LONDRA
Il mio volo da Zurigo aveva due o tre minuti di ritardo, ma il suo da Roma addirittura più di mezz’ora. Così per una storia o un’altra tocca sempre a me aspettare Antonio nei posti. E da Croydon a Piccadilly, mai meno di tre quarti d’ora: anche di più stavolta perché è fra le sei e le sette di un giovedì, l’ora di un rush frenetico. E così non si arriva all’albergo (albergo? ma è un posto incredibile!) prima delle otto passate; gli altri naturalmente non ci sono più, e hanno lasciato i biglietti perché li raggiungiamo direttamente a teatro.
Non si fa in tempo a lavarsi, quasi. Non si fa in tempo a far niente, neanche a bere una sciocchezza. Il teatro è il Garrick, molto vicino; e neanche alla metà del primo atto siamo già dentro. Renato, Desideria, Giulio, l’amico inglese di Giulio che ci ha invitati: lì in una medesima fila, e pestiamo un po’ di piedi a tutti per raggiungere i nostri posti che sono in fondo, vicino all’aitante e a Boudeuse. Sul passaggio Desideria sporge una scatolaccia di cartone, e ride, prima ancora che siamo seduti: «Volete un po’ d’orrende chicche? Su, almeno tenetemela un po’». Ce l’abbandona e la buttiamo via. Di dietro, lasciano cadere tre o quattro ombrelli, sconfortati. Di faccia lei sta benissimo. «Hai visto che bene sta?» mi fa subito infatti Antonio.
Questo musical l’hanno già visto quasi tutti un anno o due fa in una periferia molto proletaria, «spendendo una fortuna in taxi, perché si sa che la serata popolare viene a costar più che l’Opera». Sarebbe il celebre Fings aint’ wot they used t’be, molto brechtiano e molto cockney, di Joan Littlewood, in questo dialetto molto svelto dell’East End, e coi nomi sul programma senza neanche una maiuscola: ma quanto mutato, sostengono tutti. Anche Desideria che non l’aveva visto, e lo ricostruisce adesso da vecchie descrizioni e dischi. Cascano i décors miseri, i tempi son lenti, e certo si fatica a capire i dialoghi, ci si dice nell’intervallo. Ma queste voci di mezza età sgarbate del vaudeville inglese fanno goder subito, sempre. Concertati di tossi e catarri, incantevoli birignao di sguaiataggini! Volubilità instancabile, dispettosità inesausta: e tutto inventato, e tutto codificato!... Giulio distribuisce lo champagne davanti a un piccolissimo bar nel foyer cadente: come una maestra a un picnic. Ma insomma, almeno le canzoni sono divertenti e il charleston va benissimo. L’amico di Giulio preoccupato che ci divertiamo davvero continua a fare dei sorrisini preraffaelliti, e insiste con l’offerta della praline. Lo ringraziamo coi nostri musini più affabili, lo facciamo contento con un paio di gai e spensierati «how refreshing!» che vengono immediatamente lodati per la buona pronuncia; e impariamo che fa l’arredatore, ha inventato il paralume attualmente più à la page e ovunque pubblicato sui Sunday supplements, si chiama Jeremy. Ha anche ritrovato un paio di Tiepolo che erano stati ricoperti dietro un pannello in un’ambasciata araba.
«So tutto» fa Antonio. «Sua madre è una famosa, una di quelle svagate edoardiane lilla e celesti col profilo ove manca sempre un pezzo di mento o qualcosa: Lady Cheddar; e sentivo da Roland Mozzarella detto Mozza che a un pranzo di Lord e Lady Stilton sull’Appia Antica l’avevano seduta a tavola vicino a Alec Guinness. E lei lo scambia subito con Osbert Lancaster, continua a ripetergli che tutti i suoi amici adorano i suoi Christmas cards, tanto che continuano a mandarli anche a Pasqua. Lui risponde che il nome è Guinness. “Di quale ramo?” si interessa subito lei. “L’attore”. “Ah, che cosa straordinaria! Che peccato, non vado mai al cinema”. Dopo un po’ torna a domandargli cosa prepara di bello per il Natale prossimo. Lui risponde che passa per Roma diretto in Estremo Oriente per girare appunto un film. “Ah, ma che idea straordinaria, girare un film!” grida questa madre di Jeremy, spaventando tutti; e si rivolge all’intera tavola: “E in Estremo Oriente! Ma è meraviglioso! Non sono cose assolutamente incredibili?”».
Anche Antonio però è sorpreso di trovar qui Renato. Non lo sapeva, glielo racconto io, che Klaus m’ha telefonato da Milano, per l’inaugurazione della Scala, un piccolo Sturm und Drang. Non so con quale cabala o intrigo, ma insomma la sua versione è che lui Klaus si sarebbe imposto con Renato perché sua madre facesse delle simpatiche riparazioni in pubblico dopo the Spoleto adventure. «Quando si è tutti seduti lì al Savini o al Biffi dopo il turno Lusso, tua madre molto carinamente si alza dal suo tavolo e viene o passa di lì disinvolta come sempre a farmi un bel saluto di fronte a tutti. Poi torna indietro o fa quello che vuole, perché non pretendo altro. Io sarò perfetto. Altrimenti...». Altrimenti cosa, poi non so. Però intanto ha funzionato, m’ha detto che lei si è veramente alzata, è andata lì a far le sue disinvolture, e via.
«E Meneghella?» chiediamo, quando siamo al ristorante. «Viene, viene, l’ingorda, starà facendosi prestare i soldi» sorride Giulio. È un posto cinese arredato all’americana, con le tovaglie nere e paglia dorata alle pareti: l’ha fatto Jeremy! (Non pagherà niente?). Ci accendono le candeline rosse. Tanti cinesi tutti per noi. «E Ferdinando?» chiedo.
«È a Lourdes, fa i miracoli» risponde subito Giulio.
«Ma figurati se lo lasciano...» fa Renato. «Non può nessuno, in quei posti lì: solo la Madonna».
Ordiniamo i nostri polli e scampi alla mandorla, i tristi risi. Arrivano le tazzine tiepide di sake. «Ti assicuro» fa Giulio. «Non meno di quattro, autenticati, in poco più di un mese. È lì col suo patrigno, del resto».
«L’ammiraglio?» chiede Desideria, già urlando dal ridere.
«Sì, proprio. L’ammiraglio Carmagnola,» le fa lui «che fino a un paio d’anni fa era una specie di Gronchi; però più secco, coi baffettini in su, bianchi, e lo sguardo pericoloso; a Vienna tutti gli anni, d’autunno, a farsi un po’ d’abiti verdi e bere il vino nuovo nelle gargotes di Grinzing. Magari con qualche vecchio ex-attendente che potrebbe anche chiamarsi l’Alpenstock-Primaveri, e ricordano insieme tutti i soccorsi dell’Ordine di Malta che sono riusciti a portare dove non arrivava neanche la Croce Rossa... E va dicendo: “bisognerebbe frustarli tutti a sangue, quelli coi capelli lunghi!”. Cioè, per lui, artisti, poeti, bohémiens, brasiliani, coreografi, grafici... L’ho sentito io: “o sono anormali, o sono comunisti!”. In casa della vecchia Chiablese: “una delle due: se sono anormali, c’è il Cottolengo apposta; ma se sono comunisti, tutti subito in Russia!”... Mi ricordo a un pranzo da quella tua zia che non ti fa piacere» fa improvvisamente a Desideria, che scuote gli occhi. «Arriva una bisque che non val niente, nelle famose scodelle di vermeil; lui tocca la sua; si volta a mia madre che era sua vicina, e le fa: “buone per tenere in caldo la zuppa!”».
«Molto navale, come spirito» fa Desideria.
«Sì, sì, molto navale, ma si sa» fanno tutti.
Arrivano dei risi peggio l’uno dell’altro, chiediamo l’ultimo vino prima che scatti la chiusura.
«E adesso che si è tagliato i baffi, non lo si distingue più dal Manzoni negli ultimi ritratti. Un po’ cane bracco, dimagrito, con le guance giù; teme la morte, ma tanto; e passa le giornate barellando, con Ferdinando. Sua moglie ormai si ubriaca anche al Cambio; e ogni tanto fa un pass ai camerieri, anche sui laghi; ma un po’ da stanca, come non credendoci lei stessa. Che è poi la cosa peggiore. La sera dicono il rosario negli alberghi. Dalle lettere che mi scrive Ferdinando si capisce che sono felici».
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Questo posto ove abitiamo è veramente «hard to believe» e totalmente «too incredible!». Una vecchia caverna georgiana chiamata anche «la tana», foderata di peluches verdi stinte e d’una moquette a foglie d’acanto, interamente lisa e ravagée da una moltitudine di disastrosi breakfasts in bed, in un meandro di St James’s Street e a un passo dal venerabile Ritz. Infatti è poi sempre lì al Ritz che ci si dà simposio per l’aperitivo d’emergenza e il benché minimo tè di rappresentanza. Anche con un erudito mandato a Antonio da un poeta del British Council perché fa ricerche su pentole e fornelli degli eretici piemontesi del Millecento, mentre la moglie, artista, opera su cortecce e sugheri, su sassi, su sacchi, su suole. Non si raccolgono invece più le piccole storie come quella (che deve risalire a Meneghella) sugli amori di Gian Galeazzo Sforza con una graziosissima commessa della Rinascente che non gli si concedeva ricordandogli che quando il suo patrigno cercava di stuprarla piccina, tutte le oche del cortile a Rogoredo gridavano ghé-ghé-ghé, e questo le provocava tuttora delle contrazioni. I due trascorrevano casti e furtivi idilli in località desuete quali Miradolo o Porretta Terme, ove però una sera si trovarono commentati da una tavolata attigua di Prinetti e Gavazzi di ritorno dalla Versilia. «Chi sono? Sono milanesi! Mi pare di conoscerli!» dicevano questi. Finché una, più sicura: «Lei è di certo una Sforza, lui non so!».
Nessun rumore, come nelle poesie sulla neve. Questo è un cul-de-sac tutto di tane e spelonche di felpe e vecchi sarti e biblioteche coloniali e clubs molto sepolcrali dove nelle vetrate guarnite di tropeoli in plastica uscendo la mattina e rientrando molto più tardi si vedono su divani e poltrone sempre gli stessi morti con le facce rosee o paonazze sopra i medesimi quotidiani. Le finestre dietro dànno su una cappella bombardata, mai riparata; un pratino; un muro; delle buche; e al di là un cantiere di costruzioni, con un grattacielo che s’alza adagio e una gran gru davanti che s’agita, con su scritto “McAlpine”. Ma abbastanza distaccata, non dà fastidio, non dà fastidio, direbbe la Trona.
I portieri sono reduci di Sebastopoli, sopravvissuti con tante medaglie e completamente svaniti. Macché abili reclute, pronte a intascare con un minimo corrispettivo da parte loro la grossa mancia già lì pronta sul tavolo. Dopo parecchi giorni, non sanno ancora che abitiamo in questa finezza, anche più cara (ho controllato) che il vicino Ritz. Ma gli appartamenti luridi sono poi comodi, rifatti verso il ’26 o ’27 e quindi chiari, sotto lo sporco: losanghe di specchio rosa conficcate nelle ante degli armadi Déco dove l’impiallacciatura si solleva e il cardine si ribella. Molta radica, molto noce, e molti cerbiatti di maiolica verde, anche al cesso.
Stiamo fra il secondo e il terzo piano, tutti; e io con Antonio abbiamo un salotto che non usiamo mai con poltrone color tabacco fetenti e un gran camino a specchi e lo scrittoietto da gaia divorziata che risponde agli auguri, e un mobilino basso che non riesce a star chiuso per le bottiglie private, con specchietti già andati a male dentro e fuori e squallidi anelli portabicchieri che scattano quando si prendono le antine a calci. La nostra stanza da letto ha un bagno “ricavato” in fondo a un corridoietto lugubre, e tre ore per riempire la vasca; e un closet dove si può entrare solo in ginocchio volendo usar l’unica presa per i rasoi elettrici, che è in fondo in fondo sopra un tavolino della bambola con una tovaglietta molto plissée di damasco sintetico.
L’ascensore va a braccia! Senza scherzi, si pensava che volessero far gli spiritosi per cavarci di tasca questi pennies pesantissimi che non valgon più niente, però ci si entra con un disgraziato che ha cento anni, e veramente lui poveretto si aggrappa a una fune scusandosi: tira, tira, fa quel che può, e adagio adagio magari si va su. Quindi facciamo sempre la scala a piedi, scivolando e cascando ove la passatoia è più logora; e intanto ci corrono sempre dietro come se fossimo intraprendenti giovanotti abbienti a caccia di vecchietti con le pezze al culo, morenti. Tutto frusto, spelato, smangiato, consunto, «di un délabré!», ma diventato d’una moda smodata, pare molto di recente, e per questo si paga spropositatamente. Anche più che al Savoy: ho telefonato al direttore perché è uno che veniva a St. Moritz.
Luiggi arriva subito dopo di noi, e ha una suite da solo. E Desideria stranamente divide la sua, che è la più bella, con Renato: due stanze a un letto con gli stessi profumi di Floris e le stesse vestaglie indiane buttate da tutte le parti. Entrando, la stanza di lei si distingue solo per la bottiglia di fernet; e una salaccia in mezzo abbastanza ampia, piena di rose, di lampade in forma di rose, di vassoi con tubi d’alka-seltzer, una quantità insana di riviste e pacchetti, e la distinzione di un televisore Tudor che non prende l’Italia. Giulio invece abita fuori, dalle parti di Jeremy o addirittura con Jeremy, verso Islington, zona di sottopassaggi succulenti con avventure terra-terra per mitomani come loro. E quindi i due girano sempre insieme in una Flavia “tortora” con giornali e pacchetti che si accumulano sul sedile di dietro fra le porcherie e lo sporco. Alberico è al Savoy, ha le sue prove e non lo si vede; e l’ubriacona redenta quando arriva si installa dietro Eaton Square nel buco di un altro loro amico che fa l’antiquario e si chiama come tutti Jonathan.
Il primo désarroi passa, dopo la caduta. Si era abituati a scale e pianerottoli più verso il South e il West di Londra, dove bastava aprir la porta e irrompevano a buon prezzo gli ussari. Ma essendo stavolta così mondani, decidiamo di restar nella tana, prevale il languore: sai com’è centrale, vedi com’è comoda, tu hai voglia di rifar le valigie io no... Si scende a rasentare il gusto dell’Orrido e delle Forfore, che però qui nasce e qui muore... Telefoniste anche più rincoglionite dei portieri: Costantinopoli no, New Delhi buonanotte, ha detto Lugano o Luxor?... quantunque gli appartamenti siano una ventina in tutto, non più; e non meno d’una mezza giornata per un tè. Però quando arriva è glorioso, con tutte le sue argenterie, i muffins caldi perfetti. «Sai che Mary McCarthy è andata a trovare Ivy Compton-Burnett, e quella tremenda pur di non parlare di letteratura è riuscita a farla discorrere per più di un’ora solo di muffins e scones?». Ma certo, si ha impressione che scaldare un po’ d’acqua sia diventato un eroismo inglese per cui esclamare «splendid!» di cuore.
Le mattine specialmente sono stupende, svegliandosi dietro il «please do not disturb» a ore per loro inconcepibili – perché sennò, le albe cosa mi offrono? – e poi con l’irruzione fra tende e letti di splendidi giornali croccanti, con burri e mieli e tortini, crostini, marmellatine, succhi. Si viene al dunque! Lo strato o cumulo di giornali ideali viene freneticamente divorato dentro le vasche colme di schiume blu e verdi fra continue telefonate di «devi vedere questo!» e «questo non si può perderlo!» e «lasciatemi finire solo questa book review!» e «insomma a che ora andiamo fuori?» da una stanza all’altra; e dopo un po’ i pavimenti sono coperti di quotidiani squartati, e settimanali squarciati su qualche pagina indimenticabile, come più tardi nel pomeriggio si riempiono di carte gialle e azzurre e marrone di pacchetti, e crepitano duramente, traboccando dai cesti già pieni di sacchetti da grandi magazzini, di nastri rossi, di buste di cellophane gettate in fondo perché sono quelle che fanno soffocare a infilarci dentro la testa e si muore.
L’urlo più frequente: «Non buttate via i miei ritagli!»... Segnati con matite a colori, infilati nelle buste di manilla con su “Variorum” o “Misc”, brandelli di critica incantevole da riportare tesoreggiati a Roma: «Una commedia convenzionale non diventa moderna solo perché la si ambienta nel Nulla e non in un salotto»... «Quando Re Lear dice “slacciatemi il bottone” non intende nulla di cosmico, intende appunto un bottone»... «I grandi drammi sono tutti dettagliati e concreti, sono i critici e gli spettatori che intendono gli ultrasuoni al di là delle parole di Shakespeare o Cechov, gli autori non ne sapevano niente perché erano in fondo alla miniera a scavare la pietra successiva»...
«Fissate lungamente con l’obiettivo una località in esterni con tempo non buono, fate ascoltare un suono acuto preferibilmente da uno strumento a fiato, e con ogni probabilità otterrete un profondo commento metafisico sull’aridità e la vuotaggine dell’esistenza umana»... «Una spiaggia molto bagnata, un edificio non ameno in un’alba livida, un giardinetto con un minimo di pioggia, una piazza deserta coi giornali di ieri spazzati dal vento: non importa quanto vi si insista sopra, purché il tutto sia assai spopolato: è quasi impossibile che l’impressione non risulti poetica»... «Le regole per il lirismo in interni sono piuttosto diverse perché qui non ha rilevanza il cattivo tempo atmosferico e si può arrivare a gruppi di persone anche abbondanti: però devono tenere la voce bassa e le labbra per lo più serrate: l’esistenzialismo è questo. Nulla di più fenomenologico della macchina da presa per sottolineare l’essenziale insensibilità degli oggetti inanimati: armadi indifferenti, posacenere impassibili, paralumi senza passione... Una lunga panoramica tutta-oggetti intorno a una tavola silenziosa, e se c’è una caffettiera ostile si può anche fare a meno della nota tirata dello strumento a fiato: basta anche il ticchettìo di una comune sveglia per ottenere un’intensa glossa filosofica e lirica sulla squallida essenza dell’esistenza borghese nell’intero Novecento...».
E si approfondiscono le riflessioni, stringendole in pochi minuti: «Ma certo, al cinema come nella letteratura, conta soprattutto la posizione dove ci si mette. Se l’autore si pone dalla parte dei diseredati, l’opera si dirà per ciò stesso riuscita. Così come la scioretta non può umanamente sbagliare, quando si mette il vestitino nero; e il Rossi, per il solo fatto di aver comprato un blazer, sarà definito un ragioniere chic».
«Chi si permetterebbe di non adorare i canti dei pescatori di tonni?».
«... Mentre il nostro Puccio Falconieri elegantissimo con la sua lobbia di Lobb’s e l’ombrello arrotolato va a fare il suo comizio all’inglese per i socialisti turatiani a Vigevano...». (Altra ministoria milanese di Meneghella: certamente unpopular per il microstorico degli schiacciapatate e dei cavaturaccioli). «... con l’aiuto di mio nipote Carlo Ravaschieri che provvede al camioncino e al palchetto: qui ci vorrebbe l’Antonioni migliore!... Viene l’ora, e una piccola folla si raccoglie sul lato opposto di quella splendida piazza... deserta!... Carlo e Puccio fanno gentilmente segno di venire avanti, sotto i microfoni, dove non c’è nessuno; e quelli cortesemente si schermiscono... Avete presente quella stupenda architettura viscontea e sforzesca?... Poi passa l’autobus, tutti salgono e partono: era la fermata...».
Dentro-e-fuori continui, è un dicembre limpido e volage come una primavera svizzera a duemila metri: sole, spifferi, ombrelli di portieri, sportelli di taxi, sereno, raggi, scrosci brevi di pioggia, ventate di «thank you», «thank you», «please», «oh, thanks», «I’m sorry», «you’re welcome»; «thank you», «never mind», «mind the step», «close the door», «turn the knob», «thank you, thank you, come back soon»... Tutto un gran sbattere di commessi, commesse, liftiers, fattorini, mani tese, pennies, pennies, scellini, scellini, piccoli inchini, piccole mance con grosse monete – «un mark, un mark, un penny!» – il resto che arriva coi suoi plufff per tubo pneumatico nei negozi... Mucchi di cashmere color erica e ardesia sui banconi vecchi di legno, copie del “Times” e del “Guardian” che scivolano crepitando sotto la porta, tintinnii di caffettiere, sforbiciature di parrucchieri in odor di Penhaligon, carta lucida, nastri colorati, cataloghi di mostre, sweaters infilati dalla testa, vestaglie di seta che volano, profumi provati col tappo di vetro sul dorso di una mano e poi dell’altra, «vuoi anche un mio piede?», scontri rapidissimi in ascensore fra uno che sale e uno che esce, «dove vai ancora?», «torno subito, ho una cosa!», «ridammi l’ombrello!», «tieni le bottiglie!», seggiole messe e tolte dai camerieri sotto Desideria, «chi dà i posti, qui?», «oggi fate voi!», «ma Jonathan non è il più vecchio?», «ma il festeggiato è Jeremy!», Luiggi che assaggia un vino e dice che va bene con l’occhio non convinto, sherry piccoliiissimi al bar del teatro, applausi davanti al sipario che s’abbassa e si chiude su Margaret Leighton, Gladys Cooper, Celia Johnson, Peggy Ashcroft, Vivien Leigh.
Stavolta la nostra Londra è soprattutto così, cashmere e commedie, antiquari e Jermyn Street; e non la Chelsea dove ci si dice halloo tra sfrontati e preraffaelliti sui marciapiedi o la City dove all’una scendono altezzosi e smorfiosi in pin-stripe dagli uffici per mostrare il didietro rosa ai proletari alticci nei cessi coi buchi d’antico stampo. Invece, Royal Academy e disegni di Cézanne e questi vegliardi che paiono già morti nelle finestre dei clubs intorno alla tana. E i fischietti per chiamare i taxi. E il grand tour dei ristoranti da citare poi come classici: Wheeler’s, Simpson’s, la Reserve, il Connaught dove ci cambiano solennemente la tovaglia a metà del pranzo, il grill del Savoy. Colazioncine con una vichyssoise, un gran roastbeef, tanti formaggi, e claret; o anche ostriche e birra scura, Guinness o Bass No. 1, quelle meravigliose pesanti e dolci, grassissime, forse fatte proprio filtrando la segatura e gli stracci nell’acqua lurida della Liffey: amica della Limmat? Loro comunque assicurano che nei suoi giri per Dublino Mr Bloom si ferma qua e là a sorseggiare appunto Bass No. 1.
Ma poi nel dubbio o nelle ore strane si mangia qui da Wilton’s o da Prunier, a un passo dalla tana: posti di pesci, di gusci, di acquari, di buoni lobster cocktails. E Giulio, sempre: «L’insalata fa malissimo! La verdura è velenosa! Le patate fanno venire il cancro! Ravanelli e broccoletti causano gravidanze in terra straniera!»... Però dalla tana si finisce a uscir tardi comunque, difficilmente prima di mezzogiorno, per buttarci (loro) sugli antiquari, e noi magari su da Lillywhite’s all’ultimo piano o da Bill’s in uno scantinato a strofinare fra i polpastrelli campioni di stoffe meravigliose a spina-di-pesce grigio-cenere o celeste-beige da ordinare la sera perché arrivano i tagli ogni mattina dalla Scozia, forse col treno del latte?... E giù nel negozio di scarpe a metà di Bond Street a farci misurare la pianta larga, non da scarpino italiano rococò, con questo apparecchio a raggi X che fa certo malissimo, farà venire almeno il cancro? «E dal sarto?». «Non si avrebbe mai il tempo per le prove. Qui si prende la stoffa». Allora, a discutere di pin-stripe e chalk-stripe e conception and execution and complexity and contradiction da un mercante molto celebrato in Savile Row che appena vede i nostri campioncini per giacche scozzesi dice «oh, that’s for Italians», e le tira fuori da un settore apposta. Subito dietro, in una trasversalina alle spalle dell’Albany, il negozietto delle stringhe da scarpe di balena, che non si rompono mai: perciò ne fanno comprare una dozzina anche a me.
Prendono tutti certe spazzole, e spazzolini, e pettini fatti a mano. Dentro invece dai librai per controllare se sono riapparsi dei Beerbohm e Beckford perduti. Ecco da Hatchard’s dei Baron Corvo inediti! Un Betjeman sul Kitsch vittoriano religioso e ferroviario, un Beckwith sugli avori bizantini, dei Beckett vecchissimi, i viaggi in Messico di Sybille Bedford, i versi di Thomas Lovell Beddoes in Germania e in Svizzera... «Lasciatemi giù in Egerton Crescent, da John Lehmann, e poi più!»... E in fondo alla stationery, alla ricerca di un classificatore alfabetico adatto ai vecchi cassetti: ne hanno di tutte le dimensioni, a fisarmonica, e con le sue misure dietro in piedi e pollici si trova subito quello giusto per qualunque forma: così l’interno d’un comò Louis XVI e d’uno Impero saranno trasformati in schedari. Invece, senza con noi le misure dei letti, come fare con le lenzuola di lino giallo, che tanta luminosità conferiscono alla pelle dell’occasionale ospite? Si sbaglierà, come con le scarpe in regalo, per eccesso. Da Simpson’s, per un blazer già fatto – «c’è poco da compatire! mi vanno bene perché ho una buona figura!» – e i pantaloni antracite di mezza stagione. Da Burberry’s, a lasciar giù un loro impermeabile vecchio da pulire. Sei settimane? Va bene, qualcuno verrà pur su. Poco più d’una settimana invece per far mettere le iniziali su un grosso portafoglio, di vitello nero, con gli angoli di metallo dorato e gli scomparti rossi; e forse una decina di giorni per rifare la carta intestata, celestina smunta, blu-su-blu. Va bene: ce la fanno ancora.
Agendine. Grandi e piccole, regalini per Capodanno, ma a chi le rosse, e a chi le blu? E a chi quelle per caccia e pesca, bionde e brune, partite di carte o di golf? «Sandrino è più golfista o più gollista, da quando non c’è più madame mère?». «Sandra si offenderà, con l’album dei posti a tavola?». «E allora, a chi il Betting Book, l’Investment Book, i Gift Notes, i Wine Notes, senza permali, in Italia?»... I fiammiferi di Dunhill in tanti colori con le iniziali dorate; e nei locali italiani, poi, tutti lì intorno, «faunpovedé!». «Tenete, brav’uomo...».
Poi le riviste. Libri e cataloghi vengono ordinati e spediti direttamente a casa, col conto corrente; e i dischi lo stesso; ma le riviste vanno scelte e sfogliate qui, fra quelle che in Italia non arrivano: “Paris Review”, “Twentieth Century”, “London Magazine”, “Art & Literature”, “Transatlantic”, “Big Table”, quelle satiriche, quelle universitarie di Oxford, quelle pornografiche di Golden Square. Cravatte: di foulard, un po’ opache e polverose, a disegnini paisley; o da gran vecchio nero-blu sopra blu-nero da sera, come a Milano e a Roma non si trovano e semmai solo a Genova. Ma con Harborow’s pare che siamo arrivati a una strettezza sui tre centimetri come da Hermès l’anno scorso, e da Turnbull incombe quest’anno un rosa violento su tutte le righe e i pois. «Non li tenete più quei bei disegnini operati o ricamati molto minuti che ricordano i raggi dello Spirito Santo o i fulmini di Zeus Art Déco?»... E dentro e fuori da Colnaghi e da Agnew’s: tutto questo Seicento italiano. («Uffa, questo Seicento». «Come hanno fatto bene zio Giacinto e zia Cecilia a liberarsi di tutto il Seicento che avevano nelle case! Solo nella divisione di zia Matilde mi sono toccate quattordici Madonne da chambre de bonne, e non vi dico quanti fondi-oro della vecchia stanza dei compiti! e neanche un bel mobile!»).
Tutte queste fissazioni sui Ratti... Deianire, Proserpine, Europe, issate e rivoltate a jambes dans l’air fra spalliere e braccioli e volute di peli e di corna... Tori, centauri, cavalli marini, dondoli di crini e di setole, capitelli di vello: sogni, fantasmi per coppie barocche in crisi di stanchezza? Un buon quiz per Giuseppe interprete di sogni, fra mandolini e tulipani... Domenichini, Guercini, Franceschini, Cignani, Luca Giordani, Carboni, Carloni, Sancarloni, Cappuccini, Sabine, Sansoni, Santi Bambini... E gli angioloni rosa in calzari celesti che puntano la viola da gamba alle sante sempre in estasi, fra i satiri scimmiottoni con poodles bianchi e neri nei boschi di velluto fucsia... O se la suonano appoggiandola a questi abbondanti petti da addentare come dal salumiere, o anche in quelle cantine “Martyrs only” nell’East End decorate di garofani in cuoio nero e motociclette “black and blue”...
Ma che squallore, invece, il tristo sadomaso barocco dei disgustosi vegliardi così malvissuti e tanto poco soignés, seccatissimi perché gli angeli più pastosi di Bologna arrivan giù a suonargli la viola o la tromba fin nelle orecchie... Mai lavandosi e sempre in disordine anche quando si presentano alla Supervergine, come se andassero da una barbona: che mancanza di riguardo!... Sempre fra questi megeri e megere della iettatura capaci di ostentare solo piaghe ed ulcere cui bisogna reagir subito con le corna e i tiè-tiè perché la loro brutta réclame della Controriforma se la ripiglino tutta indietro fino all’ultima fistola in quel po-posto... Insieme a quel teschio del malaugurio che solo la strega di Biancaneve ha finalmente incominciato a prendere a calci...
E i loro ignobili complici, quei bambocci ruffiani tipo Murillo fatti su misura per eccitare i sordidi fantasmi dei vecchi devoti sodomiti cui non basta neanche più la candela dei beati martiri nello spossato po-po. Però mica male i visitatori: quelli che fanno le crocifissioni notturne nel parco di Wimbledon vengono qui in Jermyn Street senza neanche cambiarsi. E quest’anno il cuoio nero da Buona Ventura ha dei soffietti rossi intorno alle maniche più costruite, e delle impunture rosse lungo la cucitura dei jeans. Ma nei casi veramente estremi, il blouson è a losanghe di cuoio cucite con grosso filo, come nelle borse della spesa che si usavano nelle case di ringhiera: e oggi segnale di protervia sugli altri. Con caschi a elmo da cupola ascensionale o da viluppo discenditivo tra fratte e macchie come Rinaldi notturni a Hampstead Heath, in calzoncini di raso e stivali dopo la chiusura dei pubs...
E lì, Pan e Siringa e Pan per Focaccia, altro che Panem et Circenses... Ghigliottineidi quasi da rivista, assortimenti di Salomè e Giuditte in doppia fila come venditrici di capoccioni tagliati al bazar... «Se quell’Artemisia si vendicava così spesso per uno stupro subìto e non piaciuto, allora chissà cosa avrà provato il su’ babbo Orazio Gentileschi, con tutti gli Oloferni che ha dipinto più di lei? Problemi simili, o in quella casa si producevano gli Oloferni in serie per una richiesta di mercato scostumato?...».
E adesso, subito dei “puzzles” neo-carracceschi, sopra il roastbeef del Julius Bar, e su e giù per Jermyn Street col peggio nel peggio dei torinesi bocciati messi qui a far pratica di barocco e rococò perché sono la vergogna della loro mamma, del loro ex-marito, della ditta... «Riposo nella Fuga dal Colle Oppio... St Jeffrey da Glyndebourne accolto male sul Celio... St-Léon da Bruxelles in trono fra Santa Fe e Santa Cruz de Tenerife... Santa Marinella e Santa Severa coi simboli del Sant’Uffizio ... Santiago de Cuba con la parabola del non invitato... Santo Stefano Rotondo spiato dai vegliardi al bagno... Ritratto allegorico di San Satiro in Camporella davanti a un’erma di Santa Pazienza nel Traffico... Trionfo della Fede sulla Gelosia, fra Santo Domingo e Santorini... Santa Ninfa alle Tre Fontane rincorsa da Sant’Arcangelo in Onda... Allegoria di Santi di Tito fra Sant’Elia Antonio e Santayana George sulla Garzantina... Santorre di Santarosa esce illeso dalla fornace di Santippe... La discesa dei De Sanctis al Limbo... Il Beato Trapanato fra i Gladiatori. Le Tentazioni del Beato Trapanato. L’Adorazione dei Calciatori. L’Adorazione degli Autotrasportatori. Estasi del Beato Trapanato fra quattro legionari e un Carnefice. Estati del Beato Trapanato col Carnefice. Suor Papaya de Kiwi nella sua cella alle Calzolate, medita sulle nozze mistiche con San Gianfranco Trapanato, o con San Giancarlo Trivellato, Patrono degli Avieri. Don Groovy tentato ogni sera dai dèmoni, non appena hanno finito col Beato Dan da Far-out...».
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Arrivano rapporti d’occasioni: in fondo a King’s Road ci sono dei preraffaelliti a poco prezzo... In fondo a Fulham Road ci sono dei Burne-Jones carini, Paolo Valmarana ne ha presi per poco o niente... C’è anche un grande Gustave Moreau che nessuno vuole, per tremila sterline.
Tutti i competenti sono d’accordo: mode come quelle non torneranno mai più. Vero è che per una vecchia legge del mercato, «tutto quello che è stato di moda una volta è destinato a ritornare di moda quando vengono meno i classici». Ma per i preraffaelliti, insomma, nessun esperto lo ritiene possibile. E men che meno per i pompiers: “The roses of Heliogabalus”, un Alma-Tadema di grandi dimensioni, è stato venduto per ventimila sterline alla Royal Academy nel 1888, e appena rivenduto per duecentosessanta nel 1960. Tanto che si è commentato: una volta bastava vendere un solo Alma-Tadema per comprare tutti i Monet esistenti, e oggi è il contrario. Ma anche a New York i grandi formati vittoriani non “fanno” più di un migliaio di dollari, oggi. “Facevano” migliaia di sterline un secolo fa, spiegano, perché il proprietario del dipinto deteneva il copyright delle riproduzioni meccaniche, e queste sono diventate un grosso business dopo l’abolizione d’una certa imposta sui vetri, che ha messo alla portata delle “classi inferiori” le stampe di paesaggi e vacche al tramonto montate “all’inglese”...
Il Moreau? Mettendosi in tre, si potrebbe anche prenderlo, come investimento. E poi? In un deposito chissà per quanto? Con la difficoltà di rivenderlo, dal momento che è lì da mesi e mesi in questa galleria? Come regalo di nozze impegnativo, è troppo costoso anche in gruppo, e poi non piacerebbe. E in una casa, diventa protagonista d’una parete e dà a un’intera stanza un tono Kitsch! «Mi hanno offerto per poco l’appartamento con la gran terrazza sul ponte Zanardelli o Umberto I, pendant di Palazzo Primoli e con vista sul Palazzo di Giustizia e sul traffico. Ora, a parte la dimensione della terrazza per cui non sono possibili mezze soluzioni, e poi chi te la cura... Ma vi riesce di immaginare, a Roma, il Palazzo di Giustizia come sola vista lì davanti tutti i giorni, per anni, e sulla parete di fronte un Moreau?» dicono.
«Ma dov’è la qualità, fuori del mercato?»... «Solo un fatto di pubbliche relazioni e di molti soldi»... «Cosa salirà?»... «Compra solo quello che ti piace! come dicono gli arredatori!»... «E la Collezione dei Desideri, chiusi in fondo al cuor? cosa ci vorreste mettere?»... «Ah, non chiedetelo a me, non ho l’organo della vista per antiquariato, non ricordo neanche le grandi pareti nei musei! Vedo solo che qui si stanno vendendo tutti questi post-Carracci come se fossero tappezzerie o moquette. Però, poi, nelle case, come stanno?».
E la grafica? Antonio si lamenta. «Ho le pareti già piene, fra i libri, coi Klinger e i Beerbohm e i Denis e i Rops comprati per niente proprio qui! L’ultima volta a Parigi, nella nuova galleria della Sonnabend, ho preso per il bagno delle lito di Lichtenstein che costano meno d’una colazione da Raffatin & Honorine lì dietro: una signorina che soffre su un piroscafo, uno stivale che schiaccia una mano su una pistola, un sole che sorge sull’Ellade, un’astronave da fantascienza che dice “This must be the place!”... Adesso non c’è più spazio!... E i disegni che soffrono la luce, dove li metto? Li tiro fuori ogni tanto per guardarli? E se li voglio vendere, non essendo un collezionista né un mercante, chi me li compra, a Roma?... Già ho visto impallidire Alexander Iolas, quando gli ho detto che nella prossima casa vorrei farmi una parete onirica smontando e incorniciando l’album stupendo che mi ha regalato di Max Ernst. “Ma tu butti via il valore!”. “Ma io preferisco tenermi davanti agli occhi il bellissimo regalo che mi hai fatto tu!”... No, non è facile essere collezionisti».
«Un nostro amico di Venezia che potresti avere incontrato fra il lusco e il brusco a Rialto, Bubi Secondo, infatti,» osserva Giulio «si era fatto una collezione di dopobarba di tutti i paesi, a cui teneva moltissimo. È capitato a casa sua mentre lui non c’era Sayonara Michelangelo, un ex-bello così chiamato perché vende disegni finti in Giappone, in crisi di disintossicazione: glieli ha bevuti tutti».
Così, dopo i «non se ne può più» sulle tabacchiere tonde e i clichés litografici e le pietre dure, si prosegue solo un’altra collezioncina che “dà aura” senza incoraggiare il ladro: gli stupendi (o divertenti?) slags vittoriani fatti di pasta di carbone, dicono, ma con bei colori di ceramica marmorizzata: più comuni i viola, più rari gli azzurri e i verdi, rarissimi i marrone. E gran belle forme. Costano, per adesso, niente. E mai visti in Italia. Ma quando si riparla di visite d’arte, sempre quel richiamo: a Dulwich! a Dulwich! per vedere la leggendaria galleria molto fuori con i Poussin e i Claude Lorrain che dovevano andare a Varsavia da Stanislao Augusto, invece cadde il regno di Polonia e sono ancora qui. Ma è un po’ lontana, Dulwich: credo che anche stavolta non si farà.
Devono però tornare in giugno, per un ballo vicino a Oxford dove l’invito dice «Dress Operatic», dunque partono un pomeriggio per gli immensi depositi d’un sarto teatrale che veste anche il cinema e la Corte, nel Nord di Londra. Si sono scelti un paio di Scarpia, un Filippo II, un Turco in Italia, un Bey d’Algeri: nessuno ha osato un Duca di Mantova o un Don Giovanni. «E tu?». «Chissà che umido, nel parco tutta la notte. Ho chiesto qualcosa di russo, avevano un bellissimo Eugenio Onegin, con la giacca da portare su una spalla sola, c’è un cordone sotto per tenerla; è la prima volta che ballo con gli speroni, non so se è filologico». «E lei?». «Prima voleva un’Arabella, ma non ha resistito davanti a Elisabetta di Valois».
Desideria entra in tutti i negozi per bambini, compra golfini e calzettoni per una quantità di figli e figlie d’amiche; e ogni tanto fugge inseguita da mitomani romane che arrivano al Dorchester vestite da scozzesi a Cortina. Siccome di fondo è generosa, molto, si dà gran pena invece a scegliere cose per una sua amica che a una beneficenza del cancro deve incarnare la vera signora ideale per tutti i nouveaux riches che non ne hanno mai vista neanche una, e sborsano forse per questo. Ma non appena si sfiora una beneficenza rischia di cader preda di un’altra vecchia amica che abita abbandonata qui, e bisogna aiutarla; però è molto coinvolta nelle Cause, e cerca di trascinarla in tutte insieme: la tratta delle bianche, l’aborto delle negre, il birth control delle indiane, la rieducazione delle cinesi, e chiedendo soldi per tutte... «Bisogna stare attenti ai cinesi! Anche a Roma. A queste che si agitano per i cinesi, provare a suggerire di mettere una loro casa di Porto Santo Stefano a disposizione degli orfani di Grosseto, almeno d’inverno»... «Come proporre il famoso film sulla Battaglia d’Algeri, Part Two: quando finalmente liberati dall’oppressione francese fanno di tutto per seguire gli oppressori in Francia, si trovano oppressi a Parigi, e magari bisogna dare un giudizio storico»... «E se i milanesi fossero corsi a Vienna dopo il ’59 e i veneziani dopo il ’66?... Senso II? Moti di protesta?»... «E i tanti che si sono dati così da fare qui per decenni contro l’oppressione inglese in India? Dovrebbero approvare o biasimare gli indiani che vogliono abitare a Londra? Quale sarà la Causa più giusta?»... Ma svoltando per salvarsi dalle Cause dietro un angolo insignificante di Piccadilly, con Antonio, lei si lascia forse sfuggire una frase lievemente sinistra, da Momenti Storici: «Proprio dietro quel fioraio un mio consorte si dileguava con un banale pretesto, e non è stato veduto mai più». Ma forse fu solo un “vanilla moment”, come non detto, fra le Arcades dei papillons di velluto blu o viola o bordeaux con la fascia da sera, ricadendo come ogni giorno nella rivisitazione delle essenze.
Ormonde, Stephanotis, Honeysuckle, Rose Geranium, Lily of the Valley, English Fern, Sandalwood, su ogni centimetro di pelle disponibile; e provviste di bay-rhum e bay-olea per i nostri capelli corti; e mouthwash per il doposciocchezze. Anche dentro nel posto dei formaggi, tetro ma enciclopedico; e anche se non sarebbe pensabile portarsi dietro o spedire queste grosse forme antiche dai nomi irreali: un Caerpilly e un Wensleydale; e i diversi Cheddar; e il Cheshire blu o bianco e rosso; e lo Stilton nei suoi vasi scuri che (questi sì) andranno nel bagaglio. Formaggi con nomi da balletto di Diaghilev come il Blue Vinny e il Double Gloucester, oltre che un’antologia dei più capricciosi francesi di fattoria avvolti come Maddalene penitenti nel fieno e nella cenere, nelle foglie di fico o di vite. Giù ai vini scende Luiggi solo, a paragonare le cantine più mitiche con quelle alla fontana di Trevi: risale dopo una mattina intera (si alza presto), gesticolando con una bottiglia al seno, inaspettata, riscoperta, o da rivalutare. Da paragonare: sette Sauternes in una domenica di pioggia, discorrendo di sementi e piantine trovabili nella brutta stagione; e come portarle nascostamente in Italia.
Dentro da Cartier: di corsa all’ultima sala, dopo aver tentato invano di lasciar giù nella prima un orologio di Marcello da riparare. E da ritirare dal Cartier di Cannes, se quel suo film lo invitano al festival? No. Veniamo al dunque: i gemelli da polso; e dover scegliere tra le forme che si somigliano tutte, anellino a spirale e barretta in diagonale e rettangolino rigato in verticale, ma niente di caro se poi te li portano via. I pacchettini sigillati con ceralacca blu vengono dissigillati ancora caldi appena in strada, per evitare il ripensamento tardivo; e proprio uscendo si vede un set di bottoncini da sera piuttosto insoliti: zaffiri eccezionalmente scuri, opachi, intagliati in forma di more. “La Coltivazione del Gelso”! Ma sono carissimi, antichi. Niente. «... Eppure: Trovate, se ci riuscite, un esempio di brutto edificio, brutto mobile, brutto oggetto, fabbricato prima del 1820! È uno degli esercizi assegnati dal Dr Leavis a Cambridge trent’anni fa...».
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Un continuo vortice di regali, un risucchio, un gorgo, anche fra tutti loro. Per affetto o per scherzo. Dischi di Alice in Wonderland con Joan Greenwood, legumiere della Compagnia delle Indie, pressepapiers di cristallo con margheritine dentro, scatoline di Battersea, uova di Pasqua russe, portapastiglie di smalto, con su scritto «Pump Room – A Prefent from Bath». Vedo girare farfalle in quadro, pelose e blu, sottovetro: per ingentilire irsuti nipoti? E la carta da lettera con fodera striata gialla e nera, uso leopardo, per quale mai Selvaggia? Sento provare un dischetto di Joyce Grenfell: «L’anarchia mi sembra un’idea splendidamente totale, ma chi sarà responsabile per gli scarichi, così necessari per la società?».
Si accumulano sui mobili ingombranti jellies al porto, allo sherry, al bordeaux. Ma poi chi li trasporta? Scatoloni di verbena per alternanze d’infusi al canarino di Via Veneto, “dowager tea” per le ubriacone in odor di fernet. Torte nuziali mauve e pervinca, di zucchero, recapitate di sorpresa alla tana: passano per le scale, si sentono delle urla, si sente cadere. Soldoni di peppermint al cioccolato che si comprano a metraggio. Un vaso di cristallo tipo Lalique, in forma di balena, con Giona dentro, addormentato e opaco: per chi può essere? per un professionista? nelle cittadine d’origine? Non sono riusciti a trovare l’abat-jour fatto con una bottiglia di profumo in forma di salvagente, e una lampada nautica come tappo, che quindi va tolta ogni volta: dunque un gran bel regalo ad hoc per la Silvana.
Questo Natale incombe parecchio. Tutto uno scambio di regali, pacchetti sfogliati, mano che trema per impazienza, bamboleggiamento sull’indugio, ti ho detto di spegnere quella televisione, nastro spezzato coi denti, bacini veri o false commozioni, risate, whisky con un goccio di drambuie, Octavian, Sebastian, Forster, Durrell, Alexandria, Justine, “Piccolo Marina” (proprio Piccolo, per Noël Coward; e Bea Lillie: «My mother said / I never should / play with the gipsies in the wood, / if I did / she would say / naughty little girl to disobey»)... Docce, sciarpe, can-can, “Take my heart”, “June in January”, vestaglie volanti, catene d’oro da italiani, fernet. La lira continua a salire, la sterlina a scendere. Ogni giorno gli objets antichi costano meno. A tarda notte stanno ancora confezionando pacchetti: un Faust di Gounod con un frustino dal manico di madreperla, e l’avvertenza «Da usare solo insieme». Come i Liebeslieder di Brahms e i sigarini Davidoff, in uno stesso pacchetto. Il cofanetto “Astro-naughty boy” coi primi Mahler in microsolco non ancora arrivati in Italia, una Seconda Sinfonia con la Filarmonica dello Utah e una Sesta con quella di Rotterdam, più qualche bulbo del rarissimo tulipano quasi nero. Lunghi tagliacarte d’argento, marcati in molti punti, con il sapone da barba di Floris, nella sua conchina di legno da vasca. Un ritratto di Garibaldi dipinto su vetro, «come quello che tiene Denis Mack Smith nel suo studio a Oxford». Tutti i dischi esauriti di Dinu Lipatti che si riesce a trovare: Schumann, Grieg, Chopin. «E Wanda Landowska, per chi?». «Qui si dimentica Nadia Boulanger!». Animali d’argento: cervi, renne, le civette da tavola per Kiki; e il pesce grosso col suo pesce piccolo in bocca, già mezzo divorato, cioè il contrario della moltiplicazione dei pesci.
Antonio prende per Desideria una zuccheriera che dev’essere bavarese o austriaca, comunque cattolica, a tabernacolo; e riceve da lei due paia di calzettoni di lana pungentissimi, un’essenza di fieno-appena-tagliato, delle Walkirie del Trenta, una lente col manico di tartaruga, il carteggio Woolf-Strachey. A me lui regala un meraviglioso pullover di cashmere striato a spirale, filo celeste e filo marrone; Giulio mi dà un libro francese sulla “Marqueterie en paille” perché «altre marchette non ne avevano»; e lei, un calzascarpe di cinghiale, flessibile.
Bisogna che stiamo sempre più attenti. Se lei ci sente dire davanti a un negozio «mica male» di una cosa, mezza giornata dopo bussa un fattorino con un pacchetto, ed ecco la cosa con due versetti buffi scritti dietro una cartolina ancora più buffa, col Principe Consorte che inaugura qualche cosa o la Regina Carolina in tarda età. Ma anche stando sempre con noi ha abbastanza da fare con questi suoi amici inglesi che la circondano e l’inseguono, smorfiosi e tanti, però involontariamente proteggendola dalle italiane smaniose di consultarla come un oracolo dello shopping.
C’è un amico del signore che ama i momenti storici, ma questo forse un po’ in letargo o lutto, e dicendo ovvietà come se fossero profondissime: «L’ultima volta che ho visto Rosamond Lehmann... (pausa)... su un ascensore... (pausa)... da Harvey... (pausa intensa)... Nichols, o forse da Marks... (sospiro lunghissimo)... and Spenser...». E guarda fisso negli occhi, scrutando. Poi, quello che si immedesima nelle vecchie e dice severamente «ah, se fossi Mimì con tutti quei soldi!» e «ah, se fossi Lilì con tutte quelle figlie, vorrei ben dirgli: care mie!...». È appena stato in Francia, e disapprova, disapprova parecchio: i socialisti, la destra, “Le Monde”, gli algerini, i banchieri ebrei, il cinema e la televisione pieni solo di “mecs” e di “gousses”, i restauri del Louvre: «... ma per carità!... nemmeno più allo Châtelet!... perfino il “Figaro”!... neanche Pompidou con Madame Pompidou!...». È appena stato a un funerale a Ginevra, dove davanti al feretro si sentiva dire solo: «L’argent rentre dans la famille, on l’avait suivi, on l’avait suivi»...
I vari nomi non li veniamo a sapere quasi mai. Vengono indicati come il signore che ha le più belle dalie del mondo; quello con la pelliccia interna di un certo visone speciale, che allarga sotto i lampioni per far colpo col costo sulle dame vanesie; quello che ha una country house di centinaia di stanze piene di Rubens e un parco di centinaia d’ettari pieno di leoni, però dorme in una roulotte per strada dietro Eaton Square, ostruendo i garages dei nemici e lasciando i rifiuti sulle loro porte; naturalmente cambiando posto ogni notte. Quello che fa i nuovi mobili e lampadari con zanne e conchiglie e corna e unghie e denti e zoccoli, essendo un terzogenito. E l’inventore dei nuovi giornali di moda a colori per i ragazzini pop con un po’ di soldi da spendere. «I denari vengono tutti dalla moglie, Georgina Pucks, figlia dei grandi magazzini Pucks & Bottoms» spiega Jeremy. «Eredi lei e sua sorella Venetia, di tutto, in questo momento stanno tutt’e due nella casa marocchina che hanno a Nassau, con dei nuovi cantanti di colori sempre più bizzarri perché l’altro marito è stato assassinato al Carnevale di New Orleans. Lui è contento solo quando ha in casa non meno di tre duchesse, di cui almeno una che telefona al Primo Ministro dalla sua stanza da letto, sul suo letto carico di stole, per cambiare qualche sottosegretario». E Jonathan: «Chic, whitty, bittersweet, packed with brain-teasing paradox».
Certi suoi signori nitriscono come cavalli. Altri si raggomitolano come gatti in gessato. Uno s’addormenta a tavola come una marmotta da fumetti, dopo aver detto ovvietà come se fossero petulanze: «Literally!», su tutto. E dev’essere svegliato dal suo accompagnatore Seamus, subito chiamato “lo Scemo”, perché veramente è uno scemo... A un certo punto appare anche il signore che mangia i morti. Lo sostiene lei: ha il suo pacchettino sempre dietro, pieno di ditini, forse di bambini, se li farà dare da qualche clinica; e li sgranocchia anche in metropolitana. Una volta anche per strada, davanti al Brompton Oratory. Sentenzioso: «Fossi stato presente agli eventi riferiti nel primo libro del Genesi, talune sviste non si sarebbero verificate!». E Jonathan: «In caso di una Resurrezione Generale della Carne, non si troverà molti intorno a dirgli “hallo”, soprattutto se avrà la faccia dei suoi ultimi trent’anni, e non avrà perso il brutto vizio di sottrarre le patenti agli amici, per scrivere nella pagina delle infrazioni: “Ha investito due treni, sette autobus fermi, undici carrozzine con l’infante dentro”...».
Per due giorni abbiamo addosso Monsieur le Président, un ministro francese finto-giovane pieno di rughe abbronzate, molto scattante e senza cappotto, con dei «foui!» pieni d’aria compressa invece di «oui»; e pare che svegli le dame prestissimo quando sono ancora in deliquio per i prodotti, facendo delle cupe lepidezze tipo «e io invece alle sette e mezza già in un ufficio pieno di sole e di rose!», con quest’immagine sempre accelerata d’attraversamento di cortili importantissimi in abiti leggerissimi anche sotto zero... Ora il tono è tutto sull’«eccomi ancora qui per fare quel Mercato Comune!». Poi riparte subito per una caccia in Spagna, e di là telefona all’alba: «Italiani anche qui! Certi, in Gucci nuovissimi dai piedi alla testa! E fucili appena comprati!». Ma di parecchi, che le vediamo insieme, lei giura di non sapere onestamente chi sono, di non ricordare né i nomi né le facce. E chi sarà the Duke? «Di Worcestershire, come la salsa? Di Staffordshire, come i cani d’Alberico?» domanda Renato a Giulio. E questi gli risponde: «Almeno di Badminton e Tattersall, è uno dei proprietari terrieri più ricchi della nazione. Vive nella Nightmare Abbey, che ha ottocento stanze e forse ottomila Canaletti. E non sa che ha la ventura d’appartenere a un paese dove non si nominano incessantemente le libertà inglesi o l’eleganza inglese, da parte di cafoni e gagà, e a proposito di impresentabili...».
The Duke non piace. Appare improvviso: altissimo, sbilenco – non è ben fatto – e sta dietro a Desideria soprattutto con l’ombrello e in taxi, senza mai dir parola. Ma lei, come con tutti. Al solito Ritz; e lì sempre in quattro o cinque, dalla Banca Rothschild, dal “Sunday Times”, dalla Twentieth Century-Fox. Oppure si fa accompagnare a teatro, ma lì siamo sulla porta io e Antonio e Giulio coi biglietti pronti per tutta una fila... E se lei va a teatro col Duke, allora ecco Giulio e Jeremy e magari Luiggi all’uscita per andare al ristorante. Ma sul suo stesso taxi il Duke si porta spesso dietro un inseparabile obeso che deve comporre parecchie iconoclastiche columns gastronomiche su qualche “Mail” o “Telegraph” ogni settimana, ed è spesso ebbro e non può guidare perché handicappato o amputato ma deve continuamente produrre anche centomila parole o righe di commento sui vini che arrivano nei negozi e nei ristoranti, «per dimenticare una sua infedele consorte» che tresca con uno spettrale editore famoso perché ricatta le dame commissionando a ciascuna un “coffee table book” sui giardini cinesi, i castelli della Castiglia, la cucina regionale toscana o veneta...
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A teatro, praticamente ogni sera, e giocando anche molto sulle matinées: una volta perfino tre spettacoli in un giorno, perché al Mermaid ce n’è uno alle sei per quelli della City. Ma la vera sciocchezza è alle due, due e mezza. Su e giù, scalette interne, dorature vittoriane, stucchi tarlati, velluti lisi; ridottini dove non ci si può muovere. E le vecchine gobbe in vestaglia nera, col loro collettino di pizzo sporco, e i vassoietti di legno per terra, col tè e i due biscotti secchi sul piattino; e mai qualcuno che tiri fuori mezzo penny di mancia. E le spettatrici delle matinées, tutte anziane, spettinate, miti, con gli occhi celesti acquosi da pecora, gli occhiali della mutua, gli stessi degli impiegati scapestrati quando si mettono in cuoio da cantina; i soprabiti chiari sformati con le spalle squadrate, le berrette di velluto viola o di maglia beige; e abiteranno lontano, piegano l’impermeabile, sistemano i pacchi, bevono questo tè da muratori nell’intervallo, e si passano i fondants economici comprati in metropolitana, scartoccia e spacchetta, facendo i musini e i complimenti sul caramel mou ricoperto di cioccolato al latte, col suo strato di paglietta di plastica per sembrare di più.
E un gran mangiare anche sulla scena, per venirle incontro: la spettatrice suburbana ama i commestibili e il lusso, purché non sfacciato. Salotti abbondanti con tanti quadri e tanti soprammobili, la scalettina interna per far piano sfalsato, la vetrata sempre sul giardino illuminato di giallo e di verde, vecchie ben pettinate e molto sicure, fanciulle un po’ ribelli ma in fondo chic, bambini leziosi con vezzeggiativi saccenti piuttosto adatti per vecchi sodomiti, anziani giovanotti un po’ zie che conversano a paradossini, eccentrici come tutti qui però bonari, con lo stesso sapore del caramel mou. Il tè, il pasticcino, che porta via circa metà dell’azione: con mandorla, ciliegina, pistacchio, violetta candita. Li prendono con due dita dal tavolinetto portatile, li osservano un momentino, con una gamba ripiegata e una stesa, tipo ibis anche stando seduti, poi giù un morsino, e subito un’altra guardatina, con dei trasalimenti di vita vissuta, in falsetto. Come esercizi di signorilità piacciono molto: sempre il petit four viene applaudito. E anche interi spuntini, sulle loro tavoline ambulanti; e tanti inizi di breakfast; o almeno dei cocktails lunghi da preparare, tutto uno shaker e uno sfavillìo e un ghiaccio, in giacca di velluto capitonné con fiocchi alla cintura e foulard sbarazzino, parrucchino biondo col cosiddetto “frontino”, garofano scuro che fa Belle Époque.
Allora, subito a vedere invece questi “fabulous Lunts” come faceva il vecchio Holden Caulfield: Alfred Lunt e Lynn Fontanne, quasi mai in Europa, e “matinée idols” tra i più squisiti: decenni di gorgheggio da salotto sublimato in armonia delle sfere geriatriche, col loro champagne e un valzer lento ovviamente edoardiano. Ma come riescono a comunicare le emozioni più agghiaccianti, alle prese col finto espressionismo del rustico Dürrenmatt; e che maschere impressionanti sanno costruirsi, con agio perfetto, nel Grand Guignol stilizzato e “tutto crudeltà” di Peter Brook... Lei Vecchia Signora marmorea di decrepitudine, più rossa di Stalin quando entra in portantina, più tremenda di qualunque douairière libanese al Palace di St. Moritz, ammiccando superiormente a Bette Davis, semiviva e spaventosa in abito nuziale, sigaro in bocca, e prodigi di fonologia forse russa lavorando dall’interno le sillabe più quotidiane, «sì, buonasera, no». E dopo una parodia forse di quel duetto fra vecchi affettuosi in Gigi che rievocano un idillio lontano con tutti i particolari sbagliati – Hermione Gingold e Maurice Chevalier – come riesce indimenticabile il ghigno da Chaplin-Calvero abbietto di lui che le si scioglie davanti come un pupazzo di neve e fango, facendo sentire nell’urlo che rimane in gola e non esce tutto il bitter in fondo alle varianti del Jedermann contemporaneo traqué...
Ma tutti gli italiani in arrivo: dov’è Olivier? cosa fa “Larry”?... In comitiva dunque a questo Otello dove quel grande ci dà dentro parecchio con la negritudine: scurissimo in faccia, capello crespissimo, piedi nudi sempre con ancheggiamenti da giungla anche con braccia divaricate e anelli alle caviglie, e addirittura buttarsi a terra, annusar l’aria a quattro zampe e una fonetica alla «badrone badrone, sì belle e sì buone»... Cose da pugili? Violenza e depressione fra un Sonny Liston in accappatoio di spugna e un suo impresario bianco e finocchio alla vigilia di un match contro Patterson, con tutte le madonne provocate dalle scollature della moglie nella clausura dell’allenamento?...
Billie Whitelaw è una Desdemona grande e grossa, cotonata e decisa. Non la classica «donna smorta, f... forta» della saggezza folk poco chic che secondo il testo arriva alle nozze miste e scandalose col “negrone” per rendere duratura e legittima l’avventura con un “calibro” che le dà sensazioni mai viste. (Benché tutto il dramma comprovi che a quel “calibro” non si accompagna una soddisfacente “resistenza” o “durata”: come ben sa, a proprie spese e sfacchinate, chi ha un’esperienza concreta o “kafkiana” di circonferenze e di diametri)... Lei ha visto La grande pioggia, e tiene conto di Myrna Loy; ma qui si fanno i riscontri piuttosto con Lady Edwina Mountbatten vittima non più degli ardori del Pandit Nehru ma di un suo affaticamento... E se fra un cielo giallo e un pannello bizantino questo Otello così istintivo e naïf si abbandonasse a un “Old man river” di piantagione, come diversivo coniugale? (Tema in classe: Con gli indizi messi a vostra disposizione dall’Autore, e sulla base della vostra piccola esperienza, quando l’ha fatto, il suo dovere di marito, Otello, per l’ultima volta fino in fondo?).
Brutto affare, oltre tutto, quando scattano le gelosie e le frustrazioni non fra parrucche di stoppa e tube di peluche, ma fra militari moderni: questo lago in khaki troppo smaccatamente vuol far fuori lei per restar con lui come in un torbido Deep South di Elia Kazan; e in un “braccio di ferro” non tanto razzista ma classista, fra chi è gentleman e chi no; prevalgono degli ex-sottufficiali trafficoni che evidentemente compravano paglia e non fieno per i cavalli mettendosi in tasca la differenza?...
Ma per i “nostri” più assatanati, la competizione immediata sarà piuttosto con l’Otello scorso a Spoleto, di Verdi, «... dove Iago era un Giamburrasca da petardo sotto il sedere della maestra, con antipatie per Cassio dovute più che altro a gavettoni da caserma»... «Però fra Botticelli e Ghirlandai, roboni e giustacuori, plettri e gigli, vecchine che attraversano e piccini che inciampano e arance che rotolano, per animare l’Azione secondo Menotti»... «E nel corso d’una sola Canzone del Salice, non fidandosi della musica, Emilia e Desdemona accendono e spengono dieci volte le loro quattro candele»... «E un “Ora e per sempre addio sante memorie” marziale e fascista che nulla distingueva dalla Sagra di Giarabub!»...
... Sheridan all’Haymarket diretto da Gielgud!... E i mondani dello shopping: «Sarà buono?»... Richard Brinsley Sheridan! 1751-1816! The School for Scandal!... «Vale la pena?»... Sheridan... Margaret Rutherford in cuffie e cappucci e gorgiere e la testona da ippopotamo violentemente agitata coi labbri e i menti in senso opposto al ventaglio dispotico, e degli «ha-ha-ha! extra-o-o-o-ordinary!» equini e porcini fra continui scherzi a soggetto con la tabacchiera dispettosa e l’occhialino malevolo... mentre Ralph Richardson butta e sbatte parole e battute per aria come un cavallo che leva la testa dall’abbeveratoio spruzzando intorno le sillabe... scandite tutte su un medesimo piano di valori: Shakespeare o Graham Greene o Enid Bagnold, o domani Beckett o Pinter... «E chi c’era di voi, ancora pochi anni fa, al Globe, quando la Rutherford distruggeva anche col triplo mento dei cappellini dementi pieni d’uccellini e verdure, davanti a Robert Morley vicario forsennato?»... Ma ora al Globe piove una goccia dal soffitto in un secchio appeso al posto del lampadario, nel Caretaker di Pinter; e il cencioso vecchio Donald Pleasence chiede «cosa fate quando è pieno?»... E dopo un interminabile silenzio cool l’innaturale e minaccioso Alan Bates replica: «lo vuotiamo».
«... E pensare che Alan Bates l’altra estate girava tra agenti e produttori a Roma, chiedeva pochissimo, anche solo un milione, perché voleva star lì, e nessuno ha capito che bisognava fargli un contratto subito!... perché essendo un inglese bruno i vari produttori intelligentissimi dicevano “qui, di morettoni ne abbiamo quanti se ne vogliono”...».
«Enid Bagnold! Enid Bagnold! l’epitome della signorilità a tutto tondo, come nei più atroci momenti di mia madre» singhiozza e sghignazza Giulio con le mani artisticamente fra i capelli alla biglietteria teatrale di Simpson’s, davanti a una vegliarda esterrefatta anche se lì ne avrà viste di cotte, di crude, e di altre... «Ah, The Chalk Garden!... Il perfezionismo del manierismo nel chintz, il paradigma del “soltanto eleganza”! l’apoteosi dello scintillio verbale “grazioso”, nella dama radiosa e maestosa come una corazzata: Edith Evans! la massima influenza su tre o quattro generazioni di dame raggianti della scena britannica... dall’armistizio del ’18 a oggidì... Con la figlia disapprovata e fuggita, la nipotina con tendenze malvagie, la governante Pamela Brown con un tristo passato da nascondere, in fondo a questo giardino sterile con le sue metafore invadenti come ninnoli... e regìa ancora di Gielgud...».
«... E ancora Gielgud e Richardson insieme, senza sapere assolutamente la parte, in un’altra assurda sciocchezza signorile della Bagnold con costumi di Balmain, The Last Joke, trionfo del ballo al castello con aristocratiche ereditiere e caviale ripetutamente annunciato, fra il cespuglio di bosso e la biblioteca neogotica, e perfino un principe balcanico in esilio, con sottrazione d’opera d’arte e sostituzione d’infante in culla...
«Però spietati, i due mostri, nel virare il mélo e le amnesie in extravaganza, come nelle gigionerie leggendarie, dando confidenza solo al pubblico e mai agli altri in scena... Interpretavano in realtà quattro o cinque commedie pattinando dall’una all’altra con un’efferatezza scintillante... e quand’erano obbligati a precipitare in una Scena Madre piena di battute dimenticate con rivelazioni tragicissime, l’uno appariva senza alcuna ragione travestito da turco, con fez rosso e oltraggiosi baffi finti, l’altro senza motivo in mutande, con salvietta e ciabatte, interrompendo le agnizioni più decisive o i vuoti di memoria per uscire continuamente a farsi dar le battute, e rientrare interpolando pensosamente il tormentone “l’acqua del bagno non è ancora calda”...».
... Ma Desideria insiste per risospingerci al macabro: questa nuova commedia di Noël Coward con quindici vecchie attrici per lo più tirate fuori dalle case di riposo, e truccate da vecchie in una casa di riposo, dove la più bambina è Sybil Thorndike centenaria, fra sepolcrali svanitaggini e a un certo punto anche un balletto natalizio di grave imbarazzo. Si esce dopo un quarto d’ora. «Ma andiamo!» (andando). «Non vi ricordate cos’era la Thorndike di indimenticabile in The Family Reunion di Eliot con le Furie addosso a Paul Scofield nel suo salotto!»... E Desideria, perplessa: «La prima volta che mi càpita di ricevere un faire-part per due gemelli nati-morti, da una coppia che conosco appena, e che si sta addentrando nello chic... Cosa si aspetteranno?... Due righe? Di circostanza? Avendoli visti due volte in tutto?».
... Come on, come on, boys and girls, seguendo i consigli di Eliot, oltre che di Ken Tynan sull’“Observer”... Via, via! Impossibile trovare i biglietti per Ross, senza il portiere del Ritz: e poi, a una matinée, sparsi uno qui, lei là, metà sugli strapuntini... Ma derelitto, calpestato, con una voce stupenda e spenta, senza espressione e nulla che lo distingua da Queen Mary sul letto di morte, Alec Guinness sta sfiorando (inopinatamente) eccelso, nel ruolo di T.E. Lawrence?
Il Poeta Combattente... Sarà poi davvero un tipo così interessante come pretendevano D’Annunzio e Malaparte e Malraux?... Fino a quanto si sarebbe disposti a pagargli un’avventura, in franchi svizzeri anticipati, oggi?:.. E perché Jünger o Hemingway all’aria aperta dovrebbero farsi pagare più di W.H. Auden che compone The Age of Anxiety fra vestaglie e pentolini, o di un poliziotto che porta meglio l’uniforme e legge solo le pagine sportive però si fa aprir la braghetta coi denti nel parco di Wimbledon, e incanta coi suoi semplici racconti tre generazioni difficilissime, da Lytton Strachey in poi?...
E in questo play di Terence Rattigan sulle pâmoisons in terre islamiche dell’autore dei Sette Pilastri – uno che è stato capace di scrivere «the citadel of my integrity» volendo dire semplicemente «il culo» – vengono poi fuori oppure no, ci si dice rapidamente nell’affollato intervallo, le motivazioni per cui un patetico Don Chisciotte con tutte le lance spezzate... uno stilita borghese con l’animus d’una madre superiora spagnola... cerca rifugio nella Tebaide burocratica e laica della Raf?... «I nostri eroi e poeti si ritirano a vita piuttosto nella Rai!»... «E dicono “cumulabile”! come in “la pensione è cumulabile”...». «Potremmo sfoggiare i reduci fiumani?». «Comportiamoci meglio, almeno all’estero!»... Si riprende, molto sul fine: «Per un rifiuto esistenziale di una realtà non priva di conforti ma sprovvista di speranze?». «Così va meglio».
«O anche per “bisogno di disciplina”, come in quei giornaletti di Leicester Square con gli annunci dove un Humble Pupil cerca uno Strict Disciplinarian, e raramente viceversa?... Del resto, le pagine più scabrose dei Seven Pillars nell’edizione antiquaria portano testatine come “Recruit’s Training” e “Further Lessons” come quei giornaletti...».
«L’abile strategia letteraria dell’Autore precostruisce – per chi vuole – il Mito e predispone l’aura per la prevedibile Fama postuma: tutti gabbati, e beccatevi questa!».
«Eppure Lawrence continua a entrare come “non-eroe del nostro tempo” meglio dei personaggi di Hesse o di Camus in tante mitologie private lungo diverse generazioni intellettuali: i nauseati delle guerre patriottiche... gli entusiasti della vita d’azione... i disponibili per il gesto gratuito... i disillusi delle Grandi Cause per cui si combatteva inutilmente e violentemente nel Trenta... ferma restando l’attrattiva del Deserto...».
Siamo tutti contenti che la produzione prediliga sfacciatamente l’antagonista turco dell’angoloso Colonnello, e che il regista Glen Byam Shaw organizzi la scena madre del “notorious Deraa accident” come se fosse il second’atto della Tosca: scòrtico e uso di mondo, «pria le forme ordinarie, indi ai miei cenni». Uno Scarpia pascià. Pigro, gourmet, intelligente, sottile, seccato da una fastidiosa relazione con un suo uffizialetto un po’ isterico («sei stupido come tutti i circassi», «non sono mai stato circasso», «me l’hai sempre fatto credere», «eri tu a pretendere che te lo dicessi»... Altro che «l’Attavanti non era dunque alla villa»: qui si ricasca nei bronci del piccolo parà portoghese a Macao)...
Sospira, confidandosi a un suo magnetofono a cilindro: «come sono contento di non essere cristiano», e sorseggia il suo Courvoisier, «perché in quella religione bere alcoolici non è peccato»... «Ma come si crea una mente, si può anche distruggerla» riflette, preparando “dirty tricks” come ai veneziani prigionieri d’altri tempi, e brainwashing in anticipo sul Profondo viennese. Capisce sempre tutto («corpo ribelle, spirito irrequieto, gran forza di volontà: la solita formula»), da Scarpia bene aggiornato e contento del proprio mestiere, come in un Buio a mezzogiorno, un 1984 per le televisioni commerciali...
Fa il suo pranzetto come a Palazzo Farnese, con porta aperta sul Teatrino della Crudeltà: non il famoso cerchio uncinato alle tempia, e pizzi dello jabot ridotti un disastro sul Cavaradossi insanguinato, ma un private show da cui arrivano festose interiezioni d’orgasmo militare. Altro che Artaud. Ordinary Cruelty, che piace sempre. Quando gli riportano lì il Colonnello strapazzato, e prossimo a un suo «vissi d’arte», non gli dice «Minnie non piangere» o «non piangere Liù», bensì mondanamente casual come il Bey Mustafà all’Italiana in Algeri: «Oh, che pezzo da sultano! Bella taglia, viso strano! Mi saltella il cuor nel petto, che dolcezza di parlar!».
Il Colonnello, come in Algeri: «Un palo addirittura? Taddeo, che brutto affar!». (E qui, sul “palo”, Desdemona potrebbe dire la sua?). Ma allora il Turco, sofisticato uomo di mondo: «Ah, ma che strano rapporto, tu non sapevi nemmeno che io esistessi, e io invece ti conoscevo meglio di te stesso, ma perché sei rimasto così vulnerabile? a cosa serve allora la Cultura? com’è vero che la scienza può diventare la peggior nemica degli intellettuali privi di autoironia...». E Grande Inquisitore deluso, non ritenendolo alla propria altezza, perde ogni curiosità ambivalente e si contenta di indicargli come a un fattorino la porta, da cui Guinness esce trascinandosi, con un incredibile gesto di dolore sulla “cittadella” lesa, che strappa un «really!» inopinato alla Nostra... mentre la penna illuminata con lampadina (da lei regalata al Nostro) vola qui accanto sui blocchetti a spirale... E fuori, la morale di tutti: allora è vero, il suo dramma è che glielo fecero in novanta, ma incominciò a piacergli verso l’ottantanovesimo...
«Ma cosa è successo, poi, veramente, nel buio delle grotte di Marabar?» si chiede Giulio con le mani sui fianchi in uno speco moquettato e cadente al Comedy Theatre, nel gesto da Mirandolina ormai riferito non più solo al piccolo parà nell’Inferno del Giuoco Cinese. Anche al grosso poliziotto egiziano del “notorious Port Said accident”: quando un intrepido lettore di Lawrence raggiunge benché off limits quel famoso scalo di tutte le dissolutezze, dove da almeno due o tremila anni, quindi ben prima del Canale di Suez, si celebravano i riti alessandrini della donna con l’asino. Visti e testimoniati dai poeti, dai legionari, dai marittimi, anche dai più sbadati...
Però era appena scattata un’ondata di moralizzazione islamica, oltre che la rivoluzione di Nasser, e l’avventuroso turista era l’unico in giro, benché prima di mezzanotte, in una città deserta a scacchiera coloniale e (volendo) metafisica, dove anche procedendo a zig-zag spuntava sempre un poliziotto in bicicletta a scrutarlo, ad ogni incrocio. Sempre lo stesso: forse c’era appunto un solo poliziotto in giro...
E dopo alcuni quadrivi, chiede il passaporto, e intima di rientrare in albergo, benché il temerario non potesse che passeggiare nel niente...
Anzi, alle rimostranze, il poliziotto intima di salire sulla canna della bicicletta... E qui: come andrà a finire? Con un typical marine, o con un terribile body-builder, si sa che la nostra virtù è salva, perché si girano. Ma questi, non sono famosi per la loro insaziabilità in tutti i campi?
Invece, pedalando, per Port Said deserta (... e pensare che fino a poco fa...), l’ardito solitario viene riportato all’albergo, e consegnato al portiere, con la consegna di non lasciarlo più uscire: «e un Lawrence deluso che cosa può fare, oggi? entrare nell’Alitalia?».
... E intanto, qui, eccole entrare tutte al detestabile tea-party europeo di Chandrapore, una dopo l’altra, le figurette di A Passage to India ridotto in commedia, con una notevole aderenza fisica alle immagini mentali di Forster: la vecchia savia (ma anche stanca, un po’ egoista, forse cinica) Mrs Moore; e la “miss sottosviluppata” Adele Quested; e i magistrati distrettuali in gruppo; e il piccolo Dr Aziz col suo zelo ansioso e le sciocche premure da cucciolo che spera d’essere accettato, mentre i bianchi stolidamente siedono come adulti a una festa di bambini, con questa smodata grettezza borghese delle mogli che fanno coincidere moralità e autocontrollo, mentre l’unico a intendere che «anche gli indiani hanno un’anima» è il direttore della scuola, il liberale (ma un po’ predicatore, un po’ rompi) Mr Fielding.
«E veramente nel buio della grotta il mite e fastidioso Dr Aziz sarà stato capace di osare un atto innominabile sulla belligerante Miss Quested, sempre così interessata a tutti i dettagli più insignificanti? e allora tutto quel suo sfoggio di buona volontà serviva solo a portare avanti un’orriiibile macchinazione ai danni dell’epitome della Donna Bianca?». Mani sui fianchi; o al cielo? «E l’intrepida Miss intellettuale, colta dalla tipica défaillance isterica della nubile trentenne sopraffatta dal clima e inorridita da ogni contatto fisico (come il Colonnello e il parà, ma non le sentinelle a Luxor, pare), perché mai si contraddice a ogni risposta che dà, anche quando il Peggio è passato?»... «E come mai Mrs Moore, che era a pochi passi, non dice nulla e s’allontana sempre più con la mente, persa nella rifrazione degli echi lontani delle grotte che non riesce a non sentire ogni tanto, come una vecchia persona cara che vediamo raramente, e la troviamo anche distratta, non segue i discorsi, e addirittura siede in un’altra stanza, non facendo niente, o non ricordando cosa stava facendo...».
«Ma l’incomprensione» spiega ansiosamente Luiggi «non schiaccia solo le ipocrite mogli del Club inglese... Col “not in front of the servants” o con un “prendi due aspirine dear” credono di risolvere molto... pur di non affrontare mai i problemi di fondo, neanche in front of se stessi... E tentano di sottrarsi all’alternativa tra l’essere amati e l’essere rispettati... E senza neanche volerlo quindi rappresentano in quel buco il dilemma umano inevitabile per tutti gli imperi in fase di Cancania o Calcutta... Ma di una sostanziale incomprensione soffrono anche i liberali di buona volontà: il buon Mr Fielding è convinto dell’innocenza del suo amico Aziz, non crede che abbia tentato des choses nelle grotte con Miss Quested, che è intelligente, ma isterica... E in tribunale – uno di quei processi-melodramma così cari al teatro dei Thirties – con le lacrime agli occhi domanda se l’accusa può essere vera o no all’altro suo amico indiano Godbole, in cui crede... E Godbole non risponde né sì né no; e la domanda viene ripetuta in tutti i toni, con angoscia, con rabbia, con pietà; e per un occidentale sarebbe una domanda chiarissima, tutt’altro che equivoca: basterebbe rispondere sì o no... Ma Godbole non risponde né sì né no, neanche per salvare il suo amico Aziz... perché è una domanda che implica un concetto dell’individualità troppo estraneo alla sua filosofia indiana... E l’Occidente e l’Oriente stanno di fronte ancora una volta, pieni di buona volontà reciproca, e separati da fondamenti spirituali inconciliabili...».
Ma di solito ci si ferma per un atto, o neanche. Via via, a rotta di collo, galoppando nella galleria dei mostri sacri e profani, sempre tra la pura delizia e la pura demenza... prima che finiscano... Diana Wynyard trionfante e amara e giustamente senza riflessioni o pensiero in un Gabbiano polveroso di cuscini e housses... Rex Harrison debonair e “picchiatello” e snob in un Platonov dato come marivaudage rurale... Margaret Leighton, sempre la più bella e struggente e perduta, in Variations on a Theme, cioè un’anziana e ricca Marguerite Gautier col cancro che si perde per un giovane Armand ballerino di rivista con dietro non un père ma un coreografo, e sarà più Charlus lui o lei?... Paul Scofield con makeup cadaverico fa Thomas More come un sotto-Galileo della sinistra commerciale camuffata da brechtiana: e le tesi sull’impossibilità dell’alternativa politica nel West End vengono discusse dai dignitari del Cinquecento come a un tè di patronesse al vicariato, interrotto dalle entrées di Enrico VIII che fischia come un trenino svizzero in costume da Errol Flynn... E Siobahn McKenna fa una “Minnie Prendi il Fucile” nel Playboy of the Western World, ma uffa quest’Irlanda dove sono tutti gobbi e grulli e Malavoglia ubriachi all’osteria, sempre lì lì per franare in una Figlia di Iorio con un epilogo dove Lazaro di Roio guarisce e ritorna per dire hallo! a Liolà...
Michael Redgrave a caccia del Carteggio Aspern! Un rampichino americano sempre un po’ esitante e sbagliato che si veste di troppo chiaro fra mobili troppo dorati, e si fa chiamare Milord dal cameriere ma si lascia sfuggire esclamazioni volgari, o vapori finti, nel corteggiamento apparente di Flora Robson, una Miss Tina povera, impaurita, un po’ sporca, indifesa, incerta, in un risveglio dignitoso e straziante, fra le apparizioni terrificanti di una Dama di Picche in sedia a rotelle, Beatrix Lehmann cavernosa e formidabile sotto plaids stracciati e un paraocchi di celluloide verde sulle rughe furenti... E abbattendosi sensazionalmente fulminata sull’urlo memorabile «You, publishing scoundrel!», che coincide con le ire di Contre Sainte-Beuve contro le biografie romanzate degli scrittori...
E «la damnation éternelle!» a Aix-en-Provence, in costumi di Christian Dior! E regìa di Barrault: un Pour Lucrèce di Giraudoux ove al posto di Edwige Feuillère c’è Vivien Leigh con questa innata volgarità rauca e greve nella voce da “cattiva”, e invece di Madeleine Renaud ecco Claire Bloom come “ingenua” altrettanto leziosa, smorfiosa, birignosa... Si scopre che alla création, al Marigny, a Parigi, c’erano quasi tutti: e anche ai caffè del Cours Mirabeau, a Aix, durante certi Festival... Fra i contemporanei, invece, nessuna scoperta paragonabile agli entusiasmi per Albert Finney ventenne l’altr’anno, quando si prendevano i posti in prima fila per rivedere l’assolo strabiliante di Billy Liar con la canna di malacca che diventa bocchino, binocolo, tanti strumenti musicali, e asta di bandiera per il rapporto al reggimento: facciona larga, bei denti selvatici, occhietti malvagi a fessura, e la pelle pastosa e bianca di questi che non prendono mai sole e hanno le guance dello stesso colore del dietro... Tommy Steele? Carino, bruttino, piace tanto agli inglesi col suo ciuffo, anche bravino in She Stoops to Conquer, addirittura. Ma perché non passiamo invece a un finale della Crazy Gang? Con tetra calma, con flemma sepolcrale, i sei mostri di novant’anni continuano due volte al giorno le clownerie efferate di un Farewell Show che va avanti da prima della guerra presso Victoria Station. Giochi di mano e scherzi da villano: sempre vestiti da bambini o bambine, debuttanti capricciose, dispettose lavanderine, dowagers prepotenti, paggetti nuziali col topo morto in tasca per una sposa baffuta che picchia col bouquet i chierichetti scoreggioni mentre il prete infila soldi nelle scollature delle damigelle. Marinaretti decrepiti su una corazzata di cartone con cannoni di stagnola, gaie fioraie da “Life Begins at Oxford Circus”, frati e armigeri dentro e fuori le botole fra trecce tagliate e urli di civetta, e arriva un vecchissimo Robin Hood...
«... E certo, qui bisognava aver visto il primo Beyond the Fringe, con le nebbie sinistre e i rintocchi di morte fatti da un attrezzista coi pentolini, Alan Bennett e Dudley Moore che si infilavano le gobbe e ritiravano le mani dentro le maniche per far gli storpi elisabettiani, e “You, Sussex, go to Essex!... And you, Essex, go to Sussex!”... E il vicario moderno che ripeteva ai ragazzi assassini: bisogna riportare la violenza dalla strada alla Chiesa, perché il suo posto è qui!»... Ma anche stavolta Desideria è la prima a uscire tirandoci a pranzo. «Li vedeva già mio padre ai primi del secolo!». E al ristorante, Audrey Hepburn: «Peccato che in questo momento non ci sia niente con Alastair Sim, fa i più fantastici vicari eccentrici... adoooro!... specialmente sui vecchi testi di Pinero». Fra i mostri sacri, Alastair Sim è il solo che non stia recitando; ci sono però tutti gli altri.
E arrivano intanto quelli che sono andati al Sadler’s Wells per il Re Ruggero, un’opera ignota di Szymanowski, che si svolge a Palermo dove hanno amici. «Un succulento sconosciuto che forse è un angelo appare in una romantica famigliaccia disposta a tutto, e se li fa uno dopo l’altro, dalla nonna al gatto, lasciandosi dietro ghiotti traumi sessuali e tripudi mistici: loro sono Ruggero II d’Altavilla e la regina Rossana, quindi dodicesimo secolo; ma la musica, benché degli anni Venti (c’era già in giro Zelda), è uno Skrjabin arabo-normanno, un Bartók cristiano-pagano, un Pierrot Lunaire bizantino...».
«Il re, vestito e pettinato come il Gesù delle immaginette. La regina, direttamente fuori dalle carte da gioco. Il misterioso pastore, che ha un patchwork di stracci e pelli da giorno, e uno da sera con mille scampoli di Liberty’s, dice che viene da Benares però si tira dietro il corpo di ballo delle Baccanti! Li mette quindi in tutti gli stati, di notte, nel magico giardino moresco profumato di gelsomini, anche perché se lo legano rompe le catene col pensiero... E benché un astronomo egizio consigli di andarci piano, prova a fondere l’elemento dionisiaco e quello apollineo... e quello cristiano in più...».
«Perso il barlume (e anche l’arcivescovo è scontentissimo), si avviano per un inno al sole fra le rovine di un tempio greco. Ma i primi raggi illuminano dei capitelli che paiono delle poubelles. E tutti: Beckett a Segesta!... Spazzature esistenziali e metafisiche?... Macché, mentre la partitura sfoggia le più deliziose paillettes di Rimskij-Korsakov e Debussy, la regina spalanca il mantello e si mostra in stracci da barbona, cioè Baccante. Il pastore si è già infilato una coroncina da Dioniso, e invita il coro e il corpo di ballo all’edonismo più sfacciato. Si minaccia un Dafni e Cloe. Si rasenta l’Aubrey Beardsley. Altro non rimane a Re Ruggero II che arrendersi con l’astronomo – in una fantasmagoria di cleptomanie orchestrali – alla Mitteleuropa del piacer!».
![e9788845971877_i0002.jpg](/epubstore/A/A-Arbasino/Fratelli-D-Italia/OEBPS/Images/e9788845971877_i0002.jpg)
“I soliti”. Una ricaduta abbondante da Parigi ov’è appena finita una serie di festini, e dunque eccoli qui per lo spettacolo d’Alberico e i regali di Natale. Secondo questi che arrivano, in un paio di balli e di colazioni hanno rivisto là tutti i classici: da «taisez-vous madame» a «la malheureuse a perdu l’odorat», con «who are those people?» e «faites l’italien ici» e «c’est quand même un peu allemand», passando per «le mie figlie amano solo la musica che conoscono già, e la musica che conoscono già è pochissima», e «quelle horreur! quelle horreur!», fino alla vedova di Stato del «you do this to me?», che era in arrivo. E persino “Te-non-ti-si”, uno di Roma che non si vede mai, e nessuno mai lo cerca, però quando lo incontrano tutti gli dicono «Te-non-ti-si riesce mai a trovare!», e quindi lui si ritiene ricercatissimo.
Oltre ai balli e alle boîtes, grandi eventi culturali: La Voleuse de Londres, comédie musicale ove Marie Bell, procace ladruncola in età già sulle enciclopedie, viene licenziosamente appesa al patibolo mentre Jean Tissier prefetto di polizia viene colto da pâmoisons efferate gemendole sotto «belles petites mains de voleuse, belles petites mains de voleuse»; e d’altronde in un nuovo film di voyous vampiri Guido Alberti in blue-jeans trascina Edwige Feuillère in collants in uno scatenato twist... Anche nuove sale al Musée Carnavalet, dove sono state particolarmente ammirate una Tasse Trembleuse e una Tasse Verseuse dell’Ancien Régime, e un’aurea massima della Rivoluzione: «Discipline et Soumission aux Lois Militaires». Tutto da mettere in pratica ancora adesso.
Calano qui convinti d’assistere allo stato nascente di futuri classici come The Boy Friend, My Fair Lady, West Side Story (e via con “Rock is Cock”, gli arguti), anche carichi di notizie sconvolgenti... Mary Potlatch, una ragazza trouvée promossa inventrice di objets recherchés dai Goujon-Palissy (ha fatto il famoso contachilometri di caviale per il ballo sul tema «À nous deux! Nous sommes trahis!») lancia adesso una nuova grande opera per musei d’arte moderna: “L’étoile naturaliste”, vasta composizione di calze, scarpe, maglie, mutande, «pezzi che sono frammenti assemblati d’altri pezzi»... «Forse un’estetica della creazione di macerie dalle rovine, alla T.S. Eliot?» si incuriosisce Lord House-Home, alto dirigente di Christie’s: «Bottoni, fermagli, violette, avanzi di marmi antichi e scagliole, anche francobolli qualunque?...». «Un prolungamento edipico e dialettico della Poubelle Art che accumulava le scatole di detersivi e pasta con tappi di champagne, capsule di tonic water, programmi dei balletti all’Opera, copertine di Merleau-Ponty, kleenex raccolti tra i rifiuti di Tamara Toumanova, Natalja Goncharova, Régine Crespin...» sostengono i più entusiasti. «... Qualche passo avanti rispetto a quei bei dipinti dell’espressionismo astratto,» ripete Giulio «che sono così belli quando si proiettano gli slides, perché è tutta luce, e ti entusiasmano meno sulle pareti, perché è solo vernice?».
Macché, si tratterebbe di un nuovo surrealismo giovane! molto meno riguardoso di quello dei vecchi «che raccattavano i sassi strani nei greti e ritagliavano i giornalini di cucito come sfida insolente alla borghesia! esaltando Sade, però senza osar prenderlo nel culo»... «E intanto Kafka inventava il surrealismo onirico senza dirlo a nessuno di loro»... «Ora, ai venerdì santi della Galerie Emmerarde, semplicemente sputare a turno sui ritratti del papà di Breton o della nonna di Bataille e poi mettere la firma è sembrato poco immodesto e troppo vieux jeu, nell’irriverente e nel dissacrante, tanto più che c’è già tutto volendo o volando in Proust»... «Hanno avuto più gente quando Samaritaine de Luxe si è pulita il dietro con le fotografie di una zia di Freud, ha autenticato col notaio, e ha poi venduto tutto benissimo»... «Ora però le dis-onoranze più trasgressive possono spettare solo a Genet; e per uno che ripete “Aprire le carceri, licenziare l’esercito, liberare gli stupratori!”, il massimo dell’irriverenza sarà ovviamente una cerimonia molto accademica all’Odéon, con premi alle lauree più contestatrici dei Paravents... Demistificare solennemente o bassamente Les bonnes... Ma non vi sembra poco?»... «Il comitato del disonore è molto preoccupato. Ha già approvato un primo disordine del giorno che intima: “Stuprare gli stupratori, sconsacrare le cul, mancare di rispetto ai mecs, mandare a quel paese i voyous”... Ma non sarà debole?».
«Sarà il caso di fermarci a Parigi, sul ritorno?». «Tu ne hai proprio voglia? Non sono più ghiotte Berlino e New York, adesso?». «Però, le prime volte, c’era da leccarsi le babines: tutti i mostri sacri lì pronti, e arrabbiatissimi, come se non aspettassero altro che qualcuno li andasse a trovare, per sfogarsi... Non come adesso (è cambiato tutto in un momento!) con persone di seconda e di terza che ripetono gli stessi comunicati ai giornali tutti i giorni... Céline in un maglione a pezzi, vecchio, sfinito, confuso, in uno stato d’assoluto abbandono, in quella villetta dilapidata a Meudon: “Dal romanzo non c’è più niente da aspettarsi, né da imparare... Ormai i contatti umani sono così numerosi che l’insegnamento e l’educazione non hanno più niente a che fare con la letteratura... e anche reciprocamente... A me interessa solo il punto di vista emotivo, solo questo deve apparire nel libro... Ma l’autore è un fornitore e non un consumatore, non deve giudicare niente... Chi prende una nave desidera svagarsi; mentre io sono giù alle macchine, che lavoro alle prese con nafta e carbone... però questo non riguarda il passeggero che ha pagato, e ha il diritto di divertirsi... Sono due mentalità diverse, quella del passeggero e quella del macchinista... dunque ciascuno stia al proprio posto: tanto, si troverebbe a disagio nell’ambiente dell’altro... E poi il cliente dev’essere contento... Non tocca a me giudicare le altre navi, tocca a lui... Se non gli piace la mia, ne prenda un’altra. È una questione di concorrenza fra compagnie di navigazione. Addirittura c’è chi preferisce il treno o l’aereo... e qui la concorrenza è ridicola...
«“... Ma per scrivere bisogna esser giovani e avere soldi... Io, vecchio come sono, scrivo senza nessun entusiasmo, non si fanno più i merletti (mia madre li faceva), sono cose che andavano bene quando la vita non aveva un prezzo, tutto è finito... Romanzi? Macché, c’è troppa gente che va in automobile, che vuole andare in fretta... E poi, è un impegno che sorpassa le forze attuali, manca il coraggio, la costanza, ci sono i modelli già fatti, lì pronti... per cui esiste spesso il piano dell’opera, ma il romanzo manca, è troppo comodo anche qui adoperare la frase appresa al liceo, la formuletta... Ho l’impressione che il lavoro e gli sforzi si applichino solo nelle professioni tecniche, mai in arte: tanto, c’è il cinema... ‘Ah, la rigueur des vieux àges...’ diceva Molière nel Misanthrope...”».
«E Marcel Jouhandeau, in una casa-sacrestia molto baraccona e cheap, con quella vecchia moglie che si aggira ostile e tinta fra teschi e messali e icone: “un autore e un’opera tanto più misteriosi e inafferrabili quanto più ci illudiamo di possederli!”. (Parlando di se stesso). E affacciandosi in giacca di velluto blu a coste fra un confessionale e un armonium carichi di paramenti liturgici: “i critici più accorti sono concordi nell’affermare che i viziacci di Gide erano puro enfantillage rispetto a ciò di cui è capace Jouhandeau!”... E Cocteau, galoppando in vestaglia di spugna bianca nell’appartamentino piccolissimo dove sistema i visitatori uno in cucina e uno al cesso, fra le lavagne coi pensieri: “Oggi la stupidità si vede di più! (Questo è inedito!). Si vede di più perché ha il diritto di parola! Oggi si interroga la Stupidità in pubblico, ed essa concede interviste! (Anche questo è inedito!). Oggi la Stupidità pen-sa!”... E Julien Green, seduto come un vescovo: “Ho avuto fra le mani alcuni manoscritti del Diario di Gide: quale cura per la bella pagina, cancellature, correzioni, richiami... mai perdendo di vista il lettore futuro... Così faccio anch’io, nei romanzi. È naturale. Non bisogna mai dire le cose come sono, non sta bene... meglio, oh molto preferibile, velarle, farvi allusione... Ma voi sapete che scrivo il mio diario, pagine e pagine, senza la minima correzione?”... O addirittura, Simenon, molto spavaldo, vestito proprio da belga in vacanza, m’ha dato udienza dal barbiere: “Leggo una quindicina di giornali ogni giorno, in cinque lingue, ma basta non perder tempo nel giornalismo e nei ricevimenti, e ne rimane abbastanza per scrivere più di Lope de Vega”...
«Ma dalle cartoline, si ha poi la sensazione che si aspettino una visita o una recensione almeno una volta l’anno... Non sanno come siamo one night stand e volubili... Qui bisogna del resto affrettarsi a fare gli ultimi... Con Eliot, Forster, Auden, Angus Wilson, Edith Sitwell, William Golding, già si parlò a suo tempo... Fra le tante storielle che racconta Auden: un giovanotto va da uno psicanalista, e gli domanda se è possibile innamorarsi in maniera duratura e profonda di un elefante. Lo psicanalista risponde che gli studiosi più accreditati ritengono di no. Il giovanotto ringrazia, paga, si alza con qualche imbarazzo. Ma lo psicanalista: “non c’erano altre domande?”. “Oh, solo un consiglio: come sbarazzarsi di un anello di fidanzamento molto molto grosso?”... No, non ne rimangono più molti, di mostri sacri. Finiti questi, si chiude».
«Fatte le provviste per l’inverno?».
«Dice Nabokov, con molta attenzione: “Per Lolita ho fatto un lavoro di schedatura, come nell’attività accademica. Molta fatica per raccogliere materiali e informazioni: testi di medicina, carte topografiche, sentenze di tribunali... E tante difficoltà, sia pure divertendomi, dovendo rifare ed eliminare molte pagine, perché volevo che la parte ossessiva un po’ ipnotica si mescolasse strettamente al puro scherzo. Come quando ci si diverte ma restando turbati, perché coinvolti in una situazione angosciosa...”. E perfino Henry Miller, che coincide con Simenon, forse perché si era tutti al Festival di Cannes: “L’affinità più viva è con Céline, quanto abbiamo in comune! Anarchici, due specie di gangsters in lotta contro il mondo, perché anche lui è come me, vuol sempre gangsterizzare qualcosa! La differenza è che io mi sono adattato meglio alla vita d’oggi... E come? ritirandomi in campagna, evitando i falsi eccitamenti del mondo della cultura: niente libri né quadri né dischi né giornali né critiche... Non ce n’è bisogno. So diverse cose, ma sporadicamente: le altre, le ho lasciate perdere... È proprio il bagaglio essenziale che ci si porta dietro lasciando la nave che affonda; e il resto lo si è gettato via perché proprio non serve...”. E strizza gli occhietti, tira su cordialmente col naso...
«Vista a Roma tante volte Mary McCarthy... Sentito Saul Bellow... Gli piace Svevo, perché ha capito il rapido passaggio dell’uomo borghese contemporaneo dall’adolescenza protratta alla senilità precoce, senza una vera maturità quando mancano i modelli di comportamento adulto... “In America, la generazione uscita dalla Grande Guerra e dalla psicanalisi si sentiva così compressa dall’autorità dei genitori che ha stabilito di comportarsi coi figli secondo la permissività più libera. Col risultato che per questi figli, tutto è dovuto. Però, lungo le generazioni, si sviluppa una speciale neurosi giovanile: proclamano l’amore, ma praticano la misantropia... E non mi sembra un gran vantaggio, espellere dalla propria area affettiva i genitori per immettervi i negri, se come risultato si emarginano i vecchi per estrometterli al più presto dalla vita”...».
«Allora, chi rimane?...». «Bisognerebbe andare a Francoforte da Adorno, che fra l’altro è amico di Sylvano Bussotti... E aspettare Borges in visita... No, non ne restano molti; e neanche più uno col senso dei Mémoires, forse. Signori, davvero si chiude? Avremo tesi, tesine, ricerche sui testi, e più niente di prima mano sull’epoca».
«E Jünger?».
«Ma non ti sembra di saperlo già a memoria? Non si ripete un po’?».
«Beckett?».
«Dicono che proprio non si diverte a parlare, non gli piace. Qui a Cambridge ci sarebbe Sraffa, ma quando la si trova una giornata? Dicono tutti che è bello e gentile e un po’ svanito, il ritratto della salute, bianco e roseo sempre in giro su questa bicicletta... E poi forse Lukács, che pare cattivissimo, a saperlo prendere: è là che accumula rabbia, e non ci passa mai nessuno. Ma se poi è noioso come i suoi libri, ci vai tu apposta a Budapest?».
La prima telefonata allora è sempre per Eliot, che anni fa lo riceveva nella sua stanzettina scura da Faber & Faber con una stufetta elettrica e un gatto, semisepolto da tanti libri anche vecchi sulle sedie e per terra, e molto accasciato. E così diceva: «Questa terra è troppo senza speranza per poterne scrivere ancora... Che cosa si sta a fare in un mondo che non ci capisce e che noi non vogliamo capire?... Mi sento vecchio, vecchio... e quanto più uno invecchia, tanto meno si sente sicuro dei propri giudizi critici... ormai, set in his own idiom... indeciso a proposito dei più giovani...
«... E del resto ora è troppo tardi per riparlare di The Waste Land: fu una visione profetica, prima che anche gli altri potessero vedere... Il nostro mondo è crollato del tutto con la prima guerra mondiale, ma ci vollero parecchi anni perché tutti si rendessero conto che la civiltà occidentale era franata allora per sempre... La gente s’illudeva ancora che la vita sarebbe potuta riprendere nel punto dove si era interrotta... Ma dopo si è vista soltanto la prosecuzione di quel processo distruttivo che si tardava tanto ad ammettere...
«... Più terribile la seconda guerra?... Più distruttiva certo, e il crollo della civiltà è apparso ancora più ovvio... Ma per un sopravvissuto, dopo aver subito un primo shock così grave, ogni altro shock anche se più forte finisce per sembrare una conseguenza del primo... E in nessun paese oggi è ancora possibile scrivere una Waste Land... Ma quale è poi la cosa più importante in cui sentirsi impegnati, oggi, e a chi spetterà di giudicare questa importanza, questo impegno?... Meglio che il poeta non si ponga tali questioni; e si senta impegnato solo di fronte alla propria opera... In questo senso è impegnata tutta la grande poesia, Shakespeare, Dante... Assumere diversi interessi, fittizi, posticci, conduce soltanto a falsificare i propri doni...».
Tutt’altra musica adesso, pare. Ha l’aria un po’ più malandata, però sono uscite sui giornali delle sue foto mentre sta ballando sambe o conghe con la moglie al Savoy. Sempre la stufa e il gatto; e la catasta dei libri ha invaso tutto il piano della scrivania. Come lavorerà se per fare una dedica per Antonio sui Four Quartets non è riuscito a trovare un punto d’appoggio sul piano di lavoro?... Ma il matrimonio ha giovato: sguardo più brillante, quasi malizioso; e una voce molto meno spenta.
«Questa bronchitina andava avanti da mesi e mesi ostinata, e allora per cambiar aria siamo andati a svernare a Marrakech; e lì tutto andava molto meglio, ero quasi guarito, ma poi ci ha sorpreso questo terremoto di Agadir, e si sa bene cosa succede dopo un terremoto in Africa: polvere, caldo, mal di gola ancora... Allora abbiamo deciso di trasferirci in Giamaica, e lì mi sono ristabilito proprio bene, e già che si era lì e stavo così bene siamo passati a New York, per vedere cosa davano di nuovo a teatro...».
Sta riflettendo sulle risistemazioni critiche... «Siccome nessuno di solito sottopone mai a una revisione i propri lavori critici del passato, ci si aspetta che un critico rimanga sempre lo stesso, e vada avanti per tutta la vita con le medesime idee, senza cambiarle... Certo, la gente in fondo lo preferirebbe: è comodo classificare uno scrittore una volta per tutte, mettergli un’etichetta, affibbiargli una manciata di giudizi dogmatici, e decidere per sempre che “lui la pensa così”... Io, però, anche se ho lasciato in circolazione i miei libri più vecchi, ho cambiato abbastanza il mio modo di giudicare, da un decennio all’altro, e mi accorgo adesso come sia sensibile la differenza tra i giudizi che si dànno in gioventù e quelli della vecchiaia... Da giovani, è più naturale che il poeta si occupi degli altri poeti, e il romanziere s’interessi innanzitutto dei romanzieri, facendo della critica polemica, autobiografica, apertamente tendenziosa... e combattendo in ultima analisi per la propria causa... Ma come ci si distacca... più tardi...».
Legge piuttosto le opere teologiche di Reinhold Niebuhr, i libri di Bertrand de Jouvenel sulla sovranità e sul nazionalismo, la sociologia di Vance Packard sui “persuasori occulti” e gli “status seekers”, che spiega bene il classismo in America, tanto snobistico e cerimoniale sotto una superficie convenzionale dove ciascuno sembra pretendere di non essere più degli altri, mentre la curiosità delle massaie americane per l’intimità della Royal Family è addirittura più sfrenata di quella delle housewives inglesi... E poi, una prova di quanto sia scadente l’educazione americana si vede anche nella facilità all’indottrinamento che subiscono i prigionieri americani in Corea, mentre i turchi, più duri o più seri, hanno sempre resistito a qualunque lavaggio del cervello...
E il teatro?... «Una volta che si è incominciato a scrivere pièces, non è proprio più possibile smettere... Veramente entra, come dicono, la passione nel sangue; e a me non andrà mai più via, anche se gli schizzinosi dicono che la mia specie di verso non sarebbe affatto un verso... Che eccitazione dànno questi elementi del rischio, del giuoco! E che piacere lavorare in collaborazione, andare alle prove, star lì col regista, con gli attori, con tutti... Come si può smettere? L’attrattiva è troppo forte...».
Consiglia anche lui A Passage to India e Ross, buoni come tema, tecnica, dialogo, fedeltà straordinaria nel riprodurre atmosfere e personaggi indimenticabili senza troppi guasti... «Shaw, Pirandello... Darli in abiti contemporanei, oppure con tutti i rischi del period piece in costume, perché il dialogo e la problematica “datano” un po’?... Eppure provate a leggere le didascalie minuziosissime di Man and Superman, per esempio, e a rappresentarlo seguendole con fedeltà: altro che period piece!». Ci pensa un po’, perché ha appena detto che nessun contemporaneo riesce a tenere il confronto col respiro ampio dell’ultimo O’Neill. «... Eppure, forse l’immortalità consiste proprio in una serie di riapparizioni periodiche, appunto in quanto period piece...».
Antonio, che appena tornato nella tana sta stendendo di corsa questi rapportini, parola per parola, dice che accompagnandolo alla porta gli ha anche dato un colpetto sul braccio, con un sorrisetto divertito: «E al mio Cocktail Party, quanti anni gli diamo ancora, prima che lo si senta anche quello come period piece legato anche nel vestiario a una determinata epoca?».
Mi dà l’Old Possum Book of Practical Cats, Antonio: «Non è per bambini!» mi fa. «Forse è una mini-scoperta critica, ma se a ogni Cat tu sostituisci un Cock, t’accorgi che è un libro sui cazzi e non sui gatti. Prova: The Naming of Cocks is a difficult matter... I have a Gumbie Cock in mind... Growltiger was a Bravo Cock... The Rum Tum Tugger is a Curious Cock... Jellicle Cocks are black and white, Jellicle Cocks are rather small... Macavity is a Mystery Cock... E poi, le cose che fanno...».
Al ritorno da Ivy Compton-Burnett: «Lo stesso dubbio come dopo le colazioni con Gadda. Forse andando in un’aria di vetro, non appena dietro quel palazzo, l’Ingegnere non si scollerà dal volto la maschera dell’inganno consueto, ridendo di cuore alle nostre spalle, alle spalle di tutti, per la buona tenuta del suo segreto?... Lei poi ripete, più decisa di lui perché è più dura: “le mode culturali toccano poche persone”. E si ha il sospetto che la sappia misteriosamente più lunga di tanti.
«Abita vicino all’Air Terminal di Cromwell Road... Cornwall Gardens è un giardino deserto e abbastanza sinistro: piccole rose, ortensie sfatte. Poche automobili ferme, niente traffico. Case del Delitto, da Hitchcock 1935. Usci neri sotto portichetti riverniciati o slabbrati, panna o pistacchio. Targhette con nomi sudamericani, polacchi, giapponesi, l’ambasciata di Santo Domingo, e Compton-Burnett.
«Apre la porta alle quattro in punto, e sembra la vecchina terribile che tira la tenda in quel grande Balthus, “La chambre”: piccolissima, fortissima, “decorosamente povera”, quasi certamente con la parrucca, e anche un nastrino grigio intorno alla fronte. È pronto il tè sulla tavola tonda nella sala da pranzo, con burro, miele, marmellata; ma lei mangia soprattutto foglie d’insalata, una per volta, come una tartarughina, da un cestino. Non accetta né offre spiegazioni. “Ho incominciato a scrivere come volevo, sentendo che quello era il mio stile; e poi non ho trovato opportuno cambiare. Fonti d’uno scrittore? Non esistono cose simili. Non ho mai dato retta alla critica. Cambiare secondo i suggerimenti altrui porta solo a falsificarsi e a morire. Non c’è bisogno di ascoltare altri per essere se stessi, e sentirsi riconoscibili così come si riconoscono Dickens e Thackeray anche da un piccolo brano. Sperimentare? Dev’essere difficile e stancante; e porta a disobbedire alle regole, mentre bisogna sempre osservarle, le regole. Sono i motociclisti, che non le rispettano. Ma i rapporti umani sono sempre gli stessi. E poi gli autori inglesi sono molto insulari: leggono solo autori inglesi, o tutt’al più irlandesi”».
«Lei cosa legge? Lo dice?».
«Poco. Malvolentieri. Dice: Elizabeth Bowen, Elizabeth Taylor (che pare uno scherzo, ma esiste!), i racconti di Angus Wilson, il meglio di Wodehouse, Proust in traduzione, e le piace molto, ma non dice di più. E Joyce? Non ce la fa. Musil? Mai sentito. Faulkner, Fitzgerald, Hemingway?... Non risponde; poi, molto vagamente: “li conosco poco”. Fra gli italiani, solo Dante: “a suo tempo, naturalmente; e poi, mi mandano dei libri giapponesi, ma li trovo poco interessanti”.
«E le influenze enormi che esercita? “Su chi? Ogni tanto lo dicono, ma non so se è vero”. Mai tentata dalla saggistica? “Mai”. Attratta dai poeti? “I vecchi”. Teatro? “Non ci vado quasi mai, perché faccio fatica sulle scale”. Però ha visto da poco la riduzione teatrale del suo romanzo A Heritage and its History, e le è piaciuta abbastanza: “non guastava nulla del libro, così come non si potrebbe guastare un romanzo di Jane Austen, e poi mi hanno aperto una porticina dal guardaroba per evitarmi i gradini”. Ma preferisce gli alberi: la campagna del Kent, dove ha appena passato due settimane, “molto bella, non guastata, identica a com’era nel Settecento, anche se purtroppo aumentano i prezzi degli alimentari”. Si anima soprattutto sul riscaldamento: Roma le è piaciuta molto, tanto tempo fa, perché ha trovato tutto molto più piccolo di come se l’aspettava, specialmente il Foro, “e le cose più piccole di come s’immaginavano sono le più belle, no?”... Ma cosa conviene di più a Roma, l’elettricità o il gas? Ce l’ha fatta. M’inchioda. Non parlerà più d’altro».
Angus Wilson, al telefono, dal fondo del Suffolk: «Non sono un po’ troppo abili, i miei racconti? Non so se prenderli sul serio, un po’ me ne vergogno: è il loro difetto principale. Invece di dir quello che si vorrebbe, viene sempre fuori, anche senza farlo apposta, un qualcosa di fin troppo witty, clever... che quindi avalla l’opinione corrente per cui sarei un cinico. Secondo me, invece, sono un sentimentale. E se non si vede, è segno che qualcosa non è andata come dovrebbe; il motivo principale è il solito: autodifesa, impedire che gli altri vedano del sentimentalismo attraverso il divertimento o l’asprezza.
«Il miglior romanzo che vorrei scrivere sarebbe idealistico e sentimentale, senza il bisogno di dovermi proteggere con tutto il cinismo e i wits. Ma confesso che mi spaventa l’idea di esprimere il “lato poetico di me stesso”, e questa è una qualità inglese tipica, no?... Eppure diranno un giorno di me “che vecchio sentimentale”... però, “con alcune qualità dure!”... Ma in generale, tuttavia, naïf, dolce, quasi moraleggiante, quasi priggish, mi piace aiutare la gente... quasi tutti i miei personaggi hanno un fondo di calvinismo... Non potrebbe essere più completa la separazione tra l’uomo e le opere, che non esprimono certamente tutto me stesso... Quello che non posso soffrire è tutta la gente che professa amore per la sinistra, vuol sempre abbracciare la classe lavoratrice... e poi non tollerano i flippers, non possono soffrire gli scooters, stanno lontani dai juke-boxes, una uscita dalle officine li fa star male, dalle caserme non ne parliamo, non riescono a entrare in un bar popolare, la birra o la coca-cola non la reggono, non possono vedere neanche i blue jeans benché siano l’invenzione più bella del dopoguerra... E passano tutto il tempo a far noiosissime chiacchiere con gente tutta uguale a loro, chiacchiere di cui poi non si capisce niente, né valgono niente...
«... Mentre nelle campagne qui intorno... questi inverosimili Byron di paese, con collettoni e basette e capelli lunghissimi, e un accento dialettale pesante... Vestiti in maniere pazzesche... come a Londra non sarebbero pensabili neanche per i più eccentrici... Meravigliosi: stupidi, ma bravi; monotoni, ma simpatici... Pieni di sé, certo: guastati dalle interviste sui giovani, sanno troppe cose, hanno sentito tutto della sociologia e della psicanalisi, e ciascuno di loro è convinto d’avere “complessi” esemplari, rarissimi... Cominciano a raccontare col loro accento dialettale greve e con tutti i termini scientifici giusti le loro storie che poi sono sempre identiche: io sono under-privileged, i genitori separati, la mamma scappata, il papà sempre dietro alle donne... So sweet!... E più incantevoli ancora sono i teddy boys giapponesi: giuocano con i biliardini, vestiti come quelli inglesi, proprio uguali. Sono appena tornato di là... Ma come sto bene qui in campagna! Il tramonto è bellissimo, e la civiltà dei flippers e dei juke-boxes è una meraviglia!».
Sir Harold Nicolson al tramonto riceve nelle sue storiche stanze all’Albany, dove già abitarono Wordsworth e Byron, Gladstone e Disraeli, Bulwer Lytton e Graham Greene, con l’accesso vietato alle donne. Qui Macaulay stette rinchiuso per quindici anni con settemila volumi, e ne venne fuori con la Storia d’Inghilterra fatta. È un pianterreno buio. Si naviga nella titubanza.
«Bene Forster e bene Maugham, che non ha influenza e non ha grandi idee però scrive un inglese buonissimo... Ma Virginia Woolf è il più grande romanziere apparso dopo James e Wells... Tutte le differenze sono nate per colpa di Freud, anche se dopo l’ultima guerra si sente molto meno il suo influsso...
«Non è poi vero che si scrive meglio quando si vive in una società fermamente stabilita, se fosse così nella Germania di Hitler o nella Russia d’oggi si sarebbe dovuto scrivere benissimo... Vero è che sotto i totalitarismi non si può scrivere mai quello che si vuole, quello che veramente interessa...». Sherry? Grazie, prego. «... Ma quando si legge... cosa interessa davvero?».
«I migliori romanzi sulle classi sociali che cambiano, oggi, possono valere qualcosa se attaccano i nuovi sistemi, non il vecchio che è finito e non esiste più... Le proteste degli angry young men hanno avuto qualità di opportunismo, ma per cominciare bisogna sapere su che cosa si è arrabbiati... Loro non lo sanno... perciò sono finiti... e non sono stati importanti...
«Il nostro non è uno dei grandi periodi... E tutti i grandi scrittori hanno attaccato le situazioni del loro tempo: Dickens, Thackeray, Orwell... E quelli che invece di attaccare, rappresentano, come Henry James, contano meno, e declinano presto, e i giovani non li leggono... Leggono piuttosto Proust... L’analisi in James è abile, certo... come in Proust... Ma lui non sa riuscire così divertente... e tanto meno moderno...
«I giovani che conosco leggono Balzac, leggono Flaubert... E Proust, così old-fashioned, è strano che lo leggano, a venticinque anni... e non leggano James... Ma in Proust c’è anche più psicologia, e d’una specie più gradevole... James è troppo americano, e la sua psicologia lo dimostra troppo... Proust, invece, così francese, e profondamente intimo... E poi James non si interessava al sesso... Cioè, sì, se ne occupava... però in quel suo modo riservato, chiuso... abilissimo... ma si sente troppo che è venuto prima della psicanalisi... E i giovani sono soprattutto curiosi delle diverse forme della vita, dell’amore, di... di tutte le oddities...
«E certo si legge anche più Stendhal attualmente... mentre in Flaubert non si riesce a riconoscere la propria vita, i problemi del proprio tempo... Ma per conoscere il vero mondo provinciale e borghese d’Inghilterra è sempre meglio leggere gli epistolari... più reali dei romanzi, molto più umani... I giovani che conosco vogliono leggere cose che riflettono i loro problemi... E così né Flaubert né Wells né James né Shaw possono dar questo... coi loro problemi così passati... Proust, invece... Ma solo il lato sessuale, naturalmente... è il più indovinato... Non già quello mondano, che non gli riusciva: un ambiente ristrettissimo... E – ah – un altro poeta: Swinburne, non più letto... Allora, era molto eccitante... questo ribelle... contro cose ora tutte morte...».
«Scusa, Antonio, ma qui mi sembrate due cucù. Avevate bevuto? Avrei voluto vedervi».
«È tutto qui sul taccuino: sono diligente!... Altra musica invece a colazione, con Stephen Spender: anatra al Perroquet, ristorante del signor Bellometti, che è di Bergamo, e mette la sua pubblicità su “Encounter”. Sta riducendo la Divina Commedia per il cinema, “naturalmente con motivi della Vita Nuova e di William Blake, e forse con anche Huxley e Cocteau”. Per dei produttori italiani che – basta nominarli – e si ride... Non sa a cosa va incontro... Ma la cosa importante era una lettera di Giorgio Morandi, che aveva lì, e dice che sta lavorando al quadro commissionato, ma Spender dovrà ritirarlo solo se gli piacerà sinceramente molto ad opera finita... E dunque bisognava rispondere subito, approfittando del sottoscritto, “perché non è vero che so abbastanza italiano, ho provato a leggere Ragazzi di vita ma capisco poco anche con l’aiuto del mio amico Menotti”».
... E via, via, pattinando, dietro tutti i mostri sacri possibili, presto, presto, prima che sia tardi e scompaiano...
![e9788845971877_i0002.jpg](/epubstore/A/A-Arbasino/Fratelli-D-Italia/OEBPS/Images/e9788845971877_i0002.jpg)
Natale incombe e il cambio è sempre più favorevole. «A Milano, non compro più neanche una cintura!». Arrivano trafelate coppie da Bologna e Firenze, rese come folli dal ribollire di questo Natale imminente, e subito con problemi di cassette di sicurezza, per togliere e mettere continuamente le gemme da giorno e da sera. Loden, linci, leopardi, cammelli. Colazioncine deliziose con spinaci crudi al bacon e un roast-beef pie in un posto nuovissimo a Pont Street, pieno di immense palme e con tante fotografie dei più famosi divi da piccoli. Cubetti di ghiaccio rosa (con l’angostura dentro). Steak-and-kidney pie. Un battesimo a St Mary’s, Cadogan Street. Il dentista per una “emergency”? Appena dietro il Cadogan Hotel, dove fu arrestato Oscar Wilde. Un conto corrente finalmente qui sulla Midland Bank? Progetti anche entusiastici di affittare tutti insieme un appartamentino e dividere le spese, a Chelsea stanno costando pochissimo e vicino a Cheyne Walk sono già andati a vederne un paio; ma poi, l’housekeeping?
Dieci minuti di dentro-e-fuori nei cinema vergognosi di Leicester Square e Victoria Station: da piangere. Solo vecchi tremebondi e squallidissimi, e chissà che tradizione vittoriana o edoardiana magari dietro; ma se sotto sotto stessero preparando chissà quali inediti postumi, che li consacreranno autori inestimabili per le loro memorie ricchissime, mentre noi saremo inutilizzabili, perché ogni giorno esaurisce tutto il giorno prima?... Corse in taxi, arrivando sempre tardi ovunque. Una battuta alla National Gallery per rivedere un certo Correggio e un certo Pontormo che in realtà non si erano mai visti. Alla Tate per certi Sargent che rievocano tutta un’Italia perduta di muratori e bersaglieri disponibili; e il famoso Turner con Raffaello che dalle Logge Vaticane mostra alla Fornarina scollata il colonnato del Bernini: altro che «La Artisti Associati presenta». E lì per un’ora a domandarci ancora davanti ai Preraffaelliti se sia mai possibile un loro revival. E tutti: nooo!... E per i Futuristi? «Non c’è futuro!» ripetono tutti gli esperti delle aste. E le altre avanguardie storiche? Sempre gli esperti: «Non c’è mercato!». Neanche per i russi? «Pacchi di materiali ingialliti, solo da archivio storico»... «E poi si è visto che quando arriva da noi un Vate russo, appena finite le celebrazioni e le onoranze incomincia subito: siamo amici o non siamo amici? allora facciamo il cambio dell’orologio! Altro che l’art pour l’art. E per dar la calmata bisogna tornar bambini e proporre: allora andiamo al cesso, vince la liquerizia chi ce l’ha più grosso...».
Raccolta di detti memorabili. «We are dealing with the predicament!» del maresciallo del Covent Garden, che superdecorato e con la mazza dorata non sdegna di fare un po’ di bagarinaggio per dei Lombardi alla Prima Crociata: ma poi si riveleranno «una delle solite crociere di milanesi a Beirut, con le varie madame abbigliate da Ken Scott»... «Go back to your cubicle!» detto e alteramente ripetuto da un vecchio bagnino controfigura di Henry o William James ai Savoy Baths mai rinnovati dai tempi di Whistler e Sargent giù nei sotterranei di Jermyn Street, e tornati di moda perché ci si va dopo teatro con gli stivali chiodati sotto l’abito blu... «I’m not going to send this!» esclamato da un monumentale portiere d’albergo sul telegramma «Revolution and fornication» firmato Marat & Sade...
Dubbi eleganti: in quanto italiani, come segno di approvazione e benevolenza massima, farebbe più “sprezzatura” nel senso rinascimentale sparare un vezzo vieux jeu tipo «Quite!» come la formidabile Frances Yates quand’è contenta, o essere assolutamente moderni lanciando degli «Absolutely!» trancianti e astratti?... Anche povere figure, mi sa, se è vero che in casa di John Pope-Hennessy, dove qualcuno diceva che peccato non aver biglietti per la Nona diretta stasera da Klemperer, Antonio che l’aveva in tasca e se l’era dimenticato è corso via al Festival Hall perché mancavano pochi minuti... Cosa avranno commentato? «I soliti italiani»?...
La tipica nausea da argenti, dopo un po’ di giri nei Silver Vaults fra vassoi e saliere e salsiere e zuccheriere e candelieri e teiere e posate legate con lo spago e posacenere e portaritratti e secchielli da champagne con riflessi da “envisager” in un contesto di rilegature, riviste, divani, tendaggi fanés; e mai nessun pezzo di Art Nouveau come si vorrebbe, «e come si trovano per esempio nel bazar di Istanbul, dagli armeni!». E uscendo, «c’è tempo solo per una cosa e non due!», «niente negozi di cuscini vittoriani, Federico aspetterà!», «ma Valeria non può aspettare! Valeria non aspetta mai!», dunque ci si divide, verso il Soane’s Museum così caldeggiato dal sommo Anglologo. E non solo perché lì c’è il “Rake’s Progress” di Hogarth da cui è incominciato tutto quel po’ po’ per cui – nevvero – eccoci qui?... «Ma voi qui intendete guardare tutti i marmi e i gessi di Soane uno per uno?»... «Soane è l’architetto della Dulwich Gallery: tutto in asse con tutto, e luce naturale dai lucernari!»... «Un’altra volta!».
Coi meno cagionevoli si attraversa il fiume, fino all’Old Battersea House con le ceramiche di William de Morgan a tutte le pareti, e il guardiano vecchissimo che addita i barbagli d’oro bizantino che si animano solo ai raggi del tramonto: proprio come quello scintillìo di mosaici sul Duomo d’Orvieto che si vede al crepuscolo solo da certi belvederi, e da altri no?... «Ah, là, c’è chi ha lo scintillìo, e chi non l’ha»... E Dulwich? «Ci andava Mr Pickwick! Ma solo quando si è ritirato! E chi legge oggi Dickens?». Sarà più urgente la sauna detta Sherlock Holmes & Friends (benché in forma di palco elisabettiano: il Globe!) perché è lì nei suoi paraggi fra Edgware Road e Baker Street, ma durerà forse poco perché c’è troppa joie de vivre esibita, estroversa, anche di classi sociali molto inferiori, alla prossima venuta la si troverà probabilmente demolita, e al suo posto una gru...
Le verdure sui carrettini, riflesse nelle vetrine di Harrod’s, con dentro i tailleurs da passeggio, i paralumi con tanti nastri, i salottini plush; l’altra mattina, neanche alle dieci, Giulio e Jeremy raccontano di aver visto entrare la Regina Madre vestita da fata, seta blu a stelle d’oro: una mattina d’inverno, dunque due gran volpi chiare al collo, e un cappello tutt’altro che semplice... Giustissima, quindi! grida Jeremy: così, così, dev’essere, una regina! Fata 24 ore! Poi, dentro, ecco le foreste di cappellini per suddite, prati di cucirini e di chicchere, distese di pianoforti di cui uno rosa, uno verde, uno d’oro: mezza-coda, altro che mezza-calza! E zaffate di Requiem tedesco, di Dafni e Cloe – che diventano subito natalizi – dal reparto hi-fi.
Il reparto cartoleria con le agende e i bloc-notes in pelle, e nel chiostro degli alimentari il patio dei formaggi piastrellato a colori da Alhambra. Sempre un gran fascino per tutti loro: subito attratti e divisi, fra i quaderni e il crottin. Fra le antichità, si punta sul vittoriano, scatole e vassoi di papier mâché molto incrostati di madreperla; e pericolose tentazioni per l’ormolu: «Cosa al mondo vuoi di più? L’acagiù con l’ormolù, sul treppiede di bambù!». Sarebbe per un angolino “Regina Taitù”, «nemica dell’orologio a cucù», ma Desideria risulta attirata soprattutto dalla galleria delle ciniglie: tappeti, coperte, cuscini a fiocchetti e a volants, e queste centinaia di letti a tutte le piazze, sopra una moquette verde-prato, in tutti i colorini teneri dei cataloghi dei vivaisti.
Difficile tirarla via; e tanto più verso il venerdì o sotto il sabato. Lei sostiene che l’affascina come fonte di trovate inesauste per una coppia che frequenta, molto alla moda, e appena riuscita con grandi sforzi a ricreare – qui a Londra – la stessa atmosfera di quei nuovi appartamenti di Roma ove grazie agli arredatori si va riportando che i padroni sembrano camerieri in salotto in assenza dei signori francesi. Ma è chiaro che parla sul serio quando dice che il suo vero sogno è di passarci un weekend, o il Capodanno, chiusa dentro da sola. Tanti letti per dormire, tanti libri da leggere, da mangiare per anni benissimo, le scale mobili per giocare giù e su... Su poi nel reparto dei libri, a rinnovare i suoi abbonamenti: “Financial Times”, “Economist”, “New Statesman”, “Harper’s Bazaar”, “The Queen”, i periodici di case e giardini. All’ultimo piano franiamo nel Silver Buffet con un vino bianco in mano e un salmone in bocca, davanti a una distesa di collassi per fatica che pare una collezione di cere, di legni, di gessi, di pestilenze dipinte. Che difficile costruirsi una personalità, e poi reggerla under stress. E che bravura, che palle, però, anche. Vorrei veder tanti e tante. Veder Jünger o il cardinale Ottaviani, qui. Tornando giù lei ha ancora la forza di prendersi un pacco di canovacci con la traccia per il ricamo. Atroci. Per qualche vecchia? Per qualche balia? No, sostiene che servono proprio a lei. Per la vecchiaia? Macché, adesso.
Alle delizie di Fortnum & Mason – «the ultimate!» – ogni volta che abbiamo un attimo; a due passi dalla nostra tana, traboccante di mieli classici e romantici, altro che solo Ibla e Imetto come per i poeti che conoscevano quei due e basta: ecco qui mieli ungheresi, scozzesi, messicani, api e favi del Kashmir... Chissà qui che momenti, che ispirazioni, che sturbi, per dei Metastasi, dei Monti, Frugoni, Foscoli, oltre che per tutti gli Imaginifici... Vasetti copiati da originali della Magna Graecia al British Museum!... dove bisognerà pur fare una corsa almeno per i rilievi di Bassae... E avanti con la composizione delle cestine natalizie: ciliegine in crème-de-mandarine, frutti nuovi appena scoperti e già canditi, terrine di pâtés tartufati, tutti i molluschi pensabili, e shortbread, e mincemeat – ma Christmas pudding, per gli italiani, no! – su moquette scarlatta, sotto archi intagliati, coi commessi in frac che preparano questi giardinetti, e quando arriveranno in Italia, a Pasqua?... E nel ristorantino acquarellato in fondo, su poltroncine Louis XVI pallide, un attimo seduti come collegiali o come cucù davanti alla distesa dei sandwiccini fin-de-race: burro, lattuga, formaggio, mayonnaise, noci; pere farcite di formaggio Danish blue, letto di lattuga, castagne; datteri, ananas, formaggio, lattuga; prugne, pesche, ananas, pomodoro, lattuga, formaggio; scampi, gamberi, salsicce, piccalilli, soia, salame, caviale, lattuga, ananas; pollo, formaggio, castagne, ananas. E un dolcino incoronato da gherigli di noce fatti di pasta di castagne: quasi come a Vienna da Demel, composizioni fatte con gli stessi principii della musica da camera.