CAPRI

Come isola, si sa anche troppo. Ci sono già passati tutti, e hanno già fatto tutte le foto: sempre la minaccia di doverle guardare. Italiani con occhiali scuri di notte. Stranieri orridi. Ziacce antiche. Il trionfo del cache-col. Ossigenate d’altri tempi. Sgangherati che fanno i baciamani col golfino sulle spalle e il cagnolino in braccio. Se li mettessero tutti per terra, si camminerebbe sui cani. Bisognerebbe non venirci mai. Dopo un giorno si potrebbe anche andar via.

Ne passiamo lì tre, invece: col dito sotto il rubinetto del bagno, per tutto il tempo, aspettando che si scaldi un po’ il filo d’acqua fredda che scende, in un albergo dove paghiamo come in un Vier Jahreszeiten e che pare un po’ Modena.

Il tempo è caliginoso, giusto per il film invernale sull’isola deserta che Marcello sta sorvegliando; da un soggetto e sceneggiatura suoi, quindi ci tiene molto a seguirlo e a firmarlo: c’è dentro parecchia alienazione, e ha paura che il direttore di produzione ogni giorno ne tiri via un po’. Ma non va più tanto d’accordo col suo regista, e quindi non si allontana dal set. Tutela il suo copione in ogni battuta, e intanto si mette a posto la casa con stoffe tessute a mano, in diverse sfumature di écru.

Girano verso Anacapri, nervosi perché sono in ritardo. Se viene il sole o il caldo, guai. Logicamente non vogliono che si vada a curiosare mentre lavorano. «È come quando ci si sente dietro gente che chiacchiera mentre si sta scrivendo?» gli chiede Antonio. «Anche più fastidioso» risponde lui.

Siamo in un giardinetto sopra il mare grigio. La pausa è finita. Riprendono i cerimoniali del «prima io, scusa», e dei «lasciami vedere un po’», dietro l’obiettivo della macchina, tra lui e questo regista lentissimo: è il minuetto del prestigio fra i due in maglione grigio di fronte alla piccola troupe schierata, che fa dei sarcasmi, mangiando frittata. Così li vediamo solo al ristorante, la sera, stanchissimi e tristi, insieme ai tecnici e alla segretaria, senza voglia di parlare. Mentre la troupe è molto, anche troppo, sboccata.

Una volta siamo da una loro amica di Napoli abbandonata anche da un terzo marito, con una terza figlia, che ha passato qui tutto l’inverno con la mamma e la suocera e una sorella e una zia povera, e si prepara a starci forse anche l’inverno prossimo, a meno che non riesca a trovare un appartamento in prestito a Londra per occuparsi di pubbliche relazioni. Meloni, mozzarelle, tanta pasta, candele, zanzare. Del famoso film L’Italia si chiama Amore non si parla poi molto. Dopo, dopo, c’è tempo, dice Marcello un paio di volte.

«Su... via...» fa. «Anche al mare... anche di sera...».

«Si voleva cominciare a metter giù qualche cosa» dice Antonio.

«Potete incominciare a parlarne fra voi, intanto. Non mi va di pensare a due cose nello stesso tempo, non ci riesco... Sono stanco morto, sai?... Alzarsi presto ogni mattina, lavorare più di quindici ore, dover badare a tutto... anche portar le sedie da casa o trovare un vassoio giusto che manca... Stanotte devo anche scrivere delle nuove battute per domani perché in una certa situazione d’atmosfera si sente come un buco o un vuoto che non ci dovrebbe essere...».

«Allora tornerei a Roma» ripete Antonio.

«Ecco, sì... se ne parla a Roma... La prima volta che ci si vede. Ma davvero, stavolta. Mi date un colpo di telefono...».

 

Andrei via anche adesso. La temperatura semplicemente non è credibile. Cielo coperto, soffi freddi; tre maglioni addosso. Poi una ventata di scirocco, si suda. Fuori un attimo il sole; fuori i costumi da bagno. E giù spruzzi di pioggia prima ancora d’aver preso la vettura per la Marina Piccola. Stamattina m’han già fatto un po’ di versi quando ho telefonato a Milano: là c’è un sole sfolgorante e si vede il Monte Rosa.

In piazza i soffi caldi e freddi arrivano continuamente d’infilata, dal mare; e ogni tanto ventate di polvere improvvisamente negli occhi; il grido «la tromba marina!». E pioggia che batte ogni tavolo sotto i tendoni; qualche bicchiere per terra. «Odio il paesaggio!» urla Renato prima di buttarsi nell’acqua davanti a Klaus, l’unica ora di sole. Si butta. Molto porcello: bravo, giusto.

«Detesto la natura!» urla uscendo. Assestata alla mutanda, fremito di nidiate di frugole. Domani, piscina riscaldata, se non viene la tromba marina. È freddissima l’acqua ai Faraglioni, fredda come in albergo, e non ho voglia di aspettare il motoscafo quando voglio tornare. Voglio il mio tassì comodo dalla Canzone del Mare, senza la scalinatella obbligatoria e su il golf e giù il golf.

Jean-Claude non lo vediamo più. Dipingerà? Sognerà? Avrà trovato una Barbaresca? una Celimontana? una Rochefoucauld? Dove si aggirerà? È il solo che non sta nel nostro albergo. Klaus e Renato hanno una stanza giusto sopra quella mia e di Antonio. Renato si fa dare dei soldi per la cameriera del piano, ma tanti. E lei cede. Lo lascia entrare in una stanza vicina, a scuriosare dentro l’armadio di due goghe e magoghe che cambiano golfini e foulards sei volte al giorno e pretendono di sembrare zio e nipote di Brescia. Sulla scala ci sto io di guardia, ma bisogna stare attenti perché ci sono due trucibalde che forse stanno facendo lo stesso, loro non mi vedono ma io dal pianerottolo sì: frugano nei cassetti d’una culona di Torino che non si capisce mai se porta o non porta il costume sotto un gonnellino corto, ridicolo. Lui esce dopo un momento gridando «capisco Van Gogh, la follia, i girasoli, avrò visto tutto!».

Rotola per le scale, facendo l’accecato da certe camicie sgargianti con tigri e giungle che i due non hanno ancora osato sfoggiare, per il gran freddo. Gli altri, sconvolti tutti all’idea di una marchetta del Nord che sta nel Sud e sa i pittori. Ancora a questi punti! Che voglia di tornare a St. Moritz, da Segantini, per così poco!

«Ma non ci sarà qualche romito, qui in cima a Capri?» mi chiede Renato molto in confidenza.

«Perché? Hai peccato? Ti devi confessare?».

«No, l’anno scorso ero a Maiorca per caso, molto fidanzato con una finta Fierro che mia madre disapprova nella statura, e là c’è un famoso romito in cima in cima, che non vede mai nessuno. Un giorno non di bel tempo sono arrivato là in alto da solo con dei bellissimi bermudas della Cabella mai visti in quell’isola... Gli ho fatto una santa apparizione, con gli occhioni da Bambi, e gli ho mostrato il mio bel culo da angelo biondo. M’è corso dietro! Impazzito! Facendo le invocazioni in spagnolo, che sono la fine del mondo!... Vedi, come nascono le leggende? E poi li fanno santi, anche per merito mio. Solo però mi piacerebbe vedere, dopo, come vengono fuori i miei bermudas della Cabella, nelle pale d’altare a Maiorca, o nelle vetrate. E piacerebbe anche alla Cabella certo».

 

«Allora cosa si fa, Antonio?».

«Te’, la tua acqua».

«Com’è questo film di Marcello?».

«Non ne vuol parlare, per adesso. Dice che è difficile da spiegare. Da quel poco mi pare una cosa pericolosissima, molto rischiosa. Tutta sulle nuances. Metterne dieci perché se ne vedano tre. E tutte intense, dolorose, stilizzate, straniate, sofferenti, e non false. Non so se Giuliani è abbastanza bravo».

Al caffè della piazzetta, adesso li sentiamo ridere come pazzi. È piovuto, non si gira. «Cielo rosso!» fa uno. E giù risate. «Cielo giallo, cielo proibito!». Urli, addirittura. «Cieli senza domani! Un’isola nel cielo!». Non si tengono più. «In tutti i titoli di film con la parola “cielo” la si sostituisce con culo» spiega una sgallettata a Antonio. «Non si sbaglia un colpo! Prigionieri del cielo!... Nel regno dei cieli!... I diavoli del cielo!... Il cielo può attendere!...».

«Il cielo sulla palude!» facciamo noi. «Sììì! Lì sopra, fermo, che non si muove!»... «Senza cielo!»... «Sììì! con la Isa de Paolis! Non ce l’ha!»... «Una tigre in cielo! I pascoli del cielo! I pellegrini del cielo!». Tutto un giubilo. «Quel cielo di Lombardia, così bello quando è bello!»... «Due cose riempiono l’animo di meraviglia e terrore: la legge morale dentro di me, e il cielo stellato sopra di me!».

Gli urli, le risate. «Mi par di toccare il cielo con un dito!»... «Apriti cielo!»... «Ma per l’amor del cielo! Sono cose che non stanno né in cielo né in terra!»... Si può andare avanti per ore.

«Il cielo ci appartiene! Il cielo vi ascolta! Cielo a pecorelle!». Ai tavoli vicini, la gente non capisce più niente: che ci sarà di tanto spiritoso, quando qualcuno urla o canticchia «Cielo e mar!», «Cieli bigi!», «A noi si schiude il ciel!»...

Passa gente di loro conoscenza. «Settimo cielo!»... «Il matrimonio del cielo e della terra!»... E ai vicini: «Non ci badi, signora mia! Raglio d’asino non sale al cielo! E ringraziamo il cielo, sora mia, voglia il cielo, questi si aspettano proprio che caschi la manna dal cielo!».

Si incomincia anche a strafare. «Il cielo me la mandi buona, direbbe Don Abbondio»... «Laudato si’, mi’ signore, per sòra luna e le stelle, in celu l’ai formate clarite et preziose e belle». E naturalmente si finisce per sbracare all’italiana con gli uccelli. «... E spiegar gli augelletti al ciel le piume... Gli altri augelli contenti, a gara insieme, per lo libero ciel fan mille giri...».

«Ma non ci sarà un rimario dantesco, in tutta l’isola?» domanda Antonio. «... Perché io mi ricordo solo “li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo”, e “sempre l’amor che queta questo cielo”, ci sarà pure dell’altro...».

«Guai a voi, anime prave! non isperate mai veder lo cielo!».

Peccato che sia andato a dormire Klaus: il solo che mi potrebbe capire se proponessi di mettere al posto del cielo tedesco, Himmel, l’augelletto tedesco, Pimmel, nelle più romantiche poesie che ci hanno fatto imparare a memoria per forza, con quelle rime da Lieder tipo Bäume-Träume, Herzen-Schmerzen, Munde-Runde-Stunde-Grunde, Pracht-Nacht... Chissà che Schubert, che Schumann... nella notte stellata e profumata di Eau Sauvage...

Qui invece Rosati, sarto della troupe, detto anche «Rouge, la couturière», è appena sceso a folleggiare per la via Krupp, dunque può diventare di tutto: Roseide, se schiava di un Achille; Rosilde o Rosunda, come walkiria di riserva; Rosette o Roseuse, se ci si butta fra Marivaux e Direttorio; Rosannette, rientrando in un romanticismo minore; Rosiane, o magari Rosinoé, risalendo al Grand Siècle e virando sulla turcheria... Mrs Rosay, o Lady Rosefield, passando nel West End... Se non addirittura Rosalie (governante), Roslyn (call girl), Roseberry (confettura in confezione-regalo da Harrods), Rossana e Rossanda (linea bagno-cucina coordinati per Voi), o Rosillide, ninfa dei catamarani riuniti... Anche Rosamunda, naturalmente, in occasione di una sua magnifica serata, preparata dalla delicata fatina Rosenthal, magari in compagnia di Rosebud, con tanti auguri d’una buona carriera nel cinema “cult”...

«Giù alla Marina Piccola» mi fa Antonio del resto «la prima cosa che ho visto stamattina è una mia amica anoressica di Roma, e m’ha detto che per tutta una colazione ieri hanno continuato con due o tre Rothschild francesi a far dei giuochi sul nome del ministro Pompidou, senza toccar cibo».

«Da Roma! Chi ha chiesto Roma!» gridano ogni tanto dalla cassa del bar. Allora tutto un alzarsi, un rovesciare, un correre. Si travolge la cassiera, cascano i bicchieri e i golf. Montagne di giornali come divorati per terra. Tutto un «venite a sentire quante gliene dico a questa!».

Poi a mangiare tutti insieme quando è troppo tardi, saremo quindici e ci mettono a seder male. Questo vino fa anche malissimo a tutti; e poi il fumo, le candele, il rumore, le chitarre, le urla, tutto rimbomba al chiuso e fanno aspettare da pazzi: per due gamberoni. Antonio mi spiega dopo chi eravamo noi, tutta una situazione di dupes.

 

Quello che gridava di più sarebbe un suo amico-nemico, non è chiaro, Gigi Guglielmi, il più bravo fotografo e confidente di dive e starlets oggi in Italia, in bianco e nero e a colori e in intimo. Fino a due anni fa niente. Reggeva il flash ai matrimoni e ai compleanni. Attualmente la Maserati, l’agenzia, mucchi di rotocalchi sempre intorno, urli di «sta stronzaaa!», «sta squinziaaa!», «sto mostro che faceva la fameee!», sfogliando bruscamente le riviste, squarciando le pagine, calpestandole sotto il tavolo; e sono le sue clienti, o datrici di lavoro e di fama, che nelle trattative per «farsi sorprendere» in via Condotti sbagliano qualche dettaglio o «sbagliano tuttooo!»... Lì vicino, il direttore di un giornale governativo ma di corrente e apertura con un maglione accollato e la sciarpina bianca e massaggiandosi per il gelo le gambe senza calze, nel mocassino col fiocchetto; insieme a una svedese o danese magra un po’ caprigna, «per niente ficona vichinga da latin lovers» (notano i più estroversi), ed evidentemente in lunga polemica contro di lui perché non la spinge nella sua carriera d’attrice.

Lui le ride in faccia, davanti a tutti; e lei si volta a questo Gigi chiamandolo «signor Gigi» con una reverenza mai vista: è l’unica. A pesci in faccia, reagisce lui, mettendosele sotto i piedi finché non sono niente: domani, trionfanti ai festival, continueranno a subire senza reagire. E lui ci conta. Quello molto grasso? Il regista di Marcello, Lulli Giuliani. Camicia rosa d’oxford X-large, un cashmere legato sullo stomaco tipo grembiule, uno intorno alla vita come ventriera, un altro sulle spalle come tutti. Due doppi menti, dialettale meridionale cordiale, flemmatico; ma molto dogmatico stalinista, mi fa Antonio: molto severo sugli ungheresi, sulla guerra fredda e la contrapposizione fra i blocchi. Soprattutto fra la Panarea Film e Hollywood.

«Quella che lo accudisce?».

«Duchessa della moda! di Verona! Sarta a Verona e a Roma e naturalmente dice lei a Parigi. La prima a lanciare in provincia il gran medaglione d’oro barbaro al collo, insieme alla cappa cardinalizia da sera. Gli ha sopralzato abusivamente un’altana di Topolino sui tetti del Collegio Romano: tutta una moquette a pelo lungo e un chintz lavabile con fiorellin del prato e vista sull’Eccellentissima Casa Doria Pamphilj».

«Pensiero & Azione, chi dei due?».

«Lei Kapital, lui Jane: in un bel vagoncino da Settebello in boiserie, commentando gli editoriali di “Rinascita” col poeta Angeloni, un duro; e sul davanti la porta di casa con tutto il movimento; e dietro la Silvana che beve i succhi e fa le telefonate scoreggiando in letto».

«Una duchessa che si chiama Silvana, adesso? Sarà almeno del Sacro Romano Impero!».

«E le sue sorelle Gigliola e Loretta, allora?... Il loro vero papà, tanti anni fa, faceva il centromediano nella squadra del Verona. E infatti vedi bene che lei ha le gambe da centromediano. Della Brianza: e non per niente, lei, industriosa; due o tre sedi, tre o quattro contessine sotto, valvassine sfruttate e devote, e lei sempre avanti e indietro in aereo. Molto imprenditoriale, con orari del Nord. Doveva capitare con un regista di Ben Hur: gli organizzava tutto, guadagnava di più, aveva più campo... Invece adesso solo ideologia e polemiche, manifesti da firmare, la censura, la Cina, Cuba, Corea, i carri armati, “al muro!”... Non per niente è una sarta del baldacchino, cioè col rarissimo privilegio di dover tenere nell’atelier un tronetto, perché può capitar lì da un momento all’altro, con qualche sua sderenata, Luchino... E apposta, infatti, l’abbiamo seduta vicino al direttore, non si conoscevano. Così magari gli dà qualche buon suggerimento per la gestione del suo giornale; e anche per la linea politica».

 

Il direttore sta facendo dei veri occhi di triglia. Lulli Giuliani (lei è la sola a chiamarlo Ludovico) lo sta ringraziando pensosamente per una recensione «valida» al suo primo film: questo con Marcello è il secondo. E gli fa intanto un paio di complimenti per un suo sofferto editoriale sul centro-sinistra. Chiude gli occhi gravemente; dice: «... perché noi intellettuali...». Il direttore prende a parlare dei suoi redattori come di camerieri. Si dicono, rapidamente: enfatizza, ipotizza, tematizza, somatizza, banalizza... «Che regista è? Non ho capito bene» chiede improvvisamente la caprigna a Antonio. Vuol sapere se è importante. «Il più importante di tutti» le fa lui. E Guglielmi, tranchant: «Molto più di Fellini e Visconti!».

«Ah, ma allora è la dolce vita...» mi scappa.

«Certo, l’hai lì davanti, may I introduce?...». E mi fa vedere subito ai tavoli vicini un produttore che dava i parties intorno alla piscina sull’Appia che non ha più, col suo bambino; un avvocato dello Stato molto amico di Saragat e molto olivastro, con una diva minore dei telefoni bianchi che si è rifatta gli occhi non bene; una caratterista di prosa e doppiaggio brillante con un caratteristico accompagnatore di americane del Trenta, in casacchina gialla e frontino idem; una nidiata di pittori del proletariato e contesse nuove intorno a un ginecologo molto estroverso con la chitarra in barca di amici costruttori e palazzinari di ex-borgata; un vecchio abbronzatissimo e very popular chiamato da tutti «er Prence» con bermudine hawayane sulle gambette e maglietta da spiritoso gondoliere a righe e berrettino di tweed sulla canizie...

«Vi siete divertiti molto, eh».

«Non fare il morbetto, fino all’altr’anno è stato molto piacevole: una città di vacanze dove si conoscevano quasi tutti, con pochi soldi, quasi tutti senza macchina, eppure si continuava a uscire tutte le sere senza far distinzioni fra i sabati e i lunedì... Party girls eleganti, forse per la prima volta nella storia d’Italia... Colazioni lunghissime al ristorante ogni giorno: con sortite lente perché “le tre del pomeriggio, son l’ora del dileggio”, e il tuo tempo non aveva né un costo né un prezzo proprio come ai tempi di Catullo e Petronio... Si leggeva e scriveva e... solo per diletto...».

 

Marcello sta alzandosi, come scusandosi con quelli della troupe. «Ha una sua trista vicenda, è caduto in amore» mi fa Antonio. «Per questo rimane tanto sull’isola».

«Dentro nel film?».

«Sì».

«È a questa tavola?».

«No, non si vede. Insomma: colazioni senza fretta, poi le telefonate mai prima delle sette, per combinare i drinks a casa di qualcuno... Sandro De Feo che chiamava per sentire “dove andiamo con le nostre ragazze”... Letizia, Lucia... “the Group”: almeno cinque o sei, bellissime, con storie tutte intrecciate e fantastiche... Quando Mary McCarthy m’ha detto che scriveva appunto The Group e ci avrebbe messo parecchi anni, invano le ho scongiurate di scrivere il loro un po’ per una, lo si pubblicava da Feltrinelli... Al cinema praticamente ogni sera, poi al ristorante anche fuori sulla Flaminia o a Porta San Pancrazio, e verso le due a Via Veneto, tutto aperto fino dopo le quattro come a Barcellona... a dire delle sciocchezze, t’assicuro, molto divertenti...».

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La Silvana ha offerto il pranzo a quasi tutti, e ora stanno raccogliendo delle polpette e della pasta su un vassoio, ma nessun cameriere sembra disposto a portarlo fino a un albergo. Sono per un giovanotto del film che s’è fatto male oggi cadendo da una scala, e gli hanno ingessato una gamba anche se è un versamento da poco, perché pare che qui ingessino tutto come in montagna. Intanto ripiove.

Allora forse il film è fermo per una settimana, scattano le assicurazioni e il ripensamento, impiegheranno questi giorni per far delle prove e dormire. E per pensare all’Italia, se si chiama Amore? Marcello e Giuliani stanno parlando in un angolo, già in piedi, abbastanza stravolti e tetri. Piove anche tanto; si affrontano ancora su Gronchi e su Segni; ma il direttore se ne è andato a dormire con la sua caprigna.

Antonio non ne può più e sostiene che è un’isola maledetta dagli Dèi: tutto il peggio che si vede qui, lo si rivede poi identico al cinema, e ahimè viceversa. Fra le poche coppie attardate nel locale c’è un relitto della televisione americana, un ex-divo anziano coi capelli grigi. Prima vuol cantare al microfono e poi si sente male, gli sono andati per traverso «I’m in heaven» e «Tenderly», anche per il freddo. Devono sdraiarlo su un divanino, a pancia in giù, tirargli su la camicia a giraffe e a palme, e gli fanno i massaggi sulla schiena, un po’ per uno. «È la renella, è la renella...». Ma quelli che mi fanno veramente paura sono un gruppo di esuberanti scoreggioni, tutti in camicettine con le maniche corte a rigoni o a pois, e i golfini su, e i golfini giù. Ma chi sono? «Principi del foro napoletani».

E se dopo i corsi all’Aia prendessi anche diritto della navigazione, mi toccherebbe magari fare degli arbitrati con questi avvocati impressionanti? «Ma no, ma non senti che parlano solo del Genio Civile?» tenta di consolarmi Antonio. Però c’è un nano autorevole che discute dell’essenza del Bello bevendo il cordialino al limone, sarà un crociano? La Silvana sta pagando anche il cibo per il giovanotto, e tutti afferrano qualche cosa ancora sui tavoli, anche degli altri, per buttarla sul vassoio: frutta secca, bottiglie. «La pastiera!».

«Ma non vi sembra un po’ troppo, anche lo champagne francese, perbacco?» fa lei seccata, lì in piedi col suo portafoglio da uomo in mano, quando vede portar fuori dal Gigi un “magnum” di Dom Pérignon. Subito dopo le arriva in testa un sacchetto di noci, non meno di cinque chili nella plastica; e uno degli operatori le fa: «Queste sì, duchessa, no? Così armeeeno quello passa er tempo a schiaccialle co’a gamba ingessata: tac! tac! tac! Dico bene?».

«E noi, Antonio, cosa si fa?».

«La tromba marina! La tromba marina!». E via che ricominciano, alzandosi tutti in uno stormir di tovaglioli. E siccome un ex-dolce vita in jeans larghi e lunghi viene lì a dire (si conoscono tutti?) «non vorrei, vero, che vi fosse qualche mancanza di rispetto intenzionale per qualcuna delle Marine che sono care amiche nostre, qui non presenti»... Tant pis per i telefoni bianchi: «La Maria Trombina! La Maria Trombina!». E si degenera: «Ih, ih, il troione!» facendo le corna.

«Qui pare allontanarsi, un prospetto di Napoli si chiama Amore con un’affascinante popolana dalla taille squisita, e gli avvenenti galantuomini del quartiere che le fanno serenate garbate sotto il balcone, tra fruscii di tende svolanti bianchissime... appena stirate fra gioiose strida...».

«Sarebbe forse improprio inserire a questo punto le telefonate di un insigne Maestro d’Arte che “fa le voci”... E con la cadenza da Superiora del Convento invoca la rinomata lavanderia, tra panico e angoscia per certe lenzuola dove l’Innominabile maschile resiste Indelebile... E poi con tonalità da Dry Cleaning – uno dei Quattro Quartetti di Eliot! – chiama la Badessa che intanto era già stata richiamata per l’insolito preventivo...».

«Lì si ricade magari nell’annosa quistione se i più sopraffini frutti d’una grande cultura appaiano al suo stato nascente, oppure al climax dell’apogeo e del vertice, ovvero se la fioritura più autentica non coincida per avventura con una decadenza estenuata o vandalica...».

 

«Torniamo a Roma domani, hai ragione tu: questa pare la sede del raccapriccio. Ho non meno di tre bei saggettini multipli da finire, tipo “Times Literary Supplement”, tra l’altro: già lì pronti, quasi. E magari un quarto, se si fa in tempo: chiusura frammentaria d’una stagione senza éclat...».

«Bisogna poi ripassare a quel consolato d’Ungheria».

«Sono loro i più duri per il visto. Gli altri lo dànno prima, la Polonia prima di tutti. Questo viaggio... Se il tuo nullaosta in Svizzera è già pronto...».

«Me l’hanno promesso in pochi giorni, sicuro. Ma questo film... Cosa ne fate?».

«Cosa vuoi... Vedi bene che qui è il trionfo dell’autobiografia: dalla vita direttamente nelle opere, più l’autocompiacenza di chi dà il proprio massimo fingendo sempre che sia un minimo, più l’incomunicabilità con l’alienazione sotto forma di senti un po’ sta caciaretta... e non se ne viene fuori né di giorno e meno che meno di notte... L’étalage dei sentimenti e dei dispiaceri, il contrario dell’educazione “anglo”... Klaus poi dovrà pur cominciare a star dietro alla sua opera a Spoleto, è qui per questo. Un mese di prove, non meno».

«E gli attori di questo film?».

«Sono stati con noi per tutta la sera».

«Ma quali erano?».

«Eh, come si fa a spiegare. Dopo. Marcello, dài, se almeno si parlasse... cinque minuti: del tipo di personaggi, se non altro, su. Bisogna pur mettersi d’accordo su una situazione base. Poi si va avanti ciascuno per proprio conto...».

«Cosa chiedi a me...» gli fa lui. «Li abbiamo letti, i nostri classici... Viaggio in Italia. Klaus ritorna qui dopo un po’ di tempo... e si sa bene cosa gli càpita, prima o poi... Ecco la situazione base, lì pronta. Si fa “La morte a Napoli”... O “La morte a Capri”, magari... Sempre obliasti, Ermete psicopompo... Sììì! Morte a Venezia e Trasfigurazione a Chioggia! Anche a Procida! Purché non Ischia! Ischia fa commedia!».

«A Procida! Procediamo! Con la procace corallaia Graziella! Ma il GI americano reduce di Anzio – il caporale mulatto John Jesus Smith, con una mamma portoricana assai devota – non aveva fatto voto alla Vergine di lasciar perdere per sempre quella poveretta, nella tribolazione e nel periglio, e di non ammogliarsi giammai? Adesso basterà la dispensa di un cappuccino, il compianto Ruggero Ruggeri, fra le bougainvillee di Ravello? O ci vorrà un intervento dell’Arcivescovo Carlo Ninchi, magari durante il Miracolo di San Gennaro al Teatro San Carlo?».

«Ci pensa la Lollobrigida! un suo fulgido “cameo” nel ruolo della Duchessa d’Aosta! Madre!». Poi cede, e abbraccia Antonio. «Scusami scusami, volevo dire Marguerite Moréno» fa. «Lo so che non m’avete mai visto così giù, avrei voluto accogliervi diversamente, stare insieme, quest’isola è stupenda per chi la conosce, avrei voluto portarvi verso il Pian dei Castagni, ma sono stanco, stanco, scusatemi tutti...». Prende lui il vassoio, se ne va verso l’albergo.

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Fa freddissimo nella piazzetta, e passa improvvisamente una processione. Con dei lumi, una banda, i carabinieri; s’arrampicano tutti a fatica sopra i gradini della chiesa. Scompaiono. Il Mago della Pioggia? Brutta serata a Getsemani?... Ritorna giù zoppicando e parlottando fra sé una Mata Hari finta in cagoule viola, sola... Invece dietro il Quisisana c’è una notte africana chiarissima, con tutti i galli che cantano e soffi tiepidi e un mare anche più chiaro visto dall’alto dei giardini d’Augusto, con una love boat fantasma che passa a luci accese, suona le sirene, e tremila buon’anime a bordo riceveranno l’ordine d’affrettarsi a guardar l’isola dell’amore. Chissà l’animatore.

Ma l’isola dell’amore, che stretta al cuore, col suo squallore da posto fuori moda, gente che gira a vuoto con sguardo non lieto. Luogo di castigatezza, oltre tutto, perché le dissipatezze già riservate ai luoghi eccentrici, ora si sa benissimo che sono privilegio delle grandi città industriali con più di un milione d’abitanti; e qui si viene soltanto per riposarsi o per piangere. Finché si han lacrime...

«Me Anchises, you Aeneas, mi porteresti in spalla fino al Tiberio Imperatore, che non ne posso più dal divertimento?».

«Non voltarti lì subito, c’è un Giudizio di Paride che sta andando a finir male».

«Ma quella lì ingorda, sarà l’Incubo di Füssli, o Venus toute entière all’ultimo stadio?».

«L’Incoronazione di Poppea, guarda cosa si mette in testa! Ma il Ritorno di Ulisse in Patria non la guarda neanche, è da un’ora davanti alla vetrina della Tessitrice dell’Isola!».

«E quei due revenants chi sono? Il padre d’Amleto con lo spettro di Banquo?».

«A giudicare dalle sambuche e dagli amari che hanno lì, dev’essere una morte di Socrate».

«Socrate si congeda dagli amici, e va a battere alla Passeggiata Krupp. Speriamo che non ci sia un arresto di Oscar Wilde al Cadogan Hotel».

«Io andrei un momento a fare l’incredulità di San Tommaso dentro i bermudas del carnefice di San Giacomo, anche per non addormentarmi all’umido, ma ho qui un Belisario che vuole l’obolo, gli si dà qualcosa o poi ne arrivano cento a pretendere perché sei uno che dà?».

«Cambiamo posto, c’è un Filottete che si pulisce i piedi sotto i riflettori del mondo intero puntati su questo palcoscenico internazionale di moda e di eleganza, perché si sa che ogni Fashion Movement parte di qui e poi conquista l’America, no?».

«Infatti. Ecco lì un Riposo nella Fuga in Egitto, con passeggino, poppante, borse di plastica sportiva di Castelfranco Veneto, e il latte da scaldare per il biberon».

«Anche una cenina tipo Emmaus: due hanno rimorchiato un terzo, o forse viceversa, e al momento del conto non si conoscono. Fischi per fiaschi, Caravaggio mio».

«Una Costernazione di Priamo: l’isola non è più quella d’una volta, sta spiegando il vegliardo. E quelli che si è portati da Roma: e te ce credo».

«Andiamo a trovare qualche Clelia oltraggiata da Porsenna con la tisana, o a quest’ora preferisci Leonardo sul letto di morte?».

 

All’albergo sono infatti lì tutti che ridono ancora, fra le sambuche, rievocando i soprannomi più famosi della Dolce Vita: il tribuno illustrato, il cretino prodigio, il grullo del focolare, l’incantatore di sergenti, il brutto addormentato nel basco, l’aquila a due tette, il Banal Grande, l’autore dei Carmina Burina... Ci sono perfino due fotografi di Via Veneto, appostati per chissà quali coppie da rotocalco. Siedono a poca distanza, per ascoltare, e uno ordina gravemente una caraffa d’acqua ben fresca. Aggiunge, lentamente: del rubinetto. E l’altro: con molto ghiaccio.

«Ah, ma c’è anche “Stai dormendo Giuseppe”, detto anche “Ti sei già addormentato Giuseppe”, perché la sua consorte glielo dice continuamente ai pranzi, soprattutto quando sono seduti molto lontani»... Passa l’omonimo dei Pallavicini, che fa vedere «mon palais» di fuori alle straniere... «Con chi sta?». «Con la madre di Giada». «Zia di Turchese?». «E della piccola Opale». E una specie di Ibsen, con testa pentagonale come nei ritratti di Munch sui programmi a teatro. «Pentagonale come Caprarola?». «E come il Pentagono degli Stati Uniti». Però quando si pasticcia i capelli diventa un hexagone come la Francia, osserva Jean-Claude. «Si vede bene dov’è Deauville, e Brest, Biarritz, Montecarlo, Strasburgo»...

«Ibsen nel suo soggiorno a Roma aveva come guida un giovane gesuita coltissimo, col quale conversava in latino» racconta un finissimo, in golfino color pesca e calze uguali. «Ma una domenica pomeriggio vanno al Teatro Valle per veder la Cavalleria rusticana con Giovanni Grasso, e vengono messi in un palchetto di proscenio. Davanti al verismo, Ibsen si tira sempre più indietro nel palchetto... Ma appena finito lo spettacolo, Giovanni Grasso viene avanti sul pubblico e lo invita a un’ovazione per il più grande drammaturgo vivente! E Ibsen, tirato fuori dal palchetto, a bassa voce, al gesuita: “Horribilis benevolentia!”...».

Ma questo Ibsen si comporta malissimo. Beve le sambuche di colpo, storce gli occhi e il naso, guarda l’ora. «È l’amico della Grande Falciatrice, lei per tutto il giorno si è rifiutata di scendere» informano i gossip. Ma lui chi è? «La smentita vivente del principio “In vino veritas”».

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«Sciami di lucciole come bollicine di spumantino, sei contento? Davanti ai Faraglioni che emanano bellezza e metafora di per sé! Proprio qui dove siamo adesso, per definizione, non può avvenire alcunché di banale! Si celebrano addii e dolori paragonabili al Faraglione stesso! E nove su dieci volte, è un dolore cosmopolita! Non come all’Elba o al Giglio, dove amori e spasimi si possono equiparare tutt’al più a un confino politico a Ventotene o a Ponza!... Ecco invece qui la Poesia da mettere nei romanzi da reddito! E in un film con cast internazionale, contano questi sfondi magici, non già le battute del dialogo!».

Mentre nessuno ci sente, mi parrebbe «honest, compassionate, sincere» (come poi scrivono i critici di “Time” e di “Newsweek”, per mandare la gente al cinema) dargli dei consigli possibilmente buonissimi. Anche se forse s’arrabbia o soffre. Ma quando mai si comprerà un appartamento, di questo passo?

«Noi siamo gente avvezza – alle piccole cose – umili e silenziose... Vero?... No, Minnie, non piangete... Voi non vi conoscete... Siete una creatura – d’anima buona e pura... O no?».

«Non vorrei tornar laggiù – a godermi il lago blu – tutto cinto di bambù... E allora? Fingersi un’animuccia che si rivolge ad altre animucce?... Ma in nessuna altra arte! Non nella musica, non certamente nella pittura, dove c’è un grande rispetto soprattutto per il divismo e i prezzi!... Solo in letteratura, sono tutti contenti se scendi giù giù a un livello proprio scadente, e allora sei “popular” in ogni senso. Solo in letteratura, se fai intendere un qualcosa ove si può sospettare intelligenza, si offendono come per una mancanza di riguardo! Solo in quest’arte povera, una letteratura per adulti significa non “di idee adulte”, ma di porcate...».

«E in cotanta miseria?».

«Ricevere nella tua biblioteca gli utenti, e cercare di far vedere il meglio?... Così diranno che ti dài arie? mentre pretendono l’acuto dal cantante, e dal calciatore il goal... O farli accomodare in cucina, dove - conversando di meschinità – si troveranno benissimo e ti troveranno “alla mano” specialmente quando si è parlato di detersivi?».

«Tovagliette, salviette, ripostigli, tendine, ma chi tiene tutto pulito? possiamo andare di là un momentino?...».

«... Piccoli inconvenienti comunissimi, nella vita di tutti i giorni: sono le cose che piacciono! File in banca e alla posta, esclamazioni in portineria e in autobus, perdite di pacchettini alla portata di tutti: questo si richiede a uno scrittore che abita a Roma, non una sua lettura di Schiller o di Nerval. Interessa molto di più il suo bagno e lo scaldabagno che non i libri, trattandosi di un autore contemporaneo, no?».

«Bruscolini! Gelati Algida!... Altro che Champagnisierte Literatur!».

«Semplicità, nella quotidianità! Psicologie ordinarie di gente minuscola, dunque emblematica. Gli stessi gesti che si fanno continuamente, e quindi sarà un piacere riconoscerli. Anche pentolini, rubinetti, interruttori, piccoli problemi di donnette verbose che tirano avanti con frustrazioni e scontentezze, figlie che non dànno soddisfazioni, frasette di malumore che tutti ogni giorno ripetono e ascoltano...».

«Ma non è ancora finito, quel senso di colpa perché si vergognavano di appartenere alla piccola borghesia di merda, e non al proletariato prode e sofferente? È dal dopoguerra che va avanti questo mito, no? E nessuno si vergogna mai, piuttosto, di appartenere a un paese che fa tante brutte figure quando tradisce e scappa nelle guerre? E dove non si può lasciare un pacchetto di sigarette in macchina? I complessini di classe paiono roba da ridere, al confronto».

«Ubi minor, maior cessat. La famiglia piccolo-borghese di cui vergognarsi è lì sotto gli occhi, in casa. Per questo molti si iscrivevano al Pci. E poi si rivergognavano anche lì: logistica delle convivenze obbligate, in ambienti ristretti. Ma finalmente, per la prima volta nella Storia, vincono i valori del centrino: modelli centrali di comportamenti e di gusto per l’intera società»...

«E io? Dovrei pentirmi della neutralità svizzera, non avendo di peggio?».

«Et in Arcadia, Egon: l’Arcadia di tutte le sore e sciorette “al corrente” che gradiscono solo la musica che conoscono già, e squittiscono tutte contente anche trenta volte quando vedono trenta bambini in trenta passeggini, o trenta cagnolini che muovono la coda in un film: cariiini... Non si deve assolutamente sospettare un “mondo di idee” o un linguaggio originale, poetico, nemmeno come ornamento da sfoggiare nel testo. Si è tenuti a riverire soprattutto le tensioni e il travaglio, nel rievocare il tran-tran quotidiano di una famiglia come tante altre, con gli alti e bassi... E gli anni di riscritture dell’Autore per ogni “Ammazza-hò” detto da un ragazzo su motorino, e i “Come stai” ripetuti fra uomini aggiornati e donnette moderne in situazioni comuni e universali... scrivendo poi il sesso come se uno raccontasse il football dopo aver tirato due calci a una palla di stracci in cortile...».

«Anche nei negozi di tinelli, no? Davanti ai buffet uso Maggiolini fatti adesso: quanto lavoro ci sarà dentro, ammazza-hò! chissà che fatica, a farli tutti!».

«Ma se tu racconti delle Edwige Feuillère o Vivien Leigh invece della donnetta standard con problemi in serie, allora sei un poco serio che si dà arie perché “non ci si può sempre divertire”, in quanto Letteratura significa “midcult”, e questo ha la funzione di consolare e commuovere... E dunque senza donnette, senza sciorette, senza mignotte, senza sofferenze né vittime, cessa lo scopo!».

«E il tuo appartamento?».

«... E pensare che gli autori più “popular” di un Ottocento durato fino a poco fa, per venire incontro al loro più caro pubblico, gli davano solo populismo e baronesse: vogliamo tutto tranne la fine della divisione in classi! uguaglianza nei detersivi, non già tra Princess Grace e le vittime!».

«Ma le signore del midcult trovano già tutte le contesse che vogliono sui loro rotocalchi! E tutte le soddisfazioni con gli abiti e i gioielli e le feste! La narrativa è il luogo delle povere, delle malvestite, delle brutte! L’appartamento nuovo, non lo comprerai mai!... Ma non te l’hanno mai detto, da bambino, che il Signore non ti ha messo su questa Terra per divertirti? Non l’hai mai letto, sull’“Unità”, che siccome non c’è un aldilà, tu devi farti un culo così per edificare l’uomo futuro in serie nell’aldiquà?... Lo vedo sempre più lontano, quell’appartamento... Magari un attico, vero? Ma mi faccia il piacere!».

 

«Ma come si fa a esser sempre seriosi e noiosi, uffa! Non è mica facile!».

«Non vi ripetete sempre fra voi che un libro italiano di cultura mai dev’essere divertente, sennò i lettori si adontano?».

«Questo è vero, lo dice anche Gadda: l’umorismo italiano ha connotazioni soprattutto ferroviarie. E oggi, naturalmente, televisive. Se fai del sense of humour, credono tutti che ti stia divertendo alle loro spalle, non insieme a loro come i comici d’avanspettacolo che dicono mavaff..., dal momento che il romanzo è un testo soprattutto per scuole, problemi, esami, concorsi... L’ironia è la peggior nemica della sora Premiolini! Se legge Evelyn Waugh, giustamente si sente presa in giro, lei, che è al corrente di tutti i fasti della Corte di Monaco e di tutti i bisogni degli ex-braccianti del Fucino – tutti alla sua portata – ma in casa propria esige per lo sciacquone e l’insalata lo stesso condimento e detersivo consigliato dai comici a tutta la gente comune come lei, che pretende la pelliccia però non si dà tante arie».

«Lo dici sempre, e poi non te ne ricordi. La letteratura da casa deve occuparsi solo di casalinghe: eccentrici come Tristram Shandy e Lady Metroland e Lord Chandos e il Cardinal Pirelli non la farebbero franca. Non fanno conoscere cause veramente buone, veramente tristi, dolorose, doverose, meritevoli... Il divertimento è un’altra cosa: è l’umorismo della mossa dei tàcci tùa, del tepòssino coi gesti delle braccia. Vuoi guadagnare soldi? Allora devi fornire tristezza ai tristi, e povertà ai poveretti».

«Ma che bella scoperta: fra Princess Grace e Anna Frank, dove mai c’è posto per Ulrich e Clarisse e Diotima e Arnheim? E Cathy Berberian, non avrebbe più successo come martire armena fra mille e mille, piuttosto che come cantante d’avanguardia sublime e unica?».

«Taci! Il Faraglione ti ascolta. Da’ retta a me: fa’ la coda alla posta, prendi qualche autobus, racconta gli interni degli appartamentini più identici agli altri, senti cosa dicono... C’è dappertutto una che ha successo con gli uomini pur non essendo bella, un’altra di mezza età che sarebbe due donne in una, molte che non vanno d’accordo col marito scadente, con la madre invadente, con la figlia pagliaccia... E bisogna tenere in suspense la sora Cecia fino alla penultima pagina, perché a lei interessa solo sapere se quella rompi di Patrizia gliel’ha data o non gliel’ha data all’ingegnere o al ragioniere... Come puoi parlargli delle Diotime e delle Clarisse, mentre sono lì con Ranieri in alta uniforme da una parte e lo sciacquone intasato dall’altra, e le SS che bussano alla porta?... Chi credi d’essere tu, rispetto alla vicina o alla cugina che consigliano lo stura-cessi Grace e il Romanzo per l’Estate coi mangiarini che preparava la nonna e quante coperte si mettevano sul lettone quando veniva giù tanta neve più di adesso?».

 

Insistiamo? «E fare intravvedere delle beauties, invece, magari? Delle Zelde, o anche delle ficone bellissime che vanno a finire benissimo, come se ne conoscono e se ne vedono in giro, e mai colpite da terribili preoccupazioni e disgrazie su “Oggi” e su “Gente”...».

«Sono cose da tener nascoste! la disgraziata con le gambe gonfie già dice “chissà cosa ci trovano!” quando vede le più belle foto di Marilyn sui suoi giornaletti!... E te l’insegna l’astuto Manzoni: la ragazza dev’essere insulsa e perseguitata, mai disinvolta, mai spiritosa, mai stata a una festa! Brutte! le vogliono brutte! e brutte-tristi, brutte-vittime, non party girls, non débrouillardes, mai l’anima della serata!».

«Permetti che ti faccia un piccolo piano? Le meraviglie che vedi in una passeggiatina. Ma non incominciamo con Salisburgo o Glyndebourne: sotto casa! Qui non avete molte scelte di livelli... Un marciapiede, una siepe, un gatto (il gatto non può mancare), un uccelletto simpatico... E cosa ci sarà in quel bel cestino?... Benissimo, in bicicletta... Anche le cose interessantissime che si possono sentir dire in treno fra Milano e Saronno o fra Roma e Civitavecchia... e sono cose che ho sempre pensato anch’io, e mi sono sempre detta, “ah, se sapessi tenere una penna in mano”... ma nessuno le ha mai sapute esprimere come lei, dottore!... Come si andrà a finire?... Sempre di questo passo?... A me, scusi, pare proprio di male in peggio, ciò un dolore qui... Ma insomma, non ami i fiordalisi? Non adori le violacciocche? Non prediligi i nasturzi, o i tageti? E metticeli, andiamo, pensa all’attico!... Avanti. “Aaamo gli anemoni... Prediliiigo le primule...”. Una per papà, una per mammà, una per zia Pina... Fallo almeno per la Pupa e la Cocca...».

«Nell’aurea misura dell’elzeviro, sepoffà... Ma il realismo della sora Premiolini è anche ideologico, e trova positivi i personaggi populisti finché sono poverissimi: le minuzie sulle miserie piacciono molto alla sora... Però quando come risultato di tutta la positività il poverissimo si arricchisce – ed eccoci a questo deplorevole boom! – allora l’ex-bracciante in automobile diventa negativo, senza l’arida zolla piace pochissimo, e la realtà non c’è più! Sparisce dai libri di consumo! Così come scappa dal discorso ideologico! L’Italia coi soldi è irreale!».

«Ma la fruttivendola sotto casa ha significato universale, per la sora! Balzac, invece, è per pochissime: anche più di Balenciaga, che almeno fa i profumi. E non dimenticare che quando i personaggi conversano piacevolmente, e mai del mangiare o dei parenti, la sora si sente esclusa e si irrita: se ha pagato, li vuole col tormento e lo sturbo».

«Ma se fossi un cronista sportivo, allora, non si irritano perché tutte le domeniche vado allo stadio, non pago, e mi diverto? Non fa rabbia in quanto privilegio? E per non farmi rinfacciare che mi do arie, dovrei fingere di vedere pochissime partite, non capirci niente, non divertirmi affatto?... E passando ai “gialli”, che invece tutti approvano, non vi sembra proprio turpe una letteratura di delitti “fine a se stessi”, senza la minima adesione alle buone cause dei bambini affamati, dei negri oppressi, della sinistra nel terzo mondo?... Dov’è la solidarietà, nel poliziesco? Qui ci si infischia dei valori positivi, sora mia!».

«E se tu fossi musicista o pittore, cosa dovresti fare per venire incontro alla portata e al livello della sora come coi libri?».

«Mina, o Nilla Pizzi? Scugnizzi con pipetta in bocca? Gatto bianco e cagnolino nero? O viceversa?».

«Un tempo, non piaceva il tema autobiografico? il pittore, l’atelier, la modella, chissà cosa fanno quando lei si spoglia sotto i cieli bigi...».

«Balthus li fa ancora. La sora se ne infischia».

«E con Picasso e gli americani, lo dice ancora che li farebbe meglio il suo bambino? O lo dice già suo marito, il sor, e lei commenta che con questi intellettualismi elitari i prezzi sono una vergogna? O fa già qualche passetto avanti rispetto a Togliatti e a Krusciov?».

«Dipende da sora e sora. Ma sulla pittura e la musica la sora non ha le idee chiare come con la letteratura. Non devono venirle incontro alla sua portata, le altre arti. Si sposta già la figlia, dove le dicono di andare gli striscioni al Muro Torto; e là fa delle conoscenze. Con la musica moderna, invece, ha proprio chiuso: da quando nessuno si fa più carico di farla piangere su qualche vittima trattata male».

 

«Ma perché solo la letteratura dovrebbe assecondare il midcult delle sore, e non invece le arti che si fanno rispettare perché guadagnano più soldi? Si è mai capito? Rispondi al Faraglione lì».

«Se avessi una trattoria ai Faraglioni, non so se andrei lì ai tavoli a chiedere “cosa desiderano alla portata della signora e al livello del signore?”... Come si fa a domandare: “siete gente comune e ceto medio?”... Magari mi rispondono “lei non sa chi sono io! mi porti il meglio che ha in casa!”... Ma quando la cucinetta della letteratura per la casa ricuoce fatterelli e figurette che ti interessano poco e conosci pur troppo, allora non solo si preferisce leggere Praz sull’estetismo dei decadenti e Longhi sull’officina degli squarcioneschi... Viene spontaneo andare piuttosto a Santa Cecilia per un Mahler o un Berlioz che non c’è in dischi, o metter da parte i soldi per spostarti ogni volta che c’è una mostra di École de Fontainebleau o Wiener Secession che non conosci ancora e nessuno ti ha spiegato a scuola».

«Il libro non deve piacere a te. Mettici le cosine che piacciono alla gente: la vita quotidiana di milioni di persone! A loro non interessano Mahler o Matisse: importa se la vicina la dà o non la dà. Mettici dei malumori e dissapori fra brutti caratteri. I dispiaceri della mamma, della figlia, dell’operaio, del contadino, del bambino. Lo sturbo! Sennò, quando mai riuscirai a comprarti un appartamento al Pantheon?».

«Ma cos’è questa storia del metterci! Non è mica una valigia o un cassetto. Guarda che non mi piace niente. Sembra l’epistolario di Puccini, quando si rivolge a D’Annunzio e a Ricordi per i libretti: “Grande dolore in piccole anime. Metti dei bimbi, dei fiori, dei dolori e degli amori. Poesia, poesia, affettuosità spasimante, carne, dramma rovente, sorprendente quasi; razzo finale! T’ho rotto le balle? non la pigliare a male”».

«Sempre con fè sincera? Che viso da malata!».

«Minnie, ora piangi tu!... Vivi sola soletta! in una bianca ca-a-a-meretta! Non sempre vai a Messa! ma preghi assai il Signor?... Desti fiori agli altar? desti gioielli della Madonna al manto? O desti solo il canto?... Eh?».

«Ma se la spogli nuda? È carne! Carne cruda!».

«Quando rangola il gong – si sa – gongola il boia! Il lavoro mai non langue, dove regna Turandot!».

«E te ce credo. Il ragazzo non aveva più che una gamba, la gamba sinistra gli era stata amputata al disopra del ginocchio, il troncone era fasciato di panni insanguinati!... Così, così si fa! Il ragazzo batté la schiena per terra e restò disteso con le braccia larghe, supino! Un rigagnolo di sangue gli sgorgava dal petto, a sinistra!... Impara, baby!... Questo sì che è Cuore!... Il piccolo eroe, il salvatore della madre di sua madre, colpito da una coltellata nel dorso aveva reso la bella e ardita anima a Dio!... O anche, più semplicemente: gli è passata la ruota sul piede!».

«Io non son che una povera fanciulla, oscura e buona a nulla... e anche tenue farfalla... Però, però... All’anima tua guasta, qual supplizio sovrasta! Sia legata! Sia straziata! Perché parli! Perché muoia! Strappatela di là! Nessun di voi, ha sangue nelle vene? Una gonna vi fa sbiancare il viso? E pensare che il vostro amante ha un cerchio uncinato alle tempia, che a ogni niego ne sprizza sangue! Senza mercé! Tiè... Che gelida manina, comprendo poverina, dammi il braccio mia piccina: ha inizio, la cerimonia! andiamo a goderci l’ennesimo supplizio, sora mia!».

 

«Ma tu non hai neanche un’opera in via di sviluppo?... Quelle che una volta si chiamavano in progress? Me lo fai il favore, se te lo chiedo per Natale, di metterci almeno qualche africano o asiatico a cui va tutto malissimo? Mettiti nei panni di mia cugina Simonetta che spende i soldi per un tuo libro, parte in vacanza, apre l’ombrellone, apre il libro, i braccianti e i minatori già li conosce, e fra i milioni e milioni che soffrono al mondo non ne trova dentro neanche uno. Con tutti i cinesi che ci sono! Hai perso una lettrice. Ma non avete dei morti massacrati in famiglia?».

«I soliti zii delle varie guerre: famiglie distrutte, pensioni da fame, tragedie italiane tipiche, testimonianze tremende sui dispersi, cadaveri mai ritrovati in Russia e in Albania...».

«Neanche un parente ebreo morto in un lager? Delle trincee, la gente se ne infischia».

«Adesso ti rispondo come Filumena Marturano: i morti so’ mmorti, non stiamo a dargli le tre o quattro stelle come gli alberghi».

«Ma fiction è fiction, scusa: diglielo tu, Faraglione! Così come buco è buco: ripetiglielo un’altra volta, Brecht! Dolori, dolori, ci vogliono! Una compagna di scuola anche finta, purché brutta e deportata a Auschwitz, ti rende più di cinquanta Savoia Cavalleria veri congelati nel Don! Non piacerai mai né agli ombrelloni né alle scolaresche! Non riuscirai a comprarti neanche un monolocale alla Garbatella».

«Ma non riesco mai a divertirmi, con i perseguitati e i martoriati! Mi arrampico sulle tende, mi attacco ai lampadari, mi prendo a schiaffi dicendomi “cattivo! cattivo!”, ma per lo svago e il relax preferisco Piccadilly a Buchenwald».

«Passa un sabbatico a Belsen, non perdere tempo con Salisburgo, dammi retta! Il massacro rende! Certo, devi fartelo piacere. Sennò, la gente non ci casca. La gente è perfida, non vedi che facce hanno certi lettori? Non guardi mai dentro le altre macchine ai semafori? Amano le sventure degli altri: mettici dolori, malattie, sciagure, disastri. I lettori sono come i vicini di casa. Credi che siano contenti, quando ti vanno bene le cose? Se la gente è bella e si diverte, la lettrice si arrabbia. Lei vuole provare l’afflato della sofferenza. Nelle case regnanti, bene l’emofilia, a Hollywood benissimo i tumori, ma qui la gente chiede soprattutto i lager. Non vivere fuori dalla gente. Mettici degli ebrei che soffrono, dammi retta. Devi farti piacere le carneficine e lo sterminio! È la tua sola possibilità di farti considerare buonissimo! E di sistemarti finalmente in un bell’appartamento. Vero, Faraglione?».

«E io, gli ebrei che soffrono, non ce li voglio né li saprei mettere, perché non ne conosco! I miei amici ebrei sono simpatici e divertenti, e stanno in belle case dove sanno ricevere benissimo! Belle collezioni, gusto della pittura, cose che aumentano di valore, argenteria importante, si mangia quasi sempre bene, si ride molto, raccontano storie piene di sense of humour...».

«Disgraziato! Non avrai mai successo! Dovrò portarti la minestrina anche da vecchio!».

«Ma anche tornando all’infanzia, e cioè al grano in erba, in campagna, in guerra, nei peggiori anni della nostra vita... i miei migliori amichetti ebrei erano bambini che già stavano benissimo e poi sono finiti meglio di te: imprenditori quotati in Borsa. I genitori nascosti si sono salvati, hanno riaperto uffici e aziende, nessuno ha tradito, si diceva tutti “sono in Svizzera” e non “nel solaio”, al posto del preside dantista fascista è ritornato il preside dantista ebreo... Erano bambini d’antico stampo, si vergognavano di dire “il culo”, dicevano “la fabbrica del cioccolato”; e si lamentavano delle loro zie iettatrici, non si è mai capito se erano peggio le loro o le nostre cristiane, perché si era appena nel ’39 e nel ’40, e già le une e le altre continuavano a invocare le disgrazie!... E le sconterete tutte, e finirete malissimo, e vedrete la Mano del Signore, continuavano a ripeterci: e non c’erano ancora i veri orrori, si sarebbero saputi solo alla fine della guerra, si andava ancora avanti col Piave e il Carso. Ma loro lì tutte protese e slanciate a invocare i castighi dal Cielo, in campagna, nello sfollamento, in un buco in fondo all’Oltrepò, prima ancora dei bombardamenti... E noi non avevamo ancora imparato a toccarci le palle... E sempre: “Bambini, pregate il Signore perché faccia finire la guerra”. E noi bambini: “Perché? C’è bisogno di ricordarglielo? Da solo non ci arriva? La sciura Pina, c’è arrivata da quel dì!”...».

«E non ci sarà ancora qualche sopravvissuta lamentosissima che racconta solo deportazioni? Alla gente piacciono tanto! Più Oltrepò vi hanno ammazzato e distrutto, e più copie si vendono! Ma certo, se si sono salvati tutti, non ne vendi una. E se oggi vanno dall’internista invece che dallo psicanalista, puoi cambiare mestiere e paese... Pensa però, soltanto, a tutto quello che Puccini sarebbe stato capace di cavare da Auschwitz!...».

«Domani mattina» mi fa lui «passiamo da Capodimonte. Poi compriamo un po’ di costumi da bagno e di cravatte. E torniamo a Roma quando vogliamo».

 

Ripassando in piazza, solo dei piccoli americani tipo soldati grassi in licenza con un grammofonino a pile, e solo dischi dell’Elvis Presley prima maniera. Non mi vengano a ridire: sono stato nell’isola ed era un incanto, che delizia non c’era nessuno. Senza un po’ di beautiful people, come sanno davvero di poco anche i famosi bei posti.

«Ci sarebbe stata magari una diversa linea di soprannomi e pseudonimi, oltre alla produzione Rosati-Canova» riprende. «Graziosa, ma non fu perseguita. Giacomo Debenedetti, piccolino e trottolino: Debbie. Cesare Brandi, con un bel colorito rosatello: Cherry-Brandy. Giovanni Macchia, essendo francesista: Monsieur Tache... Ha avuto più fortuna la linea in euse: Masseuse e Gazeuse per Massari e Gazzoni, Brandoleuse e Aldobrandeuse per Brandolini e Aldobrandini. Buon momento quando tutte le Violanti sono diventate Violeuse. Diceva Anna Banti: in fondo, Banteuse suona come una professione non priva d’una sua dignità».

Escono le stelle. Vaghe? Dell’Orsa? Stasera, mah.

«... E se vogliamo una deviazione, ci sta dentro il Duomo di Ravello, rimodernato al suo Dugento: come nuovo, buttando via in restauri sei o sette secoli di devozioni e stucchi e arti cosiddette minori... proprio mentre stanno incominciando a romper le palle da più parti per salvaguardare l’archeologia industriale della filanda e della centrale elettrica».

«Se ricominciate quelle belle discussioni, voglio però capire perché proprio nella letteratura si deve perdere tanto tempo con le confusioni tra alta moda e prêt-à-porter».

«Ma quale sarebbe “il nostro mandato”, insomma? Raccontare una città, una società, un’epoca (e non una stanza, una famigliuola, un’infanzia), come hanno fatto parecchi narratori francesi e inglesi e tedeschi e americani dell’Otto e del Novecento?... Oppure voltare le spalle alla realtà e alla vita, non “descrivere” proprio niente, e mettere a punto congegni puramente fantastici, come la musica sulla musica e la pittura sulla pittura di tutto il nostro tempo?... Venire incontro alle aspettative, come i fabbricanti?... O inventare nuovi bisogni, come certi creatori?...».

«Qui non viene più neanche l’acqua fredda. Il rubinetto fa un risucchio che tira dentro l’aria».

«Chissà l’Amazzone del bidet, come farà».

«Si è sempre detto: non è un’attrice, è un portato del fascismo».

«State attenti a Proust, voi, intanto. Basterà cavarsela “facendogli un bel giro intorno”, come Richard Strauss con Wagner?».

Anche Klaus parte domani da Napoli. Per Sabaudia, con Renato: gran valigie bianche. Ha preso in affitto una Mercedes sport nera, rossa dentro, e stanno due giorni nella villa d’una sua vaga suivante di Venezia, con una ex-madre molto well-off, davanti al Circeo; poi proseguono per l’Umbria. Ci si vedrà più tardi nel mese, tutti. Jean-Claude ci viene forse insieme fino a Roma, però senza fermarsi. Prima vuol fare Arezzo e Cortona e Perugia. E di lì forse a Spoleto anche lui.