GAETA
Ci fermiamo a Gaeta, perché s’era deciso almeno di bere dopo la metà strada. Non c’è più nessuna fretta d’arrivare in tempo per l’aliscafo verso le quattro, già dato per perso, quindi niente correre; e tanto vino bianco, invece. Klaus all’aeroporto ha trovato un messaggio con un bell’invito di un suo amico, e stasera dormiamo a Napoli. Domani anche se è domenica non si troverà poi tanta gente sull’isola, è ancora presto nella stagione. E in mattinata si fa in tempo a fare una corsa al museo delle porcellane: loro ci tengono tutti, molto, moltissimo. Anche tu ci tieni, Topolino? Uh, wow, quanto ci teniamo anche noi.
Il vino che vorrebbero darci è Falerno, sul fiasco c’è scritto «post fata resurgo», siamo appena passati attraverso il «complesso alberghiero Averno», con pizzeria western e condominii Bauhaus a sei piani, e il ristorante moresco ha una vetrinetta di bottiglie in forma di diavolo, con la testa come tappo, coi suoi cornini. Subito Antonio prima ancora di versar da bere incomincia a spiegare ai due come la vede, la chiave stilistica di questa Italia si chiama Amore, e come dovrebbe funzionare il romance.
Ma dove siamo? L’aria fuori è grigia, col cielo coperto; qui dentro sui muri ci sono solo affreschi di allegri montanari, hanno delle stelle alpine in un vasetto davanti all’acquario delle murene. È Gaeta o è Tirolo? Quando suona l’ora, la pendola del ristorante è a cucù, e i campanili fuori sembrano tutti a carillon tipo Olanda o Westminster, malgrado gli altoparlanti. Qui, casa zombies, mister?
Metto su il mio cashmere, par d’essere a millecinquecento metri. Esco un attimo, e lì davanti ecco un vero Satyricon di erettei e propilei frananti con cupole sfondate sopra odeon e trianon bombardati e grotte rosa-shocking per i marinai americani di notte, in un groviglio di terrazze borboniche e rampe di tufo cariche d’oleandri rossi e speriamo di peccato pagano in corpo puritano; anche viceversa. E là sopra, la rocca: adesso né priapeo né mitreo ma carcere militare cattivissimo, adorno di millecento e seicento con l’immagine di Padre Pio sul vetro – certe anche con lampadina votiva sul cruscotto – e quindi per forza devo commuovermi a immaginare quanti ce ne saranno là dentro, di marinai malati d’amòr. O di bersaglieri che troppe marchette han tracannato. Vado fuori all’aperto! Basta del resto pronunciare questo infernale nome di Gaeta, o sventurati, per spaventarli a morte quelle poche volte che vorrebbero provare a far qualche brutto scherzo...
Mai più saputo se è vero, poi, o se deliziosa fiaba, quando un paio d’anni fa proprio a Roma d’estate hanno arrestato un grosso giro di marinai pugliesi eccellenti e succulenti che si potevano lasciare in casa e non portavano via niente, neanche i dischi e l’occasionale orologio in bagno. Anzi portavano lì sempre amici nuovi a far la doccia col badedas e (l’Italia!) il cha-cha-cha con l’accappatoio e la sigaretta, e (cara Patria!) le polaroid su ogni minima terrazza col bottiglione di J&B fra le petunie e le ortensie. Poi s’è saputo che erano anche belli e cattivi, sfruttavano le puttane dei lungoteveri e le picchiavano davanti al Museo dell’Arma del Genio; e così è venuta fuori anche sui giornali vergognosi tutta questa storia italiana – sarà vera o sarà mito antropologico – però sostengono che davvero un giorno i superstiti non arrestati stanno facendo colazione in refettorio al canto di un disco di Mina. Saranno un millecinquecento.
Verso la frutta l’altoparlante dice: «Silenzio! L’ammiraglio ha da fare una comunicazione!». E subito dopo questo ammiraglio: «Siete delle brutte checche dalla prima all’ultima, né più né meno di quelli che vi dànno i soldi! E non crediate di non esserlo perché vi fate pagare! Buongiorno!».
Comunque è una vecchia solfa che tradotta in inglese il suo successo ce l’ha ogni volta, quando la si racconta a Londra. Naturalmente insieme a quella dei due marinai di Milano che si chiudono a far des choses nella stanza del Segreto Militare, dove si nasconde il Codice insieme alla sua amica, la Cifra. E arriva improvvidamente un sergente siciliano, dunque il più tradizionale Colti in Fallo! «E desso?». «Desso per un po’ ha guardato, indi – Salvatore di nome e di fatto – s’è fatto une chose anch’esso!». C’è un illustre vegliardo della Generazione del Trenta che se la fa ripetere da Antonio tutte le volte che lo si incontra al Covent Garden, una volta anche alle spalle di Luise Rainer in un entr’acte della Luisa Miller. E c’è poi anche un seguito con risvolto: il marinaio autista della mandata dopo, calabrese di successo, che ben altro al di là dei totem e tabù di routine pretende di farsi fare dai signorini, aggrappato agli alberi sopra Villa Madama, fra l’ammirazione dei compagni in libera uscita per i pantaloni regalati alla moda, commentati in piazza Mazzini e approvati nei diversi dialetti; e poi tutti invitati felici a mangiare la pizza in piazza Bainsizza. È questo che dà il telefono e dice «chiamatemi nelle ore d’ufficio, se risponde l’ammiraglio dite di passarvi Paolo, che son io». Chissà se c’è ancora, o se sarà qui.
Tornando dentro, piuttosto, gli chiedo se almeno ricorda o no che questa rocca di Gaeta è la medesima difesa contro cet affreux Garibaldi dalla Regina di Napoli, Marie-Sophie-Amélie duchesse en Bavière, della Branche ducale, ci-devant palatine de Deux-Ponts-Birkenfeld, sorella di Sissi e cugina di Ludwig. Infatti quando poi nella Prisonnière di Proust lei torna a prendere il ventaglio in casa Verdurin dopo quell’indimenticabile serata incresciosa, protegge il povero Charlus sbertulato dicendogli appunto che il suo braccio «autrefois à Gaète, a déjà tenu en respect la canaille», e che «il saura vous servir de rempart». E si era ben messo in chiaro: «cette femme héroïque qui, reine-soldat, avait fait elle-même le coup de feu sur les remparts de Gaète». Macché.
Lui e Jean-Claude insieme, solo a sentir nominare Proust si mettono a fare degli urli da iena. Antonio addirittura grida «anche tu! se cominci a usar Proust come i kleenex anche tu, è una situazione kafkiana!». E mi dice di andare a girare i remparts con le Vergini delle Rocce. «Ragazze in-com-pa-ra-bles! in-ou-bliabliablia-bles!»... Ma non le conosce nessuno! Ma chi le conosce? Ahò.
«Ma come! Massimilla prega. Violante si uccide coi profumi che le manda la Regina: Marie-Sophie-Amélie, lei, sempre lei! E Anatolia è quella che ci fa viiivere, è la nostra aaanima, è per noi tuuutto! Abitano un romanzo tutt’altro che da buttar via del povero Imaginifico, tutto un notturno legittimista che ha per pivot il fantasma appunto di Maria Sofia all’assedio di Gaeta e poi in esilio, di dove manda (se lo sapesse Charlus!) queste fiale di essenze estenuanti alla Casa delle Tre Ragazze – un topos? – che annasano, annasano, uh madre mia quanto tirano... E poi stanno malissimo!... Narici in fiamme!... Inestimables... Impayables...».
«Più di The Incomparable Max?».
«Care marmotte, è proprio nelle Vergini delle Rocce che si trova anche un famoso passaggio moderno, inzomma: “Era il tempo in cui più torbida ferveva l’operosità dei distruttori e dei costruttori sul suolo di Roma. Insieme con nuvoli di polvere si propagava una specie di follia del lucro, come un turbine maligno, afferrando non soltanto gli uomini servili, i familiari della calce e del mattone, ma ben anche i più schivi eredi dei maiorascati papali, che avevano fin allora guardato con dispregio gli intrusi dalle finestre dei palazzi di travertino incrollabili sotto la crosta dei secoli”...». Bevono l’Averno e il Falerno finti: come turisti «près des remparts de Séville, chez mon ami Lillas Pastia», altro che la reine de Naples sur les remparts de Gaète. E come insiste, lui, con questo film.
«Basta, non se ne può più,» dice prima di tutto «con la solita solfa le mille volte vista della Bella Straniera... musino giovane o retour d’âge fa poi lo stesso... Ma comunque arriva sempre a Venezia o a Roma con un po’ di pregiudizi e di batticuore: occhioni e borsettine fra voli di piccioni. Poi fa delle cose di trasognatezza e trepidazione e trasalimento, riconoscendo i monumenti lì uno dopo l’altro».
«Ha su i guantini, indicandoli col ditino?».
«Lì fra il Bernini e il Borromini incontra lo charme latino-mediterraneo in una delle due varianti invariabili: il ricciolo moro proletario oppure la tempia grigia signorile...».
«Mai una via di mezzo immaginabile fra l’abbacchio al cartoccio e il renard argenté?».
«Ma già in Henry Maria James e in Edward Maria Forster, taci tu!».
Averno, Falerno...
«Sono esigenze della produzione internazionale. Che grandi ore italiane illustrate d’incanto balneare e monumentale si trascorreranno per contratto fra verdure e fontane, prima che ripassi la cara vecchia mandolinata del primo incontro, ora più struggente e con coretto mesto in distanza... ancorché avvolto nelle luci sontuose e magiche dei nostri insuperabili artigiani di Cinecittà che tutto il mondo ci invidia...».
«Barocco-scirocco?».
«Ah, e poi ci devono essere delle cose generiche di saggezza accomodante, dette da vecchia ostessa o da vecchio vetturino fra pinzimonio e chitarre...».
«E non “I saw the portiere of the palazzo in the piazzetta”, detto da qualche pittoresco inglese che sta qui da moltissimi anni, magari in una torre franante o in Maremma?».
«Finiscila, elefante, chissà che dispiacere per la tua povera zia Tennessee, che tanti sacrifizi ha sempre fatto per te, ingrata bestia! Chissà chi vi credete, per aver sentito una volta il famoso viveur chiedere “do you like finocchiona?” alla graziosa turista in Trastevere... Ci saranno piuttosto altre cose genericissime di malizia un po’ cinica e Vecchio Mondo – senza Olivetti design né Alfa Romeo né Italian Style – da parte di vecchia contessa tinta con pezze al culo e due o tre cognomi inammissibili (minimo: Bimby de Benzy? Ma sono iiio...) su sfondi padronali-etruschi un po’ ragnatelosi e croulants...».
«Amica o nemica dell’anziano napoletano che ha perso tutto quel poco e distribuisce disincantata saggezza Vecchio Continente dalla finestra di fronte?».
«Per invitarci a diventare come lui?».
«Non facciamo confusion con l’ammiccante buon senso del senile oste romano alla trattoria “Antica Europa”, coi tavolini fuori tra i parapetti e le vespe spensierate che passano!... Qui intanto si tralascia il solito segretino o misteruccio sull’eredità dei quattro comodini, con zio Italo che si comportò malissimo fra rastrellamenti e deportazioni nell’alba livida. E le rivelazioni dopo un quarto di secolo».
«Ma non siete ancora stufi di fascisti stravacconi e di nazisti con gli stivali lucidi?».
«No, no, è antifascista metterceli. Se invece sei cattolico, devi buttarci dentro la tentazione della fica. Piena di peccato, rimorso, cupoloni, e flashbacks su un’infanzia da piangere in un paese di costumi rustici».
«Però, una volta tanto, si potrebbe ribaltarlo, l’Henry M. James. Arriva un piacente straniero. Un avvenente Daisy Z. Miller jr...».
«Solo e disponibile? O già avvinghiato? Magari con una moglie pazza a Honolulu, che parla con gli ananas? E tre o quattro bambini col cancro atomico al Johns Hopkins?».
«Con gli acquarelli della pazza e i disegnini dei bambini, è più facile combinare un’esposizione, con presentazione d’André Breton. Faranno molte macchie?».
«Molto stuprata da insaziabili giapponesi sulle spiagge di Iwojima, almeno lei?».
«Ma perché dici così? Non si usa!».
«Approfittate della guerra fredda, allora! Le atrocità coreane recenti: quelle horreur! ma freschissime! Sarebbero contenti in molti. Al bestseller, cittadini! Non c’è solo l’8 settembre, pensate a Seoul: nuovi eccidi, mercati nuovi». Ma non mi dànno retta. Saggezza buttata.
«Fra il travertino e il peperino, comunque, un suo piccolo Eros rialza la testolina maligna. Il giovane Daisy Z. Miller jr (Harvard, baseball, Wall Street, Brooks Brothers) incontra la Ragazza Locale. Ed essa gli sembra la Donna Ideale. Figurarsi la Paramount! Incanto. Vesuvio. Corolle... Complessi? Solo a plettro, a Villa d’Este. E lì intanto si fanno le loro cose, fior di scopate in carrozzella e in barca del viaggiatore straniero con la bella italiana alla faccia degli italiani camerieri e barcaioli e chitarristi, a Taormina e a Cortina, al Danieli e al De la Ville... Anche magari al Colosseo in una bella notte da commedia americana, col plenilunio dorato e le ombre tutte blu».
«E lei?».
«Ah, lei sinceramente urlando, sempre cotonatissima: finalmente! era ora! tu sssììì!... tu sssììì ’na cossa grandeee!... Altro che quel disgraziato di a’ Nandooo, e quell’imbranato di a’ Mauriziooo... che ce l’hanno pure piccolooo!... È una Italian lover, lei, come se ne conoscono. Secondo voi, piacerebbe, a Parigi e a New York?».
«E Via Veneto?».
«Italiani di contorno, visti come sono. Come sono stati sempre visti dai viaggiatori. Non capiscono mai cosa fanno, però fanno sempre di tutto. Mettendo insieme qualunque cosa: Medio Evo e Medio Oriente, Stati Uniti e Unione Sovietica... Però, una buona volta, let’s face it: sia ben chiaro e dunque mettere bene in chiaro che a Roma nella café society e nel demi-monde le donne sono molto più belle e più intelligenti e spiritose e anche più alte degli uomini corrispondenti. Anche per questo si finisce per star molto di più insieme a loro, perché dopo neanche cinque minuti con questi omotti romani ripieni che dicono “come stai? che ffai? te trovo bbene! quanto te trattieni?”, la palpebra frana e la natica si rifiuta e perfino la povera vecchia sodomia se interpellata risponde no no, e tira su la trapunta...
«Inzomma, quand’hanno poi fatto le loro robine bbbeeene... verso la metà del secondo tempo, là dove quasi sempre casca il film... Può farsi strada il solito dubbio romano che queste bellone tettone per poi far le porcellerie scelgano proprio dei conigliotti o fagotti impresentabili, tenuti nascosti, e non dei bononi abbronzati da night-club col Cristo in croce d’oro che gli balla tra i peli ricci...».
«E inzomma?».
«Inzomma, questo Daisy Z. Miller jr detto anche il Daily American (in omaggio al Tema Internazionale) ritorna dalla Alcoolizzata di Boston piantando la Bellezza Locale eventualmente incinta fra le braccia dell’abbacchio o del renard, che se la sposano in una fantasmagoria di cappellini e gerani e fotografi e senso della famiglia, a Santa Francesca Romana!».
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Questo film, avevo già capito che si finisce a non farlo. È come il nostro viaggio in Polonia, ovvero le Tre Sorelle finalmente on the road al Faro “Virginia”, tant’è... Addio, cari semafori nel centro di Varsavia dove se appena ti fermi con la radio che cinguetta «cica-cica-bum» ti saltano subito dentro gli avieri e i marinai in divisa nella macchina aperta, con gran baci tenaci e nessun sospetto di astanti, perché evidentemente quando un atto è tabù non esiste il fatto... Come nell’Italia fascista dove mancava il Vocabolo, e dunque il Concetto, e a maggior ragione la Cosa: racconti che m’hanno sempre fatto perfino a Varese e a Como! La nostalgia del «non conosce la douceur de vivre chi non ha conosciuto i moschettieri del Duce»: in trattoria e in carrozza e in barca anche con dieci in divisa, e la gente non vedeva o pensava al massimo che erano i dieci figli del tuo giardiniere, maschi maschissimi indaffarati a parlar di virilità l’uno sull’altro, me l’hanno assicurato tutti i superstiti. Oggi, tutti furibondi: tutti leggono questi giornalini scapestrati! maledetti! si mettono in testa idee! puoi far colazione coi tuoi fratelli sposati e vestiti da commendatori, e pensano chissà che svergognatezze! Per i pettegoli di provincia, si sa, Verba e Res fan tutt’uno con le apparenze sbagliate.
Addio insomma cari boschi appena fuori città, sulle rive mi pare della Vistola, dove giuro che è l’ultima volta in vita mia, per ora, che m’è capitato di appendere gli abiti ai rami – e loro anche – per farmi rincorrere e naturalmente rincorrerli un po’ anch’io fra i tronchi delle betulle in un pomeriggio d’agosto, come dentro un Gauguin (o un Munch?) gustoso e pastoso alla Piero di Cosimo... E anche addio mia bella addio all’indimenticabile viale in periferia che porta diritto con un nome da vodka tipo Chernichewska o Chernjakowska alla caserma della guardia presidenziale, dunque i più alti e più benmessi, e durante il rientro serale basta una bottiglia di Wyborowa a gradazione alta per scatenarne sette o otto dentro i cespugli, e se si ritorna la sera dopo se ne trovano lì il doppio perché hanno sentito i racconti dei compagni, anche atleti di propaganda per i filmini dell’esercito e quindi con privilegi d’orario e d’alloggio (ho ancora a casa le foto con delle giubbe a bottoniere da cadetti, e dediche tipo Luciana Peverelli affettuosissime), e anche i più imponenti vogliono la vodka e il cespuglio – and you... Yup!
... Farewell, a long farewell anche a quella povera Praga affamata e fuligginosa e Crudelia, con le torrette nere nere e iettatorie da toccarsi le palle, e quel famoso prosciutto che non si trova mai perché è tutto esportato nelle salumerie di Milano, dicono loro... E nel solo posto di trame e brame aperto fino a tardi, un cupo Café Globus d’artisti per lo più Pierrot tristi da tovaglietta esistenzialista e salviettina negativa, il solo piatto disponibile era un’insalataccia di patatacce, e la mancia che loro dànno al cameriere espressionista è una cucchiaiata ingozzata al volo come in un numero di cabaret da vergognarsi: me l’ha assicurato anche un direttore di circhi di Stato che sogna la mensa Rai... dove l’hanno portato un paio di volte a Roma, e da allora la racconta come un mito ai suoi acrobati innamorati che m’hanno fatto anche dei gran bei numeri, però dentro la macchina (l’avevo chiusa), perché benché luglio stava diluviando fango su tutta la magica città...
E Hallo and Goodbye naturalmente all’imbarazzante Budapest, dove all’infuori di uno sconveniente bagno turco veramente turco d’occupazione (e si chiama, giuro, György Lukács: c’è anche sulle mappe) per far des choses assai superficiali sott’acqua, fra le melme dei vecchi – Stabat nuda Aestas, e stava malissimo! – la sola cosa capitata in un weekend dei più insulsi e inerti fu però molto strana: inseguito e quasi posseduto sull’Isola Margherita da un marinaio nano, o forse un nano travestito da marinaio. E quando mi sono lamentato perché dopo tutto è un paese senza mare come la Svizzera, mi è stato subito rinfacciato «e allora, l’ammiraglio Horthy?».
Comunque, per me, il posto non importa molto: anything goes, e magari make it another old-fashioned, please, come per Ethel Merman; glielo ripeto, a questo qui. Purché ci sia da far tanto, come nei nostri Paesi Bassi, a tutte le ore: via una spiaggia una sauna un cocktail-bar e i ristoranti che vanno bene e i bar per dopo e il giro dei night-clubs e la night-sauna fino a tardi e i parchi della crudeltà per quando si avvicina la bella Aurora. E soprattutto mai neanche il rischio di un’intima seratina, ma proprio neanche una, col suo candlelight a tavola, e poi, dopo l’Irish coffee e i violiiini, che cosa mai si fa, svegli come diavolini, con tutti i locali chiusi e la Piazza della Cattedrale deserta? A room with a view – and o-o-o-only you?
O il peggio del peggio: prigionieri di una bella barca in una bella caletta dove c’è poco da scendere, perché le rive sono interamente buie; e non rimane che giocare a carte, conversando della tirchieria d’altri italiani che si alzano all’alba come grilli parlanti e zelanti per fare la gita alla grotta e alla tomba licia; ma segnano le ore di partenza e arrivo per contestare i consumi di carburante; e non hanno mai fatto in tempo a comprare il mangiare, quando incontrano un’altra barca di non parsimoniosi.
Ah, no! Keep moving, e non esageriamo a fermarci in una città, quando è chiaro che non va bene. Tanto, questi tre, il loro produttore stoltamente li paga perché vadano su e giù per il Bel Paese d’estate a scegliere un po’ di luoghi d’incanto e a mettere insieme un po’ di luoghi comuni, no? Grand Tour! Big deal! Poi, Cracovia o Chioggia, si capisce che per me va bene lo stesso, una volta che si sta insieme e c’è un minimo di action. Sempre stato. Quello che detesto è andare a farmi i miei giri senza una persona vicino per scambiar le sensazioni subito a caldo. Anche il più avvenente marinaio preferisce andare in giro col suo “buddy”, e ciascuno aspetta che l’altro abbia finito con Betty o con Ann per tornare insieme e raccontarsi com’è andata on the town! Sennò, è persino capace di non scendere a terra.
E Antonio in questo va ancora bene, sta a sentire e racconta meglio d’una volta. La vitalità e gli entusiasmi di qualche anno fa li ha ancora tutti. Se mai, più frenetico di prima, più bambino; ingordissimo. (Scatta l’infanzia mai fatta o malfatta). Anche passata la fissazione dell’I get a kick out of you. Finalmente. Non mi guarda più come se fossi the cream on his coffee, male che vada mi mette le mani addosso in pubblico quando si guida o si è a tavola, così è chiaro che è tutto un vecchio familiar joke senza elegia né allergia. Come imbarazza e irrita, invece, uno di solito abbastanza sveglio e allegro, quando improvvisamente incomincia a far l’infelice abate Parini invano addosso al povero giovin signore come un cane Snoopy: «or dove, ahi dove senza me t’aggiri, lasso! da poi che in compagnia del sole, t’involasti pur dianzi agli occhi miei?»... Ma che si vada a fare un po’ di Broadway o di Sturm und Drang, per piacere! Qui, se non si diverte né l’uno né l’altro, bisogna insistere a buttarla sul ridicolo.
Non mi viene proprio, invece – anche se mi dico «cattivo! cattivo! devi fartela venire!» – una gran voglia d’andare a Capri. Tutta questa mania di Capri fra pochi habitués che hanno sempre loro... Che palle, in quei posti lì coi drinkini e i golfini tutti in ordine, e poi dover pagare il conto delle varie megere che vengono lì a rompere perché si vada a casa loro a finir la seratina, hanno preso in affitto Villa Arpia, del barone von Bagnini – bella roba, signora! E la notte, tutta una claustrofobia da isola-carcere dove quello che c’è, c’è. Però Antonio continua a insistere perché c’è sempre questo loro amico Marcello che è tanto legato a quei luoghi e adesso anzi si sta facendo fare una casa coi venti milioni dei diritti che prende per due film insieme; e uno si sta girando proprio lì. Così tutti i venerdì sera corre giù da Roma (però a Roma loro non riescono mai a vedersi con calma, sembra) a guardare i lavori della casa e del film.
Saranno quindici anni, dice Antonio, che questo Marcello non si sente felice se non quando fa il bagno da un certo scoglio ai Faraglioni – quindi, niente passeggiate per dar giù il peso – e poi mangiando certi pesci tipici, e facendo tardi la notte al caffè Vuotto, tenendo su tutti quelli che può a chiacchierare di Luchino e Zeffiro, di Giorgio e Romolo, e di Rossella. Però sempre parlandone benissimo, mai qualche storia da ridere. Una cosa spaventosa!
Del resto, Marcello non sa neanche se sarà libero al momento bruto dello scrivere materiale, è sempre ingolfato in parecchi lavori di équipe contemporaneamente. E Klaus, che si deve occupare delle musiche, sarebbe magari pregato di dare confidenzialmente anche qualche idea in generale per l’estero... È la prima volta che lavora (si fa per dire) col cinema, anche lui. Finora si era sempre rifiutato. Fa molto il serio, molto professional. Televisione, mai. Dice che al massimo era arrivato a qualche musical di Broadway, in collaborazione; e sono poi quelli che gli hanno reso di più, in notorietà e anche in dischi.
Ma sembra che gli interessino poco e comunque non ne parla volentieri (troppi compromessi commerciali, troppe concessioni agli esperti dei gusti del pubblico, ecc.), anche se l’ultimo, quest’inverno, un melodramma di British Raj e Cenerentole nell’India dell’Ottocento, sembra che sia andato benissimo, con un premio al coreografo ex-allievo di Jerome Robbins. «Un senso perfetto del ritmo, dei tempi: ma voci così terribilmente convenzionali! Senza la mente!»... E insomma anche lui qui s’abbandona fra le trappole solite: stare con degli amici... in Italia... Roma, Napoli... magari Firenze... si chiama Amore... Lui la ama molto... Fare intanto degli altri lavori, ma come in vacanza... Comincia l’estate... tanti incontri, tanto amore... tanti moti del cuore... l’occhione bruno, con tante ciglia, che non perdona... Si aspettano tutti un po’ troppo, mi sa, da questo paese.
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«E certo, che pretendono tutti un po’ troppo, con queste storie tipo Un’estate in Italia» mi fa piano Antonio, quasi arrabbiato. «E tutti poi vengono giustamente puniti; ma peggio per loro!... In principio, si capisce, sempre ottengono tutto quello che si aspettavano dall’Italia, è un paese fatto così, è una tagliola. O meglio, credono loro, di ottenere tutto, questi vaghi delle culture difficili, che ricercano come specialità del luogo tanta spontaneità, tanta sincerità, quanto istinto, ah l’eleganza dell’indolenza animale elastica... E non piuttosto la scaltrezza cogliona e la volubilità dell’incoscienza, la fintaggine, il sotterfugio magari fine a se stesso, l’imbroglio, l’opportunismo, il parassitismo alle spalle di chiunque, il trasformismo sistematico, nonché una certa ferocia pubblica e privata che nella vita italiana s’incontra sempre... Però poi se ne accorgono: alla fine viene ritolto e sperperato non solo quello che si è ricevuto, ma qualche cosa di più... Tante volte, molto di più...».
... E sarò magari fanfarone come continuano a rinfacciarmi loro, ma io a Napoli vorrei starci sempre il meno possibile, non avendo l’estetismo di merda che se ne fotte delle sofferenze dei miseri: divini occhioni, gerani, limoni, zucchini, ma troppo sgorga lo spurgo sotto il pittoresco franante (e sarà per caso colpa dell’invadente forestiero?)... E certamente, se non arriva l’ambulanza nel traffico, non va a scuola il piccino perché deve fare il ladruncolo, casca a pezzi il nosocomio baronale benché più costoso del Kantonspital di Zurigo, crepa la vecchietta dopo un sorso dal rubinetto o una cozza al liquame, e viene massacrata la famigliuola davanti al telegiornale, uffa uffa (maledetto Nord colpevole di tutto!) quanti dettagli négligeables e inutilmente polemici rispetto alla delizia degli odori e colori e sapori, dalla triglia all’aglio, alle mozzarelle e sfogliatelle che galleggiano fragranti sul mare della merda – divine! – e soprattutto quelle belle ragazze e signore così seducenti nella loro larghezza, quando urlano tutte insieme in sottana su strada o dalla finestra scolando quella loro mitica leggendaria favolosa pasta che fra i capelli sciolti e il peperoncino e il basilico evoca e convoca come minimo Virgilio e Lamartine e le sirene e le cernie e i castrati e gli angioini e gli aragonesi e Piccinni e Pulcinella e Jommelli e le porcellane della Real Fabbrica e le gouaches, accendendo più di qualunque Marilyn Monroe o Rita Hayworth i sensi e l’intelletto del turista appassionato che bramerebbe sposarle tutte, subito, e magari aver tante cognate, cugine, zie, sorelle, tutte in casa, che parlano e parlano in napoletano, scolano la pasta, ingrassare insieme, e non lasciarle mai più...
«Gli americani hanno fatto Vita con papà, non vi ricordate che successo? Perché non fate Vita con Peppino? Guadagnereste miliardi! O con un pappone?». Macché.
Mai combinato niente, e sempre litigato con tutti, dove non si fa che chiedere, avendo da offrire pochissimo. Ma fra tutti gli innamorati del Sud, quanti poi narrano una vera trama d’amore o almeno passione per una bella e interessante duchessa, baronessa, barista, donna di casa, o di strada, tabaccaia, studentessa, professoressa, impiegata del Comune di Napoli, commessa di calzoleria, protagonista dei De Filippo, vera signora, mignotta “au grand cœur”, interprete di canzonette tipiche? Eros e romance e magari adulterio o ménage à trois fra un poeta o diplomatico francese e una affascinante intellettuale o sarta partenopea, da cui poi trarre un soggetto per film? Leggiadre giovinette brune focose o languide sciamanti con edere e pampini in pose di ninfe e nereidi fra scogli e pergole e citazioni poetiche?
E quanti appassionati di Partenope vagheggiano piuttosto qualche bell’uccellone scuro e rozzo alla Caravaggio-Masaniello senza éducation sentimentale e a basso prezzo quale mai riuscirono a beccare, essendo poco piacenti e assai spilorci, nelle loro patrie francesi e tedesche dove non si fa la fame, né si tende la mano all’obolo, e dunque i più dotati connazionali volentieri mandano a quel paese?... Altro che facoltosi decadenti con gondola a Venezia o barca a Ischia per mezza pizza ai piccoli indigeni, oggidì: piuttosto, si direbbe, «Ciabattina e Berrettina – sono uscite stamattina – con la loro borsettina – per trovare Mutandina»... Ma è mai possibile arrivar sempre giù attratti proprio dalla fame sottoproletaria, dalla miseria neanche pittoresca che piace tanto perché è secolare e orrida, mentre la prosperità civile viene deplorata in quanto perversamente illuministica? dunque poco umanistica, e per niente turistica?
La depressione mediterranea... L’horror nelle strade, l’avvilimento della gente fra le rovine, la mancanza d’ogni felicità nel folklore, la compassione o l’indignazione civica ad ogni svolta: quindi gran stoltezza e only myself to blame se mi lascio trascinare un’altra volta, giacché non m’interessano quadretti e pollution, e non so cosa farmene delle drittate stradali fra una cozza e una pizza. Commedia dell’Arte, per me, no grazie (devo mettere un piccolo sticker sulla macchina?), mi fa eruttare sul golfo sfasciato: se si ricorda che era la Copacabana dei neoclassici e dei romantici... E dalla Magna Graecia in poi non sono i suoi stessi governi a ripeterle mentre si sfascia che non è ancora matura per?...
E tutti lì ad aspettare che vengano Elargite Provvidenze, per il solo fatto che loro se le stanno aspettando... Tanto vero che mentre gli altri ricostruiscono Amburgo e Monaco e Hiroshima, qui non sembra che abbiano ancora incominciato a portar via le immondizie del Dugento... D’altra parte, senza mare, senza barocco, senza aranci e limoni e miniere, e fino a poco fa così poveri che dovevano fare i mercenari all’estero, quale rendita di posizione le avrà mai elargite, agli svizzeri così derisi da tutti questi drittissimi, le industrie alimentari coi prodotti dei frutteti e del mare, e le banche, e le assicurazioni, e i ristoranti dove non dànno da mangiare la merda al turista di passaggio?
«Solita Colpa dei Borboni?»... «Ma a Parigi e Madrid non si borbonizzava in tutt’altri modi?»... «E a Parma, dove dai Borboni si passa ai Bormioli e Barilla»... «E il famoso malgoverno spagnolo, quando mai ha ridotto Milano o Cremona o Como a vecchi cessi, con le scaltrezze tra i fetori e gli scarichi?»... «E se tutte le volte che mi esaltano il babà o l’Estetica incominciassi a celebrare il Toblerone e il Rolex? E magari i quadri di Klee?».
Qui passa subito il gusto della vacanza sofferente e dolente alla Elsa Morante, torna una gran voglia di gambe lunghe fatte senza economia, gente alta che parla con calma, capelli lavati, pelle sgrassata, pustole sistemate, unghie di tanto in tanto pulite, vestiti senza troppi odori di mangiare... E occhioni chiari diversamente diviiini, piedi con scarpe e stivali su strade senza merde, birre danesi, formaggi olandesi, imprese efficienti anche a beneficio dei miseri che laggiù attendono seduti le Provvidenze, esigono le Provvidenze, protestano senza le Provvidenze...
E parlamenti seri, civiltà magari parvenues ma prive di zozzoneria, ristoranti al primo piano con tappeti spessi per terra – magari il buffet d’una stazione ottocentesca ancora con dei breakfast da grand hôtel – legno o cuoio alle pareti, il suo soffitto scuro, il suo camino acceso, magari la neve fuori, il burro lì subito freschissimo, coi toast caldi, vini franconi gelidi, lini finissimi sulla tavola oltre che in bagno e a letto, nessun pezzo che non sia d’argento vecchio, camerieri abilissimi in frac, piatti molto elaborati e competenti, brodi alcoolici con panna e curry, anatra all’arancia preparata giusta, salmone fresco e non la povera pezzogna che si dava ai gatti. Capriolo, cervo, terrine, crêpes, filetti rosa, cavialetti al tuorlo d’uovo, tante salse e chiunque le capisce, non rimangono lì sbalorditi se si chiede la béarnaise che è la più semplice e sia chiaro che non è di Berna, e poi tutti che parlano piano e non fanno gli isterici e non si sentono. Neanche le macchine sotto le finestre.
Una nostalgia pazzesca di giubbotti di cuoio e di paesaggi industriali che non siano Bagnoli, fra i boschi neri e terribili ai margini dell’Autobahn... però, privi del rapinatore per di più brutto e smunto che viene a bussare al finestrino mentre si è lì in conversazione con giù le mutande, e subito dopo arriva a battere e toccare con un gran numero d’orrende manine l’atroce sfilza dei mostruosi piccini gementi in fila per portar via il cash eventualmente sfuggito alla ruberia, mostrando al finestrino roba da toccarsi le palle per tutta la vita come le immagini delle Sante delle Lotterie, i fiori marci rubati nei cimiteri, le fotografie pietose dei parenti mai miracolati dai Santi nei lazzaretti del più profondo Ottocento... Nooo... Questo è positivismo e non idealismo, non la famosa Estetica!
... Parchi cespugliosi immensi, invece, senza rapinatori né mendicanti né infanti, nel cuore delle città notturne in quei crepuscoli lunghissimi quando alle dieci di sera c’è ancora chiaro. E si può leggere un giornale fino alla mezzanotte, almeno i titoli, anche in mezzo agli alberi, perché la nebbietta madreperla in cielo si illumina dei riflessi delle luci e del neon in città. E alle otto si è già finito di mangiare: un grosso mixed grill, non l’insalata di mare ove s’appiatta il mollusco sospetto.
Nessuno ha lagnosamente offerto un cosino penoso, una congiunta pelosa, uno sfortunato imbroglione che vorrebbe appiccicarsi fino al Brennero, con una cacata di buoni sentimenti dolosi analoghi alla buona letteratura pietosa per le gentili signore in bilico fra Poesia e non Poesia. E difficilmente i finestrini della macchina sono stati sfondati per portar via la radio o il pacchetto di sigarini Davidoff. Poi un rametto rotto di qua, degli arbusti pesantemente smossi di là, foglie secche calpestate dagli stivali coi ferri.
Grandi ombre nere, grandi entusiasti; molto abbondanti; ingordissimi, giustamente selvatici; e alla fine il suo battito secco di tacchi e catene, magari il suo inchino di testa automatico e anche démodé, però col suo pugno d’amicizia militare e via. E neanche il rimorso ideologico che si sarebbe provato a Berlino negli anni Trenta di Mr Norris, o dei bestsellers di spie. Gran senso di liberazione giovanile, per chi arriva da certi interdetti atavici in vestaglia e tabù che vorrebbero “mediare” fra il vecchio Marx e il povero Gesù per far crescere i piccoli borghesi nel bisogno, dunque conformismo e sottomissione... E però, come esplodono in escandescenze e cattiverie, i vecchi tabù del sacrificio, se per uniformarsi ai più virtuosi pregiudizi della Chiesa e del Comunismo contro i materialismi capitalistici, mai si porgono merci o cash quando “rompono” con le richieste, ma si offrono solo valori spirituali, preghiere, dibattito, dialettica, fiducia nella Storia, meditazioni sull’Aldilà...
Lo so, lo so, ormai, purtroppo, che si fa uno sbaglio ogni volta che scendiamo a sud del lago di Como... Ancora, ci sono cascato, mentre per Klaus è tutto il contrario: capace di tornare in Italia quasi ogni estate, addirittura, senza mai più rimettere piede in Germania da quando se ne è andato... per amor dell’occhio fenicio e dell’affettuosità appiccicosa, della gamba corta e storta tirrenica o ionica...
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«Antonio...». Macché. «Sentite» fa. «Utilizziamo a ogni costo il gran tema del Viaggio in Italia? Riallacciamo ufficialmente i rapporti? Facciamo i conti una buona volta con questo imbarazzante paese? A un patto, si capisce: questa vacanza casual come trama narrativa portante, però in una forma che non si saprebbe davvero immaginare più dissimile dal tradizionale itinerario del Grand Tour, sempre così bene ordinato e organizzato, geograficamente e sentimentalmente. Non facciamoci passare per stupidini, non è più permesso.
«Dunque, allo schema del viaggio geografico, cioè gli Anni di Pellegrinaggio nella Culla della Classicità, sovrapponiamo subito il tema della Formazione, il calco degli Anni d’Apprendistato: cioè appunto Bildungsroman come Grand Tour... Quell’esperienza irripetibile che si può compiere una sola volta nella vita... nell’età formativa, decisiva... quella stagione in cui ti è capitato di tutto... e hai capito finalmente tante cose... E se non possono essere anni, si ridurranno a Mesi di Viaggio, a Settimane di Esperienza... sfrenate, frenetiche... come sarebbe anche giusto, col poco tempo che c’è oggi per tutto... Ah, se solo Wilhelm Meister avesse frequentato un pochino il Satyricon...».
«Ma non vi guardate un po’ intorno?». Qualcuno deve pur dirglielo. «Con tutta la dolorosità full time e la lamentosità de rigueur nel Bel Paese, i belli e sfacciati di questi tempi e in questi posti non praevalebunt».
«Ma perché solo una letteratura di disgrazie e compianti, anche quando la realtà è così liberatoria? Pochi mesi di boom, e già il rimpianto per quando mancava il boccon di pane e si stava chiusi in casa a vegliare le salme?...».
Che tasto.
«E certo, nella letteratura-come-vita si sa che chi fa una vita di duolo vuole per lo più una letteratura di duolo, così come sembra dimostrato che chi fa una vita di mmm... esige una letteratura di mmm... Si offendono, se sospettano un po’ d’ironia per tirarli un po’ su dall’orrore della loro condizione. La volgarità va bene, perché la mmm... è anche comica, quindi è consolante e fa ridere. E la sofferenza, tutto grasso che cola, come dicono le persone fini. Ma il sense of humour? Mai! La leggerezza? Guai! Il consumatore pretende il maltrattamento dei poveretti, paga per le sventure, e si arrabbia molto se qualcuno tenta di divertirsi con la letteratura: la sente come una cosa contro di lui, perché la letteratura deve suscitar dispiacere, così come la lista dei bestsellers deve indicare non i ristoranti dove si mangia bene, ma quelli che servono più pasti. Se offri un soufflé, non è di serie né di massa: dunque non va, anche perché non tien conto delle calamità e delle sciagure. La letteratura come vita di mmm... di massa prescrive e gradisce la narrativa del vi racconto tutte le mie batoste e le persecuzioni e i crucci, e siccome siete così buoni d’animo vi rievoco anche tutti i disturbi d’infanzia, e i malanni della povera zia. Così chi narra più accidenti viene premiato come fata pietosa, non come iettatore da toccarsi all’italiana laggiù...».
«Altro che Adorno, sora mia».
«Invece qui si preferirebbe parlare di letteratura come letteratura per piacere e non solo dovere; e magari di cinema come cinema per diletto, per gusto: dunque destinato solo a pochissimi d’animo cattivissimo...».
«Rileggerò qualche Evelyn Waugh al mare, se ci sarà tempo? Leggerò finalmente Henry Green, visto che li hai tutti in casa? Si dovrà arrivare fino ad Anthony Powell? Ditemi voi quando basta».
«Si leveranno i ditini di tanti piccoli Sartre, nelle gelaterie e nelle pizzerie, se badi ancora alla qualità delle opere, e magari ti diverti sulle pagine. Invece di ricercare chi racconta squallori e descrive disgrazie, da buona scimmietta della borghesia sartrina che apre cento dibattiti e non caccia neanche una lira...».
«Bisognerà promuovere attacchi impegnati a Matisse e a Ravel, gingilli inani del capitalismo colonialista forse anche ebraico: mai una natura morta sugli affamati, mai una sonata per le eroiche vittime... Almeno si riderà».
«E l’abominevole Morandi? Non una sola bottiglia di latte per i piccini delle carestie! Vergogna! E l’inqualificabile Fontana? “Lassù in Cielo” o “in fondo a sinistra”, conteranno di più tutti i suoi tagli, per il Terzo Mondo, o l’opera di una sola rammendatrice?».
«E il pericoloso Bacon? Fingendo di produrre arte degenerata, non starà portando avanti l’infame discorso nazista del nefasto Wagner?».
«E l’insidioso Walt Disney? E gli ambigui cubisti? E l’elitario Stockhausen? E l’incontrollabile Mies van der Rohe?».
«La pittura impegnata per i poveri ammalati africani non potrà che essere monocroma! Le sonate per i martiri delle repressioni, solo per flauto solo!».
«Si produce molta ideologia, a Roma?» chiede Jean-Claude.
«Molta, moltissima, e standard. Ma non è amusing perché si basa tutta su questioni di posti e sovvenzioni e stipendiucci, nelle gerarchie e negli impieghi, e anche ricattini fra uscieri, con tanti pettegolezzi di portineria. Se vedeste quegli appartamenti, quelle mogli... Ma dietro ci sono le minacce dei mostri: la Russia, il partito, la Rai... con intimidazioni da professore-carogna che ti fa le domande-trappola per bocciarti all’esame, e appena potendo ti condannerebbe a chissà che orrore... e però è alle dipendenze di capi politici e commerciali che lo sgridano perché non fa abbastanza censura a certi prodotti di qua, e abbastanza pubblicità ad altri articoli di là... Avendo un minimo potere di polizia, i più fini sfogherebbero i risentimenti cacciandoti in orridi carceri, quelle cose tremende che racconta Koestler?... Ci fosse l’appiglio d’una tua povertà, certamente ti ridurrebbero a uno straccetto del consenso, come tanti subalterni che si sentono gemere, sotto il giogo di quei capisquadra che magari tu mandi illuministicamente a quel paese... Quanta irritazione per la fine della secolare fame italiana, che assicurava i bassi servizi gratis... e dipendenti senza speranza di uscire dal loro umile stato... Come la senti, anche tra i capiscuola della sinistra!».
«Va bene, va bene, secondo voi sarà il Caso beffardo, però qui dove siamo adesso il genius loci più rappresentativo non è ancora un artista chiamato appunto V. Gemito?».
«Klaus!» sta dicendo Jean-Claude. Ha appena preso uno di questi giornali che sporcano le dita; e s’accorgono improvvisamente tutti insieme che c’è al San Carlo una matinée proprio oggi della Beatrice di Tenda con la Sutherland alle sei, e lo sono quasi. Ma tanto comincerà alle sette. Così, tutta un’agitazione di calcoli e telefonate urgenti a questo amico di Klaus, Federico; e siccome la telefonata non arriva si fa un telegramma urgente che non arriverà neanche quello, ovviamente. E poi, via di corsa: molto più smaniosi e stravolti che se si fosse trattato dell’aliscafo delle quattro.