Capitolo cinque

Stephanie

Merda.

Non riuscivo a smettere di pensarci. Dopo aver passato un’ora a guardare i commenti del dopopartita ed essermi ricordata di aver detto a Chase di andare fuori dai coglioni, provai una punta di dispiacere. Gli ero sbottata contro e mi aveva guardata come se dovessi essere rinchiusa in uno zoo. Forse aveva ragione.

Con un lamento, mi tirai la coperta morbida dell’albergo fin sopra la testa. Mi ero rimessa i pantaloncini, ma sentivo ancora quello che Chase era stato in grado di farmi. Ripensando al suo sguardo intenso mentre si muoveva dentro di me, il mio corpo reagì di sua iniziativa. Quasi senza pensare, sposai la mano tra le gambe e feci pressione, mentre quei muscoli ridestati chiedevano di più. Forse sarei dovuta andare con lui, anche se avesse significato lasciare che mi esibisse come un trofeo, come un cagnolino.

Scalciai via la coperta con un sospiro disgustato.

Che cavolo avevo fatto?

Avevo fatto sesso con uno dei ragazzi più stupidi e volgari che avessi mai conosciuto. Il numero di ragazze che Chase si era fatto era con ogni probabilità più alto di quello delle slot machine in tutta Las Vegas. E non potevo nemmeno incolparlo per quello che era successo: appena mi aveva toccata, ero stata ben disponile. Ma erano mesi che ci provava, e alla fine ci era riuscito. Aveva vinto. Aveva vinto, cazzo!

Eppure… non riuscivo a calmare il respiro accelerato al ricordo di come mi ero sentita con lui. Avevo ventun anni ed ero stata con due ragazzi. Per me avevano significato poco, come io per loro, e l’ultima volta era successo più di un anno prima. Non avevo sentito la loro mancanza, quando se n’erano andati. E non avevo mai raggiunto l’estasi furiosa che avevo provato con Chase. Forse era per quello che l’avevo buttato fuori in modo così brusco. Se gli avessi detto anche solo parte della verità, l’avrebbe presa come una barzelletta. Forse io lo ero già, per lui.

Non ero per niente stanca, ma dovevo alzarmi presto per prendere l’aereo, quindi andai in bagno per farmi la doccia e lavarmi i denti. Odiavo le levatacce, ma mi sentivo decisamente più sollevata di aver cambiato l’orario del volo: il pensiero di stare seduta sull’aereo e di ascoltare la risata sconcia di Chase mentre raccontava di come si era sbattuto Stephanie Bransky, la regina di ghiaccio, mi fece venire voglia di ucciderlo. Preferivo tornare prima a Phoenix, che cazzo.

Non ci avrei più pensato. Chase sarebbe passato alla ragazza successiva e avrebbe dimenticato. Forse l’aveva già fatto.

Quando sputai il dentifricio nel lavabo, mi tornò in mente il suo sguardo intelligente mentre era a pochi centimetri da me sul letto, ad ascoltare, a valutare la mossa successiva. No, non si sarebbe dimenticato niente. Chase Gentry non era uno che dimenticava.

Lavai via il dentifricio dal lavabo e spensi la luce del bagno. Appena prima di tornare a letto, mi fermai davanti alla porta. Mi chiesi dove sarei stata, in quel momento, se avessi accettato l’offerta di Chase di andare alla conquista di Las Vegas.

«Facciamo quello che vuoi ».

Era proprio quello il problema: non volevo fare follie sotto le luci abbaglianti della città, volevo ripetere quello che avevamo fatto prima. Volevo farlo finché fosse riuscito a reggere, e in più modi di quanti ne conoscessi. E poi, se dopo avesse deciso di tenermi tra le sue braccia forti, non mi sarei lamentata. Non mi sarei lamentata affatto.

Abbassai l’aria condizionata di qualche grado e mi infilai a letto, coprendomi completamente. Non volevo più pensare a Chase, né al sesso, agli orgasmi o al perdere il controllo. Per liberare la mente pensai a Xavier, il mio ex capo. Pensai alle cose che mi aveva detto e a quelle che mi aveva costretto a fare mentre gli altri uomini nella stanza dicevano sconcezze. Xavier era crudele e astuto: sapeva di non dovermi toccare neanche con un dito per rovinarmi.

E non è finita. Non lo è.

Nei giorni seguenti a quanto era successo, ero caduta in depressione. Non ero mai stata così a pezzi, neanche l’anno terribile in cui si era messa in moto la catena di eventi peggiore immaginabile: la morte di mia madre, l’omicidio di Robbie, l’arresto di mio padre, l’abbandono di Michael.

Visto tutto quello che avevo passato, avrei dovuto essere in grado di scrollarmi di dosso ciò che mi aveva fatto Xavier. Altre donne subivano cose ben peggiori ogni giorno e riuscivano a camminare a testa alta, non si ritrovavano tormentate dal terrore paranoico che mi aveva messa quasi KO. Se non fosse stato per Truly, non sapevo come avrei fatto a riprendermi. Era stata un’amica quando non avevo nessuno, anche se non conosceva quella storia terribile.

«Ci farai vedere un bello spettacolo finché non ne avremo abbastanza, e sarà meglio che sembri che ti piaccia, ragazzina».

Basta. Basta. BASTA!

Tutte le sensazioni incredibili che avevo provato con Chase erano sparite, rimpiazzate dal panico mentre ricordavo altre cose che avrei voluto cancellare. Mi ero sentita gelare: lì in piedi, esposta, obbligata a dare spettacolo per una stanza piena di bastardi che godevano della mia vergogna.

Misi le mani sulle orecchie. Era un gesto infantile, inutile. Ero da sola. Ero al sicuro. Nessuno mi avrebbe fatto del male, se non l’avessi permesso. E anche se da qualche parte c’era la prova, che era ciò che mi spaventava di più, non era ancora venuta a galla. A volte mi ero crogiolata nella speranza che non sarebbe mai successo.

Quando girai il viso sul cuscino fresco, una lacrima scivolò dall’angolo dell’occhio. La asciugai con rabbia. Al diavolo. A cosa serviva affogare nell’autocommiserazione? Qualsiasi cosa mi aspettasse, avrei dovuto semplicemente affrontarla. Potevo farlo. Sarei diventata di ghiaccio, quando sarebbe servito. Sarei potuta diventare anche d’acciaio.

Ma non riuscivo a tenere la mente sotto controllo: appena prima di addormentarmi e fare brutti sogni, tornai ai brevi istanti in cui ero stata tra le braccia di Chase. Anche se avrei preferito strapparmi gli incisivi invece di ammetterlo a voce alta, avrei voluto che fosse rimasto. Ma appena avevamo finito mi ero ricordata chi era Chase Gentry: gli piaceva divertirsi e non si faceva scrupoli con le ragazze.

Cazzate, Steph. Lo volevi tanto quanto lui.

Vero. Ci avevo pensato. Anche se davanti a lui fingevo che fosse l’ultima cosa che desideravo, Chase non ci era cascato.

Dormii male, e quando mi svegliai ero ancora più nervosa della sera prima. Controllai il telefono, aspettandomi di trovare qualche messaggio di Truly. Di sicuro aveva saputo cos’era successo la sera prima. Chase era sicuramente il tipo che si vantava.

Lanciai un’occhiata all’orologio e mi resi conto di avere meno di mezz’ora prima di scappare per prendere l’aereo in tempo. Mi cambiai e raccolsi la mia roba cercando, senza riuscirci, di non pensare a niente.

Forse avrei dovuto essere più schietta con Chase. L’avevo visto insieme ai fratelli abbastanza da capire che non era così male. Quei tre avevano un legame sincero e genuino. Se gli avessi chiesto di tenersi per sé la nostra trasgressione, forse avrebbe collaborato. Ma era troppo tardi, sicuramente l’aveva spiattellato a tutti. Avrei dovuto subirmelo all’università, con il suo sorrisetto trionfante. Peggio ancora, avrei dovuto guardarlo passare alla conquista successiva. Rimasi sorpresa e imbarazzata da quanto quel pensiero mi faceva male.

A quell’ora, l’albergo era relativamente tranquillo. Mentre attraversavo il lungo corridoio con le porte chiuse, mi ritrovai a chiedermi cosa ci sarebbe stato dietro. Lì da qualche parte c’era sicuramente una coppia di sposini felicissima, ma anche vari amanti e probabilmente molte anime solitarie che speravano che il giorno successivo sarebbe stato migliore del precedente.

Lasciai veloce l’albergo e presi la navetta per l’aeroporto insieme a una coppia di anziani con gli occhi velati che mi informò che stavano tornando a Fresno. Cercai di sorridere con educazione ma non avevo niente da dire, né a loro né su Fresno, quindi guardai il paesaggio colorato di Las Vegas scorrere fuori dal finestrino. Anche se avrei dovuto, non ero dispiaciuta di aver fatto quel viaggio. Durante l’ora trascorsa con Chase era stata la prima volta in cui mi ero sentita normale dopo tanto tempo, come se facessi parte del mondo. Non era una brutta sensazione.

Per fortuna, riuscii a sedermi in un posto vicino al finestrino. Il volo fu breve, ma anche se fossi stata di umore migliore non ero una che chiacchierava, soprattutto con gli estranei. La donna accanto a me indossava abiti che le sarebbero andati bene qualche decennio prima. Dopo alcuni minuti in cui mi aveva intrattenuta con i particolari del suo brutto divorzio, si arrese e mi lasciò in pace. Non potevo proprio farlo. Non riuscivo a essere falsa, a stamparmi in faccia un sorriso ridicolo mentre una che non avevo mai visto mi raccontava cavolate che avrei dimenticato nel giro di un’ora. Non capivo cosa ci guadagnasse la gente a parlare dei propri problemi. Per quanto mi riguardava, c’erano troppe parole che non riuscivo neanche a immaginare di poter pronunciare ad alta voce.

Chiusi gli occhi quando sentii che l’aereo decollava e non li riaprii finché non lo sentii atterrate. La zona che circondava Phoenix non era molto diversa da quella intorno a Las Vegas. Entrambe le città erano punti luminosi ricavati dall’aspro deserto, anche se Phoenix aveva un aspetto più tranquillo.

«È stato bello chiacchierare con te», disse la donna accanto a me prima che scendessimo. Sbattei le palpebre e mi chiesi se fosse stata sarcastica. Mi resi conto che non rispondendo ero stata maleducata, ma all’improvviso mi sentii stanchissima. Vidi i suoi colpi di sole esagerati sparire tra la folla dell’aeroporto, e un attimo dopo ne venni inghiottita io stessa.

Mentre aspettavo sul marciapiedi davanti al terminal, un ragazzo con la maglietta dell’università mi chiese se volevo condividere un taxi fino a Tempe. Scossi la testa e strinsi i miei bagagli. Lui aggrottò le sopracciglia, scrollò le spalle e, anche se molto probabilmente stava cercando di risparmiare qualche dollaro e non aveva cattive intenzioni, non volevo avere a che fare con nessuno. Ero una stronza, lo sapevo.

Almeno il tassista fu felice di portarmi dove volevo senza cercare di farmi fare un monologo. Appoggiai la schiena al sedile e fissai le cime marroni del Papago Park mentre ci avvicinavamo all’università. La macchina puzzava come uno spogliatoio maschile.

L’appartamento che condividevo con Truly era a qualche isolato dal campus. L’Arizona State era una delle università più grandi del Paese ed era circondata da un labirinto di complessi residenziali. Sembrava di vivere in un universo surreale di Ai confini della realtà in cui nessuno superava i venticinque anni.

Aprii la porta di casa con un sospiro e lasciai cadere i bagagli. Dolly, la gatta di Truly, era in mezzo al salotto e muoveva di scatto la coda mentre mi guardava crollare sul divano.

«Scusa», le dissi. «Per le prossime ore ci sono solo io». Truly avrebbe preso il volo pomeridiano con Chase e Creed. Sarebbero stati solo loro tre a tornare, visto che i neosposi avevano intenzione di restare a Las Vegas per qualche giorno e godersi una piccola luna di miele.

Mi trovai a pensare a Saylor e Cord, a quello che ci voleva per stare davanti a un’altra persona e pronunciare un voto solenne che ti avrebbe legato a lei. Non ero mai stata innamorata. Forse ci ero andata vicino nell’autunno del terzo anno delle superiori: tre mesi intensi con il ragazzo d’oro locale, Derek Goldman. Durante quell’infatuazione avevo quasi perso la verginità; di sicuro avevo perso la mia indole fiduciosa quando mi aveva mollato per andare da una più disponibile. Ma andava bene così: essere scaricata in quel modo mi aveva resa più forte in una maniera che mi sarebbe servita da lì a poco, quando il mio mondo sarebbe crollato.

I primi diciassette anni della mia vita erano stati idilliaci: ero l’unica figlia femmina e stavo crescendo in un ambiente privilegiato, in una zona piuttosto ricca poco distante da Manhattan. Sapevo che mio padre non se ne andava in città ogni mattina con addosso una cravatta come tutti gli altri e che non dovevo parlare del giro di scommesse, ma era sempre stato così. Avevo due fratelli ma ero legata solo a Robert, il più grande. Michael era sempre stato una specie di mistero intricato. Lo era ancora.

Poi mia madre, da donna di mezza età vivace e in salute che era, finì costretta a letto e morì praticamente da un giorno all’altro. Sembrava che il pomeriggio in cui ero tornata a casa e avevo trovato i miei genitori che piangevano in salotto dopo una visita del medico fosse stato l’elemento catalizzatore di quello che era successo dopo. Era stata la prima tessera del domino a cadere, la carta che aveva fatto crollare tutta la casa vacillante. Ma sapevo che non era del tutto vero: mio padre sarebbe comunque andato in prigione. A mio fratello Robbie avrebbero comunque sparato davanti a un locale nel Queens. E io sarei comunque scappata dall’altra parte del Paese per evitare lo scandalo – e i ricordi. Le uniche cose di valore che ero riuscita a portare con me erano la collana d’oro con la stella di David di mia madre, la sua Buick marroncina in cui si sentiva ancora il suo profumo e un brutto tavolino che era della sua famiglia fin dagli anni Venti.

Ironia della sorte, l’attività che per mio padre e mio fratello era finita male, era stata anche la prima che avevo considerato. Ma quando ero arrivata in Arizona non avevo visto molte alternative, a parte l’unico lavoro di cui sapevo qualcosa. Avevo iniziato con poco, sfruttando i contatti rimasti della mia famiglia. Alonzo, un amico di Robbie, mi aveva presentata a Xavier Monroe. Alonzo era rimasto talmente terrorizzato dall’omicidio di mio fratello da fuggire da New York, e Phoenix doveva essergli sembrato un buon posto per mantenere un basso profilo. Non vedeva l’ora di aiutare la sorella dell’amico morto, anche se mi aveva avvertita di com’era lavorare per Xavier.

«Non stai fregando i soldi della birra degli universitari, Steph. Una mossa sbagliata, e sono cazzi».

Ma non avevo mollato, e avevo ignorato gli effetti negativi che si erano ripercossi su di me. La ragazza che ero, quella che era stata eletta reginetta del ballo, non si sarebbe riconosciuta: era sparita insieme a tutte le aspirazioni a cui un tempo mi aggrappavo, e a volte mi mancavano. A volte mi mancava preoccuparmi troppo dei vestiti e sognare le possibilità che riservava la giornata.

Ma sembrava storia antica. Ero diventata troppo spigolosa per preoccuparmi delle questioni umane. Avevo immaginato che, dopo aver arrancato in quegli anni difficili, potevo tornare a permettermi quei lussi. In quel momento stavo solo cercando di trovare la mia strada, in qualche modo. E stava funzionando. Le persone mi conoscevano e, anche se non gli piacevo, mi rispettavano. Inoltre, mentre tutti, intorno a me, erano schiacciati dal peso dei prestiti studenteschi, io firmavo un assegno ogni semestre.

Quello era un altro problema. Avevo dato un po’ i numeri quando Xavier aveva distribuito le penali, e dovevo ancora riprendermi. Con i soldi sarei stata a posto fino alla fine dell’anno, ma poi mi sarebbero rimasti tre semestri prima della laurea. Avevo fatto domanda per un prestito studentesco, ma non mi avevano ancora dato notizie. E come avrei fatto con le altre spese? Anche stringendo la cinghia e coabitando, mi servivano comunque i soldi per l’affitto e il cibo. Truly non avrebbe potuto darmi una mano con il misero stipendio da cameriera, ma comunque non gliel’avrei mai chiesto.

In qualche modo, dovevo rimettermi in carreggiata. Ero arrivata fino a lì solo con le mie forze ed ero rimasta in piedi in un mondo di uomini. Dovevo tornare allo stato in cui non c’era tempo di stare buttata su un divano rovinato a metà mattina e rimuginare sul passato.

«’Fanculo», dissi ad alta voce. Mi sentii un po’ meglio, un po’ più forte.

Dolly mi fissava a due metri di distanza. Si avvicinò piano e mi sfiorò la mano. Le diedi una grattatina dietro le orecchie e la presi in braccio. Di solito lo permetteva solo a Truly, ma quella gatta doveva avere qualche capacità extrasensoriale, perché sembrava sentire quando stavo di merda e diventava affettuosa.

Ce la potevo fare. Potevo isolarmi e rifiutare di provare sentimenti. Volevo lasciare fuori le distrazioni.

Eppure…

Ogni volta che ci provavo, continuava a tornarmi in mente Chase Gentry.