii meglio. Mi fermai al bar e diedi un’occhiata alla televisione: erano al settimo inning e i Dodgers conducevano per otto a due.
«Che schifo», farfugliò un uomo tutto scompigliato con l’abito. Sembrava sul punto di cadere dallo sgabello.
«Solo se tifi per i Cubs», dissi, e lui non sembrò gradire la mia risposta. Fece una smorfia e si girò dall’altra parte. Scossi la testa e me ne andai, chiedendomi come fosse possibile diventare così suscettibili guardando altre persone giocare una partita.
Quand’ero piccola, in qualsiasi stagione, nella sala video insonorizzata al piano interrato c’era sempre qualcosa a tutto volume: una partita, una gara, qualsiasi cosa su cui gli uomini potevano scommettere. Lo sport in casa Bransky non aveva lo stesso significato che aveva per gli altri. L’avevo capito fin da bambina, anche se ci avevo messo qualche anno per rendermi conto dei meccanismi dell’attività di mio padre. Non si faceva problemi a spiegarmi la terminologia ma, per quanto polemizzassi, non mi permetteva di entrare nel giro d’affari. Quello era un privilegio riservato ai miei fratelli maggiori, Robert e Michael; Nick Bransky non sapeva che farsene di una figlia. Prima mi dava la sua carta di credito dicendomi di compare qualcosa di carino al centro commerciale Roosevelt Field, il giorno dopo voleva a tutti i costi istruirmi sugli aspetti più complicati delle scommesse. Credo provasse a essere un buon padre, anche se non l’avevo mai perdonato per le sue relazioni con altre donne, soprattutto mentre mia madre si stava consumando.
Poi c’era stata la storia di Robert.
Non era giusto incolpare mio padre per quello, anche se l’omicidio irrisolto di Robbie poteva quasi certamente risalire ai casini in cui Nick si era cacciato. Mio padre aveva perso la moglie e il figlio maggiore la stessa settimana. Nove mesi dopo era stato mandato a nord, e poco dopo me n’ero andata da New York. Ogni tanto ci sentivamo, e probabilmente l’anno successivo avrebbe avuto la libertà condizionale. Non aveva mai detto niente sul fatto che gestissi un giro di scommesse sportive, ma immaginai che qualcuno glielo avesse riferito, perché il mondo è sempre più piccolo di quanto sembra.
Restai al bar per qualche altro minuto. Alla fine del settimo inning, i Cubs avevano fatto due punti e il tizio ubriaco buttato sullo sgabello tornò in vita. Alcuni uomini che erano lì vicino mi guardarono, ma i loro sguardi si spostarono presto alla ricerca di qualcosa di più provocante. Sapevo di dimostrare meno della mia età, e il mio linguaggio del corpo non invitava certo alla conversazione.
Un uomo e una donna a un tavolo vicino si stavano palpando con talmente tanto impegno che era questione di minuti prima che andassero in camera a darci dentro come animali. A volte mi chiedevo perché tutti andassero matti per il sesso. Non ero del tutto immune al desiderio, ma cosa significava se mi piaceva molto di più pensarci che farlo?
Quando un tizio con la barba e la fede al dito mi chiese se poteva offrirmi da bere, decisi che era arrivato il momento di concludere la serata da sola in camera mia. Era una bella stanza ed era tutta per me. Conoscevo delle persone a Las Vegas ed ero riuscita a ottenere dei prezzi interessanti per tutti quelli che erano andati al matrimonio.
Mentre mi avviavo verso l’ascensore non vedevo l’ora di essere da sola, togliermi il vestito e buttarmi sul letto con addosso una maglietta a guardare gli ultimi inning. Eppure, una piccola parte di me era un po’ dispiaciuta di lasciarsi alle spalle le luci e la serata frizzante. Forse fu per quel motivo che le ginocchia mi si fecero molli quando Chase Gentry si infilò in ascensore mezzo secondo prima che le porte si chiudessero. E mi sorrise.