GIUGNO

«Antonio, ma tu ce l’hai o no una filosofia della vita?». Naturalmente glielo chiedo ridendo, come quando l’orrenda Trona chiede news sull’Alienazione a quelle sue dignitose figurette, gli osceni perritos.

«Sì... certo... per quanto... dev’essere stata una sottofilosofia inconscia, probabilmente... Un’etica proprio involontaria, tanto che mi sono trovato certe volte in grandi imbarazzi, volendo tirarla fuori... Il ricordo si dimentica di riflettere su se stesso!... Ho avuto dei giorni difficili, in casa mia...».

«E la pera? Sta bene, la pera?». Off via Giulia si fa un gran consumo di succhi di frutta, in casa. Oltre tutte le combinazioni pensabili al più fantasioso dei supermarket: dopo aver superato la cara fase-vodka con Bloody Mary e Screwdriver secondo le ore e le aure, e la dolce èra dello champagne nature con l’albicocca e l’arancia e la pesca, o il mandarino: come l’amata vodka, va così bene su tutto... Pesca-champagne è forse il désir, soave all’ombra dei materassi di glicini che tengono ancora fuori i calori di giugno, insieme al pera-champagne, e al mela-porto, più molle: un Giorgione dei drinks. Ma la folie che rinvia a St. Moritz e Gstaad è il pera-su-pera: alcool blanc di pera wilhelmina con succo fresco di pera; e si capisce che c’è pera e pera... La grappa viene in una bottiglia rotonda regalo di Desideria che contiene una enorme pera, vera, un perone; e nessuno qui riesce a capire come sono riusciti a far passare tutto quel perone dal collo, perché non hanno mai visto i frutteti francesi e svizzeri con le perine che maturano dentro le bottiglie come in una piccola serra.

Va sempre coperta con nuova grappa, la pera; e se ne tiene quindi sempre lì pronta un’altra bottiglia anche più ordinaria, perché se non la si ricopre la povera pera s’asciuga e muore. È morta infatti («morse!» dice lei) quella di Marina Grande, la donna senz’ombra dell’uomo senza qualità, altro nostro Sagittario con ascendente Caravaggio: tutta nera e grinzosa, in fondo alla sua caraffa col manico. Un tormentone! (O una metafora?). Come quando si sono rotti nella miglior valigetta rigida di Antonio i dischi a 78 della Madre Coraggio originale, Berliner Ensemble, in materiale dell’Est proprio pessimo. E non stanno affatto bene quelle di Marina Piccola, spirto gentil del poète quasi assassiné: due dentro una stessa bottiglia da aeroporto, però abbastanza misere, e hanno sofferto al caldo asciutto mentre lei passava un weekend intorno alla Corsica. «Amore, amore, le mie pere sono in fiore...». Però si riesce sempre a far credere a qualcuno che il fondo della bottiglia venga saldato dopo.

Naturalmente si possono provare anche il lampone-su-lampone e il prugna-su-prugna con tutti gli himbeer e gli slivovitz dei più misteriosi colli in Alto Adige. «Ma il grapefruit no, il grapefruit non si può! Il grapefruit non va bene su niente, se non sul rhum ideologico a Cuba! Ma Cuba no, per ora non si può!». Anche la menta col pernod, però, non stanno male insieme, in certi giorni: proprio la menta verde italiana, ancora più buona del peppermint francese, è una delizia anche nel lime juice con l’angostura, al posto del rhum. Ascoltando e ballando Kurt Weill, una Mahagonny storica, i Giardini pensili di Schönberg, il violino di Stravinskij, un clarinetto di Ravel, un sassofono di Debussy. E c’è una piccola setta, detta la setta Afdera: la setta dello Stinger, menta e cognac in parti uguali, come in un caro piano-bar in Fifty-Second... Trilla e tintinna il telefono: l’Italia del Satyricon è qui che chiama.

 

Allegri marchettoni, di tutte le armi. Continuano a chiamare, come se i call boys fossimo noi: sono Mantova! sono Ferrara! sono Caserta! sono Lecce! E ci fosse qui un estetista un po’ fine, potrebbe osservare: si tirano dietro tutti gli aloni dei Gonzaga, degli Estensi, dei Vanvitelli, del Barocco! Ma Antonio, fra tanti «no no» perché ripete che deve pur lavorare – dignitosa figuretta! – secondo gli umori sceglie a scatola chiusa, e davvero in queste cose non ha memoria, è capace di rifare gli stessi, scambiandoli per novità. Anche se ripete con me, come se ci fosse bisogno di convincermi, che devono essere grossi e orgogliosi, per niente remissivi, di quel genere fanfarone molto convinto di arrivar lui con le sue drittate da raccontare: e si fa di tutto per confermarli nell’illusione, a qualunque costo. Magari anche “grand e ciula”: purché non tipici pirloni milanesi rassegnati alla Manzoni con quell’ubbia delle classi basse imbranate e umili!

Totalmente incapace di ricordarseli poi: ma non uno; e loro non contenti, si sentono magari presi in giro quando vengono festeggiati come inediti; e preferirebbero venir celebrati per doti indimenticabili. «Quale Marco? Quale Augusto? Quello di Bari?» gli sento chiedere, in perfetta innocenza che mi fa ridere. E magari li aveva per le mani pochi giorni fa. «La memoria è strana!» sostiene. «Conosco delle dame che sanno centinaia di parentele complessissime e non riescono a ricordarsi un solo titolo di libro, dicono “ce l’ho qui sulla punta della lingua” anche se è La Romana di Moravia e hanno visto il film!».

Ma veramente non riesce a tenere in mente né un nome né una faccia, come se andasse con delle ombre. «E di chi è la colpa?» mi rinfaccerebbe Klaus. Se gli chiedo una cosa di ieri sera, probabilmente la ricorda ancora: ah sì, era quello con gli slip neri che si è tolto di bocca metà della sua gomma per darmela. (E magari è una storia della Spezia che gli ho raccontato io l’anno scorso). Ma se si tratta dell’altro ieri, già si sforza e non ci riesce: quanti erano? E non per far scena: è vero! E in fondo rincresce molto anche a lui, perché se mai arriva alla vecchiaia sarà inutile: neanche un buon ricordo. Come non aver vissuto. «Acque del Lete on the rocks»: il contrario di Proust.

«Chi erano? Com’erano?» continua a chiedere. Come quelli che non ricordano i film: «Un buon lavoro, mi è piaciuto», e basta. E lì sono io che devo ricordare per lui – archivio orale! – dal momento che la memoria da elefante è straordinaria anche dopo anni e anni, anche se non ho visto e sono storie che m’ha raccontato e dimenticato.

 

A me, poi, piace stare insieme sia prima che dopo, farli mangiare, farli parlare, tirar fuori le loro storie, non guardar l’ora. Avrei dovuto far l’ufficiale (ma prendere la cittadinanza italiana!), e cambiar tanti attendenti. Poi, subito sul lastrico, perché gli pagherei di tutto di tasca mia. E loro lo sentono: con me, si affezionano, quando gli faccio capire che li trovo importantissimi e mi batto per il loro benessere. Con i camerieri non abbastanza pronti, con i menu dove fanno fatica a capire il meglio, con il vino che dev’essere sempre il più noto da raccontare in caserma, contro i tavoli vicini poco simpatici che li fanno diventare ombrosi attraverso la pelle... Mentre questo qui, oltre a non ricordare, forse proprio non vede, non nota: come se fossero salviettoni o plaid. Quanti, però, qui, si illudono d’essere in contatto con la classe proletaria e molto al corrente delle sue maniere di parlare e di vivere. Ma in realtà con loro non è che parlino davvero, anche se non tacciono un attimo.

Secondo me, li spaventa. Con me, sono animatissimi: parlano di tutto. Con lui diventano nervosi: uno che non conosce né i loro cantanti né i loro giocatori preferiti! Come si fa a non sapere la Pantera di Goro né l’Aquila di Ligonchio!... Ecco la prova migliore che non sta in piedi la tesi per cui comunicando coi linguaggi del corpo si saprebbero sempre gli umori e i pregiudizi popolari e le mode predilette dalle masse in ogni momento; e si saprebbero comunque meglio di chi ama il proletario anche in divisa per ideologia o preconcetto, però – mai mangiata neppure una pizza in compagnia di subordinati sentendo un “Sapore di mare” sulla radiolina. E addirittura, ignorando la Tigre di Cremona!

 

Se non sono loro, è qualcuno dei suoi amici, e si fanno dei quiz musicali al telefono. La loro smania di questi giorni. Mai sentire un disco per più di mezzo minuto: a pochi solchi per volta. Sempre lì con la puntina avanti e indietro, manualmente, come un aratro, per cascar giusto su una frase, una battuta o due: e rovinandoli, si capisce.

Sta girando una quantità di Stravinskij. Va specialmente quello splendidissimo Concerto per violino, ma nessuno riesce a indovinarlo perché non lo si esegue mai, difficile com’è: così tzigano e baraccone-virtuosistico («ma cosa sono? pungenti eccessi di quarta corda?»), lo pigliano tutti semmai per un pezzo del Diavolo dalla Histoire du Soldat... Si dicono «è un Cimarosa!» o «è un Bartók!» ghiottamente, come rivalutando autori e periodi interi... «Macché Estasi, macché Estasi! è sull’altra faccia, Skrjabin! Questa è Tamara! La Tamara di Balakirev!»... «Se così dolce è il duolo?... Itene, o miei sospiri?... O dolce mio martire?... Voi volete ch’io mora?... Si faceva castigare dai paggi!... e pagando probabilmente meno di noi! State ascoltando Gesualdo da Venosa!... Già piansi nel dolore!... O dolorosa gioia!... Gioite voi nel canto!... Altro che “Ragazzo triste come me”...

«E certo, è quello che ha ammazzato la moglie! Una d’Avalos, mica cose da poco! Storia patria, vi dice niente una sconfitta o vittoria a Pavia?... Ma non era la principessa di Venosa, andiamo! La principessa di Venosa, secondo l’Imaginifico, era la più bella donna della Roma bizantina: ma ci sono in mezzo tre secoli, vero... E comunque era una Boncompagni Ludovisi: Teresa, detta Formosa, nata Marescotti, di Bologna, ci sono le fotografie, oggi la si direbbe potelée...

«Coi titoli nel Deep South d’Italia non si può mai star tranquilli... tanto vero che i principi di Molfetta sono i Gallarati Scotti, di Milano, Montenapoleone... Ma in Proust non ci sono, inutile far le ricerche incrociate, mentre in Saint-Simon Molfetta è uno Spinola... E questa musichetta da film anni Trenta, soprattutto, che nessuno si permetta di chiamarla mai una musichetta da film anni Trenta... È la rarissima “prima” del Capriccio di Strauss nell’ottobre del ’42, con Viorica Ursuleac... nata nella stessa cittadina in Bucovina di Grischa von Rezzori e Paul Celan e Roman Vlad!... E siccome i grandi bombardamenti si facevano di notte, allora le prime si tenevano di pomeriggio, e c’è questa storia del pranzo dopo Capriccio dove la famosa moglie di Strauss, anzi famosissima come signora invadente in tutte le biografie, si trova seduta a tavola vicino al Landgravio padre di un nostro giovin signore amabilissimo, e lei gli chiede dove abita. Lui nomina la città. E lei: ma dove sta? Lui dà l’indirizzo: la reggia. E la signora: ah, ma allora è Lei quel Landgravio dove mio marito dice che si mangia così bene!».

 

«Siamo sul concerto grosso, eh, oggi?» li sento che si gridano. «Direi una matinée per le famiglie: il padre di Mozart, il fratello di Haydn, quel figlio di Bach detto “Milanese” nell’eterna polemica se viene prima Cotoletta o Wienerschnitzel...». Salta in piedi, ogni pochi minuti, e se non chiama qualcuno chiama lui, e accosta la cornetta all’altoparlante: «E quest’arpa, cos’è? con flauto e clarinetto... senza viola né violoncello... Sarà più Freud o sarà più Chanel?»... E dall’altra parte, come delle urla: «La celesta no! La celesta oggi no!».

Non c’è pace. «Sembra Chopin, scimmiotto, ma è Mozart senza tanto pedale, pulito, giusto, da Gieseking!... Pare Ivor Novello, che Claudia Patrizi ha visto e sentito a Londra, dice ch’era fantastico... E invece è il Candide di Bernstein, che fra un momento ridiventa smaccatamente Rake’s Progress... No, che non è Wagner! È il maestro Verdi! Un’alba poco frequentata del Boccanegra! Adesso attacca lei e si capisce tutto!... E questa vendemmia così padana? o forse anche spannocchiatura, su aie? Il Requiem di Cherubini!»... E rimanendo malissimo se chiedono: ma quale? ce n’è più d’uno!

Dormono le cupole e dormono anche le casupole, nella greve controra di Via Giulia. Ma qui dentro... «Povero Mahler! Gli è andata male, come prevedere che su questo Klagende Lied avrebbero rifatto le varie sigle musicali tipo “Artisti Associati” o “Generalcine presenta...”, e via coi misteri della giungla e gli attacchi delle seduttrici o dei sommergibili...». Oppure: «Naturale, che è russo! Essendo Chaliapin... E certo che canta in francese: senti che roba fa con le “e” mute finali... Però è roba spagnola! E qui veniamo al dunque!... No, che non è Ravel, sarebbe troppo facile!... E si capisce che adesso viene fuori una Dulcinée, trattandosi di un Don Chisciotte: sono le canzoni di Jacques Ibert per il film di Pabst, in edizione Electrola rara, “Unvergänglich Unvergessen”, che si trova solo naturalmente a Berlino... Però, è vero, forse è praticamente lo stesso Georges Auric autore di “Oh mio bel Moulin Rouge” che piace tanto alla tua sora Cecia, da quell’indimenticabile film dove c’erano tutti: Toulouse-Lautréamont, Zsa Zsa Gauguin, Van Gabor... Ma non andrebbero trascurate le musiche di Auric o Ibert o tutt’e due per quell’indimenticabile Rosa di sangue della nostra infanzia, con la sublime Viviane Romance: “beffardo il gaucho entrò, la bella egli acchiappò”... Quelle erano cose serie! Scalera Film!... E invece, qua, sta baracconata con samba che metto adesso è un’annosissima solfa, simpatica ma un po’ ordinaria: il Bœuf sur le toit di Milhaud, con un gaucho corazón alle maracas come alla Casina delle Rose... bambarabambarabamba... E dall’altra faccia, una Création du monde alla Vecchia Pineta...».

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Un pomeriggio chi telefona è la televisione. Rispondo io, e dicono proprio: «parla la televisione!». Una cosa da registrare, come sentir dire «parla la plastica! parla la Puglia!». Come rispondere? «Parla l’aspirapolvere! parla l’autostrada! parla il Canton Ticino!». «Diciamo semplicemente: risponde la Lombardia!».

Vorrebbero trasmettere un’opera di Gilbert & Sullivan ma non sanno niente dell’uno e nemmeno dell’altro. Non hanno neanche i dischi, però sanno che qui ci sono e anche i libretti, in casa. Gli domandano cosa si può fare, se si deve proprio fare, se può occuparsene lui... Ma qui si risponde sempre come quando le marchette sconosciute dicono «siamo amici»: si avrà mai tempo? si riuscirà a farsi venire la voglia? E nel caso degli accattonaggi Rai, quando il dottore del programma ci tiene tanto ma le esigenze del bilancio si sa... Arrampicarsi sui lampadari per farsi venir la voglia di andare “in” Rai?... Corridoi di funzionari travet che si fingono spregiudicati di sinistra... Idealisti o partigiani che fanno i servitori di Moro e Fanfani... Che scelte: due o tre ore fra impiegati e uffici, domani pomeriggio, o fra dischi e marchette qui in casa?... Mah. «Venite qui una sera, se proprio vi interessano: ce le sentiamo noi, se capite l’inglese. Sono deliziosissime, però non è possibile tradurre i testi, con quelle rime stupende ci sono troppi giochi verbali in ogni couplet; e se si perdono le ironie nella trama, è finita». O anche: «Qui non esiste il “take NO for an answer”. Non viene capito. Bisogna usare il vaffa “for an answer”. Allora si viene capiti: je vous ai compris».

Torna ad accucciarsi sotto il grammofono, anche troppo felice, per un momento, ogni volta che sente in una cosa delle somiglianze con altre. Prokofiev che in un certo punto dell’Aleksandr Nevskij saluta il Mahler dei Kindertotenlieder, Orff che mette un baritono di Bizet dentro la sua “taberna”, così in «Feror ego veluti / sine nauta navis» può venir fuori tutto un Lillas Pastia... Stravinskij che nella sola favolosa scena del bordello nel Rake’s Progress riunisce il terz’atto della Traviata e il secondo della Bohème, mattatori e Leporelli e Parpignol; e non contento, dopo avere inventato una frase sublime per l’entrata danzante delle donnacce, come supremo svolazzìo cita se stesso da Pétrouchka, e proprio là dove il Café Momus pareva appena arrivato dai Maestri Cantori... E nella scena dopo, la ragazza Anna vola dalla Carmen al Flauto magico in poche battute... Si eccita come un frenetico, tornandoci e ritornandoci sopra. Questa fantastica entrée delle Whores innanzi ai Roaring Boys, prima per tutti gli archi e poi ripetuta (mi pare) da flauto e corni, diventa quasi una “cifra” emblematica della maison, da attaccare a ballare vestiti o spogliandosi d’ogni vanitas non appena scatta, comunque in calzettoni di sport molto attivi, e sospensori che ne hanno viste d’ogni colore, contenti. Esco, rientro, vado a dormire, mi sveglio, torno lì; e lo trovo nella stessa posizione, coricato con gli occhi aperti e con su i calzettoni bianchi da tennis, nella penombra verde tipo acquario perché fuori da ogni finestra questi materassi spessi di glicini non lasciano passare la luce: a sentire per lo più Mahler e Stravinskij tutto il giorno, sempre senza scarpe... E l’unico movimento nella stanza e nella casa è il braccio automatico del giradischi, quando torna indietro col clic a riprendere sempre da capo lo stesso disco, perché la coscienza puritana tuttora inibisce di uscire spensieratamente a flâner nel pomeriggio, fin da quando le madri e le zie e le prozie e le nonne e le cugine e le serve invecchiate in casa ripetevano in coro che era una vergogna leggere “i romanzi” mentre quel poveruomo stava lavorando e sgobbando come nessun altro al mondo, invece di mandar tutte le befane a quel paese, e frequentare solo belle donne (che dànno, e non le brutte, che chiedono), come normalmente fanno – soprattutto a Roma – i froci.

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La sera, come i vampiri, fuori; ma tranne che per l’aria condizionata e i madrigali al telefono trovo che vivono davvero come nella Roma dei primi imperatori. Le somiglianze sono impressionanti, in Catullo, in Orazio, in Marziale, che sono qui tutti pieni di segnalibri nelle loro copertine rossoantico delle Belles Lettres; o in quella satira di Persio dove lui va a trovare l’amico letterato e lo vede ancora a letto alle undici di mattina, e siccome non ha voglia di incominciare «il suo libro» sta inventando ogni pretesto possibile: la carta che non va bene, la penna e l’inchiostro neanche, e cosa si mangia a colazione, e a che ora si va in piscina. È incredibile, ma un ragazzo studioso e serio come Persio si esprime tale e quale ogni nostra Ditona Vulvis-Clito quando prova a rifare i birignao e frou-frou dei suoi amici al bagno: appena fuori dall’acqua uno neanche fa in tempo a tirarsi un po’ giù il costume per prendere il sole, «e subito» dice Persio «c’è lì pronto un paraculo o uno sdato che strilla “ecco, adesso si usa farla vedere a cani e porci, quando si ha la vulva marcia”». Proprio, signora mia: «Hi mores, penemque arcanaque lumbi, runcantem populo marcentes pandere vulvas».

E del resto, i paraculetti del Satyricon... «Laudo Ganymedem, oportet hodie bene sit»... «Malo te quam balneum totum», altro che «non voglio le tue roselline, voglio te» al piccolo fioraio delle trattorie... E il «iuvenis nudus» con un «inguinum pondus tam grande» che «ipsum hominem laciniam fascini crederes»... Come a Castelfusano, davanti a tutti: «Illum autem frequentia ingens circumvenit cum plausu et admiratione timidissima», finché un «eques infamis» non se lo porta via «ut tam magna fortuna solus uteretur»... Come nei bagni di Amsterdam, ovviamente: «Come on, take it easy!»... «Du, geiles Stück!».

La smania dei bagni è sempre la medesima. Vanno negli stessi posti, alle stesse ore; passano la giornata negli stessi modi; i discorsi e gli interessi non sono cambiati: stessi inviti a pranzi e pranzetti «piccolissimi», stesse ore dal parrucchiere o al ristorante o nell’acqua; stessi dispetti; stessi bigliettini o telefonate «si quis delicias diceret aut faceret», mormorandosi «piccolo comitato» come in segreto. Stesse ostinate ricerche di libri o dischi abbastanza scemi da poter fare insieme un regalo e uno scherzo: mai un affetto senza il suo dileggio. La maldicenza letteraria, l’invettiva politica, il gossip di costume, la villania mondana, il sarcasmo su tutto. Un patrimonio di leggerezze: luoghi comuni e parodie e bons mots conservati non come un solaio di giocattoli ma pregevole mobilio di casa...

L’incantevole erudizione mitologica, anche applicata ai dettagli dei dipinti e degli arredi. I prestiti sbadati fra amici, e le spese pazzesche per l’abbigliamento, e gli schiavi contesi, gli schiavi che diventano vanesi e sbarazzini appena un padrone gli ha baciato un pochino il dietro, tanto per attenersi a una diffusa metafora; e «Ha chiamato per te Cinzia Zinna!» tanto per buttar giù un’atmosfera chic... E sempre questi continui doni tra delicatezza e sfrontatezza nella spola incessante fra Roma e la campagna e il mare, e le preoccupazioni per l’argenteria, per la servitù, i gemelli da polso, gli avvocati e le querele e il Cartier. Amori in tutte le direzioni – rosa dei venti! – e «le tre del pomeriggio, son l’ora del dileggio» per chi fa le sue sciocchezze male, e si è lasciato sfuggire frasi memorabili, perché anche qui e anche adesso ognuno viene a sapere tutto di tutti, dai «baci presi per forza» agli «inguina mille iam mortibus frigida»... «Morbosi pariter, gemelli utrique uno in lecticulo, erudituli ambo»... Bruciando e cuocendo nei medesimi fuocherelli, goffamente: stesse follies delle belle e dei belli, pronti sempre a buttarsi via per niente, e in fretta... Stesso orgoglio culturale ostinato fra le indulgenze per la dolce vita nella society, in questi cisalpini che vengono giù corredati di spleen come Catullo e Virgilio soprattutto per soffrire e ammalarsi e morir... Assai dolcemente, fra tolerance e intolerance che cambiano di segno come le gelosie... fra lealtà e smarrimento, turbolenza e nonchalance e affetto... E nei momenti di pena difficile non servono più le fughe al Nord: nell’attimo del dolòr uno stesso squallore improvviso dove li coglierà, un po’ sordido?... O addirittura una ventata di compassione stoica davanti alla tomba coperta di begonie di un amico morto giovane, come un giardinetto di stazione, ai bordi della Via Labicana.

 

Il clima mortifero della città non è mai cambiato; né i rumori che non lasciano dormire nelle stanze sulla strada; né le digestioni difficili dei contemporanei di Orazio. Le battone si appostano sempre dietro i sepolcri abbandonati; i grovigli notturni al Colosseo e fra i monumenti più illustri sono sempre molto cosmopoliti (basta guardare le targhe) e molto maschili, mostrando tutto, mani addosso senza star lì a chiedersi «where are you from?»; e i tirchi curiosi sfogliano in libreria i “vient-de-paraître” senza comprarli. Si alzano a mezzogiorno come hanno sempre fatto, anche se hanno meno di un decimo dei miei redditi e io a casa mia in Svizzera sono in piedi alle sette. Tutti sempre molto al corrente di chi scopa, e con chi, come lo fa, e cosa dice nell’atto; e chi fa le imitazioni; e «artibus honestibus nullus in Urbe locus, nulla emolumenta laborum» come sostiene Umbricio, l’amico seccato di Giovenale, quello che dice: «Quid Romae faciam? mentiri nescio; librum, si malum est, nequeo laudare et poscere; motus astrorum ignoro; ranarum viscera numquam inspexi»...

Ma del resto Giulia, quando suo padre Augusto la vede non giovanissima e sempre coi froci al circo dei gladiatori (non c’era ancora il Colosseo!), «haec iuventutis et quidem luxuriosae grege circumsedebatur», e le fa notare che invece Livia è lì «gravibus viris cingentibus», subito gli ribatte – «eleganter» – che «hi mecum senes fient»... «Stiamo invecchiando insieme»... (L’abbiamo trovato in Macrobio, insieme con l’altra storia d’Augusto che si fa venire il mercante a casa per comprare direttamente le stoffe; e sceglie per i manti sempre le meno care. E il mercante: ma i più pregiati, per un imperatore, sono i tessuti sottili da ammirare controluce. E lui: non posso camminar sempre sulle terrazze, per fare l’imperatore elegante...). Chissà se a Atene ci si sarebbe sentiti così at home.

«Una smisurata Roma da vaudeville melanconico e ironico e proliferante, proprio mai romantico o metafisico»... A tavola con Macrobio, di professione «penultimo autore pagano», si chiacchiera di tutto, allungando le tavole all’Osteria Letteraria: della canizie e della calvizie, di eclissi e resine, dell’apparato digerente e dei segni zodiacali, della lunghezza dei nasi e del sonno dei pesci come Plinio il Vecchio; e magari con saccenteria... Ma con questa passione smodata per l’aneddoto storico e la conversazione letteraria i protagonisti del banchetto di citazioni sono appunto Augusto e Virgilio vissuti quattrocent’anni prima, oltre naturalmente Northrop Frye e Viktor Šklovskij venuti invece dopo...

Dopo la Strage degli Innocenti, Augusto commenta: in Palestina, è meglio esser maiali che bambini. E quando vede la solita Giulia che si strappa i capelli bianchi: preferisci diventare prima canuta, o prima calva?... Lei, però, «un vero vaccone». Quando le chiedono come mai con tanta vita dissoluta i figli somigliano tutti al marito Agrippa, ribatte: «Se non ho la nave piena, non prendo passeggeri a bordo». E il genero di Cicerone? «Aveva un’andatura molto morbida, mentre la sua consorte marciava con eccessiva disinvoltura». Disse allora Cicerone alla figlia: «Impara a camminare da tuo marito».

E un’altra perla: Augusto aveva ordinato al giovane vizioso Erennio, che si comportava malissimo, di andarsene subito dall’accampamento militare. E questi lo supplicava: «Come tornare a casa? Che dire a mio padre?». E Augusto: «Digli pure che non ti sono piaciuto».

«Nei Saturnali si pranza per tre giorni e si chiacchiera per centinaia di pagine con Macrobio: satura come piatti colmi da portata, e “farsa” come le vivande farcite...

«... Insieme a Sterne e a Cervantes e Musil, Aulo Gellio e Valerio Massimo, Gargantua e Gulliver, Peacock e Pickwick, Candide e Apuleio con Gozzi e Dossi, e ovviamente Luciano con Erasmo: Samosata gemellata con Rotterdam... fra i grandi maniaci delle divagazioni e delle incompiute sistematiche, del diversivo e del discontinuo, del marginale eccentrico... Gli innamorati del congegno e del capriccio, delle biblioteche e delle anatomie, dei catechismi e degli hobbies... Gli abbonati della Polifonica, i collezionisti di objets trouvés... I Max Reinhardt dell’aggettivazione, i semiotici del messaggio “Image + Look”, la violenza espressa con la scelta del più delirante mot juste!... E gli accessori giusti sono Tutto!».

«Anelli e gemelli da polso rettangolari? Fermacravatte con testa di cavallo? Scarpe a polacchetto con elastico laterale e punta cattiva mirata a reni e fegati d’avversari?».

«Tu, scegli sempre le scarpe giuste. Il resto seguirà».

«Eppure sembrano così tutt’altri i procedimenti!... quando si ritrovano queste affinità impressionanti in autori antichi così “contemporanei”... Hanno avuto una Bildung tutta diversa dalle vostre esperienze artistiche e dai contesti musicali: niente manierismo né espressionismo, né opera, né cinema, neanche un neoclassicismo... Però i risultati sono poi tanto simili...».

«Non so... Tutto questo Bruckner e Mahler e Stravinskij e Strauss che ascoltiamo per tutto il giorno da anni dovrebbe diventare un componente fondamentale nelle strutture formali del fraseggio; oltre che nell’elaborazione dei temi... Poi sistemi la stesura su una pagina Olivetti che già somiglia molto a una pagina di libro; e lì operi secondo procedimenti che non sono più musicali ma visivi, modificando l’immagine su un effetto d’insieme... l’architettura dei congegni come disegni, e i colori degli aggettivi e dei verbi... lavorando con sfumature, lumeggiature, velature, chiaroscuri... impasti per ottenere effetti... grottesca, panneggio, collage, ton-sur-ton... E naturalmente si è studiato e applicato Gadda, col delirio degli elenchi e l’anamorfosi del lessico; e perfino qualche chassis interno tipico dei linguaggi poetici... Tenti qui uno “Smash and Grab”, là una vetrificazione della sensibilità... Ma anche giocando le diverse carte in più combinazioni, poi ti ritorna continuamente fuori Petronio, e il suo “slinguaggio”...».

Mancano continuamente l’acqua e la luce e il telefono e il gas, comunque; e allora arrivano dei giovani ceffi sovente graziosi e molto pecioni a far dei buchi qua e là, dicendo delle drittate, e grattandosi. Quindi si lasciano spogliare fra mille parolacce amichevoli se si mostrano ammirazione e soldi. E ci vorrebbe un Kavafis per ogni scala e ogni interno, come breviario per il demone meridiano? Qui ce n’è solo una vecchia traduzione inglese, prestata da Edith Sitwell. Ma se si propone di fare una doccia – «let’s shower!», l’inizio delle amicizie con gli americani – scappano via come se avessero visto il demonio.

 

Di Roma e del resto d’Italia, dopo tutto, loro uscendo dall’hortus conclusus con giardino segreto e voliera incappano specialmente in due serie d’immagini.

Palazzi, arazzi, terrazze, scaloni, soffitti a cassettoni, collezioni di Sansebastiani, Guercini, Domenichini, gerani, busti d’imperatori romani, leoni di porfido, marmi rossi e verdi e gialli, argenti: il côté Rinascimento, e champagne.

Di fianco, il côté tutto-plastica, da miracolo economico: le stazioni di servizio negli acquedotti, le antenne della televisione sulle roulottes degli zingari fin dentro le mura aureliane, le specialità cinesi e americane in scatola, gli stereo in pineta... I primi arredi in metallo ottonato-satinato e lastre spesse di perspex; i materiali sintetici lucidi che travisano in propilene e poliesteri i disegni dei legni e dei marmi nelle boutiques che cambiano gestione e stile in ogni stagione, sotto insegne luminose verticali come a Hong Kong; materiali inquietanti che nelle gallerie d’arte sfondano la pittura e fracassano la scultura con gli avanzi dei tappezzieri e i rottami dei carpentieri, relitti dei ferramenta, reliquie di sfasciacarrozze e gommisti, rovine e ruderi delle forze già abbastanza armate... Ethik und Technik in allen Varianten. Moquettes con peli di tutte le lunghezze; i primi intasi di seicento spensierate e attonite.

E ugualmente loro incontrano essenzialmente due o tre categorie di persone, il pompiere di Centocelle, oppure M.T. Cicerone e L.L. Lucullo («perché? preferireste Lunačarskij o Lumumba?»), o sennò la star da Hollywood sul Tevere, senza diversioni o intermezzi... Chiamando in questi giorni Judy Montagu sull’Isola Tiberina, ci sono volute due o tre telefonate per capire che il “mumbling” dall’altra parte è un «Brando speaking», perché lei ha dato l’appartamento a Marlon Brando, e risponde lui: sta girando un Carson McCullers con Elizabeth Taylor e John Huston in un feudo Caetani: Riflessi in un occhio d’oro a Cisterna...

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Di giorno, vampiri saggi, in casa. A meno che non si precipitino verso le spiagge in macchina aperta e occhi chiusi per una qualche roaring mezz’ora. Il caldo è atroce: quindi aria condizionata per forza, nonstop, e il torcicollo, la tonsillite, il reuma; e bagni, buio, musica, accappatoi di spugna, succhi di frutta, errando per le stanze a spostar libri o ritagliare giornali inglesi, dopo aver dormito fino a tardi, ed essere andati a letto tardissimo. Se ne vedono una quantità, in queste sere, di avvenenti scapestrati che corrono i lungoteveri anche in smoking sulle macchine sport, dopo le due e le tre di notte, oppure flanando loscamente in calzoni bianchi e maglietta bianca fra i bushes ma con la radio che cinguetta a un passo nella Mercedes bianca, come verso gli Invalides e a Chelsea. Non che li trovi il massimo, come genere; però sono piacevoli da vedere e far scherzi, senti che l’Europa è vicina.

Quando vien buio, come una botta amichevole sullo stomaco, su il mio maglione marino blu. Schiumoso, leggerissimo, gonfio, da St-Tropez: mi sento un lupo quando lo infilo, o magari un orso. Lungo fin quasi alle ginocchia, tirandolo. E fuori, in giro: è vero che non bastano tre notti, come ci ripetono, per fare il giro di tutti i posti. Subito so che qualche cosa sta per succedermi, «when I hear the cry of the peacock» come canta Cleo Laine in Valmouth, con voce fonda: «then I know that something is nigh / maybe good maybe bad / maybe joyful and maybe sad / but something’s going to happen by and by»... E succede! «when I hear the peacock cry»... Succede, flaunt it!

 

... Eppure che “grinta” ci voleva – true grit! – per abitare l’Antichità Classica... e magari, cercar conforto e sostegno per l’anima stanca nell’efficacia antidepressiva dei Classici dello Stoicismo o del Falerno... per poi vivere désabusés e finire magari come Hemingway... Fra l’aria condizionata, e la grappa di pere gelata, gira e rigira il disco di Façade con Edith Sitwell e Peter Pears optime atque eleganter «gai o tristi senza causa», e più insolenti di Cocteau... «Something lies beyond the scene, marine, obscene»... Rigirano intatti e intonsi i “problems” provocatori e feriti di un moi neanche poi haïssable... dunque destinato a non cavarsela?... Ritornano e rivengono Firbank e Beardsley e Radiguet: il contributo della frivolezza all’eternità... «Daisy and Lily, lazy and silly»...

E ancora Persio, altro provinciale troppo troppo serio... non «Lily O’Grady, silly and shady, longing to be, a lazy lady»... e dunque pessimo amministratore della propria Angst, proprio a Roma!... Nato a Volterra, ma portato qui dal ginnasio in poi, molto affezionato alla mamma, alla sorella, alla zia... Amico dei letterati suoi coetanei e un po’ più anziani... Attratto dalla bellezza austera, dall’applicazione che può trasformare una pagina professionale in un brano di mondo... Ma «Hos pueris monitum patres infundere lippos, cum videas...».

Onestissimo, verginale, frugale, scrive poco e adagio, muore a trent’anni di mal di stomaco – disturbo tipicamente psicosomatico, come tutti quelli dell’apparato digerente – dopo aver contemplato a lungo “tra astanza e oltranza” (anche lui) il funzionamento della macchina della Letteratura Romana, con uno sguardo così adulto e così nostro coetaneo... giacché queste sei satire non soltanto ci raccontano una Roma che conosciamo bene, oltre i materassi di glicini... Rasentano addirittura lo straziante nel non vantar mai la mancanza di ostentazione, tentando di riuscire a lavorare e vivere senza sbracare, senza perder troppo tempo nella café society letteraria, senza far pesare troppe affettazioni stoiche... «C’è chi si rade i peli ogni giorno intorno al “gurgulio”, c’è chi nasconde sotto un cinturone d’oro una ferita segreta...». Avendo soldi, due milioni di sesterzi, avendo proprietà in Etruria, ma preoccupandosi che anche gli amici studiassero e “producessero” ogni giorno; e nel testamento pensa prima di tutto alla destinazione della sua biblioteca...

 

... E questo pianoforte notturno di Catullo!... Solitario e sicuro come se avesse già trovato senza sforzo profondo gli epiloghi, più disperati e più giusti ai tormenti di un romanticismo che si dibatte entro una cornice rigorosamente neoclassica, come i lirici supremi dell’Ottocento... Suona davvero come un incantevole Chopin o Ravel della cultura latina, dall’eternità alla frivolezza... in questi miracoli d’equilibrio leggero tra melanconia e ironia che redime qualunque sentimentalità da Beatle, confessata in un gesto spontaneamente e formalmente giovane-classico: «When I’m sixty-four» cantato a ventiquattro anni (ma cosa dirò io, when I’m twenty-four?)... Era come Lord Jim, era «one of us», un ragazzo padano beneducato che arriva a Roma coi suoi autori stranieri già letti e la sua bisessualità veronese «fresca come una rosa» (ancora oggi, su quei gai baluardi scaligeri, al canto del pavone o al fischio dei treni, la sera...), pronto a conoscere tutti, disponibilissimo all’amicizia e all’amore e a “stare al gioco” – anche magari al gioco più greve che spiritoso dell’invettiva corporea tipica di una società alle fettuccine e all’abbacchio – ma conservando una vasta zona di vulnerabilità segreta e indifesa di fronte all’inganno, al tradimento, ai “brutti scherzi”, all’inutile villania... Il «caecum vulnus» di Persio sotto il «lato balteus auro» di chi si sentirà sempre spiritualmente un outsider venuto da un altrove, anche se qui è entrato senza sforzo nel “cuore” d’una società che si sforma, riforma, e deforma, conforma...

A Sirmione, ai piedi degli olivi, l’inclinazione delle rocce è dolcissima per molti metri dentro le acque del lago: non come sulle altre rive tra Gargnano e Salò dove occorre spesso tuffarsi in viluppi d’alghe serpentose, e bisogna dimenarsi per parecchi metri viscidi avvinghiati in «the horror, the horror!» prima di nuotare liberi sull’acqua profonda, ma si è costretti a riaffrontare «the horror» per riemergere sulla riva di limonaie, di viti, di Feltrinelli, di drinks... Alle grotte di Catullo la discesa è lunghissima e dolce, priva d’ogni alga; ma un limo antico e muscoso ricopre queste rocce chiare in discesa; è impossibile tenersi in piedi perché si scivola, è anche impossibile nuotare perché l’acqua è bassissima, si può avanzare soltanto seduti, scivolando in posizioni di gran goffaggine, fra gaie strida rustiche di creature locali multicolori e sentimentali e robuste in festanti frotte vernacole e nordiche...

Con quale agio mirabile, invece, lui – «In triumph glorious, with trophies curious, we return victorious, from Love’s campaigns» (come i Rakes di Stravinskij) – sa passare a Roma da un dandysmo dilettante dalla repartie pronta («our only notion, to make commotion!», e commotion è tafferuglio) al più squisito alessandrinismo professionale, tutto cultura e tecnica: Auden!... La messa in forma del moderno giocando sull’arredo antico e le arti minori... E in che trama di ritmi, abbandoni, compassioni, turbamenti, tenerezze in colori chiari, freschezza di melodie e decadenza, finisce per legare la vita ai testi, e l’acme del verso alla ferita segreta... Come è riuscito forse un’altra volta, soltanto, nel Great Gatsby: quanta grazia confidenziale tenta di superare i ritegni di un gentiluomo giovane e freddino che vorrebbe strike again nelle composizioni d’amore abbagliante, con un erotismo non solo di studi e preludi...

... E quanto controllato abbandono all’Autentico, nei versi di dolore, senza allusioni al Sublime o al Mantegna quando lo squallore è già lì (il dolore è squallido...), desolato come l’ambulanza in ritardo con gli infermieri che parlano del magnare e della partita...

Però, nei grandi poemetti, la vena “whisky sour” da piano-bar tipo «Que reste-t-il de nos amours...», come sa dispiegarsi in canto stravinskiano sincopato su su in quelle Noces che sono gli Epitalami, cupole e Tiepolo impazienti sempre più su, in un vento di colonne e palme e putti e pappagalli e ombrellini e giraffe e felci e scimmie che girano, girano... Come se fra terme e taverne e morti brutali e città di marmo, e il lirismo delle guance e dei colli, e la Grecia di ieri come poema o romanzo... avesse già conosciuto un mondo di Schubert, cinema, bar, lambrette, Nijinskij, soap operas, vers libre... Mentre nell’Attis irrompono rutilanti gli spasimi gestuali di un’Asia che è già Bali... circuiti di vibrazioni che percorrono il corpo scoprendo Eros e anche espressione dietro le ginocchia e i gomiti, nel collo dietro le orecchie, nelle tette sotto le dita che lavorano come mollette da biancheria, nelle dita dei piedi che scoprono un loro futuro emotivo dopo che lo stivale è stato riverito, leccato, rimosso... e nell’Ottava di Mahler hanno incominciato a cantare...

 

... Calzettoni bianchi da tennis, mutande tipo marina e caserma, maglietta a T di filo, bianchissima, sopra la pelle abbronzata, vestaglia di spugna blu o rossa, o rossa bordata di blu, pettinato come Lord Byron quando faceva la lotta, illudendosi di sembrare un boxeur fuori allenamento... Non si rischia il più vieto Montherlant?

E poi fa tanto lo spiritoso... La sua figura, la farebbe ancora, in costume da bagno. Peccato che mi rimanga in parte bloccato addosso. «Jumbo asleep!» canticchia sul grammofono Edith Sitwell: Sit-well, siedi-bene?... Ce l’avete con me?... «Watch the leaves / Elephantine grey / What is it grieves / In the torrid day?». Ma ingrassa anche lui. E le cause? «In casa mia sono tutti magrissimi e tristissimi, somigliano semmai alla famiglia Huxley» fa. E cosa vorrà dire, il conto della bilancia? «Troppo lavoro stando sempre seduto? O sognare delle cose e non ottenerle mai?».

Bagni di schiume, apparecchi di massaggio della Rinascente, esercizi in una palestrina, sì, non però exciting. Di stupidaggini, non se ne mangia. Diete anche inclementi: ma forse è proprio l’aria mortifera, che ingrassa perfino il cuore. Chissà se anche Catullo e Persio mettevano su peso, alla stessa età, prima di morir giovani. Chi gli avrà fatto da mangiare? Che commenti si saranno sentiti intorno, quando si spogliavano alle terme, fra quelle peppie tremende che loro stessi raccontano... Dopo un mese di filetti al sangue con agretti spietati, questo sarà aumentato di peso né più né meno come quando mangia le sciocchezze di cioccolato fourré che gli regalano, una dopo l’altra per finirle in fretta, sostenendo che non gli piacciono i dolci e bevendoci sopra, arrabbiato, il cointreau. E in più, gli attacchi d’una colite: cosa delle più psicosomatiche, si sa. «Ma no, è il mare inquinato! L’onda marrone che si sposta da Fregene alla Marinella!». Di notte continua a gridare.

Dei «lasciami stare!» con dei «non lasciarmi qui!», dei «non scappatemi via!» impressionanti, che una volta negli alberghi mi mettevano paura, ma sono diventati abituali, e non lasciano strascichi. Non finti, però: lui non lo sa, forse; e se glielo dico non se ne occupa, dato che non gli impediscono di dormire profondissimo, anche facendogli des choses. Ma sono forse diversi fenomeni che si ripercuotono l’uno sull’altro. Guadagna, credo, come un direttore di banca con tre figli all’università e la moglie con la pelliccia; e praticamente non ha mai un soldo. «Pago trentamila lire d’affitto al marchese, mi faccio delle minestrine qui in casa, metto sempre gli stessi vestiti» mi fa. «Dove mi vanno questi soldi? In caramelle?».

«Anche questa, la conosco pur troppo: remember Il giardino dei ciliegi, baby!».

«Una volta, le ciuiliegiue si mandavano a carrettate fino a Mosca, vecchio Firs, mentre le camiciue si mandavano a stirare a Londra invece di buttarle, vero?».

«Sempre le tre vecchie pazze di Visconti che dopo decenni di lusso in villa, e anche con un buon servizio, si mettono in mente di andare a passar la vecchiaia a Mosca, dove non conoscono nessuno, in poche stanze a chissà quale piano, senza ascensore e quando già l’artrite avanza...».

«Quaranta o cinquant’anni fa, le ciuiliegine si seccavano, si mettevano sotto spirito e sott’aceto, si facevano delle conserve... Bei tempi, dottore!»...

«E una volta a Mosca, si passavano le belle domeniche alla finestra a sputare i noccioli su chi passava sotto... vero?».

«Ma chi di noi verso i trenta o i quaranta metterà su pancia e perderà i capelli?».

«A chi verrà l’alcoolismo letterario come a Faulkner e a O’Neill e a tutti gli altri?».

«Che bibite si preferiranno? Cocktail passati di moda?».

«Chi non mancherà a tutte le sfilate dei sarti?».

«A chi incominceranno a piacere gli orrendi piccini?».

«Si diventerà, magari, meditativi?».

«Si diventerà mica dei donnoni cupi alla Hemingway, sempre col bisogno di sparare alle povere bestie quando non si rialza il cosino o prude il culetto triste?».

«O si diventerà magari dei maschietti come Ava Gardner che quando John Ford le chiede perché ha sposato quei 110 pounds di Frank Sinatra (questa la si sarà trovata in Valerio Massimo o in Aulo Gellio?), risponde che ha sposato 10 pounds di Frank e 100 pounds di cock, e invece come sta di casa John Ford, si può dare una controllatina?».

«Ma è la stessa cosa che dice Petronio: arrivate voi! Controlliamo subito a laciniam fascini, ecco qui una traduzione timorata d’altri tempi: “era provvisto d’un coso spropositato a tal segno che pareva egli stesso un’appendice del pinco”».

La giuggiola preferita è però una nota nel Catullo delle Belles Lettres, dove lui dice che il poeta dev’essere casto nella persona, e nei versi magari no. E il curatore commenta: «Cette déclaration discutable, qui va au delà de ce que tolèrent notre goût e nos habitudes d’aujourd’hui, traduisait un sentiment très commun chez les Romains; car elle a été reprise par Ovide, par Martial et par Pline le Jeune». E Baudelaire? E noi?

«Elenchi che dànno soddisfazioni... Maria Maddalena d’Austria, granduchessa mamma di Ferdinando II di Toscana, gli consegnò una lunga lista degli scostumati di Firenze, da “gastigare”. Lui vi scrisse in cima il proprio nome, e poi buttò la lista nel fuoco dicendole: “Eccoli puniti”. Lei prese cappello, e partì con l’argenteria per la Germania. Arrivata a Trento, ivi da nessuno rimpianta si morì».

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Ma più d’una volta càpita di dovere uscire prima di notte, c’è sempre da cambiare una puntina di grammofono o una testina di rasoio elettrico; e allora ci si ferma a prendere anche i succhi di frutta in una qualche Standa ai Prati, posti meravigliosi pieni d’una folla di avieri che comprano le brillantine e di suore che si stringono i loro barattoli di pelati al petto. Me li promette. Ci andiamo. E immediatamente li troviamo, pazzi d’entusiasmo, su e giù per le scale mobili. «Ci sono tutti! Ecco lì gli avieri!» mi fa, contento, e infatti eccoli. «Ed ecco lì le suore!»... Facce straordinarie: altro che the best from Fellini, coi secoli di abiezioni o fierezze nella fame italiana che improvvisamente si spalancano su un mangiare non più inaccessibile ma illimitato! nelle confezioni a colori! antico e moderno e anche finto! attrezzato coi prodotti per l’evacuazione e lo scarico! e accompagnato da marcette ottimistiche – il miracolo economico! il Miracolo della Gallina! il Miracolo della Fettina! il Miracolo di San Zampone! – mentre il Grande Magazzino parla, e con le sue vocette spigliate ripete: «Signore e Signori, il Grande Magazzino vi augura Buon Pomeriggio!».

Ma ecco, c’è altro che striscia, a fior della spera rifatta liscia! Spera delle mie brame! Capitiamo in un altro luogo di delizie per dei nuovi lenzuoloni da bagno o twill da camicie pervinca o albicocca per me: un immenso magazzino di stoffe, il più vasto di Roma, nello smisurato piano nobile di un palazzone barocco dove le decorazioni splendono ancora tutte, stucchi, affreschi, lampadari, mensoloni, telamoni, bronzi, pregevoli Decollazioni e Circoncisioni, Poppee Sabine fra specchiere e porte dorate, e queste infilate di saloni colmi fino ai Fetonti e alle glorie d’angeli sui soffitti di scaffali di stoffe stampate a fioroni estivi, con una popolazione fissa di donne piccole e nere, larghissime, coi baffi, corte, il sedere subito sotto le ascelle, un gran pelo che scende, sudate, tra Amazzoni ferite e spruzzi di Cupidi e getti di Naiadi e bagni di Venere; e portano le pezze fuori sul balcone a stemmi; sempre con molte amiche insieme, dubbiose; guardano disilluse la stoffa alla luce naturale, e poi tutte insieme, piano: «cheddici? mooo faccio o non mooo faccio?».

 

Desideria assicura di adorarla, quest’Arcadia in Miranda, però lì non l’abbiamo mai trovata. Incontriamo invece una volta Giulio con due monsignori nella Stanza delle Ciniglie, racchiusa fra tramezzi e decorata dal Mengs: con un grosso cesto di vimini, si sono fatti una tanina di spugne, per il loro picnic. Posto incantevolissimo per un ristoro, nel centro della città, e poi così fresco nelle mura spesse: offrono pâté maison fatto da loro e caffè freddo nel coperchietto del thermos. Pieno di gente che loro conoscono, e viene a chiedere se non hanno anche un po’ di quel salmone buonissimo affumicato coi ginepri del Tuscolo, si vende al Palazzo Doria-Pamphilj qui appena dietro. Fuori da tutte le grotte di pezze, escono gli arredatori delle principesse, i costumisti del cinema, i pittori che fanno gli scenografi, gli avvocati che vendono gli appartamenti, delle Marine, delle Camille, un po’ d’Ordine di Malta, diverse Grazie; e come si divertono a far la fila per farsi far lo sconto dal padrone.

Guardali lì tutti in piedi, come i pensionati alla posta, però chic, davanti allo sportellino, coi loro pacchetti; e il padrone benigno, come facendo un favore molto personalizzato al casato o alla fama, segna il suo visto a matita su ogni fattura, le cala tutte anche di un venti per cento. I due monsignori sono americani, si chiamano Braaad e Breeett (appena uno s’allontana, l’altro lo chiama subito), e hanno preso dieci metri di tela massaua per farsi dei completi da mare, e non meno di cinquanta campioncini di velluto beige di lino, «fra il sabbia e il crema» per housses di sofà casual: quello che pare sempre ammaccato anche quando è nuovo, «ma bisogna che li veda Felicity».

Quando è tutto buio si entra in una quantità di selvaggi cinema ad anfiteatro ogni volta diversi con dei varietà più clamorosi d’ogni corrida: traboccanti di militari accaldati e maneschi che-ci-stanno-tutti, specialmente i bruni napoletani sfrontati, davanti a questi tippitì-dubbidù «Sayonara-Copacabana» di culone dialettali o coloniali e torride fra palme e vesuvi di carta verde e rosa, e commendatori-facciatosta che zufolano sigle televisive nei cessi con giù le mutande e su ancora il soprabitino da mezza stagione davanti a bambinacci molto sviluppati che dicono troppo di aver già diciott’anni, e ripetono ridanciani «vieqquà»... E fan perdere la testa («leeewd!») a qualunque inglese o americano si porti a fare il tour delle porcellerie popolari intorno alla stazione, poco di moda ma del tutto nature e pop... Trovano anche «definitely incredible!» l’Opera, così vicina alla ferrovia: too much, too much! perfino per Angus Wilson, in occasione di certe Francesche da Rimini da Casa del Passeggero: «too Edwardian!»... da collegio, da orfanotrofio, da casa di redenzione e correzione preservata in miracolose gelatine da capsula del tempo... Ma anche diversi autori cattolici del rovello, delle tensioni, della sofferenza nei fermenti del grumo, si aggirano in vecchie giacchettine povere tra i viluppi e i cessi: con sorrisetti di complicità benigna e losca – tormento e dunque assoluzione dell’anima – quando proprio non riescono a scivolar via furtivi dietro i pilastri al buio. Sennò, fingendo il “non esserci”. E in un paio di disinvolture forzate: «Come andrà lo Strega?». (E l’afflato? E il grumo? Lasciati nel comodino?).

 

... O ci si addentra in vallate molto più visionarie e deliranti che in qualunque libro o film sulla pègre romana: Piranesi batte neorealismo, soprattutto nei repentagli. Meandri notturni lunghi chilometri, tortuosi, anfrattuosi. Corsi d’acqua deviati giorno per giorno, e monticelli che cambiano sagoma inseguiti dalla Scavatrice, dalla Falciatrice... Fossi nominati quali fiumi da Tito Livio e popolati d’accampamenti di baracche, con fuochi all’aperto di zingari e crepitar di lambrette, tra Pasolini e il Trovatore... Tumultuosi orizzonti ove sorgono da un giorno all’altro interi quartieri, sovrapopolazioni fragorose: delle Brasilie astratte, degli altipiani indù a muraglioni circolari coronati da odeon e gelatai, neon rossi e cha-cha da luna-park nelle lune morenti che avvolgono pappagalliere colonnate di Marie Goretti e Cottolenghi e Don Boschi, tra festoni di lampadine, terme pasticcere e confettiere per venerar Sante del Regno d’Italia e adorar Beati della Belle Époque con panchetti d’occhiali da sole e cappellini della Roma, camioncini di panini e bibite, noccioline e croccanti fumanti... «Bruscolini!»... «Ridenti e sporchi»: Baci Perugina!... «Lieti e feroci»: siamo qui per questooo?...

Gli incontri saranno da Grand-Guignol sportivo e magari affezionato, abbrancato; ma fra tutti questi avieri moderni a Centocelle e gli esuberanti pompieri notturni sempre in attesa alle Capannelle, bisognerebbe proprio essere viaggiatori neoclassici o romantici, inglesi o tedeschi, per appuntare in un breve ma veridico Diario del Grand Tour quelle più ovvie notazioni che gli Italiani dal Rococò al Neorealismo mai registrarono: neanche approfittando del decadentismo. E cioè la notevole bellezza e simpatia nella maggioranza disponibile dei connazional-popolari: il contrario dei dispiaceri fra brutti che sono l’eterna mania o ubbia del realismo della jattura, del verismo che vede e vende solo scalogna nazionale...

Ma quale sofferenza dei vinti come nella peggior letteratura di commiserazione fra poveri neorealisti? Aggressività esuberante di cui si sente un gran bisogno in società (purché non si esageri), piuttosto... Continue lezioni di bell’aspetto, di ottimi umori... Macché lacrime socialcristiane su qualche fatalità classista propizia solo alle avversità e agli accidenti... Riesce più ineluttabile il sex appeal dei corpi e delle facce, quella simpatia che attira non commozioni ma regali, e induce a galanti sciocchezze, senza presupposti né preconcetti teorici...

Macché programmi negativi, con “promotion” di contrizioni dannose per colpe imposte dalle ideologie più sfavorevoli... Sanzioni contro chi va alla ricerca di punizioni e non torna a casa se non le ha prese, anche per un buon andamento la mattina dopo sul set, da cui dipende il benessere di tante famiglie...

Pittoreschi e attraenti in quanto vivaci e sciocconi benché spesso ladri all’italiana, semmai... E Rimini e Taranto naturalmente sempre insieme perché si vogliono bene (attraverso di te?), e mentre l’uno fa l’altro aspetta; e come viene fuori contento dai cespugli (quando mai, triste?) il verista che ha appena finito... Ma la realtà in giro fornisce molto meno vittime del realismo, anche se non sempre coppie di ugualmente belli. Come nei musicals e in tutti i film d’avventura e di guerra, anche qui si incontra soprattutto la coppia del bello col goffo, più grasso; e specialmente il bello disinvolto ha un bisogno psicologico dell’altro (che ovviamente lo ammira), anche se deve pagare per lui.

 

Solo qualche difficoltà locale, tradizionale, una volta proprio per colpa di un parsimonioso viaggiatore inglese: nell’euforica Centocelle, en route per un pranzettino a Genzano... Ma come sono sempre tirchi, gli inglesi... Eravamo due contro quattro, quindi giusto; il più alto si chiamava Tonino, ed ecco il flash: poteva trattarsi di quel mitico Tonino così celebrato e ammirato dai piccoli ranocchi e rospetti di Pier Paolo per le sue doti eccessive!... E anche la smentita vivente alle balzane teorie di Pier Paolo!... «Sì, perché Pier Paolo sostiene che nei suoi gruppi il più cupo e in disparte è quello che ce l’ha più grosso: come se gli provocasse l’umor saturnino, e non una giusta vanteria. E malgrado le più plateali incoerenze: si sono conosciuti fior di stangoni allegroni tipo “qui ce n’è per tutti!”, molto magri e molto svegli, certi addirittura spiritati; di quel genere neanche raro, biondi che perdono presto i capelli, e tutti muscolo». E questo era davvero Tonino l’incomparabile: anche molto gradevole e per niente saturnino e anzi ben disposto a una prospettiva di mari e monti e sabati e domeniche nelle comodità e nel lusso...

Ma ecco l’angoscioso urlo del parsimonioso britanno, giustamente percosso dagli altri perché si era permesso di non sborsare un tributo adeguato... misérable! exécrable! quando gli han fatto il raro affronto rituale d’una pipì addosso coordinata in tre – qui si trascura il Mito di Danae! – e lamentandosi piuttosto per certi occhiali rotti... Così arrivano lì tutti, ansanti e violenti come non è facile ottenerli ogni sera, e cercando di compromettere nel misfatto “the incomparable”, proprio mentre le doti leggendarie andavano dispiegandosi “in full splendour”, chiarendo che “the one and only” non poteva essere se non questo!...

Fu subito messo in chiaro che se la violenza teppistica fosse venuta soprattutto da lui, la generosità successiva poteva non aver limiti!... Ma «non ne aveva fantasia» (nessun artista creatore dà tanta importanza alla fantasia come questi); faceva qualche gesto simbolico senza talento, solo per solidarietà con gli altri che lo volevano coinvolgere quale complice nel sacrifizio delle vittime... E lui riassestandosi lo capiva bene, e lo faceva capire, che per complicità di borgata se ne andava così un suo futuro di poter guidare la macchina sport con golfini nuovi comprati nel centro storico, e ordinare direttamente al cameriere tutti i piatti che gli venivano in mente... Tanto più, lo sapevamo tutti che era un addio da film anni Trenta, Gran Canaria senza domani, perché poi quando si è tornati il giorno dopo in tutti i biliardi della Casilina a chiedere di Tonino col nostro amico Howard, americano evidente, perché non ci scambiassero per poliziotti, anche lasciando messaggi pieni di promesse, qualunque suo amico avrebbe detto che non lo conosceva... E così, fra la taccagneria inglese e la coglioneria di borgata, malgrado le eccitazioni e le botte, serata persa, e meste sciarade per un paio di giorni con le bistecche al sangue sull’occhio blu.

(Solo al Ninfeo di Nerone, una figura simile. Terribile scena, nel Ninfeo di Nerone! Antonio esce dal Colosseo severo: «Uffa, questi elegiaci in lino bianco. Oltre a non esprimersi in buona prosa, devono ancora imparare a fare i pompini. Signora mia, dove si andrà a finire. E ti vengono dietro! Facendo scappar via delle meraviglie!». Su dunque per le balze e le rampe, dove il lino bianco non osa, perché è il reame della strega Marymount, che accende fuochi per attrarre la pensée sauvage. E qui, in una radura, un Toro Farnese più un Ercole Farnese! Tre violenti che si accaniscono contro un Galata Ferito. «Viscerally satisfying?». Ma quanto mai ci si è avvicinati, per portare un’eventuale solidarietà a una probabile vittima! I tre, già pagati, ne approfittano per scappare senza compir l’opera. Un accidente che va ripetendosi troppo spesso. E il Galata – detto anche «Bed Karma» – dopo aspri rimproveri, non ci saluta più. E tutto per aver solo chiesto: «È un summit, o semplicemente un meeting?»).

 

Ma è difficile un calcolo delle distanze, perché sono luoghi mai visti di giorno. Per chilometri di queste distese ci si imbatte in aeroporti militari abbandonati, gallerie cominciate dai Severi e continuate da Mussolini, torri di guardia medioevali diroccate, improvvisi crepacci dove scorrono i rifiuti dei cavernicoli d’oggi insieme agli scarichi dei giuochi d’acqua nei parchi cardinalizi, spiazzi appena aperti per la sosta delle autocisterne nel Nulla, ville dei Colonna e casini Orsini tagliati a fette da un binario di tram senza passeggeri. E al di là, ancora quartieri e quartieri di case “international style casareccio” a otto piani, costruite da sei mesi e frananti, senza neanche un negozio sotto, e distruggendo il cespuglio galeotto dietro la pizzeria western, in direzione dei Castelli, con quel brillio sbriciolato e intermittente dei loro lumini burini là in alto, fra il pulsare dei fari rossi sulle antenne militari dove accompagnamo Avellino e Piacenza o Fidenza trafelati dopo le dissipazioni nel fosso.

Altrettanto post-impressionista si curva a lume di candela svolante un’ora dopo la giacca bianca sfocata di un cameriere con una boccia di vodka gelata sull’orlo di un giardinetto pensile d’oleandri e ligustri e limoni riparati che l’anno scorso era un tegolato e sarà tutto trasformato in Beverly Hills o in Marrakech l’estate prossima, con veri Manzù e vero pratino, qualche decina di metri a picco sopra una via in selci e un cognome papale su un architrave di Peruzzi o Sangallo, ascoltando «dicono che ha ripreso a uscire con la moglie!», «l’ho visto all’alba dalla mia finestra far la scalinata dell’Aracoeli in ginocchio e battendosi il petto!», «e lo chiamate un pranzo di nozze? tanta fatica in piedi per un’assiette anglaise a Marbella!»... e Mike Molto, e Ted Troppo, e mons. Posso, e lo shaker-carillon di Lady Pimms, e l’abate mitrato di San Gregorio in Samsa... e «una mostra di fotografie di finestre nelle Antille», «no, una mostra di fotografie di porte nelle Cicladi»... ascoltando un inedito di Caterina Caselli, che è poi lo stesso urlato da giostre e balere in distanza alle Capannelle e poi a Centocelle un’ora fa, e magari a Monte Sacro, proprio sulla cima dell’avventuroso e movimentato “montarozzo” carico di sedicenti sedicenni come un centro-tavola di Meissen (il “servizio Federico”?)... fino all’ultimo madrigale della serata: «Sull’altana / di Ruschena / quando c’è la luna piena / cha-cha... tonight!».

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Verso le otto si passa comunque in clinica a sentire notizie di Raimondo. Mai più presto, perché tutti prima hanno le loro cose, e i medici e i suoi parenti evidentemente preferiscono che si vada insieme verso quell’ora. Non lo vediamo mai, quasi mai, perché le condizioni sono molto gravi; e con le sonde, con i tamponi, lui stesso nei momenti lucidi preferisce non essere visto. Domanda all’infermiera chi è venuto, ogni sera; fa annotare le telefonate; e per mezzo di lei o di una sua cognata lo mandiamo a salutare.

Le prime sere è capitato che si arrivasse lì, due o tre in maglietta da cespuglio e gli altri già in scuro, già fatto il bagno, pronti per uscire a pranzo: cravatta, foulard indiano nel taschino, orologio, gemelli, tanto vétiver giù per il collo, era il minimo che avesse addosso lui a quest’ora... Poi ci si è messi d’accordo tacitamente di andar lì vestiti piuttosto ancora da giorno. Scomodo, quindi, se si è deciso di andare a pranzo insieme: anche per stare con Desideria che rimane in clinica tutto il pomeriggio perché può entrare nella stanza. Allora dopo, siccome la macchina l’ha quasi sempre rotta, occorre riportarla giù in città: sta in questi giorni con una zia in piazza Campitelli; poi riaccompagnare anche Jean-Claude ai Parioli; tornare a casa; cambiarsi; tornare a piazza Campitelli a prenderla, verso le dieci; eventualmente ai Parioli, a recuperare J.-C. appena prima; in mezzo non sempre ci sta una corsa verso le praterie. Dopo, è troppo tardi: cambiano i percorsi. E vestiti bene, non è il caso.

Nel corridoio della clinica fa caldissimo; non parliamo. I parenti di Raimondo siedono su un divano insieme. Noi arriviamo a uno a uno. Ci sediamo, camminiamo, ci si appoggia al muro. L’infermiera entra, esce, senza dir niente. Ci sono delle riviste sparse per le seggiole. Si sfogliano, anche quelle già viste a casa. C’è in un film d’Antonioni un letterato che sta morendo in clinica, e lo vanno a consolare annunciandogli che “L’Europa letteraria” ha pubblicato un suo saggio, e il morente s’illumina... Allora si elencano i vari pretesti correntemente escogitati dai collaboratori di “Paragone” o del “Mondo” per non figurare fra quelli dell’“Europa letteraria”.

Ogni tanto, una gomitatina per indicarci qualche cosa di buffo, come comunicando con lui oltre il muro: una réclame di vermut basata su esempi di signorilità, e per fornire modelli di chic non solo usano vecchietti coi baffi in tweeds nuovissimi, anche mobili Secondo Impero messi in giardino sulla ghiaia, accessori da golf e da caccia mischiati coi comò; e sul vassoio d’argento, oltre al vermut e ai bicchieri e al ghiaccio, anche una pendola da camino di bronzo dorato. Oppure una réclame di mutande, con slogan tipo «solo una si distingue», ed effettivamente quello che c’è dentro si distingue da tutto.

Un’altra gomitatina, vicino alla finestra; e guardando giù si vede appoggiata a una pianta una di quelle inverosimili motociclette che girano in questi giorni interamente fiorite di un vero giardinetto di fiori di plastica sopra e sotto il manubrio: e non si capirà mai cosa vuol veramente dire questa specie d’addobbo tipo cimiterino o tipo modista, che senso profondo avranno tutti questi fiori di plastica insieme al plaid che si porta di solito in moto per le avventure. Subito mentre aspettiamo si finisce per farci sopra una canzone per Raimondo, “I fiori finti della tua seicento”, molto carina, che dice pressapoco: «Sarà bello l’orso di pezza / sarà bello il coccodrillo di plastica / ma i fiori finti della tua seicento / sono più belli perché ci sei dentro tu». Desideria esce dalla stanza stravolta, stanca morta; scuote la testa; e a bassa voce dice che Raimondo ricorda tutti, ci saluta, sarà contento di sentire la nostra canzone un’altra volta, ringrazia tutti uno per uno. Marina Grande la supplica di raccontargli, appena si sente meglio, che una coppia parigina di conoscenza ospitata a Venezia da Marina Piccola ha fatto tali telefonate ovunque da suscitare una réprimande per le linee occupate e la richiesta di pagare almeno la bolletta. E come hanno risposto? «Abbiamo finito i chèques, prendete l’American Express?».

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Jean-Claude è ancora in città. Non si è più mosso e sembra «più vuoto d’una valigia vuota». (Di chi è? di O. Henry? di Henry James? Mah). In ogni città, dice, di solito, insomma, cerca sempre qualche cosa... Sempre, gli manca, non sa nemmeno lui cosa, forse Atlantide o Metropolis, Pola Negri, Louise Brooks, qualche altra Lulu?... Perciò corre alla città seguente! Stravolto, sbattuto. Ripetente... Ma qui a Roma vorrebbe restare. «Mi sfinisce, ho già quattrocento pagine di journal, sento che è mia, è mia!»... «Che cosa significa davvero “Et in Arcadia Ego” nel Guercino alla Galleria Corsini?»... «Come si può andare a vedere la “Derelitta” di Botticelli al Palazzo Rospigliosi?»... «Dove sono tenuti gli arazzi di Andrea Doria, al Palazzo Doria?»...

Potrebbe sempre tornare in una redazione di Hachette, dice; lavorare a “Sonorama”; insegnare letteratura generale a Carpentras, e avere del gran tempo per scrivere, in Vaucluse... Ma lo sa, cosa vuole?... Fa delle passeggiate, va a trovare qualcuno a Villa Medici. Respira forte, alla Casina Valadier: «C’era un tale bel sole! Non volevo fare altro... Sono stato per una mattina intera davanti a un Caravaggio in Sant’Agostino, ho passato una giornata intera alla Villa Celimontana. Ah, la galleria colonnata di Palazzo Spada. Ah, il corridoio di San Francesco di Paola alla Trinità dei Monti. Ah, la loggetta raffaellesca sopra il gommista al Banco di Santo Spirito... Vorrei prendere lezioni di italiano!».

Bisogna fare qualcosa? Dove portarlo, a colazione? Bolognese, Nino, Buco, Fontanella, o Trastevere?... Da Cesaretto? Mah, tra Flaiano e Comisso e Maccari, chissà cosa capisce. Proviamo alla Trattoria Romana. Qui, gli si spiega, mentre le piccole tavolate si formano e si ricompongono, era come una nostra Brasserie Lipp, a colazione... Una lunga tavola nell’ultima sala... Si abitava tutti qui, tra via Frattina e Piazza di Spagna, angeli dorati e opaline azzurre poi buttate al vento: non si lavorava molto, si viveva come gli antichi, pochi impegni nella giornata, molto tempo per parlare e per leggere... La lunga tavola s’allungava, s’allungava, secondo gli arrivi, fino a tardi... Mauro Bolognini, Franco Zeffirelli, Pierino Tosi, Franca Valeri, Franco Brusati, Laura Betti, Adriana Asti, Enrico Medioli, Pigi Pizzi, Anna Nogara, Umberto Tirelli, tanti altri... Una hachée al prezzemolo, e tante storie stupende, cotte e mangiate... E tutto intorno, quasi addosso, i tavolini singoli degli habitués tutt’orecchi: mai si sarebbero fatti allontanare di un metro o trasferire in un’altra sala...

«Il principe fascista con calvizie da motosiluranti, da arditi, da corpi speciali, da golpe latino... Il marchese fiorentino già modello di Palazzeschi per il racconto “Il punto nero”: una vita d’abitudini intemerate e regolatissime, però non rincasò una notte, rientrò a palazzo all’alba completamente nudo, e mai disse una parola circa l’accaduto... Qui in trattoria però attentissimo a non scambiar parola con l’antiquario fiorentino suo coetaneo, molto inceronato e tinto, che si mostra volentieri alle Cascine su un carrozzino granducale tirato da due piccolissimi poneys... e va spargendo tutta un’altra versione del Palio dei buffi: ogni mattina l’affezionato chauffeur lascia l’alcova del marchese con un ultimo bacino e un ultimo “porcona!”, e ritorna poco dopo in livrea dandogli del “sor marchese” col caffè... E con l’occhio ceruleo sull’hachée di filetto, i riccioli bianchi sulle ondine ex-bionde, la macchina di Palazzo Madama in attesa con l’autista che dorme lì in via Frattina, l’orecchio proteso ai soprannomi e al persiflage, il senatore Zanotti-Bianco, figura illustre del grande antifascismo più “liberal” e chic...».

 

«Non un mot o una demenza del nostro pregiato pre-Kitsch o inconscio “camp” si sono persi, questi, per anni e anni, praticamente fino a poco fa... I sogni e le rose dell’ Eiar... “Sogno sogno e non ti sogno, vita mia chissà perché... Per te mio dolce sogno, vivevo e ancor vivrò... Amore amor, portami tante rose... Se son rose, se son rose fioriranno... Ma le spine, ma le spine, chi lo sa se pungeranno... Ti parlerò, d’amor, e sfoglierò, una rosa... Perché non sognar, perché non sperar, poterti rivedere un attimo”... Quando si rifacevano i programmi della radio negli anni Trenta e Quaranta, lì alla Romana, e Raimondo ricordava tutti i versi di tutte le canzoni fino in fondo, si incominciava con “La nebbia portata dal vento... O boscaiolo... C’è una strada nel bosco... C’è una chiesetta amor...”. E sulle labbra del marchese Tornaquinci, del comandante Centurioni, dell’antiquario Cianfanelli, e perfino del Senatore archeologo e filantropo, si leggeva e magari si sentiva: “... discende dal ciel sonnolento... il sole sta per tramontar... il suo nome conosco... nascosta in mezzo ai fior...”. Probabilmente gli si è regalata una bella vecchiaia, piena di fremiti di voluttà nascosta per ciò che sarebbe potuto essere, e ai loro tempi magari non fu... Qualcuno perdeva lievemente il barlume, circa “a me piaccion gli occhi neri, a me piaccion gli occhi blu, ma le gambe... ma le gambe... a me piacciono di più!”».

«E mai si sono ribellati, mai fatto delle uscite?».

«Solo qualche sbuffo, ma era un coro un po’ particolare: “Siamo sette vedovelle – naufragate all’Equator – siamo sette bimbe belle – sette cuori senz’amor!”... E naturalmente: “Allegri marinai – tornando dalle Hawaii – provate casomai – a sbarcare un’ora qua!”...».

 

Ma è appunto qui che le tre del pomeriggio sono sempre state l’ora tipica e topica del dileggio, perché uscendo dalla trattoria nella luce accecante di Piazza di Spagna si ritrovano sulla scalinata per lo più i medesimi che la sera prima si son riveriti pur troppo; e metton su baldanza, al sole... È l’ora del dragaggio... Con oltraggio, e borseggio?... «Signorine, non guardate i marinai... perché... perché...». «C’è una rima con guai...». E al Caffè Greco vuoto si fanno le similitudini con gli acquari appena entrando: c’è solo De Chirico (un cetaceo?), prende una granita.

«... Appartamenti oscuri, profondi, verdi, forse pensioni abbandonate» va dicendo Jean-Claude, come ricordando, come riflettendo «... ove si ha l’impressione d’esser già stati... forse in una città italiana minore... O forse qui?... Comunque, nel sogno come nella vita, probabilmente vi si è lasciato qualcosa... Ma cosa?».

Jean-Claude, non starà mettendo a punto una sceneggiatura, forse molto d’arte, con una colonna sonora già in mente?... Albinoni? Vivaldi?... Avrà scoperto un Adagio a 45 giri?... «Vecchi vestiti che non ci vanno più bene?... Vecchie carte che appartengono a qualche attività non proseguita?... Valigie povere, di tempi oscuri, da vergognarsi per averle conservate?...». Prendiamo una granita anche noi. «... I corridoi sono bui, i mobili sono vecchi, le camere non sembrano più abitate dopo di te... Ma tu vi hai mai abitato?... Questo armadio, lo riconosci! Forse volevi dimenticarlo!...». (Il Maestro se ne va, saluta i camerieri. Finita l’ora del sorseggio? Ha una camicia con le maniche corte, quasi trasparente, sotto la giacca chiara). «Quegli armadi che si teme di affrontare...». (Il Maestro rientra, si risiede).

«Forse affitti non disdetti e dimenticati, da pagare anche se non richiesti, accumulati dopo un’enormità di tempo che non sai calcolare?... Ma a chi, se non c’è nessuno a cui chiedere?

«Non c’è una vecchia nascosta? Non sarebbe nemmeno questo il giardinetto pensile umido che mi perseguita, ov’era la stanza dipinta con l’armadietto da medico di bordo, blu, e il bagno marrone oltre l’arcata di mura verdescure, lungo una via medioevale piena di botteghe e sempre deserta di persone, e stranamente rettilinea?... Forse dove ho fatto incontrare per caso lei e lui e forse altri, forse perché non si vedessero senza di me, non si volessero bene senza di me, non partissero inutilmente per l’Elba... e poi sono andati via da soli in blu e in verde fra l’arenaria dei bassorilievi che si sfaldavano... Ma c’erano delle torri! delle torri!

«Ci sono ancora delle mie scatole? dei miei scritti?... dei miei quaderni, appunti, lettere?... Gli armadi sembrano abbastanza pieni, di roba molto scura, molto voluminosa. Ma sarà poi roba mia, dimenticata? Ne ho mai avuta così tanta?... Così pesante?... E dimenticando anche di averla cercata?

«E sarei tenuto a frugare negli sportelli e nei cassetti, invece di andarmene? Per evitare di ritornare qui? Ci sarebbe il tempo?... Ma non so se ci tengo più, se ci torno più, se devo ritornarci ancora?...».

«Ma non ritorni a quella tua via romana larga, con le facciate illuminate sulla destra, Jean-Claude?... La ripercorri, la ritrovi?».

«Insomma,» si stufa già Antonio «hai mai fatto dei sopraluoghi?».

«Forse potreste una volta accompagnarmi con la macchina, a quel bivio oltre Marino dove si prova come “un tuffo al cuore” emergendo da un bocage d’acacie nemiche sulla Via dei Laghi... Lì, lì si sentono come crepitanti alle spalle... certi alberghi modesti e forse piccole résidences... affacciate da sinistra su un golfo alla tua destra, come a Napoli venendo da Posillipo, o appunto il lago di Castelgandolfo pieno d’assassinate e nero... In un altro soggiorno a Roma seguivo appassionatamente sui giornali i delitti del lago: una prostituta tagliata a pezzi, e che si chiamava Pasqua Rotta... Résidences abbastanza squallide e costruite a terrazzini e gradoni – le vedo bene – ma con grande spreco di spazio in dislivelli d’inciampo dove non possono crescere fiori...

«Forse una volta si sarà ballato anche all’aperto... Ma non è più questione. Vegetazione, poca. Ora incerta e luce anche... Ambienti poco definiti, ma tornano e tornano con quest’acqua sulla destra... costanti, aperti l’uno sull’altro con pochissima gente in fondo, che non si vede o va via, rimangono illuminati solo i dislivelli... Forse un bar dell’albergo, dietro?... Però, spento...».

«Arredamento?».

«Scarso. Un paese che avrà avuto forse un pochino di turismo e di gente in passato, ma senza avvenire e senz’anima... Però ci sei già stato, proprio tu, e in epoca non remota, giacché riconosci quella radio Phonola e la macchina del caffè... E quei due cespugli morti nella vasca del giardino... Ma perché poi dei cespugli dentro una vasca?... Sembrano due grandi animali disseccati, adesso...».

«De Chirico,» fa Antonio, che non ne può già più «la sola volta che gli ho parlato, a un pranzo da un regista della Rai, ha continuato a chiedermi come si può evitare d’essere borseggiati quando si fanno dei prelievi in banca, perché è molto preoccupato da queste banche moderne tutte vetrate e vasi di fiori, che paiono salons de beauté e che lui trova pericolosissime».

Il Pictor Optimus siede col “Messaggero” in mano, che non legge. Guarda, non guarda? Vede, non vede?

 

Sembra un tapiro? Un paguro?

«Un manguro, no» trova Antonio. «Manguro è il nostro Giorgio Manganelli, che è guru oltre che mangusta e canguro. De Chirico, l’ha sentito proprio qui dentro Luisa Spagnoli, quando un gruppo di signore gli si è seduto intorno chiedendo se dovevano chiamarlo Maestro, e lui ha risposto “chiamami Peroni, sarò la tua birra”».

Jean-Claude dice solo «Chiricò, oui», e passa a chiedere se a Roma si possono vedere opere di Böcklin, perché a Parigi ha conosciuto Chez Castel la sua pronipote Anita Pallenberg, ragazza bellissima e amica di un Rolling Stone. «Ma non dovrebbero essere a Basilea, i Böcklin più belli? Soprattutto una sirena alle prese con tritoni (o forse è a Monaco?) somigliantissima alla Gaia, ragazza anche più stupenda che sta a Londra, moglie di Willie che ha fatto colazione con noi alla Romana quando abbiamo unito i tavoli... Assistente di Berenson, sì, e ospite qui a Roma dai Carandini... Amico di Peter, grande critico musicale dell’“Observer”, che abbiamo messo in contatto con Nina Ruffini perché voleva imparar l’italiano... Le famose lezioni d’italiano!... di Nina! Grande signorina piemontese, colonna del “Mondo”! Leggendaria tradizione laica! Anche innocenza illustre, in quanto prima traduttrice di Virginia Woolf, vecchia amica della Yourcenar e della Sarraute, per le quali dà pranzetti nel suo appartamento a Palazzo Doria... Ma un giorno, un po’ stupita di veder facce allibite al “Mondo”, arrivando un po’ in ritardo e spiegando: “Ci sono stati gli operai in casa, ho dovuto scopare tutto il giorno!”»...

«Si è bevuto un pochino, vero, oggi alla Romana?...».

«Ah, sì, Nina! Quando Wilcock arriva al “Mondo”, dall’Argentina, lei volendo fare delle etimologie gentili sulle radici e le origini, incomincia: “Wil-cock... vuole il cock...”. E anche i meno anglo-birichini: lasciamo perdere... Wilcock ogni tanto nel pomeriggio telefona, con lunghi silenzi. “Vedo un soldato in fondo a un prato...”. (Abita in campagna). E dieci, venti minuti zitti, proprio da lasciar giù la cornetta, fare altro, domandare ogni tanto “sei ancora lì?”... E poi: “adesso un prete sta inseguendo il soldato, saltano una siepe”... E non può sapere che quand’ero a Milano un poeta cattolico di Bergamo che stava sopra le rovine di Porta Garibaldi chiamava ogni tanto, e incominciava: “Vedo qui, sotto, nei terreni vaghi, le donne che inseguono i draghi”... E forse venivo usato come cavia durante l’ispirazione...».

«Buono, il pinot grigio della Romana, oggi, vero?».

«Ah, sì, Peter! Una volta arriva dalla Svizzera, invitato nella famosa villa di Nina nel Canavese, dove tutto è perfetto, e dove lei gentilmente ci ripete di andare, fra le memorie Giacosa e Albertini e quant’altri, prima che sia tardi... ma il Piemonte è lontano da tutto!... E prendono il tè, poi va a fare un riposino, e scende a pranzo puntualissimo, ma trova un’aria un po’ strana: tutti molto fermi che si guardano negli occhi, e il riso un po’ scotto. Ogni volta. Per tutto il weekend continua questa atmosfera che non gli è familiare e non capisce, finché partendo il lunedì osserva sull’orologio della stazione che l’ora legale italiana è diversa dall’ora elvetica; e dunque lui era arrivato a tutti i pasti con un’ora precisa di ritardo».

 

A parte Ezra Pound (e lì, un’altra volta la storia già sentita, che ormai pare un Beckett, con Pound che tace a tutte le domande facendo solo occhietti sprizzanti e ammiccanti come a modo suo Leonardo Sciascia, e finalmente dopo mille ammicchi intelligenti fa un sorriso di beffa e risponde: NO), forse solo Duchamp può tacere così a lungo come De Chirico, sostiene Antonio: lo racconta anche Ugo Mulas, che l’ha fotografato per giorni interi giocandogli insieme a scacchi... «Tu connais Marcel Duchamp?» si anima improvvisamente Jean-Claude. «Sa femme aussi? Chez notre amie Charlotte, sœur de Juliette Gréco...». Solo per una volta anche Duchamp, a pranzo da Gianfranco Baruchello. Ma come tra i famosi cantanti che si pestano i piedi per rubarsi la scena, lì ci fu (pare) un numero indimenticabile, mentre Duchamp stava zitto, del Professeur Argan. «C’est du Molière?» fa Jean-Claude. «Presque».

Le Professeur Argan aveva infatti trovato in un manuale rarissimo per confessori della Controriforma le prescrizioni per commettere l’atto di sodomia senza peccato.

Bisogna che i due, nel climax del congiungimento, invochino l’Impossibile! «Che si possa concepire un piccino mediante l’atto contro natura!». Ciò testimonierà di una Fede talmente sconfinata nell’Onnipotenza Divina, da redimere qualsiasi cattiva intenzione o peccaminoso pensiero!... (Cose da Paolo Poli!). E lì, certo, da Baruchello, fu difficile per Duchamp competere con un silenzio alla Pound o Sciascia contro i “numeri” d’Argan...

«Vous connaissez Max Ernst?» domanda Jean-Claude, perché adesso vorrebbe appurare se dipende da una litografia o dal suo inconscio una serie di immagini che gli ritornano sempre più spesso.

«Sono stazioni non tipicamente stazioni, senza segni di binari, pensiline, arcate, “Arrivi”, “Partenze”, “Partire è Morire un po’”... Certamente moderne, ma labirintiche e sotterranee, con sottopassaggi ramificati al neon, e negozi o cinema tutti chiusi... Anche scale per cui non si può salire... Forse, al di là di quei corridoi sbarrati... Ma si ha fretta!».

«Sono stazioni francesi? Con immobili da boulevard subito fuori?... Canali?... Canali anche dentro i vagoni?...».

«... O forse inglesi?... Ma nella City di Londra, fra i grattacieli grotteschi che si accumulano pieni di banche, dietro interminabili muri morti si scorgono infinite distese di binari abbandonati e banchine vuote, dove non sosta più neanche il clochard... Però sono tettoie aperte, dove entrano la luce e il sole, per niente...».

«Forse potevamo andare da Cesaretto. Lì c’è quasi sempre De Kooning, con Paolo Milano...».

Come evocato improvvisamente (ma qui è spesso in giro...), entra appunto Paolo Milano, a prendere un caffè. Ma non è con De Kooning. Oggi è con Saul Bellow.

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Si è poi visto – «on aura tout vu?» – quando per abbietta curiosità passiamo una volta a prendere Jean-Claude ora ospite di certi amici d’altri suoi amici di Parigi, in un tenebroso pianterreno appena dietro Piazza Ungheria, forse ai confini del reame d’Angheria... Ma esiste un nome come Léon de Lusignan?... («In segreto è un Bibesco! un Bibesco occulto! ma non bisogna dirlo!» secondo Jean-Claude). Questo Lusignan passa comunque sei mesi a Roma sistemando certi spot da lui inventati o messi a punto e copyrighted (“focus!”) per illuminare i quadri più pregevoli in alcuni palazzi di principi. Specialista nel centrarli e riquadrarli, dissimulando le fonti di luce nei soffitti a cassettoni dorati del Cinquecento, tra le viti e le edere, e tirar fuori i toni solari giusti per i Guercini e i Reni o i Kline. Nessun altro è capace al mondo, pare. L’appartamento è senza luce, sul traffico, preso in affitto ammobiliato, con divani color vinaccia e in ogni stanza tre trumeaux. Tappeti finti. E opere tutto il giorno, di Wagner e Strauss. Non devono averne molte, ma in qualunque momento vanno gli apparecchi stereo dalla cucina ai cessi, con Arabelle e Tristani e Maestri Cantori e Karajan “live”.

Lei nascerebbe Hermine von Hohenfelsen, allevata coi bambini Tolstoj e con un passaggio attraverso la Roma di Liszt, e perciò vecchissima, spiega Jean-Claude; e sostiene che ha sposato lui per ragioni sentimentali e intellettuali, questo prénom di Léon come l’autore di Karenina. Il più curioso è il giovanotto. Hanno lì questo bellone tedesco di vent’anni che si chiama Horst-Werner e passa per figlio adottivo o erede presuntivo: non in caso di morti violente, speriamo; però non si capisce se fa del suo peggio con lui o con lei o se fanno dei girotondi tutti insieme chiamando magari anche Jean-Claude dalla sua chambrette con vista sui bidoni in fondo al cortile di Casa Bellonci. Lui dice di no, sostiene che è un genio della fotografia, originario di Amburgo. Ma certo fa un pochino “senso” (film Senso) trovare questo Horst-Werner com’è capitato a noi in cache-sex di raso celeste lucido, come in piscina a Parigi, con solo un’arricciatura da Folies Bergère davanti, sui lati due nastrini elastici come due cerotti, e niente dietro, con tutti questi muscoli enormemente sviluppati anche nel culo dal trattamento Cyclette o Silhouette.

 

Sempre così tutto il giorno perché è estate a Roma, e quando non va in palestra sta sempre in cucina perché fa da mangiare lui: da mangiare benissimo, dice Jean-Claude tutto contento, cose raffinate; rifà anche i letti. Serve anche a letto, deve aver servito anche in albergo, e li chiama tutt’e due per nome, Léon lui, Hermine lei. Viene ad aprire la porta abbronzatissimo in questi slip, col pelo biondo lungo che luccica contro la penombra delle stanze e gli esce anche dal culo, gli occhialoni da motociclista su perché sta cucinando chissà che crépes o frittate, e il fritto schizza mentre le fa saltare nella padella: un fumo, una puzza... Grande e grosso e faaabulous e pesantone come quei brandeburghesi stupendi che fanno arrendere le città e i festival, basta che si presentino in divisa di Odoacre o SS. No, anzi, troviamo subito che questo Horst-Werner come fisico e come taglio di capelli e tutto somiglia ai lanzichenecchi cattivi dei film storici, quelli che fanno “des agaceries” a Madre Coraggio ma rispettano Lucia Mondella perché in un testo dabbene certe cose non si fanno neanche col pensiero.

Più di un quarto d’ora mi tocca star lì aspettando che Jean-Claude sia pronto (cioè che decida titubando quale metterà dei due vestiti leggeri che ha dietro in tutto), mentre Antonio si getta sulla vecchia Hermine per tirarle fuori chissà quali orribili dettagli sulla vita intima dell’autore di Guerra e pace: è più forte della buona educazione, ogni volta che càpita su chi ha conosciuto un letterato del passato e fra poco non ci sarà più. E qui lo vedo addirittura aux anges appena scopre che vivendo in casa Tolstoj la vecchia Hermine ha incontrato anche «ce pauvre Piotr Ilitch» e «ce pauvre Anton Pavlovitch», cioè naturalmente Tchaïkovsky e Tchékhov. Spariscono avvinghiati, e finché Jean-Claude non è pronto mi tocca sentire il vecchio Léon in giacca di velluto prugna, furibondo con la legge Merlin, non si capisce perché.

La trova una faccenda classicamente classista, sconciamente di casta, si stupisce di trovarla in un paese pieno di comunisti come l’Italia, e non capisce come non si tirino le bombe contro questa discriminazione fra i ricchi che hanno la garçonnière con radio e profumi e termosifone e quindi fanno tutto comodi in casa, e i poveri che oltre al freddo e al pericolo della colite appena si slacciano per far le loro cose in piedi contro gli alberi dei giardini pubblici devono anche aver paura della polizia che li arresta e li tiene dentro per anni.

Zerbinetta va e va – «So war es mit Pagliazzo / Und mit Mezzetin / Dann war es Cavicchio / Dann Burattin!...», tutto un Karajan dei più ameni... Ma il vecchio Léon brontola: «intolleranza! ignoranza! ipocrisia!». E di là, sento borbottare gravemente che «ce pauvre Anton Pavlovitch... quel dróle de goût... il s’amusait à écrire des pièces de théâtre... bien douteuses, d’ailleurs... On l’aimait beaucoup, à la maison... mais on se moquait beaucoup de lui, à ce sujet... On le taquinait tout le temps...». Horst-Werner in cucina fa volare per aria le sue frittatine – pam! pam! pam! – e s’affaccia alla porta con gli occhialoni e la padella che frigge, la tiene come se giocasse alla pelota, mentre Jean-Claude so già come fa, siede come ripiegandosi e guarda la sua giacca grigia senza muoversi.

 

Pepe e spezie! Se incominciamo a starnutire, diventa la cucina della duchessa in Alice in Wonderland!... «No, non è soltanto il furore contro il peccato!» mi fa il vecchio Léon, che mi vede per la prima volta e crede che io sia un brasiliano di Berna. «Si capisce che ci sono anche degli interessi economici ben precisi dietro questa discriminazione fra ricchi e poveri: l’operaio dev’essere obbligato a non sciupare le sue energie, altrimenti lavora meno alla catena di montaggio. Ecco perché lo arrestano quando si mette in condizione di farsi venire un maldipancia da freddo che dura magari quindici giorni. Il padrone invece fa quello che vuole, e nessuno lo tocca: tanto lui va solo due ore al giorno in ufficio per dare gli ordini con la segretaria sotto la scrivania! E tutt’al più, quando esagera, lo ricattano a scopi politici, così come si fa il chantage a quel ministro preso in macchina col bersagliere che non ha detto subito ai poliziotti di portarlo dal questore direttamente! E loro non l’avevano riconosciuto dal pizzetto bianco e dal panama bianco e dal gilet bianco! E lo so io che non sono suo amico e non guardo mai i giornali! Che paese!».

Quando ricompaiono dietro Jean-Claude finalmente pronto uguale al solito – «eh le voilà! habillé en petit bourgeois!», come sospirerà Balthus, trovandolo in giro a Villa Medici – vedo che Antonio ha proprio perduto il barlume, è al suo peggio. E mentre i tre rimangono e rimettono su la loro Ariadne da capo e siedono a tavola in cucina a mangiarsi le loro crépes, e la vecchia Hermine con l’aria d’averlo già ripetuto le mille volte ridice al ragazzo che ci si serve dalla parte più vicina del piatto di portata e non da quella più lontana, e per non sbagliare anche nel mangiare si incomincia dalla parte più vicina nel piatto che si ha davanti, anche per non lasciar cadere il boccone dalla forchetta durante il tragitto... ci abbattiamo in macchina l’uno sull’altro e Antonio prima ancora di mettere in moto chiede a Jean-Claude se è mai possibile che la vecchia Hermine gli abbia raccontato che una volta «ce bizarre Anton Pavlovitch» aveva mandato dei biglietti per la prima d’una sua commedia «où il y avait question de cerises»... e non solo nessuno della famiglia Tolstoj c’è andato, «mais on l’a beaucoup asticoté, a ce sujet, après»...

«Certo,» fa Jean-Claude «perché papà Tolstoj non solo non vuol neanche leggere Il giardino dei ciliegi, ma dice: “Mon cher Anton Pavlovitch, les pièces de Shakespìr sont bien mauvaises, mais les votres sont encore pire”, e gli consiglia di scrivere piuttosto qualche novella “bien naturelle”... Ce lo racconta sempre!».

«E su Tch-tchaïkovsky?» chiede Antonio.

«Non ti ha fatto rivelazioni?» domanda vispo e irritato Jean-Claude. «Ci sono voluti dei mesi di confidenza per vederla arrivare al punto di mandar fuori la cameriera dalla stanza, assicurarsi che nessuno senta, e poi mormorarti all’orecchio dei segreti di famiglia pubblicati ormai perfino sull’Enciclopedia Britannica: per esempio che “ce malheureux Piotr Ilitch était... ehm... ehm... un peu... comment dirais-je... homo... sch... sch... sch...”. E non solo lui, ma anche suo fratello, “ce mauvais Modeste”, che aveva una gran barba lunga e gli arrivava fino alle caviglie... Fattela raccontare, non hai un’idea di cos’è, detta da Hermine, la storia di loro bambini che vengono per la prima volta a Roma tanti anni fa, coi Tolstoj e tutto, e a una matinée al Salone Margherita intravvedono “ce vilain Modeste Ilitch” che sta facendo “des choses” in galleria “avec des jeunes gens à l’air fort équivoque”... E la contessa Tolstoj non solo finge di non vederlo, ma ordina ai bambini di non salutare nessuno, e li porta tutti fuori di corsa in una sala da tè... Ormai non riesco più a passare per via Due Macelli senza immaginarmi questo frullo di bambine Tolstoj su e giù per la rampa Mignanelli, ricche, vestite di bianco, col papà che non ama Shakespeare, e dal suo punto di vista magari ha ragione, e là in fondo alla galleria l’affreux Modeste che si fa delle ppp... con dei marchettoni di settant’anni fa... sotto il suo plaid di barba russa...».

«Ci vorrebbe Zola...».

«No, ci vorrebbe un Poeta. Non avete un Babington?».

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Desideria appena vede Horst-Werner dice «par d’essere a Parigi». «Vous connaissez?» domanda Jean-Claude. E lei: «Me lo ricordo benissimo un anno e mezzo fa, perché l’ha portato a un ballo un signore che conosco io e che fa gli addobbi ai balli, e lui ha portato via a un altro signore che fa i matrimoni diversi gemelli che quello poi ha dovuto ripagare: ancora adesso, dopo un anno e mezzo, è lì che mangia pane e spinaci».

Lo vediamo per una decina di giorni dappertutto dove si va, «ce vilain Horst», in giro con tutti, vestito molto da città, con giacca stretta e colletto alto, gemelli da polso in filigrana a forma di libellula, e di valore null; e parla francese col raspino tedesco rustico che anima Antonio e anche me.

Racconta che ha visto un bel pullover di cashmere rosa in via Condotti: prezzo ventottomila lire. È tornato nel pomeriggio coi soldi e ha trovato un carabiniere che se lo stava comprando per sé, in divisa, e se ne è andato via in motocicletta. Peccato, proprio, non aver potuto combinare un pranzo con Horst, Renato, il carabiniere, e una gara di golfini e fotografie di fidanzate ai tavoli. Poi Horst-Werner sparisce, e nessuno a Roma lo vede più.

Meneghella telefona a Antonio, preoccupata per Desideria. E insiste parecchio: «Portatela fuori, distraetela, portatela in giro in qualche modo, voi che siete amici, non vedete che non mangia, non dorme più, non ha più peso...».

«Ma Meneghella la protegge o la distrugge?» gli chiedo.

«In un suo brusco modo... direi... la custodisce... E poi, se si esce insieme, conta di far parte anche lei del gruppo».

«Ma non t’aveva raccontato lei, scusa, che Desideria e quel suo marito o fidanzato erano una coppia esemplare alla Choderlos de Laclos, col loro patto infernale funzionante dietro la facciata “impeccable”?...».

«Je donne à son courroux un sens plus secourable».

«Non era lei a insistere sul mito delle albagìe, sul potersi permettere tutto restando sempre “son chi sono”?».

«Non mi suona, non credo d’avertelo mai detto io... benché tu non sia il primo! Ma chissà cosa avete capito, voi vaghi, nei vapori... Chi confondeva Frugoni con Valdoni, eh?... Meneghella si anima perché la vede come una fragile, un’indifesa che avrebbe bisogno proprio di lei... senza dimora, senza patria... senza nessuno... Se la ricorda vestita come una pazza, dice: a cinque anni, già da signora in cappellino e borsetta; e a quindici, da neonata vittoriana a volants... con le fate cattive intorno... Ma è un’altra storia... E la facciata impeccabile non rientra nel lessico di nessuna delle due: è come dire un lauto pasto o una signora scopata o un quadro “che funziona”...».

 

Ci si può fidare, poi, di Meneghella, quando tira fuori le sue storie?... È buona perché è una disgraziata? non sarà volutamente malevola, col pretesto che ha tanto sofferto? È mitomane in quanto l’esistenza non è stata carina con lei, come se ci fosse un nesso? È grande fanfarona, quando poi si limita a raccontare come sogni premonitori quello che si sa tutti dalla sera prima o dal giornale?... Cosa vuole? Alla vita, prima di ricevere quelle risposte “exécrables”, aveva già detto sì sì o no no?... Una sera, mentre si aspetta Desideria a pranzo, e la si aspetta come sempre per ore, stanno tirando fuori storie di sua madre; tutta o in parte americana; ma mi pare tutto un collage di clichés anni Trenta che ho già sentiti o già letti: abita ovviamente a Newport, molto molto più vecchia di lei, campionessa di golf in età remote, storie di traversate sul Rex con tutti i personaggi delle varie epoche, anche industrialessa di palle da tennis, o pile e batterie, o aspirapolveri...

Meneghella racconta di avere avuto per anni il dubbio che si facesse la barba. Poi, una estate in campagna a Bracciano, passano una mattina con una carrozza della Marina a prendere Desideria che avrà avuto sei o sette anni per una gita di bambine al Soratte. Lei non è ancora pronta. Meneghella e le bambine chiamano dal giardino, e s’affaccia questa madre: bene, aveva una guancia insaponata.

«Vive ancora?» domanda Jean-Claude.

«L’ho vista neanche tanto tempo fa» dice Meneghella. «Proprio a New York, accompagnando un’altra vecchia con la labirintite all’aeroporto, e siamo rimaste a vederla partire. Ma c’era un jet lì a due passi, e con tutti i rumori non si sentiva niente. Vedevo, sì, che lei continuava a parlare; ma mi limitavo a farle qualche sì. Parte l’apparecchio, e io sento solo: “... perché a lui le congratulazioni le ho mandate, è inevitabile, ma non mi si chieda di farmi venire in casa anche la famiglia”. Avevano appena eletto il presidente».

«Degli Stati Uniti?».

«No, dell’Italia. Ma soprattutto me la ricordo d’estate, in Via Condotti, a far gli scambi con le figurine dei “Tre Moschettieri” durante la guerra d’Etiopia: è stata una follia nazionale, anche delle Chigi e dei Ruspoli e altri “neri” davanti al Caffè Greco per completare gli album con le figurine rare, è dovuto intervenire nientemeno che Ciano per far smettere... È stata molto famosa, à l’époque, per la mancanza di senso della simmetria: due, tre, quattro, venti, cinquanta quadri o quadretti, in casa, e sempre uno più su e gli altri un po’ più giù, come sbiechi... Mai su una stessa linea, mai niente in asse con nient’altro...».

«E il padre, c’était bien le prince?» chiede Jean-Claude.

«Ho conosciuto solo il patrigno, che aveva novant’anni e toccava appena appena tutte le donne con un po’ di sedere in quel loro ascensore a due posti. Senza far distinzioni. Non ha mai elargito un’aranciata in casa sua, andava sempre a messa ai Santi Apostoli, e però la notte di Natale uscendo mangiava la sua pasta da Latour, che costava una lira invece di cinquanta centesimi come le altre, erano paste buonissime... Ma almeno aveva il pudore di tingersi i capelli di viola, non voleva contarla a nessuno, quando viaggiava coi Capodimonte in America. È morto poi là anche lui».

«M’ha raccontato lei una volta, infatti,» si ricorda Antonio «che con questo patrigno sono scappati negli Stati Uniti subito all’inizio della guerra. Il cugino ricco ma non capofamiglia era stato internato come suddito nemico in Inghilterra, perché aveva rinunciato alla cittadinanza libanese prendendo l’italiana proprio nel ’38: quando la cognata gli aveva fatto dare da Vittorio Emanuele III il titolo di duca di Tor San Lorenzo in cambio della famosa collezione di dipinti su lavagna che adesso è nelle cantine di Palazzo Venezia... La madre li ha raggiunti molto dopo, per star dietro agli interessi in Europa e far tutte le fotografie ai mobili che sarebbero stati poi razziati nei disordini; e siccome partendo d’estate lei aveva le calzine di filo e la madre aveva raccomandato “attenzione che la bambina non si sdia”, per tutto un inverno gelato nel Connecticut le calzine sono rimaste bianche di filo “perché la mamma ha detto così” – inesorabile, il patrigno – mentre le altre arrivavano a scuola con calzettoni e scarponi, sotto mezzo metro di neve».

«Anche perché erano una coppia di famosi tirchi» aggiunge Meneghella. «Famosi, qui a Roma, sotto il fascismo: lei aveva preteso a ogni costo le tessere del dopolavoro per sé e per Don Sebastian, per andare al cinema con lo sconto, malgrado tutte le pile e batterie nel New Jersey; e finalmente c’è riuscita, a farsi iscrivere, anche perché nella loge privata degli Odescalchi, al cinema Odescalchi in palazzo Odescalchi, non c’era mai posto fra tutti i parenti. Ma quando l’impiegato domanda le fotografie, non si erano mai fatte fotografie in quella casa, per non spendere; e farle apposta per l’occasione sarebbe stato come buttar via da una parte ciò che si risparmia dall’altra. Allora lei ritaglia da un gruppo di dame di Corte il suo ritratto, in diadema e fascia, tagliando via la regina Elena; e prende da un gruppo vaticano la figura di lui in uniforme, sforbiciando Pio XI. Le porta all’impiegato, lui le guarda, in mezzo a tutte queste altre foto di tranvieri e fruttivendole, e domanda “allora cosa mettiamo come professione? artisti di varietà, vero?”». E poi, sempre incongrua, soggiunge come già pensando ad altro: «Se ci ricordiamo che per noi la più brutta parola conosciuta era allora Frauenzimmer!...».

 

Jean-Claude più tardi ha il culot di chiedere a Desideria stessa il perché di questa amicizia con Meneghella, sans sense of humour. E lei ride: «Ma va benissimo... Le stanno cadendo addosso in questi giorni una quantità di ex-amiche abbandonate e frananti: ex-suore tentatrici, ex-pastorelle del Bolshoi... l’ex-cavallo del duca di Wellington: altra storia... E la si trova addirittura felice: lei fa i suoi paragoni...». Ma in questi giorni Desideria protegge soprattutto Violeuse. «Qu’est-ce que cette Violeuse?» domanda jean-Claude allarmato, appena la sente.

«Trattasi» (come dicono loro) di una ex-cantante, forse italiana e forse slava; già vista con Desideria al mare, prima di Spoleto, ma là Jean-Claude non c’era. Moglie o compagna di “editor” o redattore poetico d’una rivista ideologica molto stalinista e molto romanesca: Belli, Pinelli... e lei rapata da ragazzina in quanto collaborazionista: ragguaglio scoperto su qualche giornale friulano di Trieste dai cosceneggiatori coproduttori (e lì: «cosce, copro...») di un film con Tognazzi sulla Beffa di Buccari. (E per una settimana si canticchiò: «Le Lettere sui Buccheri, dalla Baia di Buccari, al Palazzetto Zuccari, malgrado Mino Màccari...», e anche peggio). Deliziosa! Giovanilissima! L’Amore e il Chiosco!

Con una calvizie inarrestabile, sempre un qualcosa di zebra e leopardo e pipì di tigre addosso («la segatura del circo equestre, gli asciugamani della palestra, la bigliettaia delle giostre...» sono alcuni dei madrigali), e un birignao diviiino: «caaara, come ti trovo beeene, quando vuoi fare del footing chiaaamami, io ci sono seeempre...». E soprattutto, imprenditoriale. È lo spettacolo che li diverte quest’anno, sconciamente, tutti, ancora più che andare su qualche set a curiosare nei film mangiando col cestino della troupe delle Cleopatre di seconda e di terza, gomito a gomito con le Gianne Marie Canale e gli schiavi da gettare alle murene a Torre Astura... Questa Intraprendenza Premiata, queste loro ex-Finte Astute che mettono su dal niente imprese e aziende, e da una parrucchieria nasce un ristorante, e da una massaggeria un garage! e subito le Ninfe dell’Atelier incominciano a guadagnare tanti soldi che si vedono immediatamente, facendo funzionare proprio in una città come Roma una organizzazione milanese di tipo americano senza assolutamente capitali iniziali ma con tutti che corrono perfettamente in ordine e sotto controllo già alle otto della mattina: basandosi sul frou-frou dell’Italian Boom, e aziendalmente efficientissime... Quadrature mentali da cavaliere del lavoro della Febbre dell’Oro, Secondo Impero, Nuova Frontiera...

... Quindi giustamente proclamate Madame Verdurin della Via Condotti per la loro influenza sulla Vita Culturale, secondo tutti questi, che mai nella vita hanno guardato l’ora per coricarsi o svegliarsi, però magari nel relax d’una giornata lenta scrivono più che a Milano negli orari aziendali con la luce accesa per la cappa fuori... Sandro De Feo tiene aggiornato il listino delle Verdurin, coi punti. E loro grande sport o mania: ognuno ne scopre una e la manovra, la lancia, le suggerisce smanie mai provate, la eccita a formare dei clan frenetici, con sigle esclusive, dissapori e scismi... Le suggestionano, le animano, le scatenano, e quando sono pronte invitano gli altri a vedere le litigate e le polemiche.

«È molto più brava la nostra». «No, la mia è più ridicola della tua». «Ma questa è più attiva, dorme meno». «Molto meglio l’altra, che almeno è villana con tutti e offende in maniera diretta e personal». «Prova a farle mangiare gli asparagi». «Tenta di farle pronunciare chaud-froid». «Queste due facciamole incontrare la settimana prossima». «No, aspettate, la mia non è ancora à point».

Se le scambiano come figurine, valutandole come in quella famosa Borsa dei Tre Moschettieri, ma ormai i nostri Tre sono inevitabilmente Proust, Musil, e Joyce. Poco frequentati, gli ultimi due: così una Verdurin può valere tre o quattro Clarisse, mentre ci vogliono addirittura due Diotime e un’Agathe per fare una Villeparisis. Ma mentre un generale Stumm qualcuna l’ha incontrato al Quirinale, e valeva un Norpois, dove trovare invece un elegante finanziere ebreo désabusé in politica e amico delle grandi idee come Arnheim? E soprattutto; chi potrebbe essere uno Charlus vero a parte il solito Visconti, e quali saranno i finti? E allora se manca un loro Morel, subito bisogna inventarglielo, magari nell’incantato mondo del calcio (il violino tira poco). Anche per non privarsi del grande gaudio quando un Marc o una Chantal sempre conosciuti soltanto per nome, tramite alcova pervengono a un loro divismo, e da un certo giorno incominciano ad aver diritto al finora sconosciuto cognome... Si scopre su “Oggi” e su “Gente” che l’avevano!

 

Tra queste forsennate creature che sbraitano al telefono e smaniano in Via del Babuino e si accapigliano in tutti i ristoranti su un articolo di giornale o un film “in uscita”, o una polemica su un’inchiesta con ventiquattro domande su Realismo e Mezzogiorno e Sinistra, tutto uno scambiarsi pranzi dove il movimento non manca, e il malinteso nemmeno... Un arredar mansarde: che gran momento per il finto legno, anche grande strepito per i treillages, treillages fuori, treillages dentro, anche treillages finti dipinti sui soffitti dei bagni, «Correggio, Mantegna, Nobilis, vabbè, noh?»... Ma anche in due stanzettine, miniature d’appartamenti “bene” che non ci sono mai stati, ecco le due tavoline abbigliate ai lati del sofà! E sostituire automobili, cambiare housses, rivelar confidenze e gaffes di ministri o di parrucchieri, e telefonate, e scopate, e congiure, e ripicche, fra chèques che si firmano, checche che svolano, affetti trasformati in dispetti, e anche naturalmente, come direbbe il Poeta, «una Viceversa»... Amicizie buttate via come niente, coniugi messi in un’altra casa, nuovi che si installano, stranieri che arrivano, dormir tutto il giorno, urlar la notte fin dopo le quattro, svegliarsi con l’occhiaia e i giornali, dar giudizi su tutto, gaffes via l’una l’altra, posti dove per un mese si trovano tutti insieme e il padrone ne approfitta per incominciare a dar da mangiare male, e poi improvvisamente deserti anche perché ciascuno ha litigato con tutti gli altri... E la piccola fiammiferaia del tabarin diventata regina-madre del consumismo o del comunismo incomincia a metter su un suo piccolo tono... «She speaks!»...

 

«Dice la sua! Sui film! Ha cominciato!... Hai capito?... La dice proprio! Ma vi rendete conto?»... E qualche tempo dopo: «Adesso, anche sui libri! Dà giudizi!»... E di qui, anche veri colpi di mano nella politica culturale della Nazione – i giudizi della Nuova Signora e della Vera Contessa! anche politici! e poi arrivano anche lontano lontano, propalati dai giornali, ingigantiti fra le serve... mitizzati nelle periferie... commentati sulle terrazze e sotto i föhn... Qui però si vedono proprio nascere, in queste seratine fra il gaio e il tumultuoso che tanti racconteranno per sentito dire... come toccando con mano questo rimescolìo di esuberanze e fettuccine, fotografi, Gucci, Capucci, Moravia, pappardelle, pelliccerie, Visconti, Balenciaga veri e finti, “Il Mondo”, “L’Espresso”, l’Avvocato, grisaglie chiare col gilet, vecchie Citroën nere, il finto-legno, il finto-marmo, il pinot grigio, il Quarantacinque, Fregene, nuove contesse, Praga e Budapest, il twist, la Sinistra, Doney, il neogotico, cha-cha-cha, Stalin, l’Avvocato, Valentino, Cina e Cuba, «e non trascuriamo i cattolici!», caschi di parrucchieri, pomodori al riso, Valentino, l’Avvocato, il Cinquantasei, l’84, “Oggi”, Togliatti, Fellini, Rosi, Roma-Lazio, foulards di Hermès, funerali di Togliatti, supposte contesse, l’Avvocato, Studio Uno, duchesse, braciolette scottadito, pittura di solfatare e minatori, Caroselli per i digestivi, prime al Quirino con nèi e cicisbei e mignotte, Moravia che ripete ogni sera alla Campana «prendiamo la peracotta, tanto siamo tutti peracottari, no?», Marcello Mastroianni, “Rinascita”, Fendi, tavola alle Colline Emiliane con Palazzeschi e Bolognini qua, e Andreotti con la squadra della Roma là, Lancetti, nuove marchese, fernet, «con qualunque forma di rivoluzione, questa è la classe che prende poi il Potere?... o no?»... Film impegnati, sonetti romaneschi, psicanalisti e comitati di gruppo e sezione e quartiere, doppiaggio, Rugantino, Alfa-Super, Alka-Seltzer, chintz lavabile, sottosegretari napoletani, magistrati mondani, Celentano in televisione e in trattoria, “Paese Sera” per i programmi dei cinema, Elsa Morante che lo sventola ogni sera a tavola urlando «Bisogna far qualcosa!» sia per la bomba atomica sia per i gatti (e Gadda, la mattina dopo: «ha gridato parecchio anche ieri sera?»), Carlo Levi col complesso di Giove e le camicie rustiche sulla porta del Canova, l’action painting acrilica e i primi dipinti solo bianchi o tutti verdi, Mimì e Mimise in camicette rosa... «Cara divinmarchesa, si va solo a vedere – rituali S and M, e metafore del Potere. – Per fortuna, d’estate, ce n’è tutte le sere. – E poi a casa, ovvìa, ce lo si mette nel sedere?».

 

... E la fenomenologia al Café de Paris, con gelati e fotografi e trucidi che urlano «a’ bella sorca!» a chiunque attraversi la strada fra Rosati e Doney (e Nora Ricci: «dobbiamo rispondere “grazie! grazie!” col gesto della Regina Madre d’Inghilterra al finestrino?»)... L’Alienazione portata in giro per antiquari e attrici e Piazza Navona, fra carteglorie trasformate in appliques e trumeaux falsi di Città di Castello e i nuovi cabaret “Trine & Latrine”, “Santa Satanella”, “er Succhiotto”... E i neorealisti del Quaranta intatti a ogni cocktail delle anteprime e delle sarte in completo marron o verde talora di velluto a coste con camicie a quadroni e non già a righini per segnalare adesione non già acritica, o acrilica, ma con molte riserve, tra questi gruppi vociferanti di nuove coppie dove normalmente o fatalmente lui sarà un pittore o regista o comunque “artista” di gran sinistra ribadita e ostentata, generoso nelle bibite e gran moralista nel commento dei corsivi, e lei quasi sempre una titolata a volte già declassata da una nozza precendente «o viceversa», marchesa o duchessa o modista «o viceversa», o tutt’insieme, e per lo più sboccata e salace sia con Moravia su Postcapitalismo & Neoletteratura e puntarelle, sia col guardamacchine Pronti, un vecchietto che rotola come una palla di burro gridando appunto «Pronti!» lungo i marciapiedi a Via Veneto, e arrestato in una delle prime retate per droga ha subito gli estremi oltraggi da chissà quali giovinastri a Regina Coeli, e poi ha continuato a ripetere a Vittorio Caprioli «dottò nun ce credete a tutti questi amici vostri che ve dicono ch’è ’na cosa così stupenda! è ’na cosa brutta! fa malissimo!»... E magari chi studia Storia antica a Basilea non riesce a capir bene come facevano nella Roma imperiale i cristiani e i pagani a sedere insieme negli stessi pranzi col loro bicchiere di prosecco fresco e la loro oliva farcita, per secoli...

 

... Sempre portandosi dietro intatta ai cocktail e ai pranzi e al mare come i mocassini coi fiocchetti e il cashmerino sulle spalle anche un’aria di corruccio e protesta di tipo generale da riempire sera per sera con le “cause” d’attualità e de rigueur indicate di volta in volta da “Paese Sera” a ciascun realista-moralista “professional”... per gestire full time l’engagement aggrottato fra le stampe di cacce alla volpe sopra le commodes Impero lucidissime, nei nuovi nidi, e sotto i grandi paesaggi romani d’Antonio Donghi, da Rosati, chiedendo meditabondi «per me un baby»...

... Però forse con delle gran nostalgie sotto sotto sotto da reduci della guerra fredda, bei tempi, quando era ancora così facile ostentare una scelta netta senza rischiare niente, e una figura decorosa si poteva ancora fare per pochissimo, delle vere occasioni... Tanto, c’è per lo più una sola scelta possibile nell’aut-aut fra decoro e abominio... né d’altronde servono le facoltà critiche quando si usano solo le postazioni dogmatiche... E invece i giroscopi ideologici diventano pazzi quando occorre orientarsi a caldo, da soli, fra Marx e il Cremlino e Pasolini e Brecht e i buoni preti e i preti cattivi e Lukács e Il Gattopardo e il realismo e il decadentismo e lo strutturalismo francese e il formalismo russo, la bellicosità beneducata e il pacifismo violento, e il pensiero di Mao, e le culture africane, e i film dell’Est europeo, o asiatico, e la linguistica, la stilistica, Castro, Živago, la semiologia o semiotica, i gesuiti, il revival dei preraffaelliti, l’India, il senso dell’essere, le decadenze sempre più fastose e struggenti e durevoli lungo le déconfitures proustiane, le code e codette manniane, o magari il recupero dell’Imperatrice Zita...

 

Decadenza di una famiglia, decadenza di una classe, di un ceto, di una stirpe, decadenza di tutta un’epoca, Decline & Fall anche della buona cucina, delle buone maniere, delle camiciaie che sapevano ancora fare le cifre perfette, e perfino di quei bravissimi artigiani del finto marmo, della finta malachite, della ricotta genuina, delle scarpe su misura, delle cornici come non se ne trovano più...

... In un neorealismo feudale (però anche decadente e operistico) di comitati e commissioni e minatori e sceneggiatori e mondariso e scenografi, d’opposizione e di potere, di denuncia e di festival, di protesta e melodramma e impegno, e premi, contestando il Sistema anche con una Stilizzazione Epica dello Straniamento in quel Nulla rigorosamente beige, dunque automaticamente chic!... Altro che i dibattiti sulla linea De Sanctis-Croce-Salerno-Battipaglia intorno a Metello tra il Bar “Americana” e il Caffè “Politecnico”... e le cariche alla Biennale... E neanche un’inchiesta di “Nuovi Argomenti” sulle fabbriche italiane d’armi da guerra da vendere (come si vede arrivando alla Spezia) al Terzo Mondo... Così col sostegno dei sindacati le Itale Armi fabbricate sul Golfo dei Poeti aiutano gli «in via di sviluppo» a svilupparsi di più...

... Quando gli eroi intellettuali della stagione risultano piuttosto dei Don Abbondi up to date come il Soldato Schweyk e Madre Coraggio e Galileo che mai tirerebbero un sasso di Balilla contro i carri armati delle repressioni, ma si acquattano fra le pieghe della Storia tentando di non farsi notare da quegli eroi “non indispensabili” come Coriolano, e cercando solo di durare come il Mago di Berlino même – «haddapassà ’a nuttata...» – senza nemmeno “fredonner” come Auden in fuga nel Trentanove che «qualcosa sta per cadere dal cielo – and it won’t be flowers!»...

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Sììì!... Sììì!... come nei nostri Thirties! i vostri Trenties!... Che bello! how exciting, quando tutto era politicizzato, tutto solo ideologia, e si parlava soltanto della guerra di Spagna con i ruoli assegnati come i posti a teatro e ai pranzi... prendendo posizione ogni giorno dalla parte giusta ai parties meglio frequentati e più stimulating dell’entre-deux-guerres! – scoppiano a ridere certe care salme inglesi di passaggio estivo, instancabili!... Come del resto certi “florentins” di Parigi, dopo la colazione «à Farnèse» o «à Médicis», e una visita ai Santi Luca e Martina e Cosma e Damiano, strillano incantati «finalmente anche voi! tel quel Aragon tra le Parti e Marie-Laure! tel quel Cocteau fra l’oppio e Maritain! anche voi avrete finalmente una vera società, una vera capitale! ma la vostra Università come va?»... E ricordano come sono invecchiati bene e con perfetto senso del tempo e splendide chiome candide «come seta!» i migliori baronetti rossi del Collège de France e di Cambridge – «Sraffa in bicicletta sempre bellissimo e fatuo con guance di peonia!» – quando li portiamo in giro a vedere i quadri realisti-engagés fermi in epoca di centro-sinistra e di boom sfrenato ancora ai reticolati espressionisti di tutte le crisi... Nostalgie di fili spinati, recinti paleo e vetero... Poveri braccianti emiliani e veneti emaciati e incavati, dolenti e smunti e di protesta... ignari d’ogni iniziativa privata nel “sommerso” della pelletteria, della biscotteria, della maglieria, dei laterizi, dei mobili per bagno e cucina...

E gli astratti di imitazione americana («ma non era l’arte ufficiale della propaganda culturale nell’èra imperiale di Foster Dulles?»), tutti a macchie e chiazze pessimiste preferibilmente rosse e nere con spruzzi e con spray... Ma non «ohne Titel»: anzi, con titoloni sempre pieni di vittime tropicali e martiri esotici ugualmente remoti dall’Italia del Miracolo come dall’Europa dei Blocchi. Monumenti a Caduti lontanissimi, purché Caduti... Enrichi Toti coreani, Nazari Sauri siamesi, Carsi e Sabotini in Madagascar e Salvador... E i visitatori più pensosi: «Avranno anche loro l’inconscio strutturato come il linguaggio romanesco?».

 

I Trenties? Allora è vero!... Enfin si capirà se tutti questi “addetti ai lavori” (ma quali lavori?) amano il Proletario in sé perché desiderano davvero il comunismo impiegatizio anche a costo di pagar più tasse, o sarà per far gli ultimi salti col piccolo fornaretto prima che diventi piccolo borghese col motorino e la ragazza?... Militantissimi in pizzeria: circa svolte, piattaforme e vertici, e «una verifica!» ogni giorno per tutta la vita... Grande pensiero politico!... E mai veramente chiaro se votano a destra o a sinistra del governo in carica, se stanno (coperti di riserve) dalla parte dell’America di Kennedy, o della Russia di Krusciov (dicono «un cantante sovietico, una vodka sovietica»...), o con i subalterni di tutt’e due... (Ma non dicono «un cantante statunitense, un romanzo britannico, una poetessa federale»)... Se sono in buonissima fede quando tramano con le più lunghe mani della Confindustria e della Rai per sistemare qualche congiunto e anche se stessi, o mentre manifestano pro o contro le tirannidi dalle dita che grondano sangue, e grondano anche affari e finanza e carriera per gente che si conosce e frequenta i salottini...

Ma quando mai un discorso diretto, coerente, riassumibile per concetti limpidi anche mostrando un animo di persona per bene?... Ragioni critiche lucide, plausibili, pensate secondo una “visione”?... O magari considerazioni pratiche, civiche, economiche, anche lì nella boiserie nuova?...

E invece, ammicchi e occhiolini come lampeggiamenti di intuizioni appena sopraggiunte fra complici: «stavo appunto pensando... m’è giusto venuto in mente»... Segnali confusi e prudenti che si riducono a un «ti dirò! poi ti faccio sapere!», perché sempre «non è questo il luogo per»... Non c’è mai, il luogo per... Per certuni e taluni, esiste un luogo per?... Mi faccia sapere. O «ma mi faccia il piacere?».

 

... I Trenties! I Trenties!... Il metallurgico e le appliques, il sottoproletariato e la moquette, lo sciopero e la millecento bicolore, la lotta di classe e il Luigi XV décapé!... Tanto, Krusciov è «di una carineria!» e il Vigesimoterzo anche: «a perfect dear». E soltanto qualche povero disgraziato avulso dai contesti non avrà almeno un paio d’amici comuni coi Kennedy, per le informazioni sulle cose... «Qui verrà una poltroncina strawberry, qui un bois clair, e qui una violeuse» dice elle-même a Desideria che la va a trovare in un appartamento nuovo appena cominciato in Piazza di Spagna, dove si sta lavorando a tappare l’unica finestra che guarda direttamente su Villa Medici e il Pincio, per sistemare una vitrine di ceramiche provenienti da diversi paesi tra i quali taluni fortemente impegnati nelle migliori lotte d’attualità, in un saloncino di trumoncini Impero, Secondo Impero, e «diversi Luigi, purché autentici»; e qui le cade questo delizioso “bois clair”, senza che si capisca ancora se sta parlando di un mobile o di un sedile o di una pendola o di se stessa... E l’Uomo Senza Qualità poi rielabora l’entrata dei mobili in forma d’operina per Settimana Chigiana. Ancora Violeuse, grida: «Devi assolutamente comprarti un disco meraviglioso che so io!». E dietro una scatola di fiammiferi l’inimitabile Verdurin scrive «Adagio di Albinoni» per Oriane. «Dunque un Balzac vivant!» mi rinfaccia Antonio. «Completo di splendori e miserie e fisiologie e illusions perdues come “Il Tempo”... intendendo ovviamente il quotidiano...».

E ci lamentiamo?... E ci si permette di fare i difficili?... «Ma tu non sai che qui si aggettivano i verbi all’infinito come nelle vecchie licenze liceali? Dicono “il perpetuo divenire”, come agli esami! Indirizzandosi alle masse sfortunate! In qualità di coscienza carismatica!».

«Ho sentito “un perpetuo distinguo” che mi pare anche meglio. Ricorda certi vecchi docenti in vestaglia crasseuse».

«Ma qualche volta l’infinito cattedratico diventa più riflessivo: “il loro permanente sciogliersi e risolversi e rimettersi in causa”... Qui entra in gioco il Potere delle Credenze, con l’egemonia dei centrini e la leadership delle chicchere, nel tinello del Ne Varietur...».

«Se sento ancora uno “stigmatizzare” con forte accento napoletano, la mano potrebbe corrermi al clistere?».