IN VILLA
Bustini viene su a colazione il giorno dopo, con tre signore milanesi appena arrivate e uguali fra loro. C’è un po’ di nebbia fuori, e una zuppina di tartaruga deliziosissima, con panna, uovo, sherry, e curry, cioè proprio la classica Lady Curzon di Amburgo, molto amica della gelée di frutta nel bicchiere a flûte col chicco d’uva sospeso nella trasparenza. La madre di Renato si è ripresa e sta fin troppo bene. Si è alzata prestissimo, e ha fatto una passeggiata nella rugiada. Lui, che poi ieri s’era fermato ancora a mangiare da Alberico senza dirlo, le sta sempre intorno con tutta una loro pavana di «mammina!», bacini, e qualche volta «mamà».
Pulite, incuriosite, vigili, le quattro ricche entrano insieme tenendosi vicine specialmente sui gradini con una lieve aria di sospetto. «Traballano le piastrelle anche lì?». Si guardano intorno come per difendersi, non dimenticano per un attimo di trovarsi «in trasferta». Lo stress dell’installarsi le lascia, ma a stento: solo una è «a posto come albergo», vicino ai teatri, col suo letto «passabile» e il suo bagno, su cui «non c’è niente da dire». Delle altre, una sta sopra un’altura a sette chilometri, «ridente come visuale», però tremilacinquecento tourniquets «col cuore in gola anche col chiaro» ogni volta che vuol scendere in città. Cioè non meno di tre volte al giorno, a colazione, per i concerti nel pomeriggio, e poi la sera per gli spettacoli: tutto un mal di mare più che in barca, quindi. Per fortuna si è portata dietro le pillole di dramarin. E il doversi cambiare tre volte al giorno, poi.
E una è finita in casa d’una vecchia contessa «poco pulita» che le fa pagare ventimila lire al giorno nella camera dell’ambasciatore. «Amico del vecchio Cornaggia». Ma si trova alle prese con federe di pizzo che le stampano i monogrammi sulla guancia, con marmellatine «fetide» in tazzine «ciappellate», con una vasca da bagno immensa, sorretta da sei unicorni di ghisa in un corridoio scuro, e occorrono mai meno di sei ore per riempirla neanche a metà d’acqua appena appena tiepida.
Preoccupatissime per «il mangiare», quasi come per «lo stirare», si domandano ansiose in quali posti «avveleneranno meno», perché la sera prima sono state trattate «tremendamente», tutte, dove sono capitate. Pare che si sia rasentata la mancanza di rispetto. Con fare coraggioso, disinvoltissime, ciascuna si serve pochissimo ogni volta che il cameriere di Klaus ripassa col piatto, commettendo insistenze. Magre, vispe, nervose, non vedendo l’ora di andarsene, sgranocchiano tutt’al più il loro sedano, con un crostino secco. Sembra che la Gazzaniga perdendo il lume stia per lamentarsi della «sistemazione», perché sospira un «in questi posti si sa già che bisogna adattarsi», che benché signorile sentiamo in parecchi. Ma subito comincia la lamentela di Bustini, ed è una cosa impressionante: trema tutto, tossisce, i capelli si scuotono, la mano vacilla e gli cade il brodo sulla tovaglia, la cenere della sigaretta sul piatto e nel gilet. Saranno queste le volte quando la Trona gli dà le borsettate in testa, anche davanti a formaggiaie chic?
È un cavallone del Gondrand anacronistico e curvo, grosso di ossa e nodoso, con mani atroci; alto due metri, con braccia un po’ più lunghe del giusto, da zoo; e gambine magrissime, stecchite, dentro calzoni vecchi di gabardine “gialdolina”. Giacchettina appena comprata, invece, di un bellissimo misto-cashmere certamente inglese, tête-de-nègre. Non tanto pulito di pelle. Carnagione rossastra a rughe spugnose. Gran becco a puntini neri. Occhi vicini, interrogativi, acquosi, da parmigiano con la lacrima, con occhialini molto civettuoli a mezzaluna; cerchiati di nero, sottili; tutto un gran toglierli e rimetterli nel taschino col fazzolettino bianco di linon. Capelli lunghi, a ciocche bianche e nere e grigie molto scomposte; e quando va di là a bagnarli diventa identico a Cristina di Svezia. Anche per questi collettoni che sono “golettoni”: altissimi, larghissimi, molli, sporchi, con un vecchio cache-col tetro annodato lento da giorno, o sarà una cravatta larga e corta atteggiata a plastron da sera, con la sua perlina patetica che guai a perderla. Scarpe di pezza, tipo siamo a Capri o tipo mal di piedi. Un nervosismo che può mettere anche spavento.
«In mutande! In mutande! È un paese tutto di gente in mutande, non so proprio come fate a starci!» è la prima cosa che dice, gridando come in stazione, appena entra nella casa. È venuto su a piedi, e si è spaventato molto perché per poco non lo investono. Dei teppisti in curva. Così adesso ha in mente una cosa sola: sostiene, furiosamente indispettito, che questo è anche un paese dove non si può attraversare la strada. E giù cenere dentro la turtle soup. La inghiotte, però, mandando giù tutto senza accorgersene, anche cose nere. «Buonissima questa bisque, vero, contessa?» brontola sospettoso alla Gazzaniga, di cui ha paura. Lei ribatte pronta: «Un eccellente lunch». Vedo che Klaus sta soffrendo terribilmente.
Non ha torto, povero maestrino. Sto dalla sua parte. Prima gli impongono la presenza di questo vecchio cammello che lo imbarazza moltissimo, formale com’è lui, e sofferente per ogni indelicatezza specialmente italiana, perché già non si userebbe che prima dello spettacolo un autore dabbene intrattenga il critico-recensore, o gli faccia dei “grands frais” come (già si sussurra) “captatio benevolentiae”. E ospitarlo addirittura in casa... Ma quando l’ha fatto osservare alla Gazzaniga – perché lei glielo ha domandato subito, stamattina quando si sono alzati, in ore antelucane – lei gli ha grandiosamente risposto, pare: «Scioc-chez-ze!... quello è un uomo superiore a tutti noi!».
L’uomo superiore si rivela ingombrante, indisponente, capace di sgarbi meschini. Gli ospiti di riguardo, ai quali Klaus tiene moltissimo, fra oggi e domani arrivano tutti. E lui sta male, ha ragione.
La lamentela più spaventosa, finalmente, Bustini la fa coincidere con le profiteroles che nessuna delle facoltose assaggia, e lui neanche, mentre noi naturalmente sì. È giusto a proposito della stanza dove ha dormito, in un albergo tra la stazione e una chiesa mai in pace, così ha i rumori dei treni e quelli delle campane, che alle quattro della mattina già suonano. E non solo: muggiti d’animali per strada, galline ovunque, grida scostumate nei corridoi, certo stranieri che si comportano malissimo; e caldaie battute e ribattute con dei colpi d’Averno che si ripercuotono per le canne del riscaldamento; e pareti di mattoni forati che lasciano passare ogni suono, anche di sconvenienze senza limite (come quasi ogni cosa, oggi). E neanche un tavolo ove scrivere. Nessun altro albergo ha posti. Nessun mezzo, neanche, per poter scrivere la recensione e poter salire ai teatri da laggiù in fondo all’inferno contemporaneo.
È chiaro che fa apposta. «Ce marcia» fa il cameriere. «Fine del mito del Corriere?» si interessa Antonio, piegandosi in due come un questore su un feretro. Klaus non dice niente. Guarda avanti a sé, zitto. Che senso ha ormai la ghiottoneria che aveva preparato in fine di colazione per intenditori: ascoltare tre Klavierstücke di Schubert gustando i leggendari vini di Herr Andreas von Schubert prodotti al Maximin Grünhaus, sopra il Ruwer, nel 1959... Subito la Gazzaniga è lì pronta a chiedergli, brutalmente e davanti a tutti, se non avrebbe una stanza libera per il professore, con cesso indipendente.
Ma è pazza! Non lo sa, il rischio che corre, a trattarlo come un albergatore di Salisburgo? Questo è capace, veramente, speriamo, di buttarla giù per le scale a calci, non sarebbe neanche la prima volta... Le madame si riassettano, muovendo le labbra sugli specchietti delle borsette. Antonio fa un’uscita da Cechov all’ultimo stadio, a Mosca a Mosca con biglietto di sola andata. Anche rovesciando qualcosa.
Cosa dovrei fare? Senza rovesciar niente, come in un Pirandello televisivo, vado giù anch’io.