BAVIERA
Qui il cielo è scuro e invece sulla Baviera c’è il sole, si sta bene: Klaus inaspettatamente mi telefona da Monaco che fa bel tempo, e perché non vado lì a passare il weekend. Sono tre giorni di festa, anche il lunedì. Scendo che è quasi l’ora di pranzo venerdì sera all’aeroportino di Monaco, e Klaus è lì a prendermi vestito di nero, paltò anche nero, e una sciarpa lunga da college a righe invece vivacissime.
Mi porta subito a mangiare in uno di quei magnifici ristoranti vecchi e scuri e benissimo serviti, con tanti piatti di caccia e perfette aragoste in due o tre modi sul classico. Vino della Franconia gelido, un parfait allo zenzero con salsa inventata, e Rembrandt che ci guarda sul coperchio dei sigari, fra tutte queste teste che ci fissano dalle pareti, vecchi cervi imbalsamati e ritratti di borgomastri terribili.
«Andiamo dal mio lupo» propone poi. Andiamo, infatti. Sono quasi le dieci. Il lupo, mi spiega, lavora alla televisione e stasera smette appunto verso quell’ora. Arriva infatti un attimo dopo di noi, con una macchinina cecoslovacca ammaccata, e con zanne bianche veramente da lupo subito morde ridendo la mano nuda che Klaus gli stende. «Hier kommt der Karl-Heinz!». Non ha davvero freddo: camicia bianca aperta con le maniche arrotolate sotto il giubbottino corto, nuvole di vapore dalla bocca mentre dice le sue cazzate e ride.
Fa dei «bim-bam!», avrà neanche vent’anni, con una gran cresta bionda agitata che casca avanti, e una sciarpa inglese uguale a quella di Klaus. Gli occhi grigi sono sottili, tagliati un po’ sbiechi. Come quelli di Renato e degli ungheresi: simpatici e torbidi; li sbattono per guardare di sotto. Ma il sorriso è selvaggio, d’una vitalità frenetica. Tutto di corsa. Gli salta giù dalla macchina, subito dietro, un enorme cane pastore alsaziano che si chiama Karl-Heinz come lui, e come lui soprannominato Wolf. Quando Klaus chiama, corrono insieme. A me dà la manona battendo i tacchi, col suo colpo secco della testa avanti e indietro, da beneducato tedesco, e subito con la manona un colpo per ributtarsi indietro i capelli. Ho sentito che gli devono mancare due o tre falangi dalle dita.
L’appartamento è di fianco all’Englischer Garten, vastissimo. Un interno grande-borghese, fin troppo caldo e troppo alto: porte monumentali, architettoniche; pareti molto bianche, soffitti a cieli stellati fra travi nere; mobili neri enormi, anche loro con qualche stellina dorata, con gran zampe sopra gran predelle; tappeti cinesi tutti sul blu; pesanti poltrone comode a crisantemi gialli. Il Webern è su un grammofono bianco, lo champagne nel secchiello d’argento, e il salmone pronto nei piatti, col suo burro e il suo limone e la sua plastica sopra. La luna, oltre le finestre decorate a vendemmie medioevali, speriamo in Franconia. E la Pentesilea? Non si vede sul pianoforte, e lo chiedo a Klaus, mentre il ragazzo e il cane incominciano a mangiare.
«Ah, niente» mi fa. «L’ho messa da parte per un po’ a metà del secondo atto, praticamente però verso la fine, già. Tanto, per la stagione prossima non si faceva certo in tempo, neanche nella primavera. Me la rappresentano fra due anni».
«E quel finale del primo atto?». Sorride. «A posto. Da un pezzo, anche. È per il finale del secondo che mi sento ancora una specie di blocco. Come per Puccini, tocca legno: quella profonda inibizione o resistenza a trovar la musica per l’ultimo duetto della Turandot famosa... E si può anche capire: una volta morta Liù, è come se dopo morte Mimì e la Butterfly, Rodolfo e Pinkerton dovessero risvegliare Brünnhilde... E oltre tutto, se Turandot si scioglie ed esce dal mistero, se dissipa il mito e l’allure, diventa facilmente un’altra povera donna, come ben sapevano sia Greta Garbo sia Pio XII...
«Ma soprattutto, tocca legno e ferro, l’impossibilità per Schönberg di finire il Moses und Aron, perché quando si discute di Segno e Simbolo e Icona e Immagine, è meglio lasciare nella Vienna di Klimt tutta l’orgia danzata coi getti di sangue e i gioielli falsi, e passare in una classina di Wittgenstein a Cambridge... o far retorica a Tübingen, o magari qui a Monaco... Ma nella nostra cultura, così fattuale e cosale, l’immaginazione viene tanto declassata... dai Concetti terribili... E quei due non si metteranno mai d’accordo! Aronne è un simbolista, ama la Visione e il Tropo, usa l’Antonomasia, abusa dell’Allegoria, predilige la Metafora. Parla di Vitello d’Oro e di Roveto Ardente, così come altri potrebbero dire Balena Bianca, Pelle di Zigrino, Cigno di Busseto... E infatti canta, con la sua bella voce, come Verlaine, come Whitman...
«Mosè no, invece. È un semiologo addirittura truculento. Per lui il Simbolo è degradazione, è “non-logical suggestiveness”, anche nel caso della Terra Promessa, e perfino quando rasenta proprio il Segno, con le sue Tavole della Legge, che ha lì in mano... Non per nulla si esprime come recitante: come Monsieur Jourdain, e come Thomas Mann, qualunque cosa dica, gli viene fuori in prosa. “Mi manca la voce, mi manca la voce” si ripeteva nel Mosè precedente, quello di Rossini. Ecco, fatto. Staccata la corrente. Happy, now?... Però, d’altra parte, il compito principale di un artista fin-de-race è proprio questo non aver niente da dire, però essendo tenuto a dirlo, volente o no, fino all’Afasia Originaria: torcendo il collo al niente come Kafka, come Beckett, come Paul Muni inghiottito dalla tenebra alla fine di Io sono un evaso, soffiando “ruubooo!”...».
Noi beviamo champagne, gli altri mangiano.
«Sai cosa dicono le didascalie del Mosè e Aronne?... “Entrano da ogni parte processioni di cammelli carichi, asini, cavalli, con portatori e carri, recando offerte d’oro, grano, orci di vino, orci d’olio, animali per il sacrificio... Dovunque, lontano e vicino, bestie da soma scaricate, offerte che si accumulano, greggi e armenti trascinati avanti; preparazione del macello, animali decorati e incoronati, apparizione e danza di grossi macellai con grossi coltelli, danzando selvaggiamente intorno alle vittime... I macellai macellano le bestie, buttano pezzi di carne alla folla tra liti e spintoni, parecchi si precipitano, afferrano lacerti sanguinolenti e li divorano crudi... Si portano grandi faci, si accendono roghi e torce... I capitribù ammazzano un giovane, montano a cavallo e s’allontanano, le donne si scambiano gioielli, gli uomini si offrono armi, si porgono cibi e bevande e s’incoronano a vicenda, scorre il vino da ogni parte, grande ubriachezza generale, le vergini folli porgono i coltellacci ai sacerdoti ebbri, e questi le afferrano per le gole, affondano i coltellacci nei loro cuori palpitanti, le vergini sagge raccolgono il sangue nei vasi, li porgono ai sacerdoti, e questi li versano sull’altare... Nella folla, distruzioni e autoimmolazioni, carri distrutti, giare fracassate, tutto buttato via: spade, lance, vasi, scuri... E chi si trafigge con la spada, chi invece si butta sul fuoco e poi corre via bruciando... Ed ecco un’orgia di eccessi sessuali...”. E vi pare Novecento? Vi pare avanguardia?».
«Griffith, De Mille, Alma-Tadema: I like that. Cose non rivalutate, comunque. Avranno un futuro? Avranno un prezzo?».
«Il ritorno del rimosso biblico. Profeti che ripetevano “soffrirete! piangerete!” molto prima di Auschwitz... Altro che la rinascita del paganesimo alessandrino: povero Hofmannsthal».
«Certo, come non piacerebbe, se invece di un dio punitivo ritornassero Venere, Flora, Cupido, Zefiro, le Grazie... Con feste galanti: orrore! E sterminio solo di fagiani e salmoni...».
«Se ti fermi una sera in più e vai qui all’Opera dove c’è una Elena Egiziaca sublime con la fantastica Rysanek, vedi che non c’è nessuna espiazione obbligatoria, per l’ellenismo o la décadence di Hofmannsthal e Strauss... Le conchiglie magiche della Maga di Tebe funzionano come radar per attirare Menelao furioso, e poi convincerlo coi filtri che a Troia c’era solo un “doppio” di Elena, un “simulacro”, mentre la vera ha passato quei dieci anni dell’Iliade in Egitto, con Euripide e magari Aida, leggendo il Secondo Faust sul Nilo, pronta a una seconda o terza o quarta “prima notte” nuziale in un Sahara da “Stranger in Paradise”... tra figli dello sceicco e palme d’arredamento, finché si torna a casa perché la figlia della coppiaccia ha nome... Ermione...».
E subito: «Credo che farò piuttosto un oratorio, prima. Lutero o la consacrazione della forza. Tratto da un dramma di Zacharias Werner, del 1807. Oppure, guarda giù nell’Englischer Garten. Voi andateci pure, lo so cosa si fanno, quelli che si picchiano, ma io non posso. Però, in una fine d’estate, quando il cielo diventa più drammatico, portare in giro diversi “pezzi” di Webern e Berg a combattere nel bosco notturno della Pentesilea, che è poi questo, qui sotto, con fiaccole che li accompagnano da un gruppo d’alberi agli altri, li seguono sotto le stelle... e dare e aumentare o diminuire il suono alle formazioni che si spostano fra i cespugli e le acque dell’Isar che corrono gelide e il Monopteros misterioso fra le torce: un tempietto di Klenze che si chiama quasi come il Monostatos del Flauto magico... da una tua console nascosta dove regoli immensi effetti, specialmente verso certe querce dove mi dicono che è arrivata questa moda in ritardo di farsi appendere come nel bosco di Wimbledon...».
«... Dove si crocifiggono i bruti e i boni?».
«... e dove invece puoi avere appeso dei grandi gong di bronzo, e sistemato un gamelan di Bali, live... per gli esercizi degli allievi della scuola di perfezionamento superiore...».
«C’è anche un libretto?».
«Mio, come sempre, per Lutero. Ma utilizzando molto questo dramma di Werner; e anche diversi pezzi che ho ritagliato dagli scritti di Lutero stesso. Eppure sto pensando anche molto a una grande tragedia tedesca contemporanea, e anche austriaca, in parecchi pannelli, su alcuni grandi morti del nostro tempo, eroi intellettuali come Anton Webern. Quando è morto nel settembre 1945 ucciso da un soldato americano, sai che non era affatto un personaggio noto. Veniva considerato un seguace minore di Schönberg schiacciato dal confronto con Alban Berg... Non era né un “caso” né una leggenda. Era un omino riservato e modesto, vissuto a Vienna per sessantadue anni, uscendo poco e non componendo neanche molto. Aveva fatto anche il direttore d’orchestra, e fra l’altro interpretava molto bene le sinfonie di Haydn e i valzer di Strauss. Si era ritirato; insegnava; passava molto tempo a rivedere le sue composizioni, con un perfezionismo instancabile, e del resto senti quanta disciplina e quanto rigore dietro questi effetti “minimal” che ci incantano oggi: economia preziosa di mezzi, bellezza squisita del suono e dei silenzi come in due o tre versi di Ungaretti... Questa concisione pungente con pochissimi strumenti, brevissime durate, nessun effetto... E questi silenzi espressivi pungenti come Vienna, cioè veramente il contrario di quella obiettività astratta sognata più d’una volta da Stravinskij...
«Ma dopo il ’38 i soliti nazisti ne avevano addirittura proibito l’esecuzione; e gli ultimi anni di Webern sono stati molto tristi perché era un uomo povero. Ancora oggi, l’ultima Enciclopedia Britannica del ’60 gli dedica tredici righe e mezza, e qualche Guida alla Musica lo dà per vivo, magari senza prevedere la fortuna postuma di queste sue rarefazioni, e condensazioni, così traslucide... come un brillìo minerale... che hanno dato il take off a tanti nuovi compositori e influenzano così profondamente le ultime maniere di Stravinskij, même...
«E invece il pover’uomo era scomparso nella confusione del dopoguerra austriaco; e non si era mai saputo bene come. Ammazzato da una sentinella durante il coprifuoco, s’era detto vagamente: come spari da opera!... Ma ogni indagine fatta in seguito non era mai arrivata a scoprire niente. Rimaneva solo questa tomba nel villaggio di Mittersill; e le tracce delle pallottole che l’hanno ucciso sul dietro d’uno chalet.
«Nessuna inchiesta era stata fatta a suo tempo, anche perché una polizia austriaca nel ’45 praticamente non esisteva; e dunque era inutile andare in cerca di atti ufficiali. Allora – anche se a te come a me le strutture del “poliziesco” non importano proprio niente – un musicologo americano d’origine tedesca, Moldenhauer, ha svolto una grande quest europea alla Henry James, però con metodi da Raymond Chandler; e per cominciare, ha ricostruito attraverso gli archivi della Difesa degli Stati Uniti tutti i movimenti intorno a Mittersill nell’autunno del ’45. A Kansas City, in un edificio immenso (e questo lo puoi già vedere come avvio dell’opera), si trovano tutte appunto le carte sulle attività delle truppe americane in pace e in guerra. E con una investigazione paziente, pazzesca (che si può realizzare benissimo), questo Moldenhauer riesce a stabilire quali divisioni e reggimenti stazionavano allora nella regione: arriva perfino a ottenere i ruolini coi nomi di tutti gli ufficiali. E qui, se non fosse un’altra storia, però è venuta su tutti i giornali, potrebbe imbattersi per caso nelle tracce di quel capitano che ha portato via i famosi gioielli carolingi dal tesoro di un Duomo incendiato in Westfalia, e poi li sfoggiava tutti i sabati sera in casa durante certe festicciole di parrucchieri nel Nebraska: sono tornati adesso che è morto, e qualcuno ha parlato... Ma dopo tanti anni, ovviamente, la maggior parte aveva cambiato molti indirizzi; e non si potevano più raggiungere. Però un altro ex-capitano vagamente ricordava di aver sentito due suoi sottufficiali parlare di questo fatto di sangue.
«Seconda scena. Proseguendo the quest, il nuovo James o Chandler arriva a un funzionario della polizia militare e a un interprete che hanno raccolto subito dopo il fatto la testimonianza della vedova Webern, morta poi sola e povera nel ’49. (E qui, ah poter disporre di una Jennie Tourel, dopo un angoscioso interludio “falso Šostakovič” sui temi della Spartizione di Yalta). Frau von Webern aveva deposto che lei e suo marito erano stati invitati a pranzo in casa della figlia e del genero Benno. Benno... che nome da dopoguerra!... Questo genero viveva un po’ meglio del resto della famiglia, perché si arrangiava con dei piccoli traffici di borsa nera con gli occupanti; e perciò invitava a mangiare ogni tanto i due suoceri che invece dovevano campare con la tessera. Ma né Benno né i Webern sapevano che proprio quella sera doveva scattare una trappola per topi: loro!».
«Se lo viene a sapere Rossellini...».
«I Webern arrivano verso le otto, e Benno avverte che bisogna mangiare in fretta, perché più tardi verranno “dei conoscenti americani”. Questi arrivano infatti verso le nove, e non son né Turchi né Valacchi, né Valzacchi, non sono altro che agents provocateurs della polizia militare per cogliere Benno e i suoi complici con le mani nel sacco. Semmai, il Turco è un sergente maggiore che entra in casa, mentre un cuoco militare sta fuori, a far la guardia alla porta. E questo cuoco che rimane fuori potrebbe anche venire da Madre Coraggio... Ma nessuno sospetta niente. I due vecchi si ritirano con la figlia nella sola altra stanza dello chalet, dove dormono già i bambini – “the children! the children!”... forse un’interferenza di Benjamin Britten... – per lasciar Benno in cucina con quel sergente. Ma prima di chiudere la porta – “Non chiudete quella porta!”... ci vorrebbe una Astrid Varnay... – Benno regala al suocero un sigaro americano: una ghiottoneria talmente rara che il vecchio compositore dopo un po’ non riesce a resistere. Per non fumare nella stanza dei nipotini, Anton von Webern esce in punta di piedi».
«... E qui, nei Requiem del dopoguerra, Britten ha scelto un testo di Wilfred Owen: “Ti ho conosciuto nel buio, perché guardavi ostilmente attraverso la mia persona, mentre colpivi e uccidevi, e io tentavo di parare i colpi, ma le mie mani erano riluttanti e fredde. Dormiamo adesso”... Hindemith, “per coloro che amiamo”, ha preso dei versi di Walt Whitman: “Ecco, bara che passi lentamente, ti do il mio rametto di lillà... Non per te, per uno solo; fiori e fronde verdi, a tutte le bare io porto, salubre e sacra morte... O morte, vorrei ricoprirti di rose, e di gigli precoci, ma soprattutto, adesso, di lillà, i primi a fiorire”... Ma per Webern? Lui potrebbe essere il mirabile Julius Patzak da vecchio, quando entra piegato in due e avvolto in vestagliette sordide nel prologo dell’Arianna a Nasso, non quando poi riappare splendente con la parrucca d’oro, come Bacco...
«Nella realtà, accade invece a questo punto una macabra parodia della scenetta fra Papageno e Monostatos nel Flauto magico: quella pantomima da varietà coi due che indietreggiano spaventati al buio, e si urtano di schiena svoltando un angolo. Ma il cuoco, uomo apprensivo e con la pistola impugnata, preme il grilletto e spara alla cieca, senza rendersi conto che quest’ombra davanti a lui appartiene a un vecchio signore spaventato e denutrito. Altro che Schikaneder. Vengono i brividi... Con una pallottola nello stomaco, Webern fa appena in tempo a dire “Es ist aus” come in un finale parlato di Berg, e si accascia morto per terra. Altro che Brecht, quel maiale. Ma la ricerca non si ferma qui. Sempre con l’aiuto dei ruolini militari, questo private eye della storiografia musicale batte gli Stati Uniti con una perseveranza inverosimile finché raggiunge il sergente maggiore.
«Voleva parlare col cuoco, però; e ne sapeva già il nome: Raymond N. Bell. Ma Moldenhauer finisce per arrivare a una tomba recente; e non gli rimane in mano che una lettera da parte della vedova Bell, quella fotocopia che vedi lì sul mio pianoforte al posto della Pentesilea di Kleist:
«“Egregio Professore, mi spiace di non aver potuto rispondere prima alla sua richiesta, ma sono stata ammalata, e siccome sono anche insegnante, così mi è mancato il tempo. Le darò comunque tutte le informazioni che mi richiede. Il secondo nome di mio marito era Norwood, e la data di nascita il 16 agosto 1916. Abbiamo un figlio solo, che compirà ventun anni nel giugno prossimo. Mio marito faceva di professione lo chef in un ristorante. È morto recentemente per alcoolismo. Io so pochissimo di quell’incidente. Quando lui tornò a casa dopo la guerra, mi disse di avere ucciso un uomo mentre era in servizio; ma so che questo lo tormentava molto. Ogni volta che si ubriacava, tornava a gridare: ‘non mi perdonerò mai di avere ucciso quell’uomo!’. E io sono certa che il rimorso abbia continuamente peggiorato la sua condizione. Era un uomo di indole buonissima, e gentile con tutti. Sono le conseguenze della guerra; e quanta gente ne soffre ancora. Se posso essere utile in qualche altra cosa, vedrò di fare il possibile. Sinceramente, Helen S. Bell”. E la Lettura della Lettera, all’Opera... è di per sé un topos di tale intensità...».
Non ha soltanto gli occhi molto lucidi e la voce alterata, Klaus sta piangendo davvero. «Con un cagnone come il vostro» gli dico rapidamente «è stato fatto uno scherzo molto pericoloso a qualcuno che conosco e che ama molto i cani. Sta in campagna, tiene aperte le porte, mangia e dorme con loro intorno. Questo che gli avevano regalato è stato buonissimo appena arrivato per tutta la sera con gli altri. Ma quando lui è stato nudo per andare a letto, lo ha assalito improvvisamente dietro, urlando, con le zampe sulle spalle e le zanne nel collo, cercando proprio di fargli quello che immagini. Era addestrato, era uno scherzo di pessimo gusto». «E lui?». «Adagio adagio passo passo si è avvicinato alla porta del bagno con questo cane enorme che glielo puntava addosso, di un umore furibondo. Poi di scatto è scappato dentro e si è chiuso a chiave, ha dovuto dormire lì in bagno». «E poi?» domanda il Wolf. «La mattina ha chiamato il fattore dalla finestra, e con una fucilata l’ha abbattuto». (Che bella gaffe inconsciamente ho fatto: mi viene in mente dopo).
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«Quel mio lavoro tragico» riprende Klaus, bevendo champagne «bisognerebbe completarlo con un altro pannello sulla morte di Walter Benjamin a Port Bou. Sai che non aveva mai voluto lasciare Parigi fino all’ultimo, quando arrivano i nazisti. Per non abbandonare i suoi libri, mentre invece la Scuola di Francoforte era già partita per gli Stati Uniti con Horkheimer e Adorno e gli altri. Naturalmente per mare. E dunque, più d’una possibilità per un oratorio o una cantata: “Uomini tedeschi per mare”, “Il viaggio del ‘Deutschland’ carico d’uomini tedeschi”... Dimmi se non ti pare uno di quei grandi film di traversata in quegli stessi anni, con Peter Lorre e Conrad Veidt e Claude Rains e Sidney Greenstreet, forse anche Edward G. Robinson; e oltre ai filosofi e ai saggisti, a bordo, anche il miliardario e l’avventuriera, il giocatore, la fidanzata dell’aviatore, la baronessa russa, la vecchia lady, il cappellano, il borsaiolo, il generoso macchinista sporco d’olio che salva alcune situazioni... E come una memoria di colonne sonore d’epoca: tra il Korngold di The sea hawk e il Max Steiner di Casablanca, ma con un po’ di jazz band triste alla Krenek nel ticchettio di tante macchine da scrivere come quella di Tallulah Bankhead in Lifeboat...
«E sai che quando il gruppo con Benjamin arriva alla frontiera spagnola i gendarmi li fermano perché è chiuso, sono le dieci di sera, è tardi anche per telefonare al consolato americano di Barcellona, e non si capisce cosa combinano le misteriose accompagnatrici col losco padrone dell’albergo: un Akim Tamiroff... Sembra che all’alba li consegneranno ai tedeschi, e dunque Benjamin durante la notte si avvelena, mentre la mattina dopo li lasciano passare tutti in Spagna per venticinque dollari a testa... E nella stanza vicina c’erano certamente Dalí e Buñuel: di quei tempi e da quelle parti erano sempre nella stanza vicina... Altro che grande Trauerspiel tedesco moderno... Molto più tragico e moderno, per esempio, di un’opera non epische ma klinische in più “volets” sulle grandi malattie in Thomas Mann... Quello strano colera della Morte a Venezia che non ha i sintomi perché nei romanzi di Mann non si corre al gabinetto... E quella solita sifilide nel Doktor Faustus che è una malattia così rinascimentale, oppure positivistica, alla Zola... e invece ambientata nel gotico, fra guglie e archi rampanti da angeli di fuoco alla Prokofiev... mentre nell’ambito di “Arte & Malattia” ancora fantastichiamo su quel consulto fra il Dr. Benn e il Dr. Céline, in quanto specialisti della lue (e non solo), circa il famoso Caso Leverkühn... Intravvedo un grande scontro fra Josef Greindl e Hans Hotter, in una morgue di xilografie molto inchiostrate, molto nere... E certamente un Hans Pfitzner avrebbe organizzato un grande Concilio pieno di contrasti come quello di Trento nel Palestrina...».
«Ma se Adrian Leverkühn con la sua sifilide avanzata incontrasse Adriana Lecouvreur coi suoi poveri fiori avvelenati, chi potrebbe aver l’ultima parola?».
«Per il tema del morbo fatale, Mann avrebbe potuto rivolgersi non già a Schönberg e Adorno che rappresentano il futuro dei festival di successo, ma a premiati fornitori della Real Casa dei Morti, come Mahler o Brahms... C’erano già lì pronti i Bambini Morti, le Parche, il Requiem, il Canto del Destino, i Lieder degli Afflitti, del Buio, della Morte come notte fredda... oltre che la Rapsodia per Contralto che trattando di dolori e montagne nella brutta stagione sarebbe un buonissimo “grande tema della malattia” per la Montagna incantata... Ma per una malattia grandissima sarebbero ancora più tragici tre grandi scherzi molto anacronistici (dunque, non se ne parli più!) di pianismo trascendentale all’ultimo stadio: il primo, una raffica di contraddizioni ritmiche segnata “Infernalmente”, con le due mani trascinate in una vertigine di semicrome a due ottave di distanza; poi, “Impavidamente”, una fuga sempre più imbarazzata per la mano destra, come perdendone l’uso fino agli ultimi arpeggi, allarmanti... finché letteralmente si accascia, mentre la sinistra viene a sua volta afflosciandosi in “Imprecisamente” fra una melodia affranta e un accompagnamento sempre più destrutturato nello “Spiccatamente depressivo”...».
Lo champagne è finito, e anche il Webern. «T’è piaciuto il lupo? Cosa mi dici?» mi chiede in italiano, indicando i due Wolf che mangiano, seduti sul tappeto. Il ragazzo prende l’ultimo toast dal tavolino di marmo, ne dà metà al cane e ne mangia l’altra metà.
Tutti e due levano la testa e ci guardano.
«Hai visto che denti?» domanda, ancora in italiano; e il ragazzo si alza, viene verso di noi sorridendo, con queste due gran mani enormi, rosse, stese avanti. Due, sono le falangi che mancano. «Farò la fine di Winckelmann... sgozzato in un seminterrato... del Monsalvato...» mormora compiaciuto Klaus. Altro pannello per l’opera sui morti tedeschi illustri?
«Soffocato dalle tuberose, dalle fisarmoniche...» gli rido un pochino in faccia. «In un’allegra gondola... della Biennale-Musica...».
Il ragazzo s’avvicina a offrirmi un altro sigaro, dice che presto deve andare a Londra a fare una parte in un film con Albert Finney. Ha anche la faccia piena di piccoli taglietti molto sottili. Non è mai stato in Italia, e sorride a Klaus che conosce Roma; ma non è di quelli che parlano. Si volta verso il cane, lo chiama, lo raggiunge di nuovo sul tappeto. Si curva, fanno un po’ di lotta, lo prende in braccio, e piegato in due per lo sforzo, perché è un animale enorme, pesantissimo, lo porta verso il camino parlandogli all’orecchio, e si sdraiano tutt’e due sul tappeto davanti al fuoco.
«Torni al monasterino, l’anno prossimo?» chiedo a Klaus.
Lui scuote la testa. «Dall’Italia mi sono fatto mandar su tutto. Ho troppo da fare qui».
Poi mi indica i due Wolf. «Sono molto amici. Anche quando c’è parecchia gente qui, dopo un po’ il lupo si stanca e va a coricarsi con l’altro Wolf. Sono innamorati l’uno dell’altro, penso. Il cane, certo. Gli piace troppo farsi portare in braccio. Ma credo anche il lupo. Dovresti vedere quando facciamo la sauna insieme noi tre, qui sotto! Ha avuto un’infanzia spaventosa, non sa chi è suo padre. È nato alla fine della guerra, è selvaggio. Credo che facciano l’amore insieme, anche: dormono nello stesso letto. Vedi come lo bacia il cane?».
«Capirei quei grandi danesi bianchi e rosa con le macchie nere, a chi non piacciono quelli? Ma questo, gonfio e riccio com’è, pare un orso di pezza, una pecora...».
«L’ha sempre in braccio. E il cane ormai non fa più un passo a piedi, pretende d’essere portato, è dolcissimo... C’è un indimenticabile film americano del Quaranta sulla vita di Richard Wagner con l’insurrezione di Monaco e la folla imbestialita che gli ha già rotto qualche vetro... Tutti lo supplicano di salvarsi... Yvonne de Carlo in lacrime... E lui? Si trattiene per dar la zampa a un suo cagnone uguale a questo!... Wolf!».
I due guardano di scatto dalla nostra parte, e il ragazzo ride mostrando i denti. Klaus gli tira una manciata di biscotti.
«Cosa fa Antonio?» mi domanda. Già. Cosa fa? Mah.
«Mi ha scritto pochissimo» fa. E poi: «Vedi... anche Antonio, che pure essendo longobardo pare abbastanza diverso da quegli altri... di fondo è pur sempre italiano... Sempre cento volte meglio di quelli di Roma... Ma intanto... certe cose nostre non so fino a che punto le capisce. Per esempio, che mi rendo conto un po’ tardi d’essere stato via per troppo tempo dal paese più meraviglioso del mondo, abituandomi a un pensiero di nessuna profondità... Ho capito subito d’aver toccato terra, finalmente; e anche il centro dei problemi culturali autentici. Non hai un’idea delle accoglienze, del calore, dei riconoscimenti che ho avuto ritornando qui a casa mia. O forse, proprio perché sono stato via per anni e anni... Non è vero che la carriera del fuoruscito viene annullata: un archeologo che è andato per scavi, sarebbe un “emigrante”?... Se fossi rimasto qui in Germania, chissà... Non so, forse non mi si metterebbe oggi sopra un piedestallo simile...».
Il Wolf sta facendo al cane, che si diverte moltissimo, gli stridi dei maiali quando vengono sgozzati a morte. Ha fatto l’assistente macellaio a Regensburg, spiega fieramente.
«Non hai idea! La direzione artistica dell’Opera di Stoccarda, m’hanno offerto subito; concerti da dirigere dappertutto, che rifiuto ogni giorno; lavori su commissione da fare con tutta tranquillità per le diverse radio, con anticipi importanti; un corso di composizione da tenere all’Università di Göttingen; posso scegliere il pezzo che preferisco in una composizione corale, una cantata, fatta in collaborazione dai musicisti più illustri della Germania dell’Est e dell’Ovest per l’ottavo centenario del Duomo di Lubecca...».
«Ma quante ne fai, di tutte queste cose?».
«Le più redditizie; e quelle che mi dànno più prestigio immediatamente, si capisce. Sai che prima pensavo di farmi cittadino svizzero, magari con residenza a Gstaad... Per le tasse, ovviamente. Ma non so ancora. Non so se posso. Vedremo, ti saprò dire. Caso mai, ti chiedo delle indicazioni. Per Zurigo. Se puoi. La gioia, se tu sapessi, di sentirmi a casa... rientrato in tutta la mia foresta settentrionale, invernale... E quindi finalmente a casa mia, capisci... dopo tanti anni gettati vagando inutilmente per l’inutile America... o peggio ancora per quello stupido mondo solare e mediterraneo... come se fosse Carmen tutti i giorni... Sono io, adesso, credi, che fatico a rendermi conto di come abbia fatto a star via tanto tempo...».
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Il giorno dopo, con la sua Mercedes nera e barocca, partiamo noi due soli abbastanza presto per l’autostrada di Salisburgo. La mattinata è bellissima, con un gran sole alto e colori pallidi ma quasi caldi. Il lupo ha da fare per tutto il giorno; verrà con noi domani nella Contrada del Cigno.
Un paio di settimane fa è nevicato, e rimane qualche chiazza bianca ghiacciata sui prati, ma la campagna intorno è molto verde, piena di cavallini al pascolo e di cappelle con dei santi controriformistici tutti sbiechi e tortili nelle cotte e sottane e sguardi al cielo, preoccupati e ansiosi come nelle notti dei bombardamenti. Il riscaldamento bisogna tenerlo al massimo.
Prima delle undici arriviamo sulle rive del Chiemsee, il loro mare, un lago nero, il più vasto della Baviera, pieno d’anatre nere, fra montagne nere nevose in cima, e foreste brune di faggi autunnali, ma in fondo nere. L’imbarcadero è una scenografia per lo Zio Vania. Sul battello “Luitpold”, a pale, navighiamo in silenzio verso l’Isola dei Signori, Herrenchiemsee, per vedere il castello di Ludwig II. Bisogna poi camminare per un paio di chilometri fra la ghiaia e il ghiaccio che si sta sciogliendo, insieme a poche altre persone che fanno la visita, compunte come a una funzione.
«Stasera,» mi fa Klaus «se non vuoi buttar via la serata e ti interessa un teatro, non perdere uno spettacolo abbastanza straordinario tratto dal carteggio Strauss-Hofmannsthal, “Il Poeta e il Musicista”. Solo due attori in scena con due leggii e due sedie, e uno squisito montaggio musicale registrato. Che coppia esemplare! Un gattino siamese tutto sensiblerie rinchiuso nella sua torre d’avorio ben capitonnée, e il cagnone estroverso che pianifica la sua esistenza tipo businessman: sei mesi all’anno in tournée come direttore d’orchestra per guadagno, sei mesi a Garmisch vestito da campagna e componendo le opere.
«Quindi si scrivono molto, tu assisti alla creazione, allo sviluppo delle idee; e ognuno dei due ha un’idea piuttosto chiara dei propri atouts come dei propri limiti e di quelli dell’altro, non si risparmiano né un’analisi né un rinfaccio. Hofmannsthal trova banale e volgare il gusto di Strauss in tutto; e benché più giovane non esita a dirglielo; e l’altro se lo lascia dire. Però sono tutt’e due d’accordo sul fatto che l’istinto drammaturgico più potente appartiene al Musicista: quel Wagner ellenistico, Jupiter in loden, Ovidio in Orient-Express, sempre pieno d’appuntamenti con Apollonio Rodio ed Erich von Stroheim e Tiziano a un “König Ludwig” di Efeso o a un “Sunset Boulevard” di Mileto, per parlare di Lede e Alcmene e Vioriche e Semele e Lotte e Lilli e Circi e Danai e piogge d’oro e statue anche: Mida!... mentre il Poeta cristallino e trasparente si riconosce fragile nella pratica musicale: eppure è sorprendentemente sua l’intuizione di quei valzer della décadence ricamati uno sull’altro nel rococò del Rosenkavalier...
«Hofmannsthal moralizza e sermoneggia! “In tutto ciò che potremmo fare insieme, il criterio finale di giudizio può spettare solo alla sensibilità estetica, e se Lei permette m’incarico d’ora in poi di essere soltanto io il guardiano e il tutore del lato estetico a nome di tutt’e due!”... E poi: “Ho paura del Suo opportunismo, perché è il pericolo nel quale Ella continua a ricascare malgrado ogni periodico tentativo di ritirarsi su, per una Sua totale indifferenza alle esigenze della vita intellettuale!”... Strauss, d’altra parte, lasciava molto fare al suo Poeta. Si fidava di quel suo fiuto supremo per ogni atmosfera teatrale... Quel genio nell’evocare la “chemistry” di interi periodi, con una precisione pungente nel profumo e nel colore: a Delfi, a Delft, nella Giava sognata da Otto Wagner... E qui la pirrica delle menadi orfiche, e lì una polka di Rite e di Wilme... Quell’abilità sottilissima nel mettere a punto ogni tocco drammatico e ironico in azioni e strutture molto complesse e perfettamente unitarie... E poi ancora quel suo gusto leggendario nel predisporre la parte visiva dello spettacolo, che forse a Strauss non importava molto...».
Non si incontra nessuno. L’isola di Ludwig è proprio abbandonata. Solo i nostri passi, e le nostre ombre...
«Nemici della semplicità, sempre! Ostili alla concisione, avversari di ogni naturalezza, maniaci dell’artificio squisito!... Quei due recitano scene sublimi, di un donchisciottismo commovente... Ogni volta si pongono programmi di chiarezza e secchezza sia musicale sia drammatica... anche perché almeno una minima parte del progetto riesca a trasferirsi nell’opera, e una minima parte di questa riesca a comunicare le proprie intenzioni al pubblico... Sempre convinti di riuscire a ottenere, ciascuno nella propria sfera, tutto esattamente ciò che si vuole dall’Arte!
«E in fondo è patetico vedere che per ogni loro opera, in buonissima fede, si propongono di fare “almeno stavolta” un qualche cosa di allegro, leggero, operettistico... “Dobbiamo essere meno Arianne sognatrici e più Zerbinette frizzanti!”... E Strauss ripete: “Io sono il solo compositore al mondo fornito di senso dell’ironia e della parodia, di voglia di divertirmi e di... leggerezza!... E perciò mi sento destinato a diventare l’Offenbach del Ventesimo Secolo, e Lei dev’essere il mio Poeta!”.
«Poi, si sa, il Poeta non resiste all’attrazione per le strutture complesse e per i simbolismi fantasiosi; e il Musicista soffre ad arrestarsi nelle possibilità della elaborazione e dello sviluppo... Così, invece dell’operina, sorgeva ogni volta un enorme congegno di sofisticazione smisurata, di una macchinosità mai vista... “Come al solito, il sinfonista nel Suo cuore ha sopraffatto il drammaturgo!” gli rinfacciava allora Hofmannsthal, che da parte sua non era arretrato davanti a nessun doppiofondo pensabile, nella stesura del libretto... “Contrappunto, sviluppi tematici, elaborazioni orchestrali, che sono la linfa vitale della sinfonia, diventano il veleno funesto dell’opera! il testo viene oscurato! e l’aria, che Lei stesso definisce l’anima dell’opera, agonizza e soccombe!”... Manca solo il finale appropriato, a quello spettacolo: “Il Poeta e il Musicista” dovrebbe trasfigurarsi in una Arianna a Nasso con un Hofmannsthal-Arianna sempre sognante, gli occhi fissati ai contorni divini e alla pura magìa di un remoto orizzonte... e uno Strauss-Zerbinetta coi piedi ben puntati per terra fra i salti delle mascherine... Anche se poi, chi non adorerebbe dirigere un poema sinfonico “Strauss in Italia” con l’orchestra Zarathustra al teatro “Graecia Capta” di Pompei...».
«Per un pubblico di fauni di Böcklin?».
«Quando non c’è più il Poeta-Arianna, Strauss perde un po’ il filo. Che Dafne si sublimi trasformata in albero, potrà un giorno piacere ai comizi degli studenti per il rimboschimento della foresta contaminata... Ma che Danae preferisca l’asinaio a un dio, andiamo! Bisogna proprio ignorare Apuleio per non accorgersi che l’asinaio non significa vita semplice ma un’altra cosa... E se poi un giorno qualcuno volesse divertirsi a comporre un “Rake Musagète” sulla collaborazione fra Stravinskij e Auden...».
Improvvisamente, uscendo dal bosco, lo sterminato parterre del giardino alla francese ci si stende davanti senz’alberi fino alla facciata. Ma questa è imponente come Versailles, più dell’Arsenale di Berlino-Est. Larga almeno venticinque finestre. E c’è un parterre simile dietro il palazzo. Tutt’e due arrivano direttamente all’acqua, sulle rive opposte dell’isola.
Sopra un vaso di marmo, nella prima hall, un pavone di bronzo e smalto a colori s’aggrappa a tralci di rose di ferro battuto, su uno zoccolo di molti marmi policromi. I gradini sono di Carrara, le pareti fra il giallo, il verde, il rosso, il grigio. Finti Veronese e Fragonard, più sull’eroico che sul galante però, a tutte le altezze. Gessi bianchi e stucchi dorati. Un lucernario da palestra, con lampadari di cristallo; dei Tiepolo bene imitati, forse con qualcosa di vero; nelle nicchie, le statue dei Continenti, di gesso, e senza l’Oceania.
«È il frutto più grande della sua Bourbonmania... quando cominciava a sentirsi Louis Quatorze...» mi spiega Klaus, salendo. «Straordinaria famiglia di fantasiosi, i Wittelsbach, sai: sempre stati... Vuoi fare un ripasso di Storia? Max-Joseph, il primo re (prima erano elettori), era padre di Carolina-Augusta, matrigna di Maria Luigia di Parma. Quindi era un po’ bisnonno del Re di Roma. Però era anche suocero di Eugène Beauharnais, in quanto padre di sua moglie Augusta-Amalia, viceregina di Milano. Il fratello di Maria Luigia, l’arciduca Franz-Karl d’Asburgo-Lorena, sposa sua zia Sophie, altra figlia di Max-Joseph: la moglie di un ultimogenito che riesce a far congedare Metternich! Hanno come figli Francesco Giuseppe e Ferdinando, che diventa Massimiliano del Messico. E lì, quanta storia romanzata provvedono: enormi forniture di trame e “romance” per la produzione di libri e di film... e forse un giorno di opere...
«Francesco Giuseppe sposa ovviamente Elisabeth, la popolare “Sissi”, figlia di Louise, un’altra figlia di Max-Joseph che ha sposato un altro Max-Joseph, della “Branche Palatine”... E come tutti sanno lei muore a Ginevra salendo orgogliosamente su un battello col suo pugnale anarchico piantato nella schiena... mentre suo figlio Rudolf è naturalmente quello di Mayerling... E tra le altre figlie di Louise c’è come ben sai la Reine de Naples, che è poi morta solo nel...».
«1925. Dopo esser stata citata nella Recherche quante volte?».
«Ma quindici! Andava agli spettacoli di Diaghilev. Ha fatto in tempo a vedere Nijinskij e Massine! Dopo aver combattuto Garibaldi!... E sua sorella Sophie?».
«Avendo sposato il secondo figlio del duc de Nemours – e di Victoria-Augusta di Saxe-Coburgo-Gotha – naturalmente è la famosa duchesse d’Alençon, morta nel celeberrimo incendio».
«Bravo. E il loro fratello Karl-Theodor è il padre di Elisabetta del Belgio, la regina dei pianisti, che ha fatto in tempo a sentire Pollini, oltre che Benedetti Michelangeli. Madre di Maria José!».
«Proust ci era arrivato, fino al matrimonio di Elisabetta con Alberto del Belgio!».
«Peccato che non sia potuto arrivare anche a quello di Maria José con Umberto di Savoia. Chissà se gli sarebbe piaciuto. Se ci pensi un momento, vedi che ci potrebbero essere due scuole di pensiero».
Fa un grande freddo in questi saloni deserti, che probabilmente non furono mai riscaldati. Ma la discendenza della Maison de Wittelsbach è molto più semplice che la Branche Ducale. «Il figlio di Max-Joseph è re Ludwig I» spiega Klaus sul portale dorato di un gabinetto di porcellane, attualmente vuoto: solo un Febo. «Cioè il Ludwig neoclassico di Lola Montez e del Fauno Barberini, che è qui alla Glyptothek insieme ai marmi di Egina. Che bel soggetto per balletto o film, anche se lo si è già visto un pochino in Lola Montez di Max Ophüls!... Figlioccio di Maria Antonietta! Amico di Goethe! Patrono dei Nazareni a Villa Malta e al Caffè Greco!... Quei paesaggi iper-italiani e iper-Perugino con cieli di un blu da porcellana bavarese... e a quegli angeli umbri appare volentieri una guglia neogotica già in rovina sopra il chiostro dei muschi... Vengono prima dei Preraffaelliti, attenzione!... Te le raccomando per il movimento ancora adesso, qui a Monaco, le strade coi nomi dei Nazareni, la sera: specialmente Corneliusstrasse... intorno al Teatro dell’Operetta, dove ovviamente si fa molto Offenbach, che piaceva tanto giustamente a Walter Benjamin, e ti consiglio molto molto il suo rarissimo e delizioso Cavalier Barbablù...».
C’è un Nettuno con tridente, un Crono con falce, una dama con ventaglio, tutti di Meissen, sperduti nella vastità... «Ludwig I fu un famoso spiritoso, dal Congresso di Vienna fino all’Esposizione Universale del Secondo Impero. Morì nel 1868 a Nizza vecchissimo per un’ascensione in pallone: quale sovrano europeo del suo tempo saprebbe competere?... Ha fatto la Monaco toscana, quand’era principe ereditario il suo ispettore per gli acquisti a Firenze gli telegrafava “questa è la Schatzkammer della pittura classica, e in cinque giorni ho già visto seimila opere in vendita nei palazzi delle grandi famiglie!”... Sai che lui ha scritto duecentosessanta quaderni di diario, ancora inediti, e duemilanovecentoquarantatré lettere solo alla marchesa Florenzi?... Suo figlio è Max II, ma quando nei bei posti che frequentate voi ti senti dire “andiamo al Max Zwo”, non ti fidare perché è uno chalet a rischio, mi dicono che ci va la polizia. Lui sposa Marie di Prussia, ha come fratelli Otto di Grecia e Luitpold, e finalmente è padre del nostro Ludwig II, il Ludwig romantico. E del povero Otto I. Dal terribile zio Luitpold discendono poi tutti i Wittelsbach attuali.
«Però, il rococò l’avevano portato a una perfezione sublime già gli Elettori, a Nymphenburg, con Cuvilliés. Coi due Ludwig, il senso profondo è una contaminazione degli stili preferiti, completamente antologica per non dire acritica: i quattro o cinque Palazzi Pitti in fila, la basilica bizantina, il giardino inglese, i Propilei uguali a quelli dell’Acropoli come una sorpresa per questo Otto appena nominato re di Grecia... Come quel retro di Palazzo Odescalchi a Roma, sul Corso, copiato da Palazzo Strozzi per omaggio a una moglie fiorentina... Una Loggia dei Lanzi finta grande il doppio della vera... Senza d’altra parte mai inventare un loro stile nuovo, se non questo eclettico purissimo, inconfondibile...».
«Ma non era già l’ideale della Villa Adriana a Tivoli?» gli faccio notare. «Tutti i monumenti prediletti del mondo riuniti in un luogo solo che non è mai il loro?».
«Il trionfo dell’assemblage... come anti-sistema, anti-struttura, anti-idealismo tedesco, anti-design Braun...» va avanti. «Però con questo gesto di collezionista che sotto sotto riconduce il collage a una sua unità... La caratteristica più autentica del nostro tempo non è poi il trionfo di un rigore stilizzato... Ma piuttosto un surplus, che va in dépense... L’esuberanza espressiva che equivale a sperpero di merci per amore... E senza dimenticare che il bianco e celeste della bandiera ellenica e di tutte le trattorie non viene da Pericle ma dai colori bavaresi di Otto, delle lattine di birra, dello stemma della Bmw...».
Marmo, marmo, marmo, intanto. Camminiamo per queste sale abbandonate, e neanche tenute. Pareti bianche e oro, disabitate; e Borboni, Borboni. In tutti i quadri, tutti i soffitti, in ogni arazzo. Non un Wittelsbach. La famiglia di Louis XIV. Louis XIV in costume romano. Philippe de France. Le Prince de Condé. Il battesimo del Delfino. L’Hôtel des Invalides. Il battesimo del Duc de Bourgogne. La fondazione dell’ordine di St-Louis. Il matrimonio del Duc de Bourgogne. Il ricevimento della legazione siamese. Una visita del Re alla manifattura dei Gobelins. Il ricevimento del Grand Condé. Una riunione della Corte a Versailles. Il ricevimento del Doge di Genova (1684). Il Re visita l’Accademia delle Scienze a Parigi. Il Re dichiara Re di Spagna il proprio nipote Philippe d’Anjou (1701).
La presa di Lille. Il famoso Carrousel. La presa di Valenciennes. L’alleanza con gli svizzeri, in calzature molto rozze, rispetto agli scarpini finissimi di Corte. L’educazione di Marte. Una veduta di Marly e di Versailles. Marte lotta contro i Giganti. Il maresciallo Condé, favorito del Re. Marte e Venere. L’entrata del Re a Douai. Il maresciallo Turenne, il più crudele generale dell’Armata francese. L’entrata ad Arras. Il maresciallo Vauban, genio delle fortificazioni militari. Marte e Minerva. La battaglia di Neerwinden. Il trionfo di Marte. La battaglia di Lens. Il maresciallo Villars, ministro temporaneo della Guerra. La cattura di Orsoy. Il bombardamento di Salins. Marte, dio della guerra, sul suo cocchio di guerra, guidato da Bellona e accompagnato dalle Furie: Terrore, Furore, Timore e Tremore.
Tutto rappresentato nel più galante e lezioso rococò ottocentesco. Bronzi, stucchi, terracotta, marqueteries da boulevard Haussmann, ori nuovi e lucidi. Lustres di cristallo immensi, in numero infinito. Un enorme organetto, a portantina. Tende che sono praticamente bassorilievi, rigide in piedi, intessute di fili e cordoni metallici, spesse una spanna. E decine d’alabarde appoggiate alle pareti delle anticamere.
La camera da letto, tutta oro e rosso scuro e (poco poco) bianco: il più decorato ambiente pensabile. «Sempre al centro geometrico dell’edificio, come in tutti gli altri palazzi, vedrai» mi fa osservare Klaus.
Nella sala del Consiglio appaiono i gigli. Gigli di Francia dappertutto: nella decorazione delle pareti e dei mobili, sulle maniglie, sulle tende. Sèvres, palissandro, cristallo di rocca. «E questo sei tu!». Un orologio in forma di elefante coperto di frange e di manti. Altri orologi: in forma di Sole, di Aurora, di Quadriga d’Apollo, di Lever de Louis XV, di Toilette di Venere, di Trionfo sopra i Vizi, di Giove con l’Aquila e Giunone col Pavone, sopra ogni mobile. La mania del quadrante. L’ossessione della pendola: l’opposto del “take it easy”. E sopra i camini, tanti oggetti da non potervi appoggiare più niente, neppure un portapillole.
Catini e brocche di Meissen in un’altra stanza da letto interamente rosa, ricoperti d’incrostazioni di smalti e di bronzi. Pendole, ancora pendole, e pendoli ticchettanti in moto. Porte e pannelli di porcellana, blu-chiaro, nella sala della caccia: la partenza dei cacciatori, l’idillio pastorale, il dono del pastore, il ritorno dei cacciatori, in un rococò smorfioso che si vorrebbe marziale e riesce svenevole. Blu più scuro, carica di riferimenti ancora alla caccia, alla pesca, e alla musica, la sala da pranzo ha bouquets leggiadri di fiori di Meissen sulle pareti, sul soffitto, sulle maniglie, sulle porte, sulle pendole, sugli arazzi, sui parafuochi, sui vasi, sulle consoles di porcellana, intorno ai busti della Maintenon e della La Vallière, della Pompadour e della Dubarry, e anche intorno alle tavole di porcellana di Sèvres che rappresentano un ballo in maschera nella Galerie des Glaces a Versailles, un ballo di Corte a Versailles, il teatro di Versailles, e una cerimonia nuziale a Versailles.
«La tavola ha un congegno meccanico» spiega Klaus «per cui batti le mani una volta e la tavola va giù, batti due e torna su apparecchiata, con un meccanismo a braccia che si può vedere sotto, nelle cucine».
«E se batti tre, viene su quella serva di tua madre, come dicono gli sboccati romani ai nouveaux riches che esibiscono le pulsantiere...».
«La tavolina fatata delle fiabe! Si prepara da sola, quando i piccini spersi nel bosco trovano finalmente la casina con le pareti di marzapane e le finestre di zucchero filato...».
«E rimangono malissimo, perché vogliono solo quel sacchetto di patatine di cui hanno visto la pubblicità in televisione... E se non c’è sopra quella stessa marca, protestano!...».
«Però molto pratica» dice lui «per quando si vuol fare una colazioncina galante a due o a tre senza testimoni e vestendosi secondo gli estri».
Nella Galerie des Glaces, grande come quella di Versailles e nuovissima come un albergo da inaugurare, le due famiglie d’americani che stan facendo la visita con noi schioccano le lingue insieme con lo stesso «tzzz!» che serve a chiamare il gatto e per esprimere meraviglia, né più né meno che se vedessero tante palle in equilibrio. (Ma i più tipici erano nelle Stanze di Raffaello, in Vaticano, e chiedevano molto inquieti dov’è la Cappella Sistina. Gli fu indicata la strada, spiegando che nelle Stanze c’è solo Raffaello. E quelli, scappando senza guardare: «But there’s nobody here!»). Gli specchi sono molati, industriali, recentissimi, e sfrenate deità mitologiche un po’ da Offenbach sporgono giù dagli affreschi del soffitto gambe e braccia in rilievo, di gesso o papier-mâché, cariche d’attrezzeria simbolica. Le leggende sotto ogni riquadro sono sempre in francese, e pensare che come lingua diplomatica è in decadenza: «Résolution prise de faire la guerre aux Hollandais», «Le Roi prend Maastricht en treize jours», «Le Roi gouverne par lui-même, 1661», «La Hollande accepte la paix et se détache de l’Allemagne et de l’Espagne». «La Franche-Comté conquise pour la seconde fois». Busti finti d’imperatori romani, tanti, tantissimi, nelle sale della Guerra e della Pace, alle due estremità della galleria. L’argento mescolato all’oro, in tutte le decorazioni. Parquet di legno chiaro e scuro, appena fatto. E dalle finestre, l’allucinante giardino alla francese srotolato fino al lago nero, in negativo, privo dei cespugli, coperti o riparati per il gelo, come se fosse scoppiata lì in mezzo la bomba a idrogeno, col bosco grigio fotografico e le nebbie tutto intorno all’albumina.
«Qui Ludwig risiedeva quando si identificava appunto con Louis Quatorze. Vedrai domani dove abitava quando si sentiva romantico oppure Petit Trianon. Ma la differenza essenziale è che la Versailles vera era piena di gente perché ospitava una gran Corte numerosissima... vedi Saint-Simon, no?... mentre qui il posto è altrettanto grande, benché costruito nel 1878... però niente Corte, niente Saint-Simon, niente trame e chiacchiere... Vuoto!... Si accendevano migliaia e migliaia di candele per il re solo, che non tollerava nessuno vicino e pretendeva che i ministri più brutti si presentassero davanti a lui mascherati da belli. Sai che ancora oggi il popolo bavarese lo adora, e il partito monarchico è fortissimo?
«Prima è stata la leggenda del “prince charmant” quand’era in vita, e poi la tragedia della sua fine, a farne un personaggio di fiaba. Gli buttavano fiori dentro la carrozza e le donne innamorate s’abbattevano sui gradini della Residenz mentre lui rimpiangeva come Caligola che il suo buon popolo non avesse un solo collo per poterglielo tirare e via; e non si lasciava mai vedere dai suoi sudditi perché li trovava orribili. I bavaresi non sono belli, e anche per questo costruiva i suoi castelli in isole piccolissime e sulle cime delle montagne: proprio per non lasciarsi avvicinare e non doverli guardare. Concedeva forti sgravi fiscali a tutti i proprietari di terre da Monaco ai castelli, purché crescessero delle siepi talmente spesse da non lasciar vedere dalle proprietà la strada ove passava lui in carrozza; e viceversa.
«Parlava dietro le porte chiuse, e dava ordini quasi solo per scritto. Quando proprio doveva dare un qualche banchetto di Stato, se l’ospite d’onore era brutto faceva mettere davanti al suo posto a tavola un trionfo di frutta e fiori talmente importante che nessuno poteva mai vederlo là dietro. Oltre a Wagner, la sola persona a cui parlava era sua cugina Elisabetta d’Austria, si capivano benissimo, lei lo chiamava “aquila” e lui “colomba”, lei s’alzava per far ginnastica quando lui non era ancora andato a letto, passavano insieme le ore di prima mattina sotto una pergola di quindicimila rose, ma questo sulla Roseninsel».
Dietro una galleria più piccola e più sfarzosa, però, scale di mattoni e soffitto di travi: la tragedia della dimora lasciata incompiuta per la scomparsa improvvisa del signore.
Pavimentini di ghiaia da casa in costruzione, e si finisce la visita in una piscinetta interna, con lampadari veneziani e affreschi marini. «Da star? o da producer?». «Come Elisabetta all’Achilleion: la sua nuotata...». Per una scalettina segreta foderata di velluto blu-pentola si risale in un mezzanino privato: stanze rosa e specchi delle mie brame che si riflettono all’infinito, davvero su ogni parete: e allora bisogna essere proprio sicuri del proprio Self da tutte le parti, o affidarsi alle vere fiabe, cioè alle fiabe vere...
«Pare che avesse pentimenti anche orribili...».
«La fine quando è stata?».
«Nel giugno del 1886. Ormai la sua corte era come quella dell’Enrico IV di Pirandello, ci sono le fotografie. Comandavano i guardacaccia e i parrucchieri... E proprio questo palazzo di Herrenchiemsee aveva dato l’ultimo colpo alle finanze dello Stato. La Baviera, paese ricco, era sull’orlo della bancarotta. Così quando Ludwig ha incominciato a far progettare un nuovo palazzo bizantino e una Città Proibita cinese, il governo per quanto timido ha deciso di fare una prova di forza e deporlo, d’intesa col tremendo zio Luitpold.
«Il pretesto è stato un suo errore. Si era lasciato intercettare delle lettere per la Casa d’Orléans, che per quanto non più regnante in Francia era ancora colossalmente ricca. Loro erano disposti ad accordargli un grosso prestito (lui s’era già rivolto invano a diverse corti europee, allo Scià di Persia, ai Rothschild, agli Erlanger), in cambio d’una garanzia di neutralità bavarese nel caso di un’altra guerra franco-prussiana. Quella del ’70 era stata vinta dalla Prussia anche con l’aiuto della Baviera che aveva preso i soldi da Bismarck per questi castelli, lo sapevi, no?... Dunque lo zio con la prospettiva del trono per i suoi figli è stato contento di lasciarsi convincere dal Gabinetto a dichiararlo pazzo, diventando subito Reggente.
«Allora parte questa Commissione da Monaco, per andarlo a prendere a Neuschwanstein, dove lui stava allora col suo ultimo favorito, Alphonse Welcker. La Commissione arriva in parecchie carrozze, col Dr. Gudden, direttore del Manicomio di Monaco, infermieri, ufficiali della Real Casa; e tutti questi personaggi si fermano in basso, lo vediamo domani, per rassettarsi le tube e le marsine. Allora il Re fa chiudere le porte e sollevare il villaggio (naturalmente lo adoravano), e quando la Commissione arriva là in alto lo trovano circondato dagli stallieri, dai contadini, perfino i pompieri di Füssen, con falci e con schioppi. Questi arrestano la Commissione, la rinchiudono nelle carceri del castello, che erano state costruite da pochi anni come scenografie da Opera; e la rilasciano solo la mattina dopo. Quelli tornano a Monaco...
«Ed è lì che Ludwig ha fatto l’errore!... Invece di scappare verso il Tirolo, come tutti gli suggerivano, il confine è a un passo, oppure correre a Monaco prima di loro e sollevare la folla... o anche rifugiarsi da Elisabetta che era lì a Possenhofen, vicinissima, e imperatrice!... lui ha indugiato senza decidere niente, girando per il castello ad accarezzare i suoi tesori... Come Walter Benjamin con i suoi libri: quell’indugio che ti perde... Così il giorno dopo quando sono tornati i medici con le truppe, ha fatto sì un’ultima udienza in tono di grandeur, ma ha dovuto lasciarsi prendere, e l’hanno portato proprio a Berg, dov’era vissuto da bambino. Fenomeni di regressione, quindi: brutti... È lì però che si vede il grand’uomo! Non lascia passare neanche un giorno, subito fa questo giro col Dr. Gudden nel parco, non tornano né l’uno né l’altro, e ci vogliono due giorni perché affiorino i due cadaveri dal lago, aggrappati l’uno all’altro, e lui con due paltò addosso, nel mese di giugno!... Grandioso, grandioso, non sopportar di stare prigioniero nemmeno poche ore, macché mezze misure! Ma soprattutto trovo spiritoso questo sopprimere anche l’alienista: pensa se si diffondesse con la psicanalisi... E naturalmente la gente l’ha adorato più di prima, la leggenda è continuata col Traumprinz come martire e vittima. Sai che veramente ancora oggi qui in Baviera i Wittelsbach sono adorati, e un giorno o l’altro il vecchio regno si separerà dal resto della Germania?... E non ti sembra un progresso spirituale, per la città dove Hitler faceva i discorsi nella birreria?».
Dopo colazione si riattraversa il lago. Anche il ristorante è zarista, coi dimenticati e gli scampati e i superstiti, e i cigni sotto, e l’aria gelida sull’acqua nera e tra i canneti per alienisti e cadaveri. Però si mangia bene: dei brasati in salse cupe, fortemente aromatiche, e il vino è davvero duftig! rassig! spritzig!
Si è preso freddo, ci spingiamo a Salzburg per un tè. Ma si arriva già al crepuscolo, per l’autostrada vuota, e stanno chiudendo i giardini di Mirabell. Fa freddissimo in queste strade. Lasciamo la macchina di fianco alla cattedrale, e aspettando la partenza della funicolare entriamo nel cimiterino aperto. Donne borghesi povere, anziane, in nero, guardano male queste nostre sciarpe vistose attraverso gli occhiali, alzando la testa dalle sassifraghe mezze morte dal gelo fra un monumentino e l’altro di ferro, le lapidi incastrate nella parete scura di roccia. Saliamo. «Il tuo amico Antonio qualche volta si diverte a far finta di non capire?» domanda Klaus in piedi, mentre ci si innalza sopra le cupole.
Perché? «Gli sto chiedendo non già un libretto, ma la traccia di un lavoro da fare per l’Italia, non posso dire ancora per chi. E gliel’ho spiegato anche per lettera. Mi serve una scomposizione di materiali decaduti, molto usati ma illustri. Una analisi concettuale, e drammaturgica, di archetipi già familiari agli utenti: Tancredi e Clorinda, Ulisse e Penelope, Orfeo ed Euridice, Nerone e Poppea, Gilda e il Duca di Mantova, può scegliersi chi vuole! Funzioni, situazioni, posizioni, anche fratturate e disartizzate, aperte, che io dovrò poi riorganizzare secondo un nuovo ordine di rapporti, di intersezioni, di valenze... È la stessa ricerca che va facendo nella sua letteratura! E gli ho detto di scrivere tutto quello che vuole, senza indicazioni né direttive da parte mia, purché incominci a scrivere quello che si sente... Ma qui mi arrivano solo delle sue cartoline ridicole: “Ibrido di prosa e poesia? Macerie di strofe in versi? Ruderi di odi barbare? Rottami di prestigioso Ungaretti, o di impegnato Neruda? Frantumi di odiosamato Brecht? Avanzi di inquietante rock? Schegge di frantumi folk? Brindisi ‘a Venezia singolar’ come nel libretto del Don Giovanni di Gazzaniga?”... Cosa ha in mente, si può sapere?».
Dall’alto della fortezza, un perfetto momento di pace. I viottoli in salita del castellaccio cattolico sono bui e deserti dietro le spalle. Sotto, pezzi di prospettive italiane immaginarie: come brandelli di evocazione delle madri e cognate e cugine Borromeo e Medici di Marignano e Gonzaga-Guastalla e Vistarini e Serbelloni e dal Verme degli arcivescovi. Ma in quest’aria invernale lucidissima, altro che le foschie padane: le luci della città si sono accese brillanti sulle due rive del fiume e sulle colline, e ogni carillon dei campanili dice la sua frase in un discorso musicale continuo che si propaga dall’uno all’altro come se ci fosse qui un tecnico alla console a mandare i segnali di output; e dura un pezzo vagando prima di spegnersi qui sotto, proprio ai nostri piedi. Come sera è meravigliosa.
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La notte, fra i sudditi del buon Re Ludwig, il beat dei juke-box nei locali delle vie Nazarene è fittissimo di polche e valzeracci e marcette rapide con l’inaffondabile Rosamunde – e trasalimenti continui per qualche interferenza addirittura prenatale di Radio Milano in epoche più che sospette:... Seee questo sogno s’avverasse!... Tuuu, magica vision... Tuuu, devi ricordaaar... Tutto passa e si scorda... Un fruscìo di bacci di là dal fienill... Quaranta speranze deluse, per chi non conobbe l’amor... Cin, cin, alto il bicchier, per affogar nel piacer!... Ma poi Klamotten continua a rimare con Hottentotten, come in antico, e Bier con Klavier e mit mir... «Ich kenne dir!» continuano a ripetere nei bar mettendoti le mani davanti e didietro, mentre tutti cantano forte pestando i piedi in marcia, in coro, in diversi cori, a volume altissimo: è il contrario del divisionismo! e dell’impressionismo!... Sprechgesang mescolato a polifonia e risate, annoterebbe un Kulturkritiker (che non vedo); e ancora baritonalità alla Zarah Leander ubiquita, attraversata a sciabolate dall’Heldentenor del barista, o di uno spiritoso, o di uno spiritoso barista: allora ridono forte pestando forte i piedi, i più selvatici, i più simpatici, con queste criniere tagliate probabilmente dai loro papà in campagna.
“Venezianische Nacht”, “Künstlerball”, “Dschungeltanz”, “Montmartre”, “Malefix”, “Casanova”, “Alcatraz”, “Totentanz”, “Paradies”, “Pferdestall”, “House of Lords”, “Stiefelknecht”, “Taormina Jacks”, “Carrousel”, “One Way”, “Barkarole”, “Blauer Engel”, “Grüne Gans”, “Götterstuben”, “Tante Tom’s Hütte”, “Follow Me Tadzio”, “Liebestod im Stiefelhöhe”... e «che cosa mi soffia il vento settentrionale?»... «che cosa mi racconta il mormorio del bosco?»... «che cosa mi rivelano gli animaletti della foresta?»... quando si eccitano mettendo in bocca tutti quei würstel, poi scendono giù e si mettono a quattro zampe, e quindi a casa elaborano sistemi filosofici che fan diventar matti centinaia e migliaia di pensatori nei paesi del dibattito alla pizzaiola... O soltanto gli smorti senza speranza, con pochi capelli e gli occhialini tondi da pedanti, che ogni mattina guardandosi nello specchio decidono di vendicarsi dell’umanità... e allora die Bombe! die Bombe?...
C’è ancora qualche festa della birra, e anche un giubileo dei vini del Palatinato, ma quale sarà il vero Ballo degli Irrazionali, fra i tanti stanotte in città?... Passo dall’uno all’altro, con la mia volkswagenina in affitto, ma basta un tamponamento violento in curva, molto improvviso dietro, e mi trovo in questa macchina quasi sfasciata, giù di strada, su un mucchio di neve, tra un groviglio di ubriaconi che stavano andando a centoventi all’ora in città, e dunque hanno tutti i torti.
Subito tante macchine si fermano, per questo senso puntiglioso e invadente della giustizia civica tedesca ben decisa a sacrificare anche un intero sabato sera pur di assicurare con la propria testimonianza una punizione esemplare alle infrazioni al codice. Niente Ballo degli Irrazionali, allora? In compenso, forse un intero sabato sera in un posto di polizia indimenticabile, con poliziotti in divise e stivali meglio che nei Lederbar, anche perché avendo tutte le ragioni stradali, quando ci fanno il test alcoolico ne esco oltretutto immacolato (è presto), mentre i palloncini d’alito degli scapestrati investitori virano in tinte impressionanti, denunciando etilismo frenetico. Hanno cominciato a bere stamattina.
Dunque vengono prontamente gettati in carcere, urlanti, ma durante la compilazione del verbale, coi grafici e le posizioni e tutto, che straordinaria rassegna di “numeri”, in questo teatrino da cella. Arrivano comitive e coppie, sbandate e furenti, molto problematiche, forse anche emblematiche, e certe molto interessanti, con nuovi succulenti ubriaconi che sporcano tutto e vengono obbligati a ripulire il commissariato immediatamente sennò li picchiano: e chi sarà l’autore di ogni sketch? Brecht giovane, Brecht vecchio, il famoso Karl Valentin di qui, Günter Grass... Ma quando finalmente i poliziotti mi accompagnano al ballo con la loro macchina, perché non mi mettono in cella neanche un momento (e m’hanno consigliato loro: Haus der Kunst!), la guardarobiera non mi lascia entrare perché sono in cuoio nero dalla testa ai piedi, con qualche chilo di catene preso a metraggio da un ferramenta stamattina.
«Così non può!».
«Come, non posso?».
«Non è in costume! Questo è un ballo in costume! Ci vuole il costume!».
«Ma sì, sono un motociclista satanico!».
«Se ne vada!».
«Sono un Hell’s Angel! Un diavolino motorizzato!».
«Macché! Questo è un abito! Un abito da tutti i giorni! Vada a cambiarsi e torni indietro!».
Ma è troppo tardi, per andare dal vecchio tremendo che ha in Hohenzollernstrasse il famoso deposito di uniformi e decorazioni dell’ultima guerra, con le tariffe che variano a seconda delle macchie vere di fango e di sangue...
«Oppure prenda un costume a nolo qui!».
«Cosa avete?».
«Sono rimasti due tipi: pipistrello, o Baviera. Venti marchi».
Il pipistrello è orrendo: di raso blu a frappe, sembra un Rigoletto in provincia.
«Mi dia la Baviera».
Questa è una specie di toga fatta con la bandiera nazionale a losanghe bianche e celesti, come le solite lattine di Hofbräu. Dentro, sotto i ritratti incoronati di frasche del buon re Ludwig da giovane (il ballo è dedicato proprio a lui), migliaia di coppie ballano invece quasi completamente nude, i loro costumi sono tutt’al più una maglietta da gondoliere a righe, o una tovaglia a quadretti da bistrot.
Questi spiriti beati non hanno mai freddo, neanche con la neve per terra; non si preoccupano mai dei vestiti: nudi, oltre tutto, non si spende. E a chiedergli di carnevale e trasgressione o anche sense of humour direbbero «cos’è?». Parlano soltanto il linguaggio dei corpi: con quella suprema dote che hanno solo i tedeschi di mescolar sempre insieme rustico e rococò, pizzi e carpenteria e scoiattoli, Trianon e Schweinerei, in qualunque gesto di abbigliamento, arredamento, sensualità, spettacolo (Allegro Indistinto, Robusto Iniziale).
Questi man mano che la serata va avanti e lentamente monta monta l’elaborazione del materiale con le polche e le marce e le birre alternate con Schnaps, in una tensione pastosa, a ondate e risate corpulente, con questa euforia dello spogliarsi subito, davvero ogni volta si buttano: si buttano interamente, come se fosse una volta decisiva (Andante Energico, Comodo Scherzando).
Sempre molto vocianti e ridenti; e non appena in calzoncini, subito maialeschi anche se bellissimi, con stivali e berretto; e questo linguaggio dei gesti passa denso e spesso per le mani e per gli occhi e per le ginocchia, mentre la faccia sta impegnandosi tutta nel Bier-mit-mir dello Stentor-Tenor o nello starnuto buffo da Schnauzer e le gambe e le ginocchia dei più grandi si mettono (Ponderato, Langsam) pesanti in moto, e premono (Vigoroso, Non Troppo Rapido, Alles Klar) contro la parete i più giovani pronti a superare (Allegro in Tempo, e Sfacciato in Espressione) i test della resistenza non verbale al dolore fisico, la mano che entra nella camicia aperta a tirare e torcere gli angelici seni (Adagietto), la mano che si abbatte massiccia di taglio sul collo come al leprotto, e il ginocchio crudele che affonda massiccio nel ventre (Assai Tempestoso) mentre i denti lasciano i segni sul petto e sul collo (Agitato Con Violenza), e sarà capitale (Prestissimo Alla Barbara) questo istinto decisamente corporeo, nel cogliere l’Augenblick tempestivo per soccombere fieramente (Scherzo Burrascoso, e Quasi Finale) sul pavimento, in ginocchio, fra i piedi e sotto (Prestissimamente Allegrettino). Rialzandosi accolti fra gli apprendisti, i marinai, i cavalieri, i vassalli, i Minnesänger con la penna sul cappellino e la calzamaglia rigonfia...
Il lupo emerge tutto d’argento dai cessi, perché avrebbe un costumino da romano antico, cioè praticamente è nudo, con il corpo dipinto d’argento, tranne i capelli che sono a boccoli dorati come una cornice barocca. «Hier bin ich Tier!». Fa le feste anche perché gli dico «io non ti ho visto! tu qui non c’eri!», e con un po’ di Sekt diventa poetico. «Hier kommt die Sex-Bombe!». Gli faccio fare un paio di «geil! geil!», li fa benissimo. «Ich bin tierisch geil darauf!». Ma mi piace di più sentirgli dire che una cosa non va perché è «schlecht, schlecht». Proprio un bel cagnone. «Ich stehe auf Südländer». È laconico. «Ich finde es geil wenn diese sich auch noch unterordnen». Ha la sua macchinina qui fuori, deve passare a prendere due suoi amici alla Deutsche Vita: mi par d’essere un buon samaritano che si fa dare un passaggio dal figliuol prodigo.
Questa Gaststätte in Caspar-David-Friedrich-Strasse fra una Maria u. Josef Kneipe e un Kamelhaar Haus è stata oggi trasformata in boschetto da loro, che sono andati col padrone grasso a tagliar rami in una selva che dicono magica alla confluenza dell’Isar con un altro fiume; e le grandi frasche ricoprono pareti e finestre, pendono dalle lampade, si sollevano dai tavolacci grezzi. I due amici si riconoscono dalle magliette che si sono fatti loro: “Neo-Fucker” è il Parsifal, che lavora nei magazzini all’Opera, e “Kein Orgasmus?” è il teologo di Augsburg, che è poi uno studente di teologia, di diciannove anni, qui all’Università di Monaco. E spiega, di qualunque cosa: «this is very Bavarian, this is typically echt Bavarian». C’è un po’ di Satyricon e un po’ di König Ludwig, nei costumi e nella fantasia: antichi romani in calze a rete e franchi cacciatori in collant candido e piume di fagiano. Ma dobbiamo passare a casa del Parsifal per togliere la vernice d’argento al lupo, che deve tornare a dormire da Klaus.
E qui, sopra un negozio illuminatissimo di accessori per pianoforte, con tante appliques in diversi stili per i differenti Bösendorfer, veniamo presi a bottigliate per le scale da un ex-amante geloso di qualcuno di loro che era lì in agguato. Ma sono ragazzi robusti, e lo malmenano, lo buttano fuori dal portone: se l’aspettavano? La cosa impressionante è che sembra identico, nella pettinatura e nei baffi e negli occhi da matto, ai ritratti di Ludwig quando aveva vent’anni. Era sanguinante e furibondo.
L’ambiente è profondo, ma talmente cabinato di specchi in tutte le angolazioni che tutto sembra restringersi intorno a un cavallone di legno da opera, cabrato, in grandezza naturale, che serve soprattutto per far le fotografie ai modelli che vengono qui. Ci sono dappertutto gessi di facce, orecchie, mani, culi, ginocchia, capezzoli, perché a tutti quelli che gli interessano il Parsifal prende i calchi, li ferma soprattutto per strada, e poi un giorno chissà quando avrà tempo farà delle combinazioni. Assemblages? I cassetti sono invece pieni d’una raccolta di slip e mutande portati via a tutti quelli che sono passati di qui e ci hanno lasciato le penne. Terz’atto del Tristano in tutta la casa, fortissimo.
Togliere la vernice non è semplice. Si spogliano, si mettono dei grembiuloni bianchi lucidi da macellaio, stendono il lupo (che soprattutto qui è il Karl-Heinz) su un telo di plastica, e gli dànno un po’ di poppers, che gli piacciono moltissimo. Qui vedo che hanno molto successo, come del resto per gli americani. Se sapessero che in Italia, basta essere carrozzieri o amici di un carrozziere, e si comprano i bottiglioni da cinque litri per uso industriale a qualunque filiale della Rossi & Bianchi. Se ne potrebbero far migliaia di dosi e diventar miliardari, negli Stati Uniti... Ma io li adopero solo quando qualcuno li vuole proprio, perché mi paiono i vecchi solventi per lo smalto da unghie delle cameriere.
Il Parsifal e il teologo hanno sistemato le loro birre per terra. Si riempiono la bocca, e un po’ ne bevono, ma la maggior parte la risputano in grossi getti addosso al lupo e alla vernice, massaggiano e strofinano. «Du geiles Stück!... Ich bin total geil auf dich!... Ich bin heiss, sehr heiss!... Bin saugeil auf dich!... Mach mich gefügig, mach mich fertig!... Prachthengst!... Spritz mich voll!... Riesenportion!... Literweise!... Ganz, ganz tief, tief!... Ich bestrafe dich!... Finde es toll!... Herrliche geile Latte... Immer wieder!...». Ci dànno dentro parecchio, teologo e Parsifal. E anche il Tristano, facendo delle lucette verdi e rosse, dai vari apparecchi.
Ma sono parecchie, anche dopo, le romantiche creature che corrono per il parco sulla neve ghiacciata e croccante sotto gli stivali: malgrado la neve, li portano ancora in giro nudi al guinzaglio col cappuccio di cuoio senz’occhi e magari una coda infilata, e non prendono neanche un raffreddore, fino a veder spuntare il sole, quando c’è poi chi fischietta e chi si scioglie, chi prende il volo e chi si infila sottoterra, chi si rimette in tasca il suo piccolo gatto portatile a più codine, e chi la cravatta d’argento, e chi si mette a ridere andando a letto di buonumore “typically Bavarian”.
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La domenica mattina si esce da sud-ovest in direzione delle Alpi, con i due Wolf e una cesta da picnic nel baule della macchina nera. La pianura da questo lato è ancora più bavarese e cattolica, con campanili a bulbo di cipolla e boschi puliti e grosse donne che guidano carri di grossi cavalli sulla neve. Klaus ricorda a me e al lupo che questo è un lago elegante citato da T.S. Eliot e prediletto da Ludwig: lo Starnbergersee. Stiamo passando davanti al castello di Berg, sulla sponda. Ancora oggi di proprietà della famiglia Wittelsbach.
«È morto qui» dice Klaus.
«A quanti anni?» gli chiedo.
«Neanche quarantuno. Lo si può capire benissimo, uno vissuto sempre in grado d’appagare i desideri più fantastici... con questo orrore per il prossimo... quando si trova menomato... In una dinastia che aveva regnato in forma quasi assoluta per un migliaio d’anni... Questa smania di voler morire subito!».
Certo, osservo, dev’essere stato l’ultimo in Europa a potersi permettere delle follie su questa dimensione... Dopo Napoleone, escludendo Hitler e Stalin, chi altro c’è stato?... e dopo decenni già di Biedermeier, poi, in un’Europa borghese, vittoriana, industriale... Non sono mai stato al Goetheanum vicino a Basilea e neanche al Vittoriale, ma prima di Disneyland l’Opera d’Arte Totale dev’essere stata per lo più un’operina...
«Vedrai adesso, come prima cosa, il castello rimesso a posto da suo padre, Hohenschwangau, com’era infatti già borghese, per esempio» dice Klaus. E spiega: «la parola Schwan entra in tutti questi toponimi perché siamo nella Contrada del Cigno. Lo incontri poi nel Lohengrin, nel Parsifal...».
Avvicinandosi alle montagne, i colori della foresta diventano sempre più accesi: gialli, certi rossi fiammanti, parecchi marroni diversi a seconda del faggio e del larice, dei cupi arancioni gotici. «Trilli, tremoli, arpeggiature degli accordi, acciaccature, imprimere i colori di Altdorfer al timbro dell’oboe, del flauto, del corno inglese...».
Hohenschwangau è stato ricostruito intorno al 1835 sulle rovine di un altro castello molto più antico. E infatti è una dimora familiare: stanze piccole decorate con semplicità. «Qui Ludwig ha passato l’infanzia con suo fratello Otto, che è impazzito a meno di vent’anni e poi è vissuto ancora per moltissimo tempo in camicia di forza, demente del tutto, in due stanze a Berg. Guarda com’erano belli».
I due busti candidi sono belli davvero. Ma c’era già la fotografia, e dunque anche tanti ritratti: splendidi, proprio.
Il leone bavarese sta diritto su tutte le porte, qualche volta sorridente, e talvolta abbracciato all’aquila prussiana. Ma qui comincia a scatenarsi il Cigno, sul cuoio delle seggiole e sulle fruttiere dorate, moltissime in fila sul tavolo della sala dei banchetti. La stanza della regina Marie è di castagno biondo, ton-sur-ton anche il pianoforte. Nel boudoir turchesco le pareti sono verniciate di celestino-turchese, veramente bagno turco di buona famiglia, con affreschini minuscoli: panoramini di Smirne, Marrakech, Tripoli, quasi vignette, con sopra il nome della città in caratteri pseudoorientali. «Bambini! Non fate le turcherie!» scoppia a ridere Klaus in italiano; e dovendola poi spiegare al lupo, diventa noiosa. Nella Welfenzimmer e nella Bertazimmer le vignette affrescate sono invece di fanciulle e cavalieri di saga Hohenstaufen, inquadrate da tralci di rose e rametti d’ippocastano disposti a bifora o a guglia. La Tassozimmer poi è dipinta a trompe-l’œil, pareti e soffitto, un solo berceau abitato da Rinaldo e Armida che sbucano da almeno otto cespugli in pose differenti, come quaglie o leprotti sospettosi.
Ma è una casa, in complesso, da re cacciatori sani e con tanti baffi, fotografati in pose sempliciotte col loro fucile in mano e il loro piede sopra il cervo morto. Quadri di formose dame medioevali, in cornici di stucco. Biliardi neogotici su un parquet cigolante d’acero chiaro; poltrone architettoniche complicate ma comode, di velluto verde; mobilini di cedro, tavolini ottagonali; ogni stanza con la sua verandina. Doni poi vistosissimi di città bavaresi – le vrai Kitsch! – con questo cigno sempre sugli orologi e sui calamai: come avere il marchio di Dunhill su tutta la casa.
«Le date parlano chiaro!» fa Klaus in fretta, uscendo. «Il Lago dei cigni di Ciaikovskij, che naturalmente è la vera storia di Ludwig e come tale andrebbe rappresentata, è del Settantasei. Lui, Ludwig, il vero Cigno, muore invece nell’Ottantasei. E nello stesso anno muore il Cigno di Mallarmé, che è sempre Ludwig benché fosse Verlaine a dedicargli un sonetto funebre; e nasce Anna Pavlova, quella della Morte del Cigno!».
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La prima volta che lo si vede in fotografia o dalla valle, Neuschwanstein riesce impressionante, perché è l’edificio al mondo che più coincide con l’idea archetipica del Castello della Fata. «Non per niente l’ha progettato uno scenografo e non un architetto: Jank, del Teatro di Corte di Monaco. Del resto, anche per l’abbigliamento delle fate si è sempre pensato che debbano vestire come le dame in Germania o in Francia agli inizi del Tredicesimo secolo: sulla Wartburg dei Minnesänger, in Turingia, ci sono tutti gli affreschi restaurati da Moritz von Schwind, che del resto anche qui intorno aleggia parecchio. Ma di Schwind, qui a Monaco, tu devi andare a vedere “Des Knabes Wunderhorn” alla Galleria Schack! Un ragazzo romantico in mutande, sdraiato nel bosco in libertà, col suo corno in mano e le gambe per aria... E questo castello è nella stessa “aura” medioevale e romantica... Solo che è stato costruito come gli altri negli anni Settanta del secolo scorso».
Gli abeti si fanno fittissimi lungo la strada solitaria in salita. Incrociamo solo una slitta a cavalli che scende, tipo char-à-bancs, con alpigiani in giacca di loden, e coperte militari sui sedili. Ci si innalza in un paesaggio di laghetti ghiacciati, villaggi fatati, alpi nevose, boschi nevosissimi, gole di lupo da Cacciatore Nero, con fantasmi di passerelle aeree là in alto. Fa molto freddo. Per terra c’è neve e c’è brina.
S’arriva sullo spiazzo gelato davanti alla torre d’entrata verso mezzogiorno: come la carrozza degli alienisti? E il lupo già s’avventa allo sportellino dei biglietti. Ma bisogna aspettare dieci minuti per la prossima guida, anche se ci siamo noi soli; e ci sediamo al sole nel cortiletto inferiore, su una panchina di sasso. Un filo di Bruckner esce dalla Mercedes nera. «Antonio te l’avrà fatta sentire, la Romantica, la Quarta. Gliel’ho vista» mi dice Klaus. «Il lupo ce l’ha» aggiunge; e il lupo fa segno di sì. «Me l’ha regalata insieme alla Settima!». «Quella che Luchino ha messo in Senso» precisa Klaus in italiano. E aggiunge: «La stessa che Bruckner ha portato in omaggio a re Ludwig appena ha sentito che era morto Wagner. Naturalmente non è stato ricevuto: sperava di prenderne il posto. È ripartito la sera stessa per Linz in treno».
Prendiamo del consommé caldo, dalla cesta. «Se la paragoni con la Quarta di Mahler,» spiega Klaus «senti subito la differenza fra due mondi, due sensibilità, fra tutto... Eppure, nella sua rozzezza e naïveté, la Romantica ha un terzo tempo che è la cosa più vicina a questo castello mai composta in musica. Altro che Wagner! Il Kitsch del Medio Evo finto secondo un tardo romantico che vuole o deve riempire delle forme troppo grosse: dopo che sono morti quelli veri... sotto una tensione tutta superficiale... con volumi espressivi senza significati... senza mai un giudizio sulla proprietà delle apparizioni, la qualità delle presentazioni, l’opportunità o l’opportunismo di tante epifanie... in una dinamica ferma, che è una dissuasione dai contenuti... perché frena l’estasi emotiva, ma non rimuove le agitazioni dell’essere...».
Mangiamo un piccolo sandwich.
«Può anche sembrarti una parodia senza ironia di Giselle, questo terzo tempo della Quarta. Ti fa toccar con mano, visivamente, questa uscita di cavalieri all’alba da un castello come questo coi loro corni, per la solita caccia; e te la ripete decine di volte sempre uguale, perché ti entri ben dentro, come un jingle della pubblicità; perché sai com’è l’organista, appena trovato un tema spesso è talmente incapace di svilupparlo e concludere che insiste a ripeterlo sperando forse che succeda qualcosa... E alla fine dell’iterazione qualcuno magari ti dirà: è Zen.
«Ma sempre in questo terzo tempo c’è un tema di vendemmia, dove fisicamente devi sentire tutta una situazione di mosti e di tini, e se c’è una Giselle sarà lì che pigia con gli altri, accaldata, sudata, a piedi nudi, tutto il giorno. I mosti e i corni s’alternano moltissime volte, come se la caccia continuasse ad arrivare sul luogo della vendemmia, caccia e vendemmia, vendemmia e caccia, come sulle etichette delle bottiglie di vino: in abiti di saga guelfa naturalmente, con questa torre di Neuschwanstein nel background... E poi non succede niente! Mai una digressione, uno scarto, una sorpresa, un’avventura... Tutti contenti per il giubileo della cantina sociale, con un piccolo premio uguale per tutti i dipendenti... Non un flashback per chiarire gli eventuali conflitti alle spalle del signor direttore... O qualche previsione di buon senso circa la lotta fra carne e cuore e logica sotto la malattia e la morte o dietro il diavolo, in queste consorterie di monadi soffocate dove poi l’inconscio si vendica... con rovesci spirituali che fanno crollare il programma...».
Non ci vengono ancora a prendere. Altro brodo caldo. Secondo sandwich. Saranno andati a mangiare anche i guardiani?
«Naturalmente, ogni tempo di Bruckner finisce senza una conclusione: proprio perché “time must have a stop”, dopo che la durata e l’allungatura ottenute con l’iterazione vengono messe a nudo dai surrogati e smascherate dai riempitivi... Ma sai che soffrì lunghi ricoveri perché assillato dall’ossessione numeratoria?... Come un Lewis Carroll non realizzato: contava tutti i passi, i sassi, i gradini, i sospiri, e sempre attribuendo chissà quali significati o auspici alle manipolazioni delle somme aritmetiche... Un esaurimento da stress, peggio che nei vortici della gran metropoli, passando la vita nelle belle campagne serene di Linz, dove non per niente è nato anche Hitler».
Ma è una mania che da bambini ha tentato tutti!... Quando c’erano i vecchi marciapiedi con le giunzioni fra le beole, si stava attenti a non barare allungando o accorciando il passo, per poi mettere o non mettere il piede su questa commessura, e lì poteva cascar l’asino. Come quando si pestava il quadrifoglio: miao! Però poi ciascuno riempie la mania con un’idea fissa preferita. Per esempio: se il piede va sulla commessura, stasera si scopa. E poi, invece, magari, niente. Una, due, tre volte. Fine della mania inattendibile.
Klaus s’alza in piedi. Escono i quattro gatti del tour precedente. «Chiudi il cane in macchina» dice a Wolf. Il ragazzo s’annuvola. Non vuole. «Allora rimani lì anche tu» gli dice Klaus. Noi cominciamo a entrare. Saliamo per una scala a chiocciola fino in alto, ma prima che s’arrivi in cima Wolf ci raggiunge di corsa, un po’ rigido ma sottomesso. Ha chiuso il cane in macchina, e fa per dare le chiavi a Klaus. «Tienle tu» gli dice lui, e prendendomi per un braccio mi tira sul balcone.
L’Alpensee, fuori da questa ch’era la finestra dello studio del Re, brilla azzurrissimo come sul coperchio delle antiche scatole di cacao. Ormai siamo veramente nel cuore della Contrada del Cigno, e l’uccellone col collo storto appare ossessivamente dappertutto: su sedie, porte, maniglie, rubinetti, candelabri, lampadari, tende, cordoni da tende, fermagli dei cordoni, ringhiere, passatoie, tagliacarte, posate, pendole, manici di brocche. Sono a forma di cigno cattivissimo anche le prese d’acqua nelle cucine, intorno al delizioso ufficio del capocuoco. Il freddo è quasi intollerabile. Ed è vero che questi affreschi non hanno più di un’ottantina d’anni, ma paiono di un nuovo incredibile nella loro baracconaggine ben tenuta.
Ogni stanza, dedicata a un’opera di Wagner. Lohengrin in salotto: divani blu a cigni, tende assortite. E un enorme cigno bianco di ceramica sopra una stufa di maiolica borghese. Tutta la saga intorno, alle pareti, fra archi e mosaici di un moresco siciliano molto “cosy”.
Tannhäuser invece in tutti gli affreschi dello studio, con tende verdi fra le più spesse, poltrona di pelle verde come il piano della scrivania. Enorme stufa di maiolica da ufficio, e dietro la stufa una saunina tipo Venusberg: un grottino di cartapesta con le sue stalattiti marmorizzate, la sua cascatina, e una lanterna magica per illuminarla di colori cangianti, come le nevicate all’Opera e la valanga della Wally. Porta di vetro sopra un giardino d’inverno con ghiaia e piante grasse, fontana araba, sedili di rami intrecciati forse più che altro tirolesi.
Oltre agli affreschi, sono questi pannelli di legno così scuri e pesanti, a dar la sensazione claustrofobica in ogni stanza. I lampadari sono anche da teatro: non di bronzo e cristallo ma d’ottone lucido con enormi fondi di bicchiere di tutti i colori, come i diademi dei guitti. La sala da pranzo non ha tavolina magica ma un noioso montacarichi giù per tre piani: fra ritratti di Gottfried von Strassburg e di Wolfram von Eschenbach, e per il resto sete rosse con cardi e canarini e cedri. Gran centro tavola a dragoni dorati e Sigfridi, forse con qualche tocco di Sangiorgi vittoriani Kitsch da regalo di banche.
Dragoni e draghini anche nei dintorni della stanza da letto, questa francamente favolosissima, chapeau bas! Lo spogliatoio è cavalleresco e lirico: tutto a Minnesänger, ovvero «poesia di rapporti ideali e convenzionali fra il poeta e la dama-fata» in seta viola a pavoncelle, ma con un «droit de seigneur» dipinto su rame (e lì, promessa sposa in lacrime, Tramaglino medioevale trattenuto, seigneur con gran barba nera da oleografia) sul coperchio del cofanetto... Ma gioielli di chi? per chi?... Sopra il letto cresce una foresta di guglie gotiche di legno chiaro, vegetale-delirante come non s’è mai visto in nessun Charles X né vero né too good to be true. Strawberry Hill forever! Tutto scuro, a tende blu e dorate, con colonne e candelabri da Vespri Siciliani e anche Bizantini-Arabi-Normanni, e intorno al letto del peccato dei Tristani e Isotte in atteggiamenti di santità spudorata, da voyeurs moralisti che pur sofferenti non si spostano neanche a tirargli una scarpa in testa; niente dragoni o leoni; non un cigno testimone della lussuria; la sensazione invece della profanazione tra incensi e centerbe e tabù.
Nel salone dei cantori, vastissimo, Klaus allarga le braccia come se volesse occuparlo tutto. «Viene l’orchestra sinfonica di Bamberg a fare dei concerti qui, d’estate» informa la guida. La decorazione parrebbe tutta un Parsifal, con travi dorate e scolpite e lampadari anche più baracconi degli altri. Ma il palco reale è un pergolato dipinto a foreste come nelle fiabe illustrate per bimbi buoni: daini, camosci, cerbiatti, scoiattoli, e altri animaletti della foresta, fanno molto capolino tra i lamponi e i mirtilli col loro labbro leporino e bei dentini bianchi alla Walt Disney.
«Wagner aveva cinquant’anni e Ludwig diciannove,» informa Klaus «quando il re ha perso la testa per lui».
«Avvenne l’Irreparabile?».
«Certamente, ci sono le prove, delle lettere. E poi, scusa, da uno capace di coricarsi con la moglie del suo migliore amico dietro le spalle di lui, dico Hans von Bülow, mentre lui poi gli sta dirigendo la sua musica, unico per di più a prendergliela sul serio, qualche trovata da Brecht te l’aspetti, no? Prima la trippa, e dopo la virtù... Cosa poteva fare, d’altra parte, Wagner? Stava a Stoccarda, inseguito dai creditori, e tutto gli andava male, pensava seriamente a un suicidio che sarebbe riuscito malissimo, poco romantico.
«Una notte sente bussare alla porta. Aveva una stanza in un misero albergo e una gran paura d’essere arrestato per debiti, capisci. Fa per scappare dalla finestra, mezzo spogliato, con un valigino da Doktor Caligari... E invece era il messo del Re, un gentiluomo riccamente abbigliato che gli portava una sua lettera, una sua fotografia, un anello, soldi!, l’invito a stabilirsi a Monaco. Altro che Cenerentola... Gli dà una villa, un palazzo, regali incredibili, scambiano voti di fedeltà, fanno musica con Hans e Cosima, corrono in slitta per i nevai notturni... Grimm! Grimm! Trottolando, trottolando, il fuso arrivò in mano al Principe!... Raperonzolo Raperonzolo, tira fuori il tuo codinzolo!».
«E quei filtri in tante opere? È un’idea fissa?».
«A Monaco, Wagner era chiamato Lolus, perché stava al nipote come Lola Montez era stata al nonno. E Adorno potrebbe dire: come Mahler stava a Bruckner. Ma i soldi che gli ha speso dietro Ludwig! Invece d’essere geloso di Cosima, cercava di farsene una complice. E dopo tutto, come intrigo appare delizioso, dal momento che Cosima era figlia di Liszt, e si sa bene quante sciocchezze ha fatto Liszt con Lola Montez, vedi o rivedi sempre quel film sublime di Max Ophüls...
«Veramente, dopo neanche un anno e mezzo, tutta la Baviera s’è talmente sollevata contro Wagner, dal popolo al governo alla famiglia reale stessa, che per non abdicare Ludwig ha dovuto mandarlo via, e s’è ritirato nella Roseninsel (che T.S. Eliot ha trascurato...) col suo amico Thurn und Taxis, a fare dei fuochi d’artificio sullo Starnbergersee mentre la Baviera veniva sconfitta dalla Prussia... Era la guerra di Senso, con la perfida Italia alleata dell’orribile Prussia contro il povero Cigno... E anche per questo Ludwig ha talmente odiato sua madre che era una Hohenzollern. Da allora l’ha sempre chiamata “la vedova del mio predecessore”...».
Prima di uscire vediamo ancora la sala del trono. Mai i normanni in Sicilia, i mori a Granada, i bizantini a Ravenna, sono arrivati alle ebbrezze di questi colonnoni blu con capitelli di porporina: cobalto da servizi da tavola, angeli da circo di Cocteau in volo per i pennacchi della cupola, lampadario-monstre che luccica come una batteria di rami da cucina; e quest’abside musiva dove compaiono solo – e me lo fa osservare Klaus, subito – santi coronati ed estremamente chic: Edoardo il Confessore, San Luigi di Francia, Ferdinando III di Spagna, Casimiro di Polonia, Stefano d’Ungheria. Poi andiamo a mangiare.
«Un Thurn und Taxis, una Sayn-Wittgenstein, due o tre Fürstenberg, degli Hesse sia del ramo Kassel sia di quello Darmstadt... degli Schönborn... Schönburg... Stolberg... Schwarzenberg...» sta dicendo a rotta di collo giù per la scala a cavaturaccioli. «Un pubblico ideale per un festival, ieri come oggi...».
«L’Euryanthe di Weber e il Fierrabras di Schubert, Der Corregidor di Hugo Wolf, Doktor Faust di Busoni e Der Kreidekreis di Zemlinski, o Kleider machen Leute, ovvero gli abiti fanno il monaco in un paesino svizzero dove arriva un piccolo sarto che possiede solo un elegante cappotto, e tutti lo riveriscono come un conte e gli fanno credito: un villaggio non da Dürrenmatt o Max Frisch ma ancora da fiaba di Wilhelm Hauff... E se non proprio Die Königin von Saba di Goldmark... Der ferne Klang e Die Gezeichneten di Schreker, che sono pieni di orge decadenti in Citere di lussuria pagana al largo di Venezia e di Genova... Un’altra fiaba che è Der Silbersee di Kurt Weill senza Brecht, ma con Chaplin più Stravinskij più Puntila più Cristallo di rocca... O addirittura Die tote Stadt di Korngold, con una Donna del Ritratto che prende vita come nel cinema di Fritz Lang, davanti a un vedovo col culto della defunta, nella Bruges di Georges Rodenbach, battuta da beghine e mascherine che si scatenano con un Pierrot di Khnopff sui canali di notte... E la sosia sfacciata che ha profanato il sacrario viene strangolata dall’inconsolabile simbolista con la treccia-feticcio dell’estinta...».
Sta arrivando giù in fondo di corsa: «... gli Ahlefeld-Bille e i d’Hane-Steenhuyse!... E tu sai che c’è un’opera Jessonda di Spohr... in residenze come sognate da Karen Blixen!» dice trionfante. «Sono tanti gli amici che vorrei e potrei far venire, e che inviterò... non appena avrò un festival mio che si proponga anche come modello ai grandi cartelloni!».
«Qui?».
«No, meglio: un Teatro di Corte, delizioso, funzionante! Aspetta... tu! Vedrai!».
«Ma quando?».
«Non posso dir niente! Vedrai!... Ma non aspetterò, io, di non esser più capace di far musica, per metter su questo mio festival di espressioni e apparenze!... Immagina pure scaloni, saloni, gallerie affrescate tipo Luca Giordano e Mattia Preti, atri immensi incrostati di conchiglie come grotte, e una campagna medioevale intorno, dove però il fiume fa delle rapide intorno a una piccola isola miracolosamente barocca... Il crepuscolo delle marescialle e delle contesse è in realtà inesauribile come le riflessioni dei grandi vecchi del Novecento quando intorno gli casca il mondo...».
«... Non vorrei però aspettare l’età dello Strauss di Capriccio, per incominciare a svolgere delle riflessioni di uomo del mestiere intorno al mio mestiere... C’è proprio bisogno che ti crolli il mondo addosso, per meditare sulla tua arte?».
Mangiamo benissimo in una trattoria di campagna piuttosto raffinata, persa nei boschi tra la neve, e con solo sei tavoli, ma con sedie imbottite comode, tovaglie di Fiandra, più di cento ghiotti nomi renani sulla carta dei vini, e un menu Romantik: Antoniussüpple mit Steinbutt, Dialog von Gänsestopfleber und Kalbsbries, Hechtklösschen, Täubchen, Estragondampf, Gratin von Früchten...
«Vedi qui, come ci si sente a casa?» mi fa Klaus. «Ben serviti, obbediti, posate d’argento...». E mi fa notare tutte le qualità di pane: chiaro, scuro, integrale, coi semini, tipo brezel. «Quando mai, anche nei ristoranti pieni di pretese e carissimi, giù là?». Qui la padrona mi sembra che esageri: già un sorbetto di limone dopo il primo brodino, come se si fosse a un banchetto rinascimentale fra una porchetta e un pavone. E del resto ci siamo solo noi. Non so se passa un commesso viaggiatore e chiede la birra... Ma Klaus: «Vedi i bei tappeti per terra, il servizio perfetto, i piatti elaborati e curatissimi... È gente sollecita, che sa servire, sa obbedire... per natura... Non come giù là dove si dimenticano tutto... Dicono “domani” e poi non vengono... E nei ristoranti mangi coi piedi nella segatura, il neon sopra la testa, e i violini dietro le spalle... E rimbombano cento voci nei soffitti a volta...».
«Guarda che non devi persuadermi! Non far sforzi!».
«E non te ne puoi fidare, se hai bisogno di qualche cosa sul serio...» mi fa, ancora. «Vedi, per esempio, io non posso stare al piano a comporre, e intanto andare alla banca, correre per gli uffici, occuparmi della bolletta del telefono o dell’assicurazione dell’automobile... E leggere i contratti, e rispondere alle lettere... Ma se chiedo qualcosa a qualcuno che sta con me, e dice di volermi bene... Si alza a mezzogiorno e poi va al mare... E devo fare tutto io... Perché non hanno uno scopo nella vita... Non dicono: io ho questa vocazione, io ho questa ambizione, io mi propongo questo... E dunque non studiano i mezzi per arrivarci... Guarda qui, per esempio: posate d’argento, piatti di portata anche... Non quegli orrori di latta e di plastica...».
Sarei tentato di pronunciare un Elogio della Vongola, invece beviamo perfino una specie di advocaat, alla fine, anche il cane; e guardandomi fisso negli occhi, col suo grosso sigaro fra le labbra, Klaus si tira indietro il ciuffone gonfio dalla fronte sudata, e fa piano: «... neve... pace... loden... slitte... interni ben riscaldati... laghi ghiacciati... plaids di pelliccia...».
Mi fissa parecchio. «Mentre ero lontano... e non ci pensavo davvero... E forse neppure sapevo che esistessero ancora... I castelli abbandonati erano lì... e mi aspettavano...». E chissà cos’altro mormora, a voce sempre più bassa, in macchina, ma io non gli faccio neanche un «eh?», subito dopo colazione, mentre andiamo verso Linderhof, passando tra le facciate dipinte di Oberammergau, ogni casa con questi grandi affreschi di scenone storiche o religiose, grosso effetto! Ma lì davanti tutti i giorni...
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Si entra in una valletta laterale, deserta e molto quieta, grigioverde come una divisa militare dove manca la neve; e si sale ancora un po’. «... Mentre ero lontano...» continua a dire Klaus, pianissimo, guidando. «... E non ci pensavo nemmeno... Erano lì, abbandonati, e m’aspettavano... E sapevano che un giorno sarei venuto...».
Davanti a noi appare Linderhof, e ci fermiamo. I due Wolf si svegliano di colpo. Si sale a piedi attraverso il parco, abbaiando, sul fianco d’una montagna quasi del tutto disboscata.
In verità si tratta di un pavillon, molto grande e molto molto decorato. Già sulla facciata, genii e amorini svolazzano tra una finestra e l’altra, e una Fortuna discinta regge il globo terrestre, dorato, diguazzando per aria, sul tetto, come alle Dogane di Venezia e di Copenhagen. Tira un’aria da Rosenkavalier? Quando si esce bisogna prendere qualche cartolina, e mandarla col messaggio: «Se la Marescialla era un Principe Eugenio?»... Ma entrando poi l’impressione forte è di Secondo Impero: hall e scalea sono tipiche di quegli hôtels particuliers di Parigi poi trasformati in museo, come il Jacquemart-André.
«Ludwig andava spesso a Parigi di nascosto, si capisce» avverte infatti Klaus. «In incognito, col nome di conte di Berg». Come fa freddo, anche qui. Non c’è mai riscaldamento. Nemmeno una pianta sul piazzale fuori, e le finestre sono state munite di pesanti antoni di legno, per l’inverno. Sono appena le quattro, il sole sta già tramontando, però qui c’è qualcuno. Un marco d’entrata a testa: forse le follies capaci soi-disant di sbancare lo Stato potrebbero rivelarsi buone speculazioni: costano meno delle guerre, alla lunga si ammortizzano, piacciono alla gente, e con qualche pubblicità possono rendere più che se si fossero impegnati gli stessi soldi in un consolidato al tasso d’interesse bancario.
«In questa sala dei Gobelins,» dice Klaus, dritto in piedi davanti a un pavone di smalto, grosso almeno il triplo di un pavone nature «il Re faceva suonare Wagner: lì, sopra quel piano eolico... cioè un pianoforte che può suonare anche come organo».
Il piano eolico, le pareti, i mobili, sono pazzescamente carichi di stucchi, di bronzi, di specchi. Grondano decorazioni dorate dappertutto, sono le sale più decorate che esistono; e tutto nuovo, sempre lucidissimo e ben tenuto. Non un minimo di patina che possa far sospettare “nato ieri”. La sala degli specchi, lo studio, una seconda sala dei Gobelins, il gabinetto giallo, il gabinetto rosa, il gabinetto mauve. La sala da pranzo, con la sua tavolina alzabile per due: intimità nella vastità... possibilità di tête-à-tête discinto e galante, fra questo falso rococò fioritissimo? Qui si pàttina verso Aubrey Beardsley... con Parsifal e la Pompadour...
Camini di marmo grigio di Russia, tavoli fiorentini di pietre dure, étagères di legno di rosa, statuette equestri di Louis XIV e Louis XV in terracotta, ratti di Proserpina, imbarchi per Citera...
Pendole, bronzi, camini, stucchi dorati, bronzi dorati, cancelli d’oro, e anche cavalli, cristalli di Boemia, camini, pendole, candelabri d’avorio, candelabri di stucco da rifare d’avorio in seguito, made in Vienna, 108 candele...
Lever, petit lever, coucher, Carrousel, marmo di Carrara, Apollo nel bagno di Teti, i cavalli solari d’Apollo, d’oro, Sèvres, Meissen, pavoni, camini, consoles, pendole...
Caccia, pesca, giardinaggio, agricoltura, due vignette del Vecchio Testamento, tre del Nuovo, Tre Grazie, pavoni grossi tre volte il naturale, di Meissen, di Dresda, di Sèvres, il Ratto d’Europa, il Ratto d’Orizia, figlia d’Eretteo, per mano di Borea, il vento del Nord...
L’Europa, l’Asia, l’Africa, le Americhe, l’Architettura, l’Ambasciatore Turco e il suo seguito, le nozze del Delfino, Sassonia, Dresda, detronizzazione di Atalia, Tre Grazie di Carrara, perdono di Ester, perdono di Assuero...
Diana, Euridice, Diane de Versailles, ricevimento dell’Ambasciatore Turco col suo seguito, doni della zarina Marija Aleksandrovna per le nozze del Delfino, malachite autentica, Industria e Commercio, Arti e Scienze, Diane de Poitiers, Autorità Temporale e Autorità Spirituale...
Giove, Marte, Flora, Apollo, le duc de Richelieu, Garden Party, San Giorgio, Apoteosi di Louis XIV...
Louis XV gioca a carte nella Galleria di Versailles, Meleagro e Atalanta, Louis XV incoronato nella Cattedrale di Reims, malachite, ametista, calcedonio e lapislazuli, porcellana di Sèvres appartenuta a Maria Antonietta, Giudizio di Paride, Nascita di Venere, Louis XV riceve l’Ambasciatore Veneziano e il suo seguito...
La sala del Consiglio... La gran stanza da letto sempre al centro dell’edificio monumentale, con un immenso lampadario da sala da ballo e un immenso baldacchino da trono retto da angeli trombettieri, penne di struzzo in cima e una balaustra gesuitica da altare basilicale, d’oro.
Grande, vastissima, così la claustrofobia potrebbe sospendersi al di qua della balaustra. Dalla finestra, stando a letto, si può vedere la cascata del Nettuno, quando la temperatura è sopra zero, giusto di fronte sulla collina. «Qui» dice Klaus «il Re riceveva come Louis XV, nel letto di Stato. La balaustra teneva lontani i visitatori». «Il riscaldamento è sempre stato centrale, fin dalla costruzione» interrompe la guida. Però non va.
«E qui trattava gli affari di Stato, facendo venir su i ministri da Monaco».
«Mascherati da belli?».
«Non si trovano testimonianze iconografiche. Nei castelli, le donne non sono mai state lasciate entrare. Una delle radici del Reich tedesco parte proprio da questa stanza. Bismarck non avrebbe attaccato la Francia nel ’70 senza l’aiuto della Baviera. La Prussia, da sola, non ci sarebbe riuscita. Se ricordi, quattro anni prima, la Baviera alleata dell’Austria era stata sconfitta proprio dalla Prussia alleata dell’Italia, in quella pazzesca guerra fra la Traviata e il Tristano dove non solo si è combattuto fra tedeschi, ma c’è stata l’ultima grande battaglia navale fra italiani: genovesi e napoletani a Lissa contro i veneziani e i triestini nella flotta austriaca...
«Ma ora Bismarck offriva delle grosse somme a Ludwig, mentre lui aveva sempre più bisogno di soldi per i castelli e gli spettacoli: non si è mai fatto, intanto, il Festspielhaus di Wagner a Monaco, su progetto bellissimo di Gottfried Semper, sulla riva dell’Isar; e sarebbe stata un’invenzione culturale più importante del Walhalla di Ludwig I sul Danubio a Regensburg... Sarebbe stato fantastico vedere chi avrebbe prevalso, rappresentando il Ring in città, fra Wagner che voleva un suo pubblico e Ludwig che preferiva star da solo in un teatro vuoto... Ma intanto anche tutta la Baviera sembrava entusiasta per questa guerra del ’70: i giornali, i ministri, gli oratori popolari, la stessa famiglia reale, tutti volevano l’intervento. Anche Wagner dopo la battaglia di Sadowa era diventato un pangermanista sfrenato. E perfino i suoi amici parrucchieri, guardacaccia, attori, arredatori, registi...
«Da parte sua, Ludwig leggeva Saint-Simon per tutta la notte, sognando Versailles. Detestava gli Hohenzollern. Ha esitato... Ha esitato... finché una mattina trovano fuori della porta di questa stanza da letto un bigliettino con scritto “Eh bien, qu’on fasse cette guerre”, come una commande per il breakfast all’albergo; e la Baviera dichiara guerra alla Francia insieme alla Prussia; la Prussia vince; e come sai bene Bismarck a Versailles fonda subito l’impero tedesco, Wagner coi soldi fa Bayreuth...».
Usciamo, ed è praticamente buio, ma saliamo quasi di corsa col cane fino a un chiosco moresco almeno a 1500 d’altezza, pieno di narghilè e d’archi a schiena d’asino, con una fontana di pavoni imbalsamati in mezzo: comprato a una Esposizione Universale di Parigi, e si vede. Giù veramente al galoppo per la collina, e Klaus tenendoci emozionato per le mani, me e il Wolf, ci trascina dentro l’enorme Grotta Azzurra artificiale: altro Venusberg, ma molto più imponente che a Neuschwanstein, una vera Opera underground. Le stalattiti e stalagmiti sono grossissime, chissà che commenti, da parte dei volgari; e nel laghetto si può navigare, come faceva lui, su una gondola dorata in forma di conchiglia, col suo cigno imbottito e il suo amorino a prua, o sedersi in cima a uno Scoglio della Loreley, su un trono anche molto dorato. Altro che la Marescialla. Lo sfondo è un gran sipario dov’è dipinto il primo atto, appunto, del Tannhäuser.
«Dietro quel sipario» dice Klaus «l’orchestra dell’Opera, fatta venir su apposta, eseguiva l’Ouverture, mentre il Re navigava sull’acqua azzurra illuminata, solo o tutt’al più con Joseph Kainz. Erano spettacoli di mezzanotte, prima lui pranzava in compagnia dei busti di Louis XVI e di Marie Antoinette. Diceva che erano commensali in confidenza, oltre che cugini: andavano e venivano a comando».
«E Kainz?».
«Ungherese, piccolino, ma in seguito famoso attore: a Vienna c’è un premio teatrale alla sua memoria. Ma qui è durato poco. Ci pensava l’intendente Hornig a portar su i nuovi, tipo la Pompadour al Parc-aux-Cerfs. Una volta un soprano, che evidentemente non aveva capito niente, l’ha improvvisamente abbracciato durante una Morte d’Isotta. L’ha buttata in acqua, per poco non annega: però, mi pare, non da questa gondola come qualcuno dice. Dev’essere capitato nel grande giardino tropicale pensile giù in città, un’immensa serra sui tetti della Residenz, che adesso non c’è più».
L’aspetto più interessante è questa applicazione delle risorse tecniche al mondo dei sogni. In ogni castello, le cucine, gli ascensori, il riscaldamento, le suonerie, gli impianti idraulici, rappresentano tutto quello che si può immaginare di più moderno nel 1880, e tutti questi materiali per rifare il gotico o il rococò vengono dall’industria. La grotta è addirittura costruita su una struttura di cemento armato, poi ricoperta di scaglie d’antimonio per far finta-roccia. E di fianco, una centrale elettrica a 24 dinamo, una delle prime impiantate in Germania, per illuminare l’acqua e far funzionare la cascata. Al posto dei riflettori che proiettano oggi le luci cangianti attraverso gelatine di tutti i colori c’erano allora delle lampade ad arco; ma le lampadine sott’acqua sono rimaste le stesse.
Che meraviglia di funzionamenti ministeriali, però, con quei tecnici e burocrati dei lavori pubblici abituati a far le stazioni e le scuole e i ponti e che passano a eseguire le invenzioni degli scenografi dell’Opera, su planimetrie e alzati e spaccati precisissimi per ogni immagine dell’inconscio, con tutte le misure esatte. Progetti di bucintori veneziani, troni del pavone, sgabelli di corallo, savane pensili, pannelli di Trianon grandi e piccoli, portapomate di smalti e ceselli, vasi per aranciere, capanne del bandito, slitte inghirlandate e piumate e lampionate con globi di un azzurro talmente impossibile da condurre l’artefice al suicidio... E dietro, tutte le rubinetterie, le prese, i giunti, gli interruttori, i montacarichi, le cadute d’acqua; e tra piuma e piuma, cristallo e cristallo, mensola e pendola, agata e diaspro e occhio di tigre, m 14,95 x m 8,76, o cm 12,45 x cm 2,05... «Un buon soggetto per opera di Hindemith» dice pensosamente Klaus davanti a questi progetti esposti.
Fuori dai padiglioni moreschi e turcheschi, naturalmente, non palme o dune o cammelli ma cime nevose, abeti, genziane, cervi. Sul piazzale, dove Ludwig non ha fatto in tempo a costruire il Vesuvio che aveva in mente, completo di eruzione, lava, lapilli, e tutto – ma dove però la Cascata del Nettuno era già trasformabile in teatro di verzura per i balletti Amor und Psyche e Les plaisirs de l’île enchantée – ci avviciniamo alla macchina, è quasi buio. «... E qui,» riprende Klaus «di sera, con la neve, talvolta il Re saliva su una delle slitte di Stato, tutte d’oro con pennacchi di struzzi, e sei cavalli anche impennacchiati, bianchi, coi finimenti celesti, e i palafrenieri davanti, e le ondine dorate che reggevano i globi coi lumi, e una gran muta di cani dietro... e partiva... Perfetto Principe Azzurro... Molte slitte... Molte fiaccolate sulla neve... E andava a bussare alle capanne degli umili, svegliava i boscaioli addormentati... E loro gli facevano posto vicino al fuoco, gli offrivano un po’ di birra... Lui ricambiava con fiori di serra... Gigli, gardenie, a fasci... finché non lo riprendeva la frenesia...
«Ma più spesso era Hornig che gli portava i tipi al castello. Fra i contadini bavaresi, ogni tanto, si stacca un tipo biondo di bellezza molto romantica... come se fossero arrivati fin qui gli svedesi di Gustavo Adolfo che hanno schiarito i tedeschi... Larghi, semplici, ingenui, molto attraenti e molto desiderosi di piacere. Anche oggi. L’hanno sempre adorato, il loro sovrano. E lui, generosissimo. Le finanze dello Stato sono andate in rovina e lui aveva sempre bisogno di soldi dall’estero anche perché ogni volta che faceva quattro salti con un romantico montanaro gli regalava subito una terra e una casa. Anche così se ne stava andando il patrimonio della Corona, e Bismarck ne ha approfittato, e il consiglio dei ministri l’ha fatto deporre per dar la reggenza all’ambizioso zio Luitpold... Tutte le case che regalava agli allegri contadini erano dello stesso modello: come quelle dell’Ente Maremma a nord di Roma. Le riconosci subito, ben tenute, con i gerani davanti... E ogni volta che passi davanti a una, su queste strade, pensa pure che lì c’è stato un nonno molto simpatico che faceva des choses col Re...».
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Il tè lo andiamo a prendere a Garmisch. È completamente buio adesso. Non si vede niente lungo la strada, solo i mucchi di neve ai margini. Il paese è pieno di luci rosa e arancione alle finestre, e prendiamo parecchi dolci squisiti e gonfi in un grande tea-room civilissimo pieno di gente. Anche il cane Wolf può venir dentro con noi a mangiare.
Che nevicata, che pace e silenzio, nella terra di Strauss. «Sai che alla fine della guerra, quando gli hanno requisito la villa qui, un ufficiale americano vede questo ottantenne fra le casse e i bagagli già portati fuori in giardino, col camion pronto. E gli chiede chi è. “Doktor Strauss”. “L’autore del Rosenkavalier?”. “Eh, sì”. “Indietro tutti i bagagli! La villa non si requisisce più!”». Interni molto riscaldati, laghi ghiacciati, strade bianche, alpi anche più bianche, loden, slitte, sonagli, il lupo che spazza la neve dai vetri coi suoi guantoni...
«... Eppure Capriccio è “Las Meninas” della musica... E non solo perché Strauss quando butta via i gioielli falsi di Gustave Moreau non è più Rubens ma diventa un Morandi, in tutte le ultime opere... ton-sur-ton... Ma proprio come riflessione autobiografica sulla carriera, oltre che sul mestiere... Molto mentale; e realizzata con arte superba, mettendoci le mitologie e le teorizzazioni, o teologie, dell’arte stessa nell’atto di rappresentarsi, come il romanzo del o sul romanzo... E le citazioni necessarie per farsi capire; storiche, tecniche... Le abbreviazioni dei processi psicologici per gli intenditori... In una struttura a prospettive multifocali come appunto un romanzo, oltre che “Las Meninas”... con i soggetti, i modelli, le opere, gli specchi, l’autoritratto, il rovescio del quadro, il pubblico...
«... C’è nel cuore dell’opera la spropositata perorazione di un vecchio teatrante che crede ancora al suo mestiere: custode della tradizione e innovatore, tragico e comico, innamorato degli effetti e pompier... un Max Reinhardt... e intanto alle prese con gli stessi sarcasmi mondani della corte di Teseo sulla recita degli artigiani nel Sogno d’una notte di mezza estate... ma innamorato dell’artigianato delle meraviglie e dei portenti, dunque sdegnato dai rinfacci contro le magìe delle macchine... Fatuità, o apoteosi?... Ma nell’esaltazione dell’Immaginario registico viene visitato da un’allucinazione che lo conforta: vengono a trovarlo proprio i “suoi” eroi piumati e scarlatti... perché anche in una dimensione cameristica un po’ ratatinée, oltre che squisita, quando mai tutto – o niente – nel mondo o nel désarroi è abbastanza burla?...».
Lo abbraccerei. Un cordiale applauso?
«E adesso non posso proprio fare a meno di raccontarti la storia di Charlotte-Aglaé» gli faccio, m’è venuta una improvvisa botta di gratitudine.
Il cane, che è convinto d’essere un ragazzo, tenta di sedersi su una sedia per ascoltare anche lui.
Ministoria di Charlotte-Aglaé
«Charlotte-Aglaé, demoiselle de Valois, era figlia del Reggente, Philippe d’Orléans, quindi nipote di Monsieur fratello di Louis XIV e della sublime Princesse Palatine. Bella e grassa, informa il solito Saint-Simon; ma anche ingorda e sfrenata come il suo papà, di cui il meno che scrivesse la Palatina a sua zia Sophie era: il ne se ménage nullement. E perciò era difficilissimo combinarle un matrimonio. Il primo progettato dalla mamma, Mlle de Blois, quando lei aveva tredici anni, col futuro prince de Conti, va male per una cabala dell’altra Palatina di Baviera, detta Madame la Princesse, che vuol fargli sposare sua nipote Mlle de Bourbon, e ci riesce mettendo molto in mezzo Louis XIV stesso. Va poi male un fidanzamento col comte de Charolais, per un dissapore fra il padre di Charlotte-Aglaé e il fratello maggiore del ragazzo, Monsieur le Duc, altro nipote dell’altra Palatina: questi sono tutti Bourbon-Condé.
«Addirittura malissimo va un tentativo col principe di Piemonte, il futuro Carlo Emanuele III, molto caldeggiato da Saint-Simon per tener tranquillo Vittorio Amedeo II durante lo scambio fra Sicilia e Sardegna dopo la pace di Utrecht. Qui addirittura la nonna Palatina scrive alla figliastra Anne-Marie d’Orléans, madre di Carlo Emanuele, per sconsigliarle Charlotte-Aglaé come nuora. Non la voleva più in casa neanche sua madre, che era una bastarda légitimée de France (in quanto figlia di Louis XIV e della Montespan), e che pure era mitissima con le altre cinque figlie, e malgrado i buoni uffici della sua dama preferita Louise Adelaïde Sforza. Se ne preoccupa perfino Saint-Simon, che di solito la trascura e la evita: però quando la duchessa di Berry che è la sorella maggiore dà in onore dei duchi di Lorena in visita a Parigi “la plus splendide et plus complète fête qu’il fût possible en toute espèce de magnificence et de goût”, tutti arrivano puntuali al souper preceduto da una musica e seguito da un ballo in maschera, tranne Charlotte-Aglaé che si presenta solo al ballo, e “je n’en ai point su ni déviné la raison”. Neanche lui!
«Allora suo padre, il Reggente, che non la può soffrire, la sposa di prepotenza al principe più povero d’Europa, il più lontano da un trono importante: Francesco III duca di Modena, figlio dell’ex-cardinale Rinaldo d’Este e di una Charlotte-Felicitas di Brünswick-Hannover. Nessuno della Corte è presente al matrimonio per procura, tutti sanno che “M. le duc d’Orléans avoit ses raisons de se soucier peu de Mlle de Valois, et beaucoup de s’en defaire”, e “se hâtoit de se defaire de cette princesse et avec si peu de choix”. Diceva proprio: “tout est bon, pourvu que je m’en defasse”. Saint-Simon prende qualche informazione su questi Modena, e risulta solo che “la bâtardise de ces derniers Este ne peut être plus clairement ni plus évidemment prouvée”, e che “le père étoit connu pour être d’une humeur fort difficile, comme il le leur montra bien tant qu’il vécut”.
«Louis XV regala a Charlotte-Aglaé una bella collana di perle e diamanti, le dà la mano, l’accompagna con quattro dame a una carrozza già pronta, e secondo l’uso ordina al cocchiere: “a Modena”. La carrozza fa il giro del Palais Royal, e rientra per lo stesso cancello poco dopo, perché nel frattempo a Charlotte-Aglaé è scoppiata la varicella. Sta tappata alcuni mesi, e la vecchia Margherita di Toscana, figlia di Gaston d’Orléans e mamma di Gian Gastone de’ Medici, le dice sempre: “fa’ come me, un figlio o due al massimo, e poi indietro a Parigi per sempre”. Ma da Modena si lamentano. Allora è suo padre a rimettere Charlotte-Aglaé in carrozza, e la spedisce a imbarcarsi a Antibes, e Saint-Simon non si domanda perché diavolo per andare da Parigi a Modena si debba passare per Antibes e non per Marsiglia come una Medici.
«Infatti il viaggio Antibes-Modena dura parecchi anni. Charlotte-Aglaé fa di tutto per non arrivare, e gira preferibilmente su Roma, dove nessuno la vuol frequentare per questa sua famosa golosità. Pare che vada d’accordo solo col Cardinale Albani: altro grande ingordo? E fanno dei pranzetti che devono esser gli stessi celebrati da Sade in Juliette, del resto specificando bene: Villa Albani, ultimo piano, dentro una gran rete o zanzariera, e con giovanotti di Trastevere abbigliati da statue in fogge già neoclassiche. Quindi con anticipi notevolissimi nella storia del Gusto: guardando le date, Winckelmann non era un bambino? Finalmente Charlotte-Aglaé arriva a Modena.
«Lì trova gli Este alla fame. Non hanno neanche i soldi per finire le aquile sulla facciata della reggia. Basta guardarle, anche adesso: metà di stucco, e metà dipinte dagli imbianchini. E questo significa proprio: non ci sono i soldi per l’altro stucco adesso, e chissà mai quando ci saranno. Si nutrono, infatti, di castagnaccio, e fanno la famosa vendita dei cento quadri migliori ad Augusto III di Sassonia. Le ristrettezze, le vedi anche nei Calendari di Corte in quegli anni, che si trovano dai librai antiquari e riportano l’intero organico del palazzo: quattro o cinque cuochi e una decina di giardinieri in tutto, benché con nomi deliziosi: Araldi, Carnevali, Confetti, Boschetti, Muratori, Tiraboschi, Selvatici; e i confessori Gigli, Volpi, Agnelli...
«Lei però riesce a farsi una reggina tutta sua in campagna, portando via ai suoceri il mobilio più bello. Ma appena accroché l’ultimo San Pellegrino rifiutato da Dresda, invece di fare dei festeggiamenti emiliani, un po’ allegri, passa di colpo alla vita devota. Definitivamente e sul serio: tanto vero che muore in odore di santità, e il giorno dopo incomincia a fare i miracoli. Sarà, o non sarà un placebo? Intanto la gente risanata si alza dal letto!».
Tutti si rallegrarono a tale racconto del saggio vegliardo, tanto che egli passò immediatamente a narrare la storia successiva (ma in un ordine cronologico verrebbe prima). Non senza aver precisato che il vedovo di Charlotte-Aglaé subito si risposò con una Castelbarco. E basta con Parma, con tutte quelle Marie Luise!
Microstoria di Maria-Beatrice-Eleonora
«Mary of Modena, cioè Maria-Beatrice-Eleonora d’Este, figlia di Alfonso IV (fondatore della Galleria spogliata dal nipote) e di una Martinozzi nipote del cardinal Mazzarino, sposò nel 1673 Giacomo II, l’ultimo re cattolico e Stuart d’Inghilterra, dopo avere urlato giorni e notti fra le braccia della sua amica Vittoria Montecuccoli, perché non lo voleva. Poi invece lo amò moltissimo, benché fosse freddo e sciocco; e amò anche di più il figlio Giacomo, il Pretendente, benché fosse ancora più sciocco e più freddo. Adoravano le pie pratiche. Passavano le giornate in ginocchio, in oratorii improvvisati, implorando dal Cielo la distruzione dei Protestanti. Peccato per Shakespeare, che non arrivò a fare un dramma storico ove la suocera di un King James si chiama la Signora Martinozzi.
«Finirono cacciati a furor di popolo davanti a Guglielmo d’Orange, orgogliosi di perdere in un colpo tre regni (Inghilterra, Scozia e Irlanda) pur di salvare la Fede. Il duca di Lauzun li trasportò in Francia, Luigi XIV li accolse con calore, Giacomo II morì a St-Germain, il Reggente si alleò a Giorgio I, e Maria visse moltissimi anni in un convento a Chaillot perché il Reggente e Luigi XV erano tirchi e distratti nei sussidi agli esuli. Né Saint-Simon, che fa sempre dei conti in tasca sull’enormità delle doti alle nipoti di Mazzarino, si domanda dove sono finiti i soldi.
«Trent’anni di confessioni coi gesuiti, di acque a Plombières, di trame coi legittimisti contro la Regina Anna, figliastra di successo. (Chissà quando arrivavano le spie: ha cambiato i whigs coi tories! fa innovazioni nel design! ha dato il nome a uno stile! va di moda l’argenteria ugonotta! le zampe a capriolo dei tavolini sono state battezzate “gambe Queen Anne”!...). Un po’ di vaiolo dei figli; qualche caffellatte con la Maintenon; il matrimonio di Giacomo junior con una Sobieska nipote di tutte le più importanti Palatine, compresa la madre di Elisabetta Farnese regina di Spagna... Una volta perfino una visita di Pietro il Grande. E continui disturbi per una ghiandola al seno che faceva sempre temere il peggio, che però non veniva mai, e di cui “elle guérit à la longue par un régime très sévère”. Nel maggio 1718 i medici la condannarono, ed ella ne fu contenta: dal 1688 non v’era stato più nulla che la potesse tenere attaccata alla vita!».
«E quell’Antonio cosa fa, ti muore sempre dietro in quel suo modo assurdo?» chiede Klaus.
«Ma no, che non mi muore». Bisogna che glielo ripeta? «Guarda che ne conosce tanti».
«E allora» mi fa lui «perché non fa altro che parlarmi di come sei e cosa fai, quando siamo insieme? In macchina, per lunghi tragitti. E mi sembra che ne parli con tutti, e anche male. Ma continuamente, sai? Anche un po’ maniaco, scusa: ti conoscevo a memoria prima di vederti quest’estate».
«È tutta una sua drammaturgia: questo qui è solitario e cool e vuol stare solo in due, sennò dice “vado a dormire”... Quello là è estroverso e attacca con tutti, e poi vuole regolare anche le luci... Quest’altro fa soprattutto head-games, e se si viene al dunque si tira indietro... Questo avrebbe delle occasioni fantastiche, lo so anche troppo perché vengono qui per farmi intercedere, ma lui non tollera una convivenza con qualcuno sempre innamorato lì addosso... E lui non è certo fedele dal momento che va ogni sera con tutti, però è leale perché dopo torna sempre qui anche perché non gli piace star solo... Ha bisogno di far teatrino, dopo qualche ora in casa, con un po’ di parti da distribuire: questo urta tutti i mobili e fa “ahi” a bassa voce... Guarda che non è affatto contento d’averlo molto grosso, perché si secca quando gli vanno insieme solo per quello... Quel tuo amico è pazzo, fa discorsi strani, fa degli occhi da matto... A me lo dicevano sempre: fa’ gli occhi da matto! Li facevo subito... Ma cos’ha poi da raccontar tanto?».
«Anche tanti petits riens, trifles. Ti vuole (come dire? si può dire?) bene. Ognuno di noi ha bisogno di riferimenti qua e là, no?».
«Seguite quella macchina!».
«Il gatto lo sa, ma no’l dirà. Mai te’l dirà: ha capito che non si fa, guai se si fa...».
«Tough baby? Il bagno col bambino dentro? Service compris, o non compris?».
«E allora, chi amerebbe secondo te, bugiardo?».
«Souvenirs d’égotisme, e Promenades dans Rome... Aiuola spartitraffico. La sfera della produzione... Vuoto a rendere».
«Ma non ti accorgi come ti guarda?».
«Mi guarda come? Come una meraviglia?».
«Beh, si vede. Si nota».
«Oh, senti! Tutti li guarda, gli armadi come me. Ma è un genere che cresce, in Europa. La gente mangia più di prima».
«E perché li guarda, quelli come te? e non i comodini o gli sgabelli? Non te lo sei mai chiesto?».
«Ma questa è una ricerca post-laurea, un’analisi di mercato, cosa ne so... Lui poi del resto lo sa benissimo, il giorno che m’accorgo che qualcuno frana nel Tendre, finché non si redime non mi vede più. I sentimenti della Rinascente in confezione per famiglie!... O in forniture per ufficio... Prova, a fare una serenata agli zombies: scappano subito, con le loro ciabattone di Hong Kong».
«Ah, ecco. Sì, proprio. Ma intanto non hai mai veramente capito che da quando ti conosce e tu gli fai fare queste cose che dici, anche lui non è più stato capace di voler bene a nessuno, a niente... E la sterilità sul piano dei sentimenti blocca in tutto, perché si riflette su tutto quello che uno fa... Rovinate tutto, voi. È così chiaro!».
Adesso mi fa venire i complessi. Santa Lucia delle Rovinate.
«Va bene, va bene» mi fa bruscamente. «Le slitte, te le faccio vedere domani».
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In mattinata prima forse non viene, e poi viene, ma ho i minuti contati anch’io prima dell’aereo: rapida corsa a Nymphenburg, però potevo anche andarci da solo con un taxi. Le slitte son lì, nel Marstallmuseum, insieme a tutte le carrozze dei Wittelsbach. Due lunghissime scuderie, piene. Mai buttato via niente.
L’emozione riprende Klaus appena entriamo, e allora forse avevo torto a preoccuparmi di fargli perder tempo in giro: ci viene per sé e non per me? O forse ha bisogno di aver qualcuno insieme, per poter parlare. Eccitato così non l’ho mai visto, dritto, con gesti larghi, parla con un tale trasporto; e sembra che si identifichi col signore delle slitte. O forse è innamorato delle slitte medesime, come certi delle Ferrari e delle barche; e mai lo ammetterà.
Sono lì in fila, dorate, deliranti, nuovissime! in forma di cocchi di Diana, d’Apollo, magari di un Ercole che non va più a piedi; tortili come appliques Louis XV, con dragoni e con ninfe e con angeli che terminano in trombette, lampioncini, ciuffi e ciaffi, riccioli e boccoli di piume, festoni e addobbi di tigre e leopardo come in una giostra surreale. Ma una piccolina è piuttosto una carriola da limonaia chic, con tre rotelline e anche una cupoletta turchese. Del 1775: era per i bambini infatti. «Alla bella Despinetta, vi presento, amici miei» fa Klaus.
Ma anche bella vita militar! I cocchi degli antenati, costruiti a Parigi verso il 1750 e tutti d’oro, non sono poi tanto meno visionari di quelli di Ludwig: quello di Karl Albrecht (guerra di successione austriaca) ha tre vittorie alate che suonano la tromba sotto una corona elettorale sul tetto. Altre vittorie agitano rami d’olivo, davanti e dietro, e gli sportelli sono dipinti a epopee borboniche, forse per l’alleanza bavarese con la Francia contro gli Asburgo, più che per estetismo.
«Se il romantico si distingue dai suoi predecessori» dice Klaus, accarezzando i legni dorati, dall’una all’altra «... e se è il vero iniziatore dell’estetica moderna... è proprio per l’alta coscienza che ha sempre delle proprie radici affondate nelle tenebre interiori del reliquiario mitico... L’artista romantico è uno che sa di non essere il solo autore visibile di un’opera consegnata al mondo della vita ordinaria... Sa bene che ogni visione poetica è prima di tutto un canto casuale affiorato da un abisso di metamorfosi inconoscibili... la sabbia delle notti, la magìa delle macchine, la musica dell’acqua, gli automatismi immanenti, l’insoddisfazione sistematica del Wanderer... Però è il primo a cercare deliberatamente, lucidamente... a sollecitare l’emersione delle voci misteriose del gouffre... secondo combinazioni trascendenti che non sempre seguono le stesse leggi dell’ordine estetico... E le sue fonti o i suoi mezzi non saranno troppo diversi da quelli prescritti in tutti i tempi per l’atto della creazione artistica... La vera differenza sarà nell’atteggiamento non più égaré di fronte alle forze della profondità spirituale... davanti alle immagini che più si staccano dalla realtà formalizzata... Diglielo, se ti ricordi, al tuo amico Antonio...».
Col resto, si fa in fretta. Ad Amalienburg, guardando gli stucchi argentati sullo sfondo celeste freddo e giallo-limone delle pareti si capisce subito come il rococò senza galanteria sentimentale sia arrivato alla perfezione proprio qui. Ma Ludwig ha preferito quello finto del suo Louis XV rifatto in odor di Coty.
E una rovina artificiale, chiusa il lunedì. Ma stupenda, balorda: una finta abbazia romanica franante, costruita alla fine del Settecento poco prima dei restauri romantici alle rovine gotiche vere. Fuori, crepe false e mattoni diroccati. Però dentro getta la maschera, e si vede dalla finestra: un’altra finta grotta, di rocailles, con un paio di Maddalene molto pentite, tra ninfee e fior di loto fatti con le conchigliette sui muri, e un gran umido dappertutto. Ma prima dell’aereo abbiamo ancora un’ora, e Klaus mi fa fare un salto alla Residenz, benché lì di Ludwig dopo i bombardamenti non resti più niente. Però è socchiuso il sublime teatrino di Cuvilliés, appena dentro, perché gli inservienti stanno portando via le vetrate e gli specchi di un Capriccio di Strauss: lo vedo sulla locandina.
Lo conoscono, quindi si può salire sul palcoscenico. Respira forte, e lo vedo allargare le braccia, come fa continuamente in questi giorni, davanti ai drappi di papier-mâché scarlatto che simula un velluto un po’ liso astutamente buttato sulle spallette dei palchi. Sembra perfino più alto. «Non ti emoziona questa caverna magica? Non senti delle collisioni di idee, delle provocazioni portatrici di forze? Traiettorie di sogni inattuali che ti aggrediscono?»... Si guarda intorno, fra un sofà e un clavicembalo che stanno portando fuori. «L’unica vita vera e reale, qui sopra, la sola che varrà ogni pena... Il Direttore del Teatro in Capriccio non è più l’ingenuo e modesto Compositore dell’Arianna a Nasso... Conosce le maschere e le facce, le eterne leggi e le parodie, i sacerdoti e gli esteti, i talenti e le carriere... la grande visionarietà e la grande leggerezza... perché l’amico della musa gaia può risultare il miglior fautore e mentore della musa più seria... Grande ovazione, qui!... E conta molto meno, il resto, qui fuori... proprio niente, niente... Mentre qui sopra puoi far tutto... tutto... proprio tutto quello che vuoi: niente è impossibile...». Poi, è vero, s’accorge subito di esagerare, e fa per abbracciarmi, ridendo, dobbiamo anche spostarci perché devono fare uscire una grossa arpa, ma quello che è detto è detto.
Ci accorgiamo che è tardi, si va via subito. All’aeroporto prima che passi il controllo di polizia mi fa ancora «soffocato dalle tuberose... perché?». E scoppia a ridere, non c’è neanche tempo di dirgli fra i doganieri che fu una tartaruga di D’Annunzio a far quella fine; e mi dice di abbracciargli Antonio, e di volergli un po’ di bene. «A te o a Antonio?» gli chiedo. «A tutt’e due... E anche a qualcun altro, se ti càpita... se ci riesci...». Quello che m’ha impressionato di più (e glielo dico, a Antonio), è che veramente ha sempre parlato della musica e della poesia come di energie corporee, o addirittura della forza virile, che per motivi fisiologici a un certo punto si sperpera o si perde, quantitativamente, per sempre. O anche per un qualunque accidente, ancora in età giovane. E allora bisogna pensare ai rimedi in tempo.