LUGLIO
Ci si vede soltanto di sera, praticamente mai prima delle nove, nove e mezza, perché durante il giorno avranno tutti un qualche loro daffare; oppure vanno al mare; o stanno in casa, forse a spostare gli oggetti, a studiare gli effetti. La Sansebastianelli, certamente, con le tende tirate e le imposte chiuse, tra vicolo Orsoline e salita Zoccolette, passa i pomeriggi disponendo i cinque o sei o sette bicchieri veneziani del Settecento davanti a ciascun piatto d’argento, provando i diversi fiori e le varie porcellane e gli accostamenti con i menus stampati in oro, sulle differenti tovaglie di pizzo inestimabile... Ma anche qui in casa non si scherza davvero, con la disposizione di particìpi e avverbi («praticamente», «franante», ecc.) tra virgolette semplici e doppie e sottolineature, su ogni pagina in parte a mano e in parte a macchina, prima che la grande estate precipiti irreparabile. «Cosa fa la Nostra, tutto il giorno?» provo a chiedere a Antonio. «Oh, lei ombrosamente dice che si alza prestissimo, dorme poco; e deve correre tutta la mattina per uffici, per tasse, in Comune, ha da fare con amministratori, con banche... Ma io me la immagino che legge il suo “Economist”, in un lettino da campo come Napoleone in Egitto, e telefona a Ginevra a qualche suo agente americano di comprare o vendere... come farà, poi, in realtà, del resto!».
«E nel pomeriggio?».
«Non l’ho mai saputo... Andrà a trovare della gente, delle zie morenti... che cambiano testamenti... Verrà visitata e malmenata da inqualificabili individui?... Non molto per negozi, credo, perché una volta che è uscita a piedi e ha visto al Tritone un maglione “modello dolce vita” ha telefonato subito da un negozio chiamato Soraya per comunicarmelo... Entrata un’altra volta nell’incantato mondo dei registri Buffetti per cercare dei moduli, lì se ne è invaghita e ha incominciato a descrivere e a prescrivere il “sogno!” di un nuovo pavillon – o meglio, un romitaggio – in stile interamente Buffetti... E specialmente per la sua amica Beatroce, che ha un’immensa dacia appena oltre Pomezia, però finora in stile piuttosto Via col vento... “Via il George II e il George III, e tutto quell’acajou, a Pomezia!... e la solita seta verde-salvia, dovunque ma non a Pomezia!... a te che piace molto la campagna... e specialmente via tutte quelle tavole tonde!”... Ma perché, ribatteva Beatroce, che aveva portato da Milano delle belle tavole tonde, “che cos’hai contro le tavole tonde?”... “È perché sono tonde”...».
«L’amore con chi lo fa?».
«Non so...».
«Come, non so? non ve lo siete mai chiesto, fra tutti?».
«Proprio no! Veramente, fra quelli che vediamo di solito... nessuno, direi...».
«Vieni a dirmi che vive senza, adesso».
«E perché no, scusa? Vedi bene com’è moody e non contenta, delle gran volte... Però siccome non è affatto stupida, si spera bene che ce l’abbia, nascosto, qualche sciagurato impresentabile. Che poi magari conosciamo tutti, in altre vesti».
«Tu gliene hai mai presentati?».
«Proprio no».
«Neanche un pittore pazzesco?».
«I belli, mi sembrano sistemati tutti molto bene. Con delle belle e semibelle, aristocratiche, chic, che si conoscono e si vedono in giro. Non uno con una compagna di partito!».
«È davvero intelligente? o finge? o è una fanfarona che vi fa anche degli scherzi, e tutti voi abboccate: yup, yup, yup?».
«Finiscila, stupido».
«Come delle carpe, delle tinche, dei lucci: yup yup».
Ma qualche volta càpita poi di stare insieme anche a colazione, con un bel cielo coperto di nuvole in moto da “Valle del Pussino” (presso l’Acquatraversa, appena oltre Ponte Milvio), con soffi di vento non sciroccoso, non soffocante. Fuori, anche lungo la costa e il mare mosso, cercando un posto di polli o di pesce non ancora devastato al di là di Tor Vaianica, senza troppe latte rotte e crateri di polvere tipo sbarco alleato, né magari l’officina di motorette lì sotto.
Così è quasi sempre la colazione romana all’aperto, tipica: lunghe indecisioni su un menu terrorizzante. Poi piove. Poco, però mentre si comincia a mangiare. Fa improvvisamente freddo. Ventate di terra e di polvere; e tutti corrono a ripararsi con bicchieri e grissini in mano; i camerieri dietro coi tovaglioli. E appena dentro nella segatura si viene assordati dai cori nuziali e dai violini.
«Il Poussin e Claude Lorrain e altri artisti come Joachim von Sandrart cavalcavano qui di buon mattino alla scoperta della campagna e di quei cieli che prima non erano mai stati protagonisti di un dipinto». Ma una domenica ci siamo alzati così tardi che finiamo per mangiare sulla Cassia proprio lì, a neanche mezz’ora da Ponte Milvio, dopo una visita a Galeria, una delle cittadine morte a pochi passi dalla città.
Il posto, come a Veio, è buio, fosco, tutto forre e macchioni, e lecceti nerissimi che fanno galleria: l’Elce, l’Elce antiqua e folta, nella luce di Dafne e di Dafni! «Ecco, costruire una casa qui» ripete Antonio, come a Veio e a Sutri, in tutti i luoghi ombrosi: orridi, muschi, scivoli, crepacci, stille che cadono in grotte e caverne; e gli altri subito osservano che qui si frana nel Salvator Rosa. «In Lombardia si chiama suturno, un posto così» fa lui. «Vocabolo bellissimo: esprime orror sacro, esposizione a mezzanotte, atri muscosi, gravitas quando ci vuole, tutto... Vorrei venirci a abitare presto...». «E ti verremo a trovare, una volta all’anno, senza sapere se poi ti fa piacere o no...» fa Jean-Claude. «Purché lasciate a casa i bambini e i cani» insiste Antonio.
Le macchine sono state lasciate giù, perché non c’è strada. Uhu, uhu!... Ci saranno dei Sileni del Pussino? dei satiri con ninfe? una Flora? un Vertumno?... Uhu, uhu!... Adoni, Atteoni?... Antonio dentro un bosco fra i più neri annuncia che è sempre pieno di olandesini, forse caravaggeschi lor malgrado. Viccavdo ci dà dentvo col Salvatov Vosa: «Le colonne fpezzate e i votti mavmi, là tva i platani fuoi divelti e fcoffi, Fvonton vimiva all’echeggiav dei cavmi...». Desideria sbuffa parecchio. Conoscono bene il posto e la solfa. Passiamo fra due o tre cancelli di legno incatenati, fra le spine.
La città morta è costruita su uno sperone isolato, accessibile da un lato solo, per un vero corridoio di sambuchi. Gli altri tre lati sono a strapiombo, scavati da un torrente in fondo; alla nostra stessa altezza abbiamo di fronte una campagna pigra e pacifica di covoni di grano e di vacche pezzate. Gli olandesini giocano in basso, in fondo, sulle rive del torrente, ai piedi di un piccolo altopiano di Corot. «Avete visto? Cosa vi dicevo?» fa Antonio. Sono boy scouts romani, una trentina, hanno montato una tenda e siedono all’ombra del Corot in piccoli cerchi.
Le case sono tutte franate, e rimangono in piedi solo pochi muri e un campanilino pendulo; ma la vegetazione pensile è fitta e spinosissima, da Belle au Bois Dormant demaniale. Per fare ogni passo dobbiamo pungerci spostando robinie e ortiche, rovi, cardi, rose antiche molto selvatiche: Erminia e Armida, chissà che strilli... Salire o scendere sempre scivolando, fra i sambuchi, anche cascando in qualche buca sotto i gradini consumati... «Rinaldo! uhu!... Ruggiero! cuccù!...». Uno spiazzo con cardi enormi, pinastri, limoncini, malve... «Ecco qui il timo!»... «E questo sarà il dragoncello!»... «Rosemary for remembrance, pansies for thoughts, origano per la pizza, fennel for you!»... Un posto meraviglioso per la casa d’Antonio Eremita: «Restaurando solo un pezzetto, si capisce» fa lui; «e conservando il resto com’è, solo ripulito; l’unica spesa dovrebbe essere per la luce e la strada; col gas in bombole...».
«E l’acqua?» gli chiedo. «La città era abitata; là in fondo c’è il torrente; basta mandar giù una turbina; come a casa nostra in campagna; non costa poi molto». «Sei sicuro?». «Se costasse tanto non la si metterebbe in tanti giardini solo per l’irrigazione a pioggia, ho sentito dei vivaisti...».
Spostiamo degli altri rami; e di fronte a una nuova vista dagli strapiombi troviamo due boy scouts già grandi, sdraiati vicini sull’erba, che guardano giù negli orridi. «Si stanno dicendo le cose più importanti della loro vita...» ride Jean-Claude. Ce ne andiamo. «E il campanile?». Ma non lo vogliono. Troppo accidentato da raggiungere. «Aria aperta, ppp... indimenticabili...» ride ancora Jean-Claude giù per la discesa. «Pan & Siringa: non bramo altr’esca» dice qualche Mercuzio, con aria enigmatica.
Arriviamo al ristorante verso le quattro, perché loro non lo riconoscevano. In meno di un anno, non è più in aperta campagna come quando scendevano dal Nord i Nazareni, e agli ultimi tornanti della Cassia vedevano San Pietro isolato là in fondo, con niente intorno e dietro. Ora il piccolo casale ha attorno un quartiere di case viola e arancione fittissime e già scrostate; e si trova in fondo a un cortile buio. Sediamo; hanno finito quasi tutti tranne un grosso banchetto nuziale; e incominciamo a mangiare alcuni avanzi, intitolandoli “Baccanali Richelieu”.
Ma presto s’alzano gli sposi e i loro parenti, tutti immigrati che parlano cupissimi dialetti del Sud; non si capisce niente, c’è un’aria di grande odio reciproco. Lo sposo non ha collo, non ha fronte; non ha nemmeno occhi, a momenti. Guardando in su Desideria scopre su un ballatoio, a un terzo piano proprio sopra di noi, una fila di pentole da cucina piena di calle e garofani bianchi. «Volete che gli sposi abitino lì?» chiede. E dev’essere vero. Le finestre non hanno tende, non si vedono oggetti o mobili perché dentro dev’esserci il Nulla. Si sono sposati nel vuoto, e gnente gnente sono scesi nella trattoria de sotto. «È Beckett». «È Roma». Ora tutti salgono, e a turno li rivediamo uscire sul ballatoio e affacciarsi in fila ai davanzali, fra le pentole delle calle, zitti come in un film muto, e guardando giù, tutti in bianco e nero.
Ma non sono neorealisti. Esce un nonno, a un tratto, con una faccia a peli da film del terrore. «Adesso striscerà lungo il muro a testa in giù, verrà qui da noi, percorrerà il tavolo, e poi risalirà sempre a quattro zampe come i ragni sul muro, prima di rientrare nella cinémathèque» fa Jean-Claude. Donne e bambine, tutte ugualmente torve, grasse, basse, nere, senza collo e senza busto, escono coi sederi attaccati alle orecchie, e una pettinatura ai quattro formaggi. «Tre centimetri di nido d’ape in vita, non di più: Godot si è mai occupato di piccine?».
La più prepotente delle bambinacce pesta il pavimento con violenza: la pancia gonfia le sospinge l’arricciatura della pettorina sotto le ascelle, e lei tiene una collanina e un paio di braccialetti in mano, perché certamente le fanno caldo. Si volta sospettosa di qua e di là, poi dà un pugno in testa a una bambina più piccola. E tutti: «È lei! È lei! “Non sarò bella di faccia – ma sono forte di braccia! – Sono la Bambinaccia”». E ancora: «Ho almeno sedici anni! – Ne dimostro ventotto! – E mi vestono sempre – come ne avessi otto!».
I camerieri arrivano sudati coi nostri pomodori al riso. Sul ballatoio gli uomini in scuro si avvicendano sempre più pelosi in faccia, come se gli crescesse una moquette grigia e nera, senza mai parlare. «Mi piace andare a caccia – mollar qualche ceffone – e giocare al pallone. – Sono una bambinaccia». Le donne tendono a scendere per girare aggrappate insieme sulla ghiaia, fanno un po’ cimitero; e dalla casa di fronte un altro intero ballatoio di gente assiste al giro sulla ghiaia, senza parlare e senza muoversi. «Una casa scorticata, le hanno tolto la pelle, l’hanno buttata via» fa Desideria. Non è più né gialla né viola, infatti; avrà pochi mesi e si è già disfatta: mattoni nudi, tubi e grondaie in solchi scavati col piccone, fili e cavi che pendono molli, antenne abbattute, balaustre di cemento sbriciolate dalla pioggia. «Un San Bartolomeo d’una casa» insiste Jean-Claude. «Non picchio mai la mamma. – Poi muore, mi rincresce, – devo portare il lutto. – Quando la rabbia cresce – prendo a pugni il papà. – La colpa di tutto – è quasi sempre là». Le bambinacce si fanno aria con le catenine.
Finiamo di mangiare quasi alle sei. Anche per questo si finisce per non andar mai nei posti. A Palestrina o a Villa Adriana, forse verso la fine dell’inverno, nei giorni limpidi. Ma Tuscania, che è a un centinaio di chilometri a nord, con delle chiese paleocristiane mirabili? «Né il romanico padano tutto pieno, né il paleocristiano romano fatto con materiali classici ove riconoscere la provenienza delle colonne dal Foro: un Torcello, piuttosto, fra scenari attorno da Trovatore... stridono anche vampe...».
«Bisognerebbe prender dentro nei giri anche Tarquinia» ripete Antonio che non c’è mai stato, sempre rimandato, malgrado tanta Civitavecchia di sabati ruggenti “dalle sette alle nove”; e però sostiene di aver provato delle epifanie con Gadda e anche con Angus Wilson che hanno detto cose indimenticabili (ma già dimenticate) nelle tombe etrusche a Cerveteri, altro posto «deliziosissimo tipo addirittura Delfi,» mi fa «ma quasi più bello, con la campagna grigia lì sotto e il mare metallico là in fondo»...
... E dentro il Medioevo intatto delle Sante rustiche in lotta col Maligno fra le galline che si cucinano tuttora alla creta: Pitigliano, Manciano, Sovana, e tufo, tufo... dormendo naturalmente a Saturnia: questo loro mito delle acque sulfuree calde, stupende, ove però bisogna andare nel più profondo inverno etrusco e fare il bagno di notte, «in questa gran tinozza da samurai con una cascata violentissima addosso, ci vuole una cuffietta di gomma anni Trenta per salvare i capelli da tutto quello zolfo che fa così bene alla pelle»... E naturalmente gli accappatoi pronti lì fuori, tra la neve, sotto le stelle... Mito ricorrente... «Miti personali! Metafore ossessive!».
Ma perché non l’ovvio, allora? Chi ha mai visitato bene Caprarola, con un albergo svizzero appena aperto sul lago di Vico per diete di fettuccine, e tutti i ritratti dei Farnese, e naturalmente Pier Luigi, anche se Giulio sostiene che sono dipinti da poco, tutti ripresi da mediocri precedenti per far collezione? Si aggiunge: «E Farnese, allora? Proprio il palazzo Farnese nella città di Farnese, culla dei Farnese, dove ci potrebbe essere la mano del Sangallo, e forse uno zampino del Vignola...». (Ma questi corsi e ricorsi delle Gite al Faro rimandate o perdute, forse non hanno più neanche una funzione strutturale di Leitmotiv ciclico... Siamo già a quei vegliardi rincoglioniti che ripetono lo stesso racconto di ieri sera, con le stesse parole?...).
E per dedicare un tardivo “numero” a Jean-Claude, perché non la casa onirica di Mlle Vinteuil? (Poi si torna a Roma, però).
Proust dà tutte le indicazioni. Si addormenta, da bambino, come nelle fiabe, in cima a una montagnetta boscosa che arriva al secondo piano dell’edificio, però è «à quelques centimètres» dalla finestra. Dunque non può essere più alta, perché sennò a quel livello si sarebbe addormentato verticalmente su uno strapiombo o uno scivolo. Cascava giù. E se è a pochi centimetri dal secondo piano, già al primo non si potranno aprire le finestre, e al pianterreno addirittura entra tutta la terra, le bestie, ecc.
«Dovrebbe trovarsi contro una parete verticale di roccia, come nella Salisburgo vecchia e in Max Ernst». «Anche in Giotto». «Allora lui dovrebbe addormentarsi su una piattaforma dove non può crescere la vegetazione». Si fa un disegnino su un foglio. «Se lui si trova qui a mezzo metro, e la guarda, anche lei lì lo vede». «Non è possibile. Quando spia gli altri, per esempio Charlus nelle varie situazioni imbarazzanti, lui vede e sente tutto, però è invisibile come nelle fiabe orientali e nei sogni. Lì, du côté de Méséglise, lo dice lui stesso che si è addormentato, cosa c’entrano i centimetri?».
«Ah, sì? Un bambino così ordinato nei suoi vestitini, pieno di mamme e di nonne e di zie che gli stanno addosso in ogni dettaglio, e per di più poco sano, adesso si addormenta per terra, fuori di casa, di sera, sul bagnato, sullo sporco?».
Finora si era convenuto che la casa della signorina fosse in Savinio: con quelle finestre da cui s’affaccia dentro una testolona d’Aiace Pelargonio. O una grandissima oca, la mamma.
«Adesso però si è trovato di meglio: sotto Villa Ruffo, all’inizio della via Flaminia. Lì la parete di tufo è proprio verticale, e con ciuffi di vegetazione proprio addosso ai palazzi; e guardando dalla Flaminia pare che li tocchi. Come del resto in diversi paesaggi romani di De Chirico. Sono tutte robinie e spine, però».
Si finisce per non andare in nessun bel posto. I migliori si rimandano sempre, perché non c’è tempo, non c’è mai tempo per farli bene. Anche le chiese: Santa Cecilia, Santo Stefano Rotondo, San Francesco a Ripa... «Non posso, quest’anno, ho ancora troppo da fare» si lamenta Antonio, lavorando, assatanato. «Ma cosa fai?». Non si è ancora capito bene se questo è un industrioso, o è un dispersivo. «Articolini, saggini, alla Edmund Wilson...». Si fa presto qui a dire Wilson. «... di quelli che poi diventano saggioni, e poi libroni... perché si moltiplicano le voci e gli sguardi, nei magazzini e nei depositi: si accumulano i congegni e le corrispondenze, si intricano le mimesi e le parodie, le tentazioni e i rischi dei giochi di lingua... in attesa dello Stile... Intanto si riempiono i cassetti e i cassettoni... E poi si presenterà il problem se fare dei bei volumoni solo di letteratura, o solo di viaggi, o solo di spettacoli... coi loro begli indici dei nomi che li rendono reference books da consultare anche nel tempo... O invece antologizzare solo i “morceaux” secondo te più riusciti, dunque con esclusioni d’una dolorosità da straziare l’animo... O anche buttar via tutto; e rifare da zero senza neanche un appunto...».
«“Je repars à zéro”, lo canta Edith Piaf».
«E certo, che qui si fa presto a dire Proust notte e dì... Però, che tentazioni di sainte-beuvismo doloso e colposo... tuo, di lettore... quanto ti rendi conto che pranzando con un po’ di duchesse e avendolo preso qualche volta in quel posto si riesce poi a capire diversi passaggi e corrispondenze e transfert subliminali di Proust più a fondo degli specialisti solo libreschi che tentano di spiegare dettagli e allusioni senza aver mai visto cosa succede in un vero pranzo o con una marchetta... Come quegli esperti di retorica o formalismo che spiegano il cinema neorealistico avendo visto in tutto Il generale Della Rovere... E del resto, provare a intendere Joyce, senza possedere un po’ di gusto per l’invenzione verbale “giocoseriosa”»...
«Chissà se Joyce si sarebbe divertito, provando a Dublino delle palpitazioni onomastiche tipo Proust? Quel trip araldico, da Gotha e non da pub, scoprendo con emozione che i cognomi e i predicati sono belli ma tanti, e cambiano con le successioni dei titoli: Laumes, Guermantes, Charlus, Brabante... Lì, basta un Gotha: qualcuno può chiamarsi di volta in volta Somerset, Cavendish, Pembroke, Devonshire, Grosvenor, Rutland... e un piccolo Marcel dublinese potrebbe non capir mai se si trova nella café society o in un dramma storico di Shakespeare o in uno square di Londra...».
«Era la città d’Oscar Wilde. Qualcuno ce ne sarà ancora».
«Ma là i Gotha costano. E qui i giochi di lingua sono un lusso sempre più sfrenato, se intanto lavori per il cinema... Sempre, in quell’ambiente bien équivoque, devono subentrare le squadre degli involgaritori... anche perché gli italiani vengono richiesti all’estero soprattutto come sarti, cuochi, apparatori, o figure molto caratteristiche... E allora, se non va per il produttore, voglio tirar fuori tutt’altre cose per me... E intanto, gestire qualche onesta rubrichina di rottura e di reddito... Ci andremo l’anno prossimo, nei posti belli. Tu vieni giù ancora: pare proprio che del Vignola sia stupendo il palazzo Albani poi Chigi a Soriano nel Cimino, una fantasia estiva di manierismo di mezza montagna...».
Ma poi, uscendo da Raimondo e a pranzo, qualche Camillide già abbronzatissima ha da raccontare subito le nuove trouvailles nei luoghi misteriosi del Lazio minore: un conventino oltre Bassiano ove col permesso del priore si può entrare in clausura a consultare degli autografi molto singolari di Sisto V sotto un volo d’angeli molto offuscati che vanno in rovina con un certo sorriso... E di lì si può far colazione a Norma in una trattoria molto rinomata per le tagliatelle con una stupenda vista su Ninfa dall’alto e un curioso scavo nel giardino pensile che potrebbe anche essere un mitreino... E su, su, verso la Sgurgola, una caverna con pitture preistoriche tipo Lascaux («tutto un Marabar!») scoperta per caso da due boy scouts che giocavano anticamente nei boschi, «e adesso siedono sulla porta a prendere i soldi la domenica... più di cinquant’anni, grassi... ma si amano ancora...».
... Mentre più giù, nella Ciociaria profonda, capitando all’Abbazia di Fossanova dov’è morto in un appartamentino semplicissimo Tommaso d’Aquino, fino al dopoguerra si vedevano ancora gli atroci pellegrinaggi con le lingue per terra e le ciocie ai piedi come in D’Annunzio e Michetti, nonché Sophia Loren stuprata dai marocchini in Moravia e De Sica... E si comprano tuttora dai ciociari le mozzarelle di bufala buonissime... sotto un’immensa pergola di glicini, stupenda... «Adesso può addirittura succedere d’ascoltare una raffinatissima petite phrase musicale da salotto francese... dalla cappella... Ed è un complessino di studenti americani da camera, preparatissimi, carinissimi... che eseguono come meglio non si potrebbe le composizioni da salon, appunto, del principe Roffredo Caetani, squisitamente Guermantes e Guerlain... con questo languorino di luccichii cromatici ombrosi per Dalile e Thais da mezza sera che è il vero côté Vinteuil... Delicati Requiem molto nonchalants, come barcarolanti nella notte egiziaca o cartaginese fremente di frulli e scintillii d’arpe liquide come timoni di feluca a Luxor o Assuan, col nubiano alla vela e la luna lassù... e Amneris laggiù... Valse-Cataract... Souvenir de Dendérah... fra un Meyerbeer del pianismo e un Offenbach della devozione, e qualche rabbuffo d’organi e tromboni che si risvegliano come dei Fafnerini sulla tribuna d’ingresso... quando si esegue nottetempo del Saint-Saëns orientalista e nilotico nella chiesa di Saint-Roch...».
«... Dove il povero Manzoni ebbe quel famoso effetto-sturbo che gli fece perdere il barlume e il lume! in pieno Faubourg Saint-Honoré! C’è perfino una lapide!».
«Tipico dei milanesi all’estero! Trouble in 42nd Street! Un romano, quando mai?».
«E cosa direbbe Proust! Una conversione nel Faubourg!».
«Eppure a un nostro amico americano preparatissimo, è capitato lo stesso bad trip! Leggendo Salinger all’aeroporto di Katmandu!».
«Non era Saint-Saëns (o chi era?) che passava le serate in una di quelle vecchie pissotières a tre posti che vanno scomparendo? sempre nel posto di mezzo, su uno sgabello da pianoforte che si portava da casa? e con un agente datogli dal Prefetto di Polizia per proteggerlo discretamente? e che però a mezzanotte bussava sulla lamiera, e avvertiva “c’est minuit, Maître”... E il Maître, brontolando: “encore un petit moment, encore un petit moment”... Mi pare d’averlo letto su un vecchio “Crapouillot”...».
«Ancora negli anni Cinquanta, specialmente nelle pissotières di Saint-Germain e della Madeleine ti facevano vedere i cartocci di pane o madeleines che venivano lasciati lì in ordine tutta la notte per “tremper”... La mattina non c’erano più».
«Ma anche a Roma, si raccontava, in quelle dei lungoteveri...».
«Rosette, ciriole?».
«Supplì alla pipì? Bruscolini?».
«Sandro Penna, andiamo! Freschi orinatoi che scompaiono, ancora porcellanati nelle vecchie stazioni...».
«Già, ma quelli di Parigi venivano chiamati tasses e théières: lo si è visto anche all’Exposition Proust alla Bibliothèque Nationale, c’era una piccola sezione sui “Cabinets de toilette et de nécessité” che figurano nella Recherche, con la nonna dentro di qua e Charlus di là...».
«Che discorsi! Anche a Londra: o si chiamano cottages, oppure tea-rooms. C’entra sempre il tè».
«È diuretico».
«Ma secondo la Scuola della Madeleine, quando si inzuppa la madeleine notturna nella tasse o théière appunto della Madeleine, si produce invero un fenomeno eucaristico che rinfresca la memoria e rinforza il Passato come e meglio di tutti i nostri estratti di fosfolipidi cerebrali...».
... E invece, su, su, su, per le Cassie o Flaminie più vecchie, in un cimiterino pagano a Falerii Novi che è l’immagine stessa del Paradiso, altre Camille e diverse Flaminie nuove hanno tagliato elles-mêmes biancospini e ginestre, salutato alcuni banditi d’altronde simpaticissimi, col loro picnic, raccolto in un campo frammenti di marmi e un pezzetto di mosaico, con una donnina bruna che si pettina. Avvolto nel suo cashmere, in fondo alla macchina. Ma col calore il mosaico s’è sciolto, la donnina ha perso i capelli, è arrivata a Roma senza, e adesso è lì in fondo a una cassetta di marigolds con le sue tesserine, in attesa di restauro, calva.