LA SPEZIA

Domenica, adesso. «Diman (cioè oggi, baby!) tristezza e noia, recheran l’ore, vero?»... «Glielo vada a dire a un operaio della Fiat, contessa!»... «Relax, baby, relax... Sennò lo sai che ti fa più male»... «Le dolenti mie parole estreme? Ah, rendetemi la speme, soprattutto on the road!».

È un giorno chiaro, sereno, e l’idea sarebbe di fare un bel bagno verso Calafuria, e mangiare dei meravigliosi pesci alla griglia. Poi parlando di tante vecchie faccende un po’ rocambolesche e un po’ picaresche senza accorgercene si sta già attraversando Livorno deserta a una velocità da multe.

Però questo gran riflesso biondo lo si vede tutt’e due insieme in fondo a una vietta laterale; e Antonio che guida fa una curva pericolosa talmente esagerata che lascia senza fiato perfino me. Ci si ferma con della gran polvere a mezzo metro da questo qui che avevamo visto, chiedendogli se va a fare il bagno. Naturale, che ci va. Ci sta andando con due suoi amici, che ha lì insieme. Uno biondo come lui, che da solo sarebbe splendido ma vicino a questo un po’ sbiadisce. L’altro, il solito mostrino scimmiotto che tutti gli splendidi hanno sempre dietro anche nei film americani e che parla e balla per tutti, non si è mai capito perché.

Lui disinvoltissimo, ci viene subito insieme, anche se di certo sembriamo due insensati milanesi, chiedendo freneticamente di fare il bagno e d’andare a mangiare subito, subito, che si muore di fame. Ci porta infatti in un bellissimo stabilimento con la piscina, e un ristorante interno dove ordiniamo subito un enorme cacciucco, e si può mangiare in costume. È conosciuto, nel locale. E lo si poteva giurare che ha fatto il marinaio e ha finito da poche settimane, insieme all’altro biondo. Tutt’e due a casa a far niente. E molto contenti di sé: ma come hanno ragione. Chissà che storie hanno dietro.

Arrivano gli altri a piedi fieri e orgogliosi e naturalmente beviamo tanto, con sigari e sigarini mai visti da queste parti. Poi dato che il mostrino si agita un po’ troppo, i due grossi facendo tutta una scena di gorilla spiritosi lo pigliano in mezzo, e uno per la testa l’altro per i piedi lo buttano vestito in piscina, senza dire una parola. Poi, pulendosi le mani, fanno a noi «su, andiamo in cabina adesso»: sono di quei marinai estroversi che vogliono stare a far le cose tutti insieme; e non hanno mai smesso di ridere fra loro dandosi delle gran gomitate, qualunque numero si stesse facendo.

Si sono presi i loro soldi, senza neanche guardare quant’era, e dicendo un grazie gentile ma non premuroso né eccessivo, giusto come quando ci si fa accendere una sigaretta e non è il caso di sbilanciarsi per così poco. Sono stati poi lì a vederci mangiare, per essere sicuri che tutto andasse bene. Loro avevano già mangiato, maledizione. Partendo ci fanno vedere un posto dove possiamo trovarli ancora in qualunque momento, dicono: un negozietto con dei gradini che scendono, e sopra la porta la scritta «Vino».

e9788845971877_i0002.jpg

Alla diletta Spezia, invece, American Museum of National Horror. E non è la prima volta. L’altr’anno ci si era arrivati anche allora di domenica, ma da Firenze; e possono venire the uglies entrando d’estate in una città di mare dove si fanno le elezioni locali e non lo si sa: e si vede in giro tutta un’aria stralunata e strana, poca gente, e neanche una divisa bianca per strada, tutti consegnati. Pare la peste in un brutto film simbolico.

... Ma in queste città di mare ancora anni Trenta con tanto bianco nella luce mediterranea gli occhi accesi e l’anima partita nell’aria leggera scendono le terrazze verdi e i portici in abiti chiari... verso gli Eldoradi laggiù ancorati in rada: la corvetta Libeccio e il caccia Grecale, la vedetta Scirocco e il mas Maestrale, magari la torpediniera Tramontana e la fregata San Giorgio, aperitivi e sigarette e branzini e bistecche e amore tra farandole di uniformi bianche, zig-zag di berretti, marine e riviere d’allegre siluranti e motocannoniere e dragamine e maiali da sbarco...

... E dopo le ali rosse dei fanali i vari portieri e le Sofonisbe dei vicoli marini telefonano di sopra per tutta la notte «ne ho qui tre dell’Arsenale, li mando su insieme?»... o «se apre lo spioncino, stanno salendo con due donne al 43»... E moyennant un maggior compenso, ma anche promettendo di non muoversi e tener sotto controllo la manina curiosa, invece d’uno sguardo dallo spioncino straniante si poteva migliorar la vista sedendo e mirando nella stanza scopereccia même, purché immobili e mimetizzati in un angolo sotto una mantiglia nera lunga (ma con buona visuale attraverso i trafori) da regina spagnola in visita al Papa.

Non una divisa bianca per strada, quell’altra volta; né innumeri dal mare i bianchi sogni dei mattini... Non un torreggiare bianco nell’aria, chimere nei cieli di Dino Campana, bianchi arabeschi nell’ombra illanguidita dei palazzi marini... Altro che la poesia dei porti e degli scali, del vento tra i fanali. Altro che la brutta metafora della peste... peggio che St. Moritz in febbraio senza neve.

 

Stavolta la città è invasa da un raduno di vespisti. Da ogni strada ne sbucano squadre di venti o trenta, tutti in casco e tuta, di colore diverso a seconda della città e del club. Bianchi, verdi, celesti, giallini, o addirittura rossi come formazioni di diavolini, spesso grossi, con cinturone d’elastico nero alto due spanne che li taglia in due, e scritto sulla schiena «Vespa Club» e poi Campiglia o Volterra o Ravenna o Cesena o Cecina. Tante squadre con ancora un distintivo in più, tipo una coda di tasso alla Davy Crockett attaccata dietro il casco; e tanti col bambino piccolo sul sedile dietro, anche lui col suo piccolo casco, la sua piccola tuta, il cinturone, il Davy Crockett. Da tutte le parti ne vengono fuori, cose da fotografie per “Il Mondo”, rubriche di “Italia minore”.

Ma la flotta americana stringe anche di più il nostro buon cuore. Li abbiamo seguiti per tutta la sera, quegli zombies che non sanno dove andare, non san cosa vogliono, e a domandargli qualunque cosa eventually non hanno le risposte. Dopo un po’ li riconoscevamo, i diversi gruppi, ritrovandoli da un posto all’altro. Nessuno ride. Non parlano, non sono capaci, neanche fra loro. Curvi, tetramente, sulle loro birre; e poi, in un momento, andati, perduti, inebetiti, interdetti, via. Nessuno ha peccato. Tre accompagnavano delle povere puttane disperate e stupite fino alla loro pensione, cortesemente e col loro barcollìo senza parlare come si vede nei vecchi film di Hollywood con tutti i colorini a posto e la ragazza con la sua verginità, rispettata, e se la tiene. E loro stesse poverette confermano che con l’americano si conclude poco o mai. Sarà allora un compenso o scompenso emotivo, l’altra faccia di quei film in bianco e nero dove i piccoli martiri di cento chili vengono puniti dai sergenti bestiali come veri uomini?

Altro che da piangere, viene, a vedere come si è ridotta in pochi anni una razza ancora così bella e così ben fatta! Come devono fare a non perderle, le guerre, questi fagotti gonfi e tremolanti e tutti con gli occhiali – non hanno lo sguardo! – quando pare che abbiano paura di tutto, di tutti, e magari di se stessi per primi come nella psicologia per le serve... C’è da spaventarsi, tutte le volte che premono un bottone sulla portaerei...

Sarà la colpa dell’età della televisione? Di già? Ci ha messo così poco? Ma dove saranno andati a finire tutti quei ciuffi sveglissimi sotto il berrettino alla Frank Sinatra, beata navalità del boogie-woogie?... e poi si ritrovavano identici sia nei musicals sia nei giornalini, legati con tutte quelle corde nautiche sui muscoli spalmati d’olio?... On the Town... Ma dove?

 

«Non te l’ho mai raccontato» fa Antonio mentre stiamo bevendo in un tristo posto, altro non c’è, del triste cedro. «Ho dormito in una caserma della marina, a New Haven».

«Non me l’hai mai detto. Non ci credo. Sarà stato un Ymca».

«Buoni, quelli!... Miti, miti moderni anche lì... Vecchi con delle gran barbe bianche che ti vengono dietro appena t’azzardi a entrare in una doccia!... Nel profondo Midwest, altra musica, ma in quelli délabrés di New York non si può neanche passare da un piano all’altro perché ci sono i lucchetti: se càpiti in un piano di vegliardi è finita! Pensionati residenti... No, non te l’ho mai detto per non farti soffrire, ma è vero. Sento che non te lo posso più nascondere. Due anni fa potevo ben passare per un soldatino come loro. Capelli tagliati uguali, dai loro stessi barbieri. Gli stessi pantaloni chiari e maglietta da estate (in libera uscita, si mettono in borghese). Mi sono preso una borsina blu, come la loro, d’ordinanza, che fra l’altro mi serviva per tenerci i dischi. Con dentro una salvietta e un sapone; e mi sono presentato una sera verso le undici alla caserma».

«Ma gli italiani non riluttavano dal fare il soldato?».

«Avevo studiato il movimento la sera prima. Più della metà arrivano lì ubriachi a testa bassa. Molto rincoglioniti e confusionali, senza una parola. Altro che “Hi Brad, hi Ted”. Il piantone senza chieder niente fa scattare una serratura elettrica, con un bottone. S’apre un cancello di ferro là in fondo, e ci son le scale subito dopo. Ma il cancello si può aprire dal di dentro con le mani. Questo per uscire poi. C’è un rampino. Quindi sono arrivato lì a testa bassa anch’io, bofonchiando adagio senza farmi capire, e m’hanno aperto».

«E tu?».

«Dentro in tutte le docce, subito. Niente».

«Ma ce n’erano?».

«Certo, era tardi, era pieno. Ma tranquilli. Addormentati, proprio. Dopo tanti insaponamenti per niente l’unico che s’è fatto avanti è stato un’annosa maràntega, orrendissima, sergente. Ci vuol altro... Tante volte basta un’espressione come “sergente dei marines”, che suona così bene, vero?... e tu t’immagini chissà cosa... Ma dovevi vedere quella stanza».

«Ma no, Antonio! Sei andato dentro?».

«Solo per vedere... Tanto, ormai, ero lì: serata persa... E lo so che avresti sofferto, nel tuo romanticismo così cantonale... Ma dovevo liberarmi da questo peso con una impietosa e sfacciata confessione, voi che stando qui immersi nella sfrenatezza immaginate chissà quale dream sequence nell’erotico immaginario...».

«Ha dovuto soggiacere alle tue voglie irriferibili, lo sventurato? È stato costretto a venire a patti con un’altra parte di se stesso che credeva di aver soppresso per sempre dopo quella peccaminosa infanzia rurale? Non sarà più rinomato per la sua strettezza in tutta l’East Coast? È venuta giù tutta la caserma per la rumorosità e lo scandalo?».

«Fotografie di pin-up su tutti i muri, tradite da sessanta centrini e tovagliette di pizzo in giro... di plastica... La televisione in un angolo del soffitto, per guardarla dal lettino... Piante finte... Ha acceso un paio di candeline da torta... Altro che piangere su Montezuma, and the shores of Tripoli... Son scappato da qui all’eternità... tà-tà... tà-tà-tà-tà...».

 

Troviamo verso il tardi un marinaio piccolo ma ben fatto del West Virginia, biondo, bellino, muto. Ma non provocante o succulento da appendere al soffitto del garage per una farandola di elettrauto in salopette. Non con la risposta pronta: neanche la risposta tout court. Piuttosto, il tipico marinaretto delle foto di genere che succhia il biberon in divisa estiva nel lettino da bambino pieno d’orsacchiotti e con le reti intorno, mentre lì davanti sulla pelle di zebra il suo amico in slip e bandanna di leopardo con la divisa invernale buttata per terra si avvolge il pitone vivo inforno al collo. Genere Alan Ladd ma saranno ottanta chili di beef-cake, ho provato a reggerlo anche se non collabora; stomaco piatto, duro, a “washboard”, cioè asse da lavare; e denti tutti a posto, gli ho sentito i molari col dito e lì m’è parso riconoscente, m’ha tirato due o tre poppate. Mi sono accorto subito come in fondo ha ragione, nel suo torto, Antonio.

Lui, si sa, scioccamente ha questa mania di prenderli un po’ in giro per ridere, fa degli scherzi inutili, prende un accento di Oxford caricato, con dei gorgogli da violoncello che loro non possono capire: puro Edith Evans, nei dischi di The Importance of Being Earnest... Ma se è per questo, neanche le marchette italiane capiscono gli scherzi, quando pretende di far lo spiritoso... E lo prendono tante volte per matto o fuori posto.

Questo qui è proprio terrorizzato, però. Trema, non guarda in faccia. Eppure è ben piazzato, come nelle foto dei construction workers col casco. Gli si legge chiara negli occhi la decisione che deve aver preso di far subito qualche cosa di irrimediabile, che dovrà tormentarlo per sempre.

«Come on, let’s go» fa a testa bassa. Gli va giù la voce, di colpo, ma si sforza di dire «I’m ready for everything» lo stesso.

«Ma guarda che non sei mica obbligato se non ti va, sai?» mi sforzo di spiegargli, cordialmente e con calma. «Se ti va vieni, se no sta’ lì. Se una cosa non piace e non diverte, è così semplice: non la si fa».

«No, ho deciso. Andiamo». Sempre senza guardare in faccia. E trema in maniera quasi dolorosa, quasi; non è di quelli che incominciano a discutere e promettere. È chiaro: vorrebbe che facesse tutto l’inconscio senza parlare né muoversi, come se fosse un sogno o un incubo, per poi «O my God, ieri sera ero così ubriaco che non mi ricordo assolutamente cosa ho fatto». Che corrisponde al «lo faccio solo per i soldi» dell’alibi italiano corrispondente: siamo militari, non ciabbiamo ’na lira, per quelli lì mille o duemila lire son niente, per noi significano aver da fumare o no e andare al cinema o no, l’essenziale è non divertirsi troppo mentre ci si sta “sciupando”: la cosiddetta dépense. Anche se alla nostra età per non sciuparsi come si fa: psicofarmaci?

Ma questo qui sta male proprio per il fatto che dicendo la cosa spaventosa ad alta voce, in quel momento diventa vera e la devi ammettere a te stesso. Come i ticinesi che non nominano mai il diavolo per paura di chiamarlo lì.

«Cosa si fa, Antonio? Lo prendiamo su?».

«Chi l’ha voluto? Te lo tieni adesso. Si sa come sono gli americani, ormai. E con le roman ladies fanno lo stesso. In politica estera, anche. È una nazione in crisi...».

Mentre si esce dalla città, ancora una volta m’avverte in italiano di non tentare di mettergli in mano dei soldi, come faccio istintivamente io, né prima né dopo. Neanche quei braccialettini d’oro da poliziotto che mi porto sempre dietro per farli contenti? No, neanche, non ci si pensi. Ma ormai lo so che questa faccenda dei soldi li sconvolge. Uno a Copenhagen rimane sbalordito e per poco non si mette a piangere, con degli «oh, nooo!» singhiozzati che mi spezzavano il cuore. Un altro a Rotterdam tira fuori addirittura il coltello, furibondo, perché aveva dato tutto se stesso gratis.

Cinque minuti dopo, in un bosco, West Virginia chiude gli occhi come se volesse assopirsi; e li tiene chiusi, stretti, lasciando cadere il berrettino bianco; ma lo tiene fermo con una mano per non perderlo. Comincia a lamentarsi forte. Stringe gli occhi e spalanca la bocca. Morsica il plaid, poi ci scivola giù fra le gambe. Trema, ha i brividi, lo prenderà come una prova di iniziazione, «a rite of passage»? Mi piglia forte per un braccio, poi s’aggrappa a tutt’e due insieme, che non ci muoviamo e gli teniamo giù la testa, un po’ di qui e un po’ di là, senza poter fare a meno di dirgli «va’ adagio!» come coi bambini ingordi, «easy, easy», soffocando dal ridere; scomodi poi come siamo, tutt’e due seduti davanti con sempre qualche braccio in più che non si sa dove sbattere, e il cambio in mezzo alle gambe. «Con uno di questi, quanti ne verrebbero fuori di taglia small per Pier Paolo? Tre, quattro, cinque, sei?»... «Sei una bestia, non sei mai stato visitato da Madonna Poesia, meriteresti anche tu di sospirare a un guardarobiere carino “la notte non dormo pensando a te”, come è capitato a un ministro che conosco, e di sentirti rispondere, aiutandoti col paltò, “pensi all’Itaglia, eccellensa, pensi all’Itaglia piuttosto”...». «Ma scusa, Antonio, e tu? Col tuo buon cuore e il buon gusto se ti mettono lì dieci paraculetti romani, cosa dici? che meraviglia?».

Questo però non ride niente. È bravissimo, ma si ferma a tratti facendo dei «Jeeeeesusssss!» stupendi. Gli do qualche colpo con la mano a taglio sul collo per fargli fare anche gli «O my Goddddd!», è la loro preghierina di ringraziamento per quando lo prendono, Agony & Ecstasy.

«La finisci?» mi fa Antonio, che è già stufo.

Uffa. «Ma io non glielo sento mai fare live, il loro “Jesus!”, lo vedo solo nei fumetti tremendi. Per una volta, lasciamelo: è lì che non chiede altro! Un po’ di soddisfazione anche per loro, come direbbero le buone signore».

«Ma non hai ancora capito che ha visto in faccia The Horror, e The Horror sei tu! Leggi Heart of Darkness, bestia!».

«Mi basta Da qui all’eternità, dove più li picchiano, più Oscar prendono; e non mi piace invece quando li ammazzano, perché mi sembra un peccato». Ma quando poi tornando indietro per tirarlo su un po’ gli domando, come nei film più scemi delle sue parti, «happy now?», West Virginia ha un gemito così straziante che Antonio dietro le sue spalle mi fa dei gran segni se son matto, e mi soffia all’orecchio in italiano: «Non dir niente, in questo momento vogliono morire! Lascia che si riprenda da solo. Se mai, facciamo una cosa di consolazione più tardi, abbietta, tipo bicchiere di latte caldo e poi un commiato dei più maschili». Raccoglie il berretto, glielo rimette sul crapino biondo.

Ma per chi mi prende? Ma se ci passava addirittura il pugno, come nelle storie della Legione Straniera. Va bene, non parlo più. Non voglio che magari questo mi stia male dentro la MG nuova. E nel Golfo dei Poeti, poi. Guido io fino al posto d’imbarco. Neanche fumare, vuole. E quando siamo lì, Antonio, semplice e cordiale come non l’ho mai sentito, tutto finto, gli offre da bere, sigarette, regali, amicizia. Gli parla bene degli Stati Uniti. Niente. West Virginia, do not disturb? Vedo che fa fatica a tirar fuori la voce per un «good luck» da rispondere al nostro «take care of yourself», e scappa verso la sua barca, piena di little monsters di massa. «Con tutti gli splendori italiani che c’erano in giro inutilizzati... nevvero?».

Dormiamo in un Jolly. Facciamo dei bagni insaponandoci dentro e fuori con dei “Santa Maria Novella” alla verbena e al fieno, lungo la strada facciamo anche il quarto d’ora dell’intenditore elegante («Illazioni su Danae») circa la Pioggia d’Oro in Cinque Secoli di Pittura Veneziana, e anche nella vita veneziana ordinaria di adesso, e siamo a Spoleto per l’ora di pranzo.