MILANO, BRIANZA

«La Wittelsbachmania è un disturbo rarissimo, oltre che molto molto chic» mi fa Antonio appena glielo racconto; cioè la settimana dopo a Milano; e non più nel vecchio alberghino furtivo raccomandato da Giovanni Comisso in Santo Spirito, ma nel più mondano Manzoni, ove nel cuor della notte si sente un’intensa vita amorosa di Mario Schifano al pian di sopra. «Anche più raro e chic della sindrome borbonica sicula... E forse con chances in prospettiva migliori...».

«E di Desideria, avete saputo qualche cosa? È tornata?».

«Non sappiamo più cosa pensare...» mi fa. «E il lupo avrà anche lui gli occhi stretti a fessura, un po’ da zingaro?».

«Sì. Ma non da Chinese grandmother in Canton. Perché?».

«Li hanno per lo più, i Sigfridini di Klaus. Volete ascoltare una romantica avventura d’altri tempi, Herr Landgraf? Di solito non lo si sa, ma lui ha fatto un pezzo di guerra in Africa. Proprio con l’Afrika Korps di Rommel, quelle antiche saghe di el-Alamein, ricordate non da canzoni ma da cippi. Cioè, lui è arrivato verso la fine, quando le battaglie erano già perdute. Giovanissimo allora, naturalmente. Del resto, la data di nascita la puoi controllare sui dizionari di musica... Tutta la ritirata, fino in Tunisia, dove li hanno reimbarcati. E cammina cammina... Les Troyens à Carthage, tu connais?... “C’est le dieu Mars qui nous rassemble, c’est le fils de Vénus qui vous guide aux combats”... E nelle nuits d’été dormiva con un certo arabo, sotto la tenda, a Hammamet: una di quelle cose alla Gide un po’ sceme, però non sempre la solita retorica dei legionari italiani sulla Quarta Sponda... E figuriamoci se gli altri avranno badato: Afrika Korps, un po’ me li ricordo... le divise, le biondezze... Sarà stata però un’esperienza traumatica, di quelle che fissano un tipo sopra un altro tipo, perché a un certo punto l’arabo è andato perduto, durante il reimbarco, e naturalmente non se ne sarà sentito più niente...».

«E il povero K.? Non era anche sul fronte russo, per caso? Cosacco più, arabo meno...».

«Sempre col suo relitto del passato conficcato nell’Es, povero K. Come quasi tutti noi. Ce le ripetono anche sui magazines, che non ci si libera delle più care immagini...».

«E a te piace, vero, tutta questa storia?... All Our Yesterdays, Tomorrow Never Comes, Midnight Mary».

«Come sei fatuo e sciocco! Avrei voluto veder lì Lei! Senza casa, senza soldi, nella Berlino del dopoguerra. Le enciclopedie non lo dicono, ma dev’essersela vista bruttina, povero K. Avrà fatto la borsa nera, avrà fatto marchette con gli americani...».

«E Le par poco? Si devono esser divertiti molto, quegli arditi: non come i minatori e i braccianti... E noi intanto arriviamo sempre troppo tardi!».

«Chissà cos’avrà passato d’altro, tutto non si dice mai, e you never can tell. Anche la sua andata in America non dev’essere stata tanto chiara, perché dopo la guerra i tedeschi non li lasciavano uscire facilmente dalla Germania. A Venezia, a una sua prima esecuzione, mi sembra che non ci sia potuto andare... Era però amico degli americani della radio, quelli delle trasmissioni per i territori occupati... Lì c’era specialmente un controllore della musica... E questo l’ho visto, l’ho visto!... L’ho incontrato a New York, a un party sinistro... Un uomo vecchio, ormai... Sta in una casaccia della Second Avenue che deve sempre andar giù, vicino alle Nazioni Unite... già sgomberata quasi tutta dagli inquilini, e al pianterreno solo un negozietto aperto, di camicie di voile inverosimili... da tenore, da torero, da tzigano, con i “cannoni” davanti e la manicona gonfia, per dieci dollari te ne danno tre... A momenti, una te ne prendevo, a Bellinzona chissà che effetto... E so che questo Milton l’ha aiutato molto, non so se anche portandoselo dietro quand’è tornato in America... Dopo la smobilitazione s’è rimesso a lavorare per uno dei grandi editori di musica: proprio il ramo americano dell’editore tedesco di Klaus... Ma sai, quel genere di bohème intellettuale dell’East Side non simpatica: vivono male, in due stanze délabrées anche se hanno dei soldi... perché se ne hanno tanti, metti, devono vergognarsi della nonna ricca... E magari vogliono sembrare più inglesi degli inglesi: quindi i piatti sporchi nella cucina lurida, altro che le tue salsine. Ma tutti quei concerti per violino sul grammofono ti cantano: io sono una musichetta dell’Anima, della Sensiblerie, dell’Artista, del Sesso & Carattere, dell’Inconscio che fa cuccù... Non vengo da abbazie o accademie o cattedrali o caserme o palazzi o tastiere d’organo, ma dalle più fantasiose e tormentate periferie tzigane e slave del wagnerismo proliferante e fremente sui tetti del ghetto fra le Melisende e i Barbablù...».

«Ma tu perché non gli vuoi fare questo libretto?».

«Ormai c’è l’eversione del senso, con lo spray delle monadi!... Qualunque testo uno fornisca al Compositore, sia “m’illumino d’immenso” sia “avanti col proletariato” sia “Marguerite Marguerite partons vite l’eau bénite” sia “Non si accettano reclami allontanati dal banco”, viene atomizzato nella composizione, arrivano all’ascoltatore solo delle vocali, dei fonemi... dei mortemi... Stanno facendo anche loro la sociologia ideologica o la semiologia per le carriere, nessuno perde un attimo di tempo libero con la musica di piacere: roba per masse abbiette o élites perverse... Mentre la sociologia non più pseudo-scienza diventa più passionale della poesia e della religione...

«E poi ho sempre paura che nelle composizioni destinate all’Italia venga fuori magari in un secondo tempo il lamento della mamma... Prima non c’era, poi sentono che qualcosa manca... Sarà capitata qualche disgrazia politica, una strage in Estremo Oriente, un lutto ideologico in America Latina... e allora tràccheta! Fuori la mamma!... E cosa farà? il lamento!... Anche nella musica contemporanea: nella nostra vita quotidiana, conosciamo e frequentiamo soprattutto delle mamme contemporanee che detestano il ruolo tradizionale di mamma, si sono liberate di tutto il mobilio delle mamme, lottano contro la loro memoria, lavorano come dirigenti e produttrici alla televisione, dànno appuntamento ai figli soprattutto nei ristoranti, prendono a schiaffi le figlie o le trattano come complici, non la fanno lunga sulle disgrazie perché non è di bon ton... E magari sono committenti o mecenati di musica contemporanea nelle istituzioni concertistiche...

«Però, anche nelle composizioni più spregiudicate e d’avanguardia, mai che la mamma faccia un passo oltre Iacopone da Todi e Azucena: siciliana di ieri e di oggi, greca antica, ebrea moderna, sudamericana, sudafricana, sudestasiatica, lucana della Belle Époque, mai ha un figlio che riesca benino! C’è da toccarsi le palle: sempre un figlio solo che è andato a finire malissimo! Uno solo e morto per la mamma fascista, uno e morto per la mamma antifascista, idem per la castrista e per l’anticastrista, la bianca e la cinese e la nera... E tutto questo mentre tutte le mamme in cupo scialle di tutti i continenti stanno mettendo al mondo dieci o dodici figli ciascuna aggravando la sovrapopolazione mai prevista da Marx, e si sognano a occhi aperti davanti alla televisione come regine degli elettrodomestici in raso rosa e figli in blu!... Oltre tutto, la mamma da scena o da concerto ha una gamma limitatissima di espressioni e di gesti: Azucena, Mamma Lucia, la Cieca, solo frontali, con gomiti e ginocchia immobili, neanche capaci di gestire una trattoria. In platea, solo donne-manager e figlie in carriera. Ma sul palcoscenico: scialle nero a frange e povero figlio mio con gli occhi al cielo. Sempre le frange: le frange non possono mancare. Senza le frange, non c’è dolòr. E te credo, che poi va a finir male: con le frange, quando mai qualcosa è finita bene? Mai, però, un minimo di autocoscienza critica: “cosa potevo fare, a parte le frange?”. E come librettista sul programma figuri TU!... C’è da uscire dall’alveo sintattico... Andiamo da Meneghella».

 

Bisogna proprio? Bisogna! Ad ogni costo: Antonio le telefona anche se io insisto per non bloccarci tutta la sera, l’ultima che si passa a Milano prima dei Natali. Non so perché gli è venuta questa gran voglia. Forse perché sta in questa villa d’una sua cognata pare splendida, la Vidigulfa, verso il Ticino? O no, in Brianza?

«Una casa ove la vera signora è sovrana: antica e moderna e upper class,» mi fa lui «perché questa cognata ha quattro figlie: la bellezza della famiglia, con una figlia a sua volta, già piccola bellezza; lo spirito pratico, che gioca in Borsa per tutte e pare che le stia andando bene; la povera sventurata, che gioca invece a golf e passa le giornate a Villa d’Este; e la disapprovata sul piano fisico, che produce vini buonissimi nell’Oltrepò». L’amica di Antonio è lo spirito pratico, sposata da poco a uno di Roma che lavora a Milano. I mariti spesso arrivano la sera tardi o per il weekend. Sento però che Meneghella sta invitando anche a pranzo, e allora gli faccio dei gran segni energici di no: altrimenti ci tocca star là tutta la sera. Lui infatti le dice subito di un altro impegno: non potendo a pranzo, andiamo un momento prima per un sorso.

«Vedi come sei assurdo?». Non posso fare a meno di dirglielo. Prima mi telefona sopra Bellinzona per farmi venir giù, anche se non avevo quella gran voglia; ma adesso che mi è venuta e son qui, come sempre lui vuol far tante cose in una sera sola tirando dentro anche me; e con questa Vidigulfa che ci intasa a metà la serata, fra il prima e il dopo che cosa è possibile combinare? Peggio che fra il dire e il fare!

«Ma non ho più tanto tempo da buttar via come te» mi fa, ancora. «Sto qui solo oggi, domani mattina vado giù a Roma subito».

«E allora, cosa vuoi fare, dove vuoi andare?».

«Verso il tempo che muore: le cose che forse la prossima volta non ci saranno più, troppe ne stiamo lasciando perdere... E se qualcosa vuol nascere, si è qui per questo! Cosa offrite? Dolci chimere? Ma cominciamo a lasciar giù una macchina, andiamo con la tua». La mia come al solito, perché m’ha fatto prendere la Bmw grande anche stavolta; e lasciamo la sua «vecchia di casa» all’inizio del Parco.

«Si torna nei posti: ma se tutto è appena finito, è colpa mia?».

Ho capito. «Vuoi andare un momento al Satyricon?».

«Signori, si chiude. Hurry up».

Del resto, non abbiamo neanche due ore. A questa Vidigulfa si dovrà arrivare per le sette, o le sei, e la strada per la villa non la sappiamo ancora. Ma il cinema è in full action. «I teatri d’una volta saranno mai stati così sfrenati? O solo le terme?».

 

Uno di quegli odeon dove i gladiatori e i centauri si spogliano ancora sul fondo, e tra belvederi e tribune i fauni danzanti e i satiri tirano fuori tutto anche se ormai c’è pieno di lampadine. Marsia e Laocoonti molto allegri e simpatici, per lo più in tuta e con poco tempo, quindi svelti. Un viaggiatore in Grand Tour, forse, non ci crederebbe. Direbbe che viviamo nel Mito, ecc. E pensare che siamo a Porta Genova, Petronio mio, nel mito della darsena proletaria e della genuinità milanese folk.

Già sta ridendo con un falchetto milanese molto tipico, ma talmente esagerato come juvenile delinquent del rock’n’roll che bisogna andar lì a fargli degli scherzi di mano e magari da villano: blusone di cuoio nero col suo maglione da sci sotto, e un piede di scoiattolo come fermaglio dell’éclair; jeans diritti con dentro delle gambe meravigliose e durissime, e il suo stivaletto alto giusto con un po’ di tacchetto Louis XIV; cinturone a borchie; coltello; catenona di ferro al polso; anello che serve da tirapugni. Non gli manca talmente niente, che deve averci pensato su anche tanto, davanti allo specchio. Vado vicino per vederlo meglio in faccia e toccarlo: ha degli occhi verdi splendidi, un po’ grigi, invernali; pelle chiara, dentini da cagnolino, capelli neri lisci, molto lunghi.

«Cos’è che vuoi te?» m’attacca subito.

«Siamo qui insieme, lascialo stare» gli fa Antonio.

«Non far mica tanto il dritto, te» mi fa secco. Ha la voce giusta, col raspino rauco.

Gli metto le mani addosso; e un po’ gli piace. «Ce l’avete un pezzo di macchina?». «Sì, che ce l’ho». «Che macchina è?». Glielo dico. «Va bene». Andiamo. «Dài». Usciamo. Ma poi non è che si possa far molto. Cose da Asilo Marisa. Sono le cinque, ancora chiaro, gente in giro, anche in tutte le strade appena fuori Milano. E me l’immaginavo già, ma mi accorgo che questo interessa a Antonio soprattutto per farlo parlare. Senza troppe domande dirette, magari; quindi tutto più lungo, perché la si butta neanche in sociologia ma in letteratura. Per tirar fuori tutto quello che hanno da dire; e in meno di due ore.

Dentro in un bar, subito. Vuole un martini. E noi un tè; giustamente ci disprezza. Lo beve. E poi? Basta. Come, basta? «Dopo un martini so che sono simpatico. Dopo due divento noioso» fa lui con semplicità. Un americano a questo punto avrebbe preso tante birre da non stare più in piedi. Un romano, domandava tutta la pasticceria; è incredibile come continui a eccitarli il fatto di «mangiare a-gratis», anche se sono ragazzi già grandi, e a casa non si fa più la fame da un pezzo. Ma se ne vedono continuamente: romani che non mancano di niente, anche borghesi, andar con delle vecchie pantegane orrendissime, e per di più tirchie, solo per mangiare alle loro spalle lo stesso chilo di spaghetti che fa la loro cara mamma tutti i giorni. Ma paga un altro!

 

Questo si chiama il Puma, perché è in una banda di viale Argonne dove tutti han nomi di animali feroci. «Com’è il lupo?» mi vien subito da chiedergli. «Quello non val niente». Antonio domanda che bestia va meglio, allora. «Il giaguaro. Ha sempre tutte le altre bestie lì intorno». Ci pensa un po’; poi aggiunge: «E i due leopardi, che sono anche gemelli tra di loro».

Va bene come idea, questi gemelli, biondi per di più; e gemelli tra di loro, non con altri. Gli chiediamo tutt’e due insieme se ci stanno. «Bravo dritto!» scoppia a ridere lui, dandomi una manata sulla spalla. «Nominalo, te, un ragazzo a Milano che non ci sta!».

Letteratura e sociologia, maledizione! Ecco che Antonio incomincia a parlar d’amore, a chiedergli come lo fanno, e inciampando sui particolari, dirty old man. Sono una banda d’una quarantina, fra i sedici e i diciott’anni, quindi in grado di saperlo, cosa fanno e perché. Questo ne ha diciassette e fa l’elettricista, ma lavorano anche gli altri. E come istinti, certo che pare tutto rimescolato, tutto spontaneo, tutto possibile: come in un milieu borghese non sarebbe mai pacifico, tra i falsi problemi, e i tormenti, e i tabù. La ragazza ce l’hanno tutti ma per andare al cinema in gruppo e a ballare la domenica pomeriggio. L’amore insieme? glielo fanno pochissimo. (Dirà mica così per fare i complimenti?).

«Quando si ha voglia proprio, abbiamo lì pronta la Sparappp... Si chiama così perché fa di tutto, tranne una cosa» ride il Puma. «Grande e grossa, abita lì nel nostro rione e la conoscon tutti. Sedici anni, ma sviluppata, alta. Pare una di venti».

«E tu cosa le fai, per esempio?».

«Dentro e fuori alla svelta, e via».

«E d’altro?».

«D’altro cosa?».

«Baciare...».

«Sarete mica matti?».

«Finiscila col neorealismo» dico al Poeta. «Poi magari ti viene lirico». Sono cose patetiche, i teenagers letterari. Sorgivi da leggere, pazienza a chi piace. Ma se sono anche sperimentali e autentici, qui la tranche de vie si fa lunga. E se si fa anche sofferta, non so se gli lascio la macchina.

«Ma sono tutte scienze umane, la famosa statistica libidinale» mi fa lui. Povera letteratura, in che mani. «E allora, baciare?».

«Meglio un ragazzo, no?».

«Perché?».

«Non fate mica i furbi! Meglio, no?».

Rifiorisce tutto, orgoglioso che lo si stia a sentire. Chissà invece sul lavoro come lo trattano: Biraghi qui! Castoldi là! semper el solit pirla!... Quando scoprirà i bar dove i signori lo guardano come una meraviglia, la Vera Vita imiterà l’Arte?

«Di gattopardi ne avete nella banda?» gli chiedo. Ma il Puma non capisce. Il Poeta si arrabbia: «Il decadentismo, dopo!».

«E le puttane, allora?».

«Le ammazzerei tutte!». Fa degli occhi da matto. «Le odio!».

«Prendi un appuntino» gli consiglio. «Milano, neoproletariato giovanile, early Sixties: le puttane no. Una schedina che diventerà una canzone: ma l’amore sì». E m’ha telefonato per farmi venir giù.

«E baciare, non è un po’ poco?».

«Ma cosa, poco? Ma va’... Tutta una sera, dove, poco? Si sta lì delle sere intere, no? Il mio socio de Bress ha un bel millecento, no? si va fuori! no?».

«Ma l’amore lo fate?».

«Mi fa schifo, ma sul serio. Proprio non mi piace».

«Con gli uomini o con le donne?».

«Con tutt’e due! È schifoso!».

Antonio sta guidando, e ferma di colpo. Subito un braccio intorno al collo, e anche pesante. Ma fa quasi senso vedere questo Puma, uno così pieno di durezza, come gli si abbandona sulle ginocchia, prontissimo, e gli si attacca al collo. Non sono cose che si imparano dalla televisione. Prima però si volta verso di me, con la sua faccia fiera. Vuole che scenda e vada via. Il tipico falchetto che strapiomba.

«Ma è un elefante!» gli fa Antonio. «E poi sono il padrone della macchina» dico io.

«Allora niente». E si tira su.

«Va’ giù, dài» insiste Antonio. E mi fa proprio arrabbiare quando vuol fare il mondano da solo, come se poi non sapessi. Scendo, non voglio far storie, ma fa freddo. Torno dopo venti minuti, stanno facendosi delle confessioni di vita vissuta che non approvo, e a momenti litighiamo. Bisogna andare a questa Vidigulfa, se proprio si deve. Guido io stavolta, c’è da tornare quasi in centro per lasciar giù il Puma al suo bar.

«Allora, qui alle otto e mezza?» gli fa Antonio mettendolo giù.

«Io a quell’ora lì te l’ho già detto che vengo qui al bar a pigliare le sigarette. Se ci sei, bene. Guarda che non aspetto».

Scende. Saluta. Va via dritto, con una figura splendida. Antonio, poco di mondo, lo chiama indietro subito, gli mette in mano due o tremila lire. Lui le piglia e se le mette in tasca. Sorride appena, coi suoi dentini bianchi da animaletto di Walt Disney. «Grazie, ciao» fa; e prende la corsa. Se Antonio non lo chiamava, allora se ne andava senza chieder niente. Mi pare troppo. «Gliene ho promessi di più per dopo» mi fa lui. «Ma non gliene deve importar molto, purtroppo, sai?».

Per strada c’è parecchio traffico. «Gli ho chiesto se la sua ragazza lo sa, che lui fa queste sciocchezze,» dice Antonio «e m’ha detto che le ragazze della loro banda sanno tutto dei maschi; e poi un po’ li vedono, con chi vanno in giro. A me pareva abbastanza straordinario: sono figlie di operai che lavorano, non sono mica Sally Bowles. Lui allora m’ha spiegato che alle ragazze dicono che lo fanno per soldi; e allora va bene anche per loro. Che codici, felici loro...».

«Non hai provato a fargli il discorso della morale del prete? O qualche rissa cristiana, plurilinguista inscì inscì?».

«M’ha guardato a bocca aperta. Bocca mia, taci?».

«Son troppo trepidi i tuoi baci, per riscaldare un cuor!».

 

Sul grande rond-point di Monza davanti al Parco m’han sempre detto che c’è questo gran movimento di soldati spensierati, ma non si è ancora capito se la villa è verso il Ticino o verso l’Adda, e Antonio si è fatto pensoso.

«Pensa! se negli stessi anni di Ludwig avessimo avuto un qualcosa di simile anche nel Bel Paese» mi fa a un tratto, come per tener buono un infelice. «La de-li-zia!... Per un breve regno di un re folle sul serio come Ludwig, io sarei disposto a dar subito in cambio tutto Umberto I, e ovviamente Vittorio Emanuele III; e anche gli insegnanti delle scuole medie meno tonti sarebbero ormai d’accordo che nel cambio l’Italia ci guadagna. Fa a meno di quei due stupidi regni, evita le due guerre mondiali perché nessuno la vuole, e magari non viene il fascismo: però la musica impera, e l’Imaginifico trova comunque pan pei suoi denti.

«Pensa che meraviglia. Umberto Primo perde la testa per Giuseppe Verdi, la Regina Margherita errante per l’Europa delle terme con le sue perle sotto finto nome come Sissi, la Litta relegata a Procida, l’Isola di Arturo, un film di Visconti già pronto... E i due amanti folli in slitta a Courmayeur, già molto vecchi, vestiti da Papà Natali, con le loro renne di rifugio in rifugio, e delle gran barbe bianche affettuosamente cosparse di genziane e stelle alpine dai buoni guardacaccia, à la Lady Chatterley... In Italia c’è il vantaggio della cosa itinerante...

«Rappresentazioni privatissime e personalissime della Traviata in una gran baita a Cortina, del Rigoletto in Palazzo Te adattato a casa di Sparafucile, del Trovatore a Castel del Monte nella fioritura dei mandorli, dell’Ernani fra i castelli della Val d’Aosta, del Ballo in maschera fra le Cascine e Palazzo Pitti addobbato per qualche ricorrenza di Gian Gastone... Il Salone Margherita ribattezzato Salon Boccanegra. L’erma di Rossini profanata in Santa Croce da fanatici dell’Attila... Monza, qui, trasformata in uccelliera moresca, o malese, riempita di tutti i fiori e gli animali dei romanzi di Salgari, le specie più rare e pregiate, mentre Luzzatti e Giolitti fanno i conti dei debiti insieme a Mancini e a Sonnino: scandalo della Real Banca dell’Opera!

«Crispi e Cairoli si presentano in domino da babilonesi del Nabucco per far firmare la dichiarazione di guerra a Menelik, col pretesto di compiacere l’alleato Amonasro, che sta organizzando una Prima Crociata savoiarda ai Vespri di Addis Abeba, mentre sorgono sfingi e piramidi a Racconigi, un castello scozzese a Stupinigi, un bosco di Birnam sull’attico di Palazzo Carignano, un parco di Windsor a Caprarola, un convento di San Giusto a Castelfusano, un Escorial a San Rossore...

«Gli Aosta vengono esiliati in seguito a un complotto con gli Orléans, i Borboni di Spagna, Pedro II del Brasile, Charles III di Monaco, e il marchese Rapallo patrigno morganatico della Regina Margherita; e da Oporto, da Rio, da Kingston-upon-Thames, inondano le Corti europee di pamphlets a firma apocrifa del Conte di Salemi propalando la diceria che Umberto Primo, novello Caligola, abbia fatto senatrice la Cavallina Storna e si prepari a radere al suolo Vittoriano e Palatino per spianare i dislivelli davanti ai colossali Trionfi Etiopi di una novissima Aida ribattezzata Adua ove condotta in ceppi da Radamès Depretis sfilerebbe per la prima volta la Regina Taitù...

«Subito il Carducci compone Giambi a Manrico, Epodi ad Alfredo, Rime Nuove al paggio Oscar, Odi Barbare al Grande Inquisitore e a Ramfis, Rime e Ritmi al Duca di Mantova, al Marchese di Calatrava, al Governatore di Boston, al Barone Douphol, a Giovanni da Procida, a tutti i Lombardi, e ai due Foscari, mentre Annie Vivanti lancia fra le signore letterate la gonna-pantaloni alla Giovanna d’Arco... Succede insomma in piccolo quello che si è poi visto sotto il fascio: tutti i bambini delle scuole obbligati a mandare a memoria “Davanti Sant’Agata” e “La leggenda di Luisa Miller”, temi in classe e gare d’acquarelli su Baroni di Ferro e Barbe d’Acciaio... Il XX Settembre proclamato “Giornata delle Penne” dal Sindaco di Roma Nathan per festeggiare i Bersaglieri e la Breccia (ma su “Piume al vento nella breccia: una impressione molto infantile” ci dev’essere anche uno studio di Freud)... I fondi segreti dell’Ordine Militare di Savoia bruscamente dilapidati per fornir lingerie ricamata a mano ai corazzieri del Quirinale: orlata d’oro, con una spada pure d’oro dalla punta eretta in una rosetta tricolore, entro una ghirlanda di quercia e alloro filettata d’oro o argento a seconda dei motti “Al Valore” o “Al Merito”... Collare dell’Annunziata a Tito Ricordi e Francesco Tamagno e Arrigo Boito, ovviamente. E nomi di nuovi bambini di Corte: Aroldo Borea d’Olmo, Oberto Thaon di Revel, Attila Avogadro degli Azzoni, Alzira Carminati di Brambilla, Melitone Radicati di Brozolo, Abigaille Asinari di San Marzano, Odabella Caracciolo di Sant’Agapito, Desdemona Starrabba di Rudinì... La Bella Rosìn segretamente inumata al Greenwich Cemetery di New York dopo aver rievocato le intimità del defunto Re Galantuomo in una serie di esibizioni al Circo Barnum, con lo stesso onorario già corrisposto a Lola Montez quale favorita di Ludwig I...

«... Ma il popolo si ribella! Nottetempo depone corone commemorative ai piedi delle Naiadi nude di piazza Esedra... Si compongono pasquinate irriferibili contro il Superuomo e il Fanciullino... S’alzano barricate davanti al Costanzi e al Corea in occasione delle “prime” d’opera e anche delle “riprese”...

«Allora il Presidente del Consiglio, Pelloux, d’intesa col Presidente del Senato, Saracco, e col Presidente della Camera, Tittoni – i cosiddetti “triumviri del Motu Proprio”, quattro col Generale dei Gesuiti, padre Bioy Casares – con l’inganno fa entrare qui a Monza il Sovrano in un’ambulanza camuffata da victoria, ove truccati da Jago e Cassio sono appostati i professori Mantegazza e Murri che immediatamente lo dichiarano interdetto e inoltre perito in questo increscioso attentato anarchico di Stato (sul quale la Nazione tutta sarà chiamata a lacrimare a lungo anche non volendo), mentre l’infelice viene consegnato all’infernale generale Bava-Melodia che lo deporta alle Isole Borromee ove lo sventurato ex-regnante sopravvivrà per decenni col volto ricoperto da una maschera di ferro sotto la sorveglianza del professor Lombroso e sotto i piedi di migliaia di turisti, nelle segrete di Villa Humilitas, ivi spegnendosi da tutti ignorato proprio alla vigilia di quella Marcia su Roma che sola forse avrebbe potuto e saputo – “si jeunesse (Giovinezza!) savait...” – salvarlo...

«Frattanto il Duca di Genova sbarca in trionfo a Genova alla testa delle Folies Bergère, e con un proclama detto “del Carlo Felice” forma un Consiglio di Reggenza unitamente alla Bella Otero e a Cléo de Mérode, che come primo provvedimento di clemenza libera la Trigona e la Tarnowska dai Piombi, gratificandole altresì di un cospicuo vitalizio... mentre il Cigno di Busseto fugge clamorosamente a Lugano con lo scapigliato maestro Franco Faccio e gli archivi segreti della Casa d’Arte Caramba... Lì fonda un suo teatro d’arte totale sul Monte Generoso, per rappresentare esclusivamente l’Otello e il Falstaff, negandone i diritti a tutti i teatri del mondo perché i pellegrini e i devoti devono venir lì... E non all’ingrata Scala!».

 

Ci pensa su un momento, e soggiunge: «Come sempre in questi periodi, le sole donne libere di spadroneggiare rimangono i soprani. E si distingue fra queste la prima interprete del malaugurato Corsaro, celebre più che altro per il Gran Salto della Tigre di Mogador, la Targioni-Taverna, una tremenda che s’abbandona aux pires excès nei tristemente famosi “festini della Manica Lunga”, al Quirinale ormai in mano a sicofanti quali il Gatti-Casazza e il Martini-e-Rossi... Cantano sconciamente avvinazzati dei lascivi apocrifi di Ada Negri, lanciando sfrontati “Pari Siamo” e salaci “Lieti Calici” al balcone dirimpettaio della Consulta, trasformata in demagogica Volksoper, e per chi non soggiace alle loro insane voglie sono sempre pronti gli aguzzini e le cannonate del ministro per le voluttà, l’efferato ammiraglio Finocchiaro-Faina, con la complicità del Cappellano Maggiore Lucifero...

«... Allorché alfine l’impetuoso Benedetto Croce compone il memorabile articolo stigmatizzante il nefando varo della Violetta Valéry nella Vasca Navale sacra e inviolabile – e un atterrito fremito d’attesa percorre la nazione intera che vi ha ravvisato la sotterranea allusione al tiranno – l’editore Laterza (giovine di pressoché sovrumana avvenenza) viene condotto alla Manica Lunga ignudo in ceppi dorati da una schiera di Baccelli e Boselli adolescenti incoronati di pampini, mentre ancorché infanti l’Ardigò e l’Orlando vengono costretti a mescere quali coppieri bigonci di Fontanafredda ai coribanti di Santa Cecilia, ribattezzata Santa Preziosilla...

«Ma il tiranno si prepara la rovina con le proprie mani quando manifesta al Gran Maestro delle Regie Opere l’abominevole proposito non solo di lanciare un grande concorso internazionale per la trasformazione del porto-canale di Viareggio in una quattrocentesca Cipro (a causa di un Otello “gran gala”), ma di predisporre l’abbattimento di un congruo novero di illustri luoghi storici – piazzale Roma a Venezia, via Roma a Torino, piazza Ungheria a Roma, corso Garibaldi a Milano, piazza Garibaldi a Napoli... – per una rappresentazione itinerante e “più che totale” de La Forza del Destino...

«Sarà appunto nel transito del grandioso apparato dal Gran San Bernardo (ove fra quei pii monaci ha avuto luogo la Vergine degli Angeli) a Velletri, dove si sarebbe svolto fra boschi e vigneti l’incontro fra Don Alvaro e Don Carlos – e proprio il bel libretto del Piave prescrive ahimè Velletri! – che il landò del Re precedendo di gran carriera gli omnibus e i furgoni degli attrezzisti impazienti impillàcchera e inzàcchera una popolana, la signora Bresci, intenta a raccoglier fragole sullo scenografico altopiano dei Pratoni di Nemi. E sarà gettando una manciata di zecchini di cioccolata in viso al di lei figlio fremente sull’orlo della “faggiola” che l’inconsapevole sovrano porrà il germe del futuro regicidio. Questo sarà compiuto con uno stiletto sfuggito quel dì medesimo a un calesse di trovarobe alticci... naturalmente al soldo dei servizi segreti... E secondo una screditata “versione ufficiale” (ispirata dal losco intellettuale di regime F.M. Piave), la turpe messinscena di Stato avrà luogo a Monza il dì stesso dell’arrivo dalle Indie di un tanto atteso carico di paletuvieri, “rarissima specie di mangrovie rizoforacee e vivipare, originarie della Nuova Caledonia” e talmente costose da imporre come conseguenza una maggiorazione della tassa sul macinato per l’intera Penisola.

«Del resto anche il Cigno di Busseto, salvatosi dall’irruzione popolare nella Manica Lunga arrecando seco nella vicina Confederazione tutti gli arazzi Farnese e alcuni affreschi staccati di Guido Reni, nonché la signora Elvira, intrepida e indomita compagna e sposa del Leone della Maremma, arrischierà forse di incontrare un’analoga fine repentina allorché – nell’imminenza della “prima” confidenziale del Falstaff – una fosca figura ammantellata in un ferraiuolo attraverso le pieghe del quale (volendo) si sarebbe potuto scorgere il balenìo d’una inequivocabile barba color casentino, varca a piedi il Maloja e cercando di non dar nell’occhio viene a occupare un palchetto di proscenio. Basta però che ascolti “L’arte sta in questa massima”... e l’ammantellato, che altri non era se non il Leone medesimo, lascia cadere il ferro ond’era armato, e vinto dalla commozione corre lesto ad abbracciare il Cigno – “sarò io la tua estate di San Martiiino!” – mentre tutto il pubblico intona commosso l’Inno della Giarrettiera, in piedi, all’Osteria delle Nazioni!...

«Per l’indisposizione di uno degli elfi, quella sera il suo ruolo verrà sostenuto da una controfigura, un giovanottino di Pescara troppo imbrillantinato che molti anni dopo si sarebbe preso gioco e di Carducci e di Verdi travisandone impietosamente le figure nei personaggi di Stelio Èffrena e della Foscarina in un suo feuilleton ove la maestosa scena alpina viene spostata in una Venezia d’accatto...».

«Non ti pare un po’ molto sdato?» gli chiedo.

«Perché?» mi fa, già seccato. «Voi preferite che ci siano stati due regni balordi, due guerre insensate, e il fascio? Eh? Rispondete, se potete! Due fagiani, un’acciuuuga? Come il povero Falstaff?».

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Verso Varese lasciando l’autostrada, otto o nove chilometri di bivi e giravolte fra condominii e fabbriche nuove: i camioncini con gli altoparlanti pubblicitari corrono le selve battute dai falconieri degli Sforza, è anche l’ora delle biciclette. Ma questi toponimi in “-ate” fra cui ci si perde, sono più imperativi presenti, o participi passati?

Tradate subito! Brembate fratres! Bambini, non Usmate in quel modo!

O invece: quelle povere Segrate non sono ancora Limbiate. Non si saranno mica Brunate o Velate? (Bisognerà chiederlo a Gadda, è cosa sua).

Dopo qualche altura già distrutta dalle fabbrichette e dalle villette, con la pizzeria “Al Cedro” al posto del cedro che c’era, un risvolto improvviso di Svizzera più che Brianza, una piega, una ruga, molto umida, molto profonda, con una stazioncina abbandonata in un bosco molto fitto addirittura di betulle; e al di là dei muri altissimi e di una portineria merlata in finto-legno, un parco da Belle anche Bête. L’ultimo viale è in salita fra molte statue e cespugli, e improvvisi sprazzi di Tolstoj. S’arriva in un atrio quadrato a colonne lucide, in stile Banca d’Italia, con fontana in mezzo: un cameriere coi capelli bianchi, una hall semibuia, una seconda hall poco più illuminata, e un salone con tanti vasi cinesi grandissimi in fila, lunghi arazzi e un tappeto stupendo: Savonnerie? Solo due appliques accese. È tardi, forse non ci aspettavano più; e si staranno cambiando, se poi arriva gente.

«Allora, me la guardi la tesi?» domando a Antonio mentre s’aspetta. È un vecchio discorso. Ma lui come al solito si rifiuta, anche se ce l’ho lì in macchina, col pretesto che non ha tempo.

«Quanto l’hai pagata?» mi fa.

«Duecentomila». È proprio un suo ex-compagno di corso, che me l’ha fatta. Lo sa bene, è una frugola che lavora alla Banca del Lavoro e farà carriera.

«Allora sarà fatta giusta giustissima» dice. «E poi non mi ricordo più niente, da quando ho fatto la rimozione».

Mai, questa bestia, neanche dei miei esami, ha voluto saperne, col pretesto che adesso è freelance e dunque volage. Klaus, non venga a dirmi. Di cosa, gli importa un po’?... «Se il Vate di Pescara fosse rimasto a Pescara,» mi fa brusco «pensa che invece di uno Stelvio o Tonale Effrenà in gondola con le Morosine e le Marcelline poteva capitargli una fuga di Vittorio Emanuele III e Badoglio a tarda sera su una torpediniera con l’ammaina-bandiera per non finire in galera... E dov’è la mia dentiera, e abbiamo dimenticato la formaggiera, e vi siete ricordati la caffettiera, no no questa era la lattiera... Altro che la Fuga di Varennes, qui ci sono dialoghi che sgorgano dalla sorgente, e poi dicono che il decadente mitomane era Ludwig!».

Sentiamo «tre gradini... due passi avanti... uno scalino più bassino... adesso ci siamo!». Vengono giù Meneghella con una nipote che la conduce perché non ci vede bene. «Lorenza!» grida Antonio nella semi-tenebra in un registro medio-alto. E l’abbraccia. Ma un po’ la conosco anch’io: l’abbiamo vista a Epidauro con Raimondo. «Ma com’è poi morto, com’è poi morto? Io l’ho saputo dopo...» chiede lei subito.

«Vi hanno dato da bere, almeno?» domanda Meneghella, e accende un paio di luci fioche. Porta la pelliccia e il cappello. «Lo so che sembro una làppone,» fa «ma quest’anno, cos’è, o cosa non è,» e starnutisce tre o quattro volte «ma sono raffreddatissima prima del solito». Tira fuori un fazzoletto dalla borsa, e si soffia parecchie volte il naso, con l’aria di star facendo dei rinfacci eloquenti. Comincia a versare whisky con molta abbondanza per tutti. «Vai poi, tu, a Londra per il big show d’Alberico?» chiede subito a Antonio; ma scoppiano a ridere, a lei viene addirittura un vortex, e non ne parlano più. Arriva la padrona di casa, la cognata: esitante, come aspettando dei suggerimenti, con occhiali grossi e scuri.

«Sedetevi, ma non su quello...» dice, indicando prima un divano e poi un altro. «È ancora sporco per il maiale». «Il maiale?... I beg your pardon?...» chiede Antonio.

«Ma sì... Durante la guerra, quando hanno avuto i tedeschi qui in casa...» fa Meneghella. «A proposito,» fa «come sta quel vostro amico Assia Noris?».

«Quale dici?» domanda Antonio. «Tamino d’Assia? O Sarastro d’Assia?».

«Quel signore che compone musiche... che viene a Spoleto in stile...» insiste vagamente Meneghella. E giù catarro.

«Ah, Klaus... Sta in Germania, sta bene, e ha successo».

«Viene anche lui dall’Assia, comunque, come tutti» fa la cognata. «Per più di un anno e mezzo, li abbiamo avuti qui, e tenevano per casa questo enorme maiale, vecchissimo, mascotte del colonnello, pezzato rosa e nero come lui; e veniva direttamente da Amburgo. Si chiamava Armin. E non lo si poteva toccare. Guai a farlo uscire. Viveva con noi, e girava dappertutto libero, si sedeva sui divani: quello lì, per esempio, un Gobelin vero che fa parte di un set di quattro, lo si potrebbe restaurare solo in Olanda. Per adesso rimane lì sporco. “Quel bruto maialasso” lo chiamava sempre il cameriere che avevamo, il Trevisanato...».

«A me pare piuttosto simpatico, invece,» fa la sua gaffe Antonio «un vecio maialasso che si siede sulle sedie...».

«I maiali non dovrebbero mai vivere più di un anno! Sennò, cessa lo scopo!» ribatte la cognata arrabbiata.

«Vieni, in fretta, ti faccio vedere la casa» gli dice Lorenza; e aggiunge «venite», così vado anch’io.

«Vi raggiungo subito» dice Meneghella senza muoversi. Tossisce, borbotta «la condition humaine secondo Antonio Canova», e chiama forte «Papini! Papini!». Rientra il vecchio cameriere. «Mi porti qui subito la Serenissima e la Dominante!» gli fa. «Le ho già qui» risponde lui presentandole due grosse gatte in braccio. «Hanno appena finito di mangiare».


Lorenza è magrissima, coi capelli lunghi neri tirati indietro e la pelle abbronzata. Ha un nasino lungo a punta, porta un bel Falconetto. Sposata a un architetto urbanista e designer, senza bambini. «Te lo ricordi, mio marito» dice a Antonio.

La villa è abbastanza neoclassica, messa a posto nella seconda metà del Settecento, e mai più toccata in queste sale al pianterreno. Hanno ancora diversi Canaletto e Guardi, due Magnasco, un Bellotto con l’Adda, parecchi bronzetti. «Ma la parte che ti divertirà di più è quella dove ha messo le mani la bisnonna» dice lei a Antonio, facendoci salire lo scalone buio. «Sai, dama di Corte con Monza qui a un passo...».

Una parte del primo piano è stata infatti rimodernata alla fine dell’Ottocento, spiega subito: quando è stato aggiunto quel bel colonnato all’ingresso, e qualche pavimento di marmo. E via tutto il bianco-e-oro, sostituito da molto sangue-di-bue. Via dal vestibolo tutti gli affreschi: damasco giallo, invece, alle pareti; e sul soffitto pompeiano un Nerone di tipo Boito. «Niente, su quelle lumiere che sono del Quattrocento erano state messe le lampadine, e sopra tutte le poltrone le trine a punto Milano fatte qui sotto nella scuola di filet». Si intravvede una galleria semibuia piena di copie di marmo o calchi di gesso, tutti sul loro sgabello habillé di scuro, lungo due file. «Andiamo, via, quella è ancora la roba di zia Leopolda, la madre di Annibale, il marito della pazza Alfonsa che quando si sono finalmente sposati in Belgio ha dichiarato a tutt’Europa: non porto un soldo di dote, ma ho avuto come testimone Victor Hugo! È stata allieva di Vincenzo Vela, sai che ha voluto la tomba proprio qui sotto?».

 

Dalla terrazza si vede il giardino, con grandi avvallamenti oscuri. «Beh, qui bisogna venirci di giorno, naturalmente; ma bisogna proprio che tu torni una mattina, per farti vedere» gli dice Lorenza; e gli indica una discesa come verso un lago che non c’è. «Di là era molto più esteso: la valle degli eremiti...».

«C’è rimasta qualche cosa?» domanda Antonio.

«Poco: è pieno di fabbriche... Beh, qualcosa sì: la grotta...».

«Artificiale? Ci torno!».

«Qui siamo proprio al centro della zona degli eremiti da giardino... Lo sapevi, no?».

«Devo aver letto qualche cosa» fa lui «nella “Dissertazione su i giardini inglesi” del Pindemonte...».

«Era un parente! attraverso i Castelbarco e i Rezzonico... Nei classici di Ricciardi ne trovi finché vuoi, tra i viaggiatori del Settecento! Appunto un Rezzonico, poi c’è stato un Angiolini, col gusto delle rovine e degli orridi... Dopo la metà del Sette, la maggior parte dei giardini in questa zona qui viene risistemata all’inglese, fino alla fine dell’Otto... Per dove è passato il Balzaretti... Lavori anche grossi, dovendo trasformare la natura dei luoghi, cercar di darle un aspetto un po’ selvaggio... Muovere i terreni di riporto, regolare in un percorso irregolare le acque, coi canali e le chiuse... Disporre i boschetti e i cespugli, mettere in disordine il potager e il fruitier... Valorizzare quelle poche rupi che si ha la fortuna di possedere nella proprietà... E qui, sia Rezzonica prima e poi Picenarda, hanno fatto molto! Prima, era tutto così regolare e uniforme...

«Mio marito Martino, che tu forse non ricordi però lo vediamo quasi certamente tornando giù, potrà spiegarti meglio di me che il fine è sempre lo stesso: uscendo, a piedi o a cavallo, trovarti di fronte a una scena diversa, a ogni passo... gentili e ridenti... o grandi-sublimi... o melanconiche-tenerissime... o lugubri-terrificanti... o devote-mistiche... tirando poi dentro nella vista e nel paesaggio anche tutta la parte coltivata, perché sempre il suo utile, nelle ville, va tenuto presente... e in un certo senso annettendo alla tua vista anche quello che non ti appartiene: una montagna, un castello medioevale, un faro voltiano, un’abbazia gotica col suo campanile... Ti costruisci le tue quinte artificiali, con dei cespugli e degli alberoni a cannocchiale come in Francia... e così ti appropri di un pezzo di panorama anche altrui: come se fosse lì creato apposta per servire di sfondo a un angolo del tuo bel giardino...».

«Com’è questa valle? La tenete bene?».

«Beh... una volta, l’equilibrio fra il concavo e il piano e il convesso doveva essere molto più curato... Ma sai quanto personale ci vorrebbe?... Guadagnano molto di più nei mobilifici... Le cascate, per esempio, non le abbiamo mai più ripristinate... Ci si accontenta di curare le piante, e già non è semplice: ristabilire le folte e le rade, disponendo quelle che gettano rami a tutte le altezze e quelle che li portano solo in cima... le scure e le chiare, le opache e le lucide, a foglia fissa oppure tremula, quelle che tirano al giallo piuttosto che al rossiccio... senza contare quelle che cambiano caratteristiche invecchiando, come tutti noi... E poi, teniamo ancora in ordine le costruzioni».

«Cosa avete?».

«La pagodina cinese, e il ponticello giapponese. Il tempietto del Silenzio, e quello delle Grazie appena dopo. La serra delle azalee, ricavata dalla vecchia agrumera. La torre del Conte Ugolino, che si potrebbe anche lasciar andare perché tanto non ci va mai nessuno. La filanda modello, coi suoi fornelli funzionanti. E la grotta dell’Eremita, che è poi una vera casina: come appunto ti dicevo. Erano molte, sai, le ville che tenevano il loro eremita ornamentale: come si tiene il ponticello sospeso sul laghetto delle ninfee, o la piccola certosa. Dopo colazione, dopo il caffè, sempre il padrone di casa portava in giro a vedere le meraviglie del parco, una per una: la pagodina, la chiesina dove fra l’altro si diceva Messa, la pianta della sensitiva, l’essiccatoio del tabacco, l’angolo della melanconia, la solitudine agreste, la capanna della meditazione, dunque l’Eremita.

«Con la sua barba bianca lunga, la sua clessidra, la sua falce del Tempo, il suo saio di bigello del Cambiaghi, la sua figura la faceva. Erano piuttosto ricercati come posti, sai? Ne ho viste parecchie, di domande e offerte di eremiti da giardino, giù in biblioteca, nei piccoli avvisi dei giornali di quell’epoca. Facevano il loro concorso, come per la nomina del cappellano o del cuoco. E pare che i Crivelli fossero i più difficili, perché li volevano molto alti, più alti dei camerieri di tavola. Pagati poi per far niente, nutriti dalle cucine della casa. Solo con quest’obbligo di non lasciar mai la grotta, ma è logico: per nessuna ragione.

«Era l’unica condizione che si richiedeva: perché in qualunque momento di giorno o di notte il padrone poteva improvvisamente passare lì davanti con gli ospiti. Oppure anche da solo, se gli veniva voglia di meditare sulla Morte. E giustamente doveva trovar l’eremita in preghiera. Sennò, cessa lo scopo, no?».

 

Intanto non c’è più da bere. Lei mi punta due occhietti scurissimi.

«La saprete» fa «quella patetica storia in versi milanesi che incomincia “Bravo el mé Lavandìn! bravo el poer nan!”... su un certo eremita da giardino ghiottissimo di crostate, che per essere corso un momento al forno a mangiare delle briciole attirato dall’odore, una sola volta, non solo non ha ricevuto un soldo per mesi e mesi di servizio, ma neanche un rigo di referenze, naturalmente. Così nessun’altra casa in Lombardia l’ha voluto più prendere come eremita ornamentale, e lui ha dovuto cambiar mestiere... Un po’ come la mania dei longevi: tutti volevano averne uno sulle proprie terre, se li contendevano, facevano le gare a chi riusciva a far vivere di più il proprio... Qui da noi è morta una vecchia, appena prima della Rivoluzione francese, a centoquarantacinque anni, questa sciocca, ma solo per colpa sua, perché è cascata da un ciliegio dove proprio scioccamente aveva voluto arrampicarsi nonostante l’età, e così ci ha fatto perdere una scommessa che durava da un sacco d’anni coi Porro e i Brivio e i Greppi e i Trotti...».

«Guarda che non è vero niente» mi fa Antonio, mentre lei si è messa a fare degli “uhu, uhu” verso le ombre. «Queste sono proprio fantastiche, nel voler far credere che li hanno scoperti solo loro, certi libri eccentrici...».

«Bisogna portarli un giorno a Pusiano, questi ragazzi» fa Meneghella, arrivandoci dietro coi suoi due cani, il Dancairo e il Remendado; e allegramente domanda se non ci siamo mai stati, sul lago.

«Sul vago Eupili mio?» domanda Antonio.

«Sì: proprio sul vago Eupili» ghigna Meneghella. «I Sommi hanno un delizioso orrido che nessuno conosce, e fatto proprio con niente, dalla mamma Sala ex-Gioppi che è stata ambasciatrice in diversi posti e ha messo insieme le diverse cose. Giù, hanno soltanto aiutato un po’ i muschi come nei giardini giapponesi, con dei dislivelli impercettibili e tutto quello che potrebbe far prospettiva spinto in fondo. E su in alto, si sono limitati a non rimuovere gli abeti che man mano cadevano, facendo ponte da un bordo all’altro dell’orrido come nella pittura austriaca, con tutta quell’edera pendula che poi cresce in un momento, e quei rododendri che ormai ammazzano tutto il sottobosco. Ludovico ha poi voluto aggiungere le felci giganti e i due ponticelli, però secondo il mio punto di vista uno è di troppo... Gli hai già raccontato l’episodio della canonichessa?» domanda a Lorenza.

«Ah, sì, la famosa Giuseppina» fa lei. Ha dei tic, o mi strizza gli occhi e anche metà faccia? Rientriamo in casa, scendiamo. «È una nostra cugina di un centocinquant’anni fa» racconta Lorenza. «Imperterrita. Gran viaggiatrice. Amica del Turco. Ha lasciato certe descrizioni di Costantinopoli che non sono mica male, dentro in tutti gli harem a parlare con le sultane e a controllare i servizi, le abbiamo giù. Non ti dispiacerebbero. E un suo diario di quando abitava a Roma dai Cystria, durante la crisi con Napoleone. Lì tu leggi per esempio che “tutta la società si è oggi recata alla colezione villereccia al Casino Aldobrandini”, oppure “non si ciarla d’altro in città che del caso boccaccesco occorso a un negoziante di via de’ Condotti... “. Poi vai a guardare le date, e ti accorgi che negli stessi giorni Sua Santità veniva ligoté dai francesi, deportato, i francesi fondevano tutta l’argenteria dei casati nel cortile di palazzo Colonna, succedeva di tutto... il marasma... e la Giuseppina visita vigne, contratta mosaici minuti, partecipa a merende...».

«Digli però del volo...» le fa Meneghella.

«Perché non glielo dici tu?» ribatte Lorenza.

 

«Il volo... si fa presto a dire il volo...» sbuffa Meneghella. «La Giuseppina a cinquant’anni passati ha fondato un Ordine di Lavinie Visionarie, qui vicino, dov’erano tutte almeno canonichesse... Si chiamavano tipo Vereconde Cecropie, Peripate Palustri, Frugone Chiabrere... e lei priora, naturalmente, col nome di Perticara Oricalchide... Hanno messo a posto questo chalet di caccia che avevamo a Pusiano in riva al lago, neogotico fuori ma neoclassico dentro, con un buonissimo Traballesi su una volta, “La Temperanza, la Buona Creanza e la Filatelia presentano alla Faustina Mocchi-Maggi il Nodo Cantù”... Si sono fatte disegnare dei bei costumi boscherecci dal cugino Cagnola; e stavano lì a raccogliere erbe, a leggere il Monti... È proprio del Monti la lapide che si vede ancora sopra il cancello: “Tu che serva di corte ingannatrice / I giorni traggi dolorosi e foschi / Vieni, amica mortal, fra questi boschi! / Vieni, e sarai felice!”... Amiche molto della viceregina, la Augusta-Amalia di Baviera, moglie d’Eugène Beauharnais... tanto vero che andava lì d’estate coi bambini a giocare alle Api Panacridi... con le Gamelie Vergini...».

«Sì,» interrompe Lorenza «perché oltre a una ex-prima ballerina della Scala, la Charlotte Lafolie, a qualche brava signora delle nostre parti fra cui una Sormani e una Belcredi e una Cusani-Clerici, e poi la famosa improvvisatrice livornese Fortunata Sulgher Fantastici (in Arcadia, Temira Parasside), avevano lì spesso anche due sorelle bavaresi povere, dette l’Aprica e l’Immota, amiche d’infanzia dell’Augusta-Amalia, e le curavano i figli...».

«Ne aveva tanti?».

«La prima bambina si chiamava appunto Giuseppina, anche lei: poi ha sposato Oscar I di Svezia. Poi viene Augusto Carlo Napoleone che sposa la regina Maria del Portogallo; ma non la pazza, l’altra. C’è Massimiliano Giuseppe che sposa la granduchessa Olga, figlia dello zar Nicola I... Questi li so perché il Monti veniva a fare un’ode per ogni nascita, e nelle note della Carducciana ci sono tutte le storie. Anche altre due bambine, mi pare; ma non so bene. Per le più piccole bisognerebbe consultare la corrispondenza Manzoni-Fauriel, quando mai si ha il tempo...».

«Ma lei è sparita durante un picnic di beneficenza organizzato appunto dalle Visionarie per gli orfani della Beresina» riattacca Meneghella. «C’è andata tutta Milano: il giardino parato, i lampioni sulla riva del lago, tra le azalee giù fino all’acqua... Le due arciduchesse suonavano il violino, la Lafolie faceva l’imitazione della Taglioni, la Fantastici improvvisava delle Bassvilliane su rime proposte dalle signore... Ma tutte! La Caccia leggeva la mano in un chiosco, vestita da zingara... Tutte le Cicogna e le Cavalli friggevano le cialde in un pentolone... Le belle Pisani in giro col pane e salame... Il vino lo aveva mandato la Maria Barolo... Cristina Belgioioso aveva offerto un ricciolo di Chopin come primo premio per la lotteria... Le piccole Arborio-Gattinara vestite da angioletti, lì pronte per estrarre i numeri, bendate... La Arconati, un so-gno!

«Tutti naturalmente si domandavano cosa avrebbe fatto la Giuseppina... Ma lei se la preparava da tempo, la sua sorpresa... S’era fatta mandare da Lione un pallone frenato, e lo teneva nascosto in convento. Ne parlavano da mesi, avevano chiesto consiglio perfino a Germaine de Staël, per questa rappresentazione... Ma rappresentare cosa, con un pallone?... L’Assunzione di Maria Vergine no: sarebbe stato troppo, loro poi con l’Arcivescovo erano già in rotta per via degli statuti dell’Ordine... L’avrebbe subito presa sul blasfemo... D’altra parte, nemmeno una azione mitologica tipo Prometeo o Fetonte, anche se alla Scala si facevano tutte le sere... mah... Ganimede, davanti ai bambini, non se ne parla... Il Foscolo avrebbe voluto un Volo d’Icaro, ma figuriamoci... Avrebbe preso un’aria troppo sfacciatamente pagana, con la Restaurazione già per aria... i mariti quasi tutti al Congresso di Vienna...

«È stata proprio Germaine de Staël a suggerire il profeta Elia: lei d’altra parte stava già raccogliendo i materiali per l’Elias di Lord Byron... Antico Testamento, hanno pensato le Visionarie. Si evita il classicismo, non ci si compromette col romanticismo, non si scherza coi Santi e non si toccano i Vangeli... Quindi, benissimo Elia!

«La Giuseppina si fa preparare un gran manto e una gran barba da Sabatelli... Si veste da Elia nemico di Jezebel... La navicella del pallone era già addobbata da cocchio fiammeggiante... Lo gonfiano d’aria calda dietro un boschetto... S’alza a volo sull’Eupili... Sorge il diletto e l’estasi, fra gli applausi di tutti... Il cielo al tramonto pare proprio di fuoco... Le Dame Boscherecce mollano tutte le corde...

«L’ultima volta che l’hanno vista, è stato nel cielo di Boario Terme... Andava verso il Tonale... verso Ponte di Legno... Non se n’è mai saputo più niente...».

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Giù in biblioteca, mentre il cameriere versa dei nuovi whisky e beviamo, Antonio mi dice piano che queste sono davvero fantastiche, una più scatenata dell’altra nel copiar storie: il volo di Giuseppina si troverebbe in una squisita novella francese che proprio lui ha prestato a Meneghella anni fa, avendola ricevuta a sua volta in prestito dall’uomo senza qualità; e non solo lei non gliel’ha mai data indietro, ma adesso i casi sono due: o se l’è dimenticata perché è un po’ peciona, oppure vuol far la furba al quadrato e al cubo. Arriva Bea, la bellezza della famiglia, già sui quaranta passati ma giovani, e con un’aria molto birichina chiede a Papini che whisky è quello, se italiano o se buono. Dev’essere fra loro un antichissimo gioco, forse dura da quand’era bambina. Il vecchio cameriere sorride molto compiaciuto, è contento, e assicura che è quello scozzese buonissimo, le fa vedere l’etichetta. «Non vuol dire» osserva furbamente la bellezza. «So che versate quello di seconda nelle bottiglie buone».

Lorenza sta chiedendo a Antonio ragguagli d’una quantità di persone a Roma. Non c’è più andata dalla primavera scorsa – «l’ultima volta che ho visto un po’ tutti è stata al cocktail per Cristoforo Colombo all’ambasciata di Spagna» – e lui non glieli risparmia certo, i raccapriccianti dettagli. «E la nostra Desideria?» chiede lei, mentre fa vedere i cimeli d’uno dei nonni: ah, ma che carino, ha riempito la biblioteca di strumenti scientifici argentati e dorati, barometri, igrometri, sestanti cesellati anche russi, e una lanterna magica. «Tu sai che eravamo compagne di scuola, no?».

«Qui in Italia?».

«A Milano. È stata qui un anno in collegio. Rispetto a me era una delle grandi, naturalmente: abbiamo un paio d’anni di differenza, e si dava anche parecchie arie. I suoi la allevavano come la regina d’Inghilterra, completamente isolata, non doveva neanche leggere. Ma avevamo una maestra in comune, molto intelligente, molto musicale, una donna molto sensibile, che le voleva molto bene e l’ha aiutata molto. Intendiamoci: facendoci leggere Ungaretti e Cardarelli, come del resto anche al Parini, nelle classi dove c’erano degli insegnanti un po’ intelligenti che in preda alla modernità potevano magari arrivare fino a Emilio Cecchi... Ma per lei dev’essersi veramente spalancato un mondo. Era ancora religiosissima, con le crisi e tutto, che qui da noi si portavano meno, perché si veniva messe fin da piccole a lavorar per i poveri... Ti mettevano davanti come esempio delle gran signore che con tutti i loro soldi potrebbero mandar lì cento cameriere, e invece vanno a spazzare e spolverare di persona... Quando la vedi, non parlargliene assolutamente, di questa maestra. Salutala molto da parte mia, e basta. Ah, dille che tutti i cani non ci sono più. E che invece la Sola ha in un cortile di via Sant’Andrea un bel negozietto di vasi Gallé».

«Gli hai fatto vedere quella fotografia là?» le domanda Meneghella mentre torniamo nei saloni. La cognata si alza, esce.

«Ah, sì» fa Lorenza; e da un tavolo pieno di bomboniere di nozze sotto un vetro – «di qui i matrimoni che vanno, e di lì quelli finiti» fa Meneghella – prende e ci fa vedere un gruppo fotografico di girl scouts in divisa, con lei brutta e Desideria orrenda: enormemente grassa, per niente somigliante, e certamente non è lei. Queste, mi sa, “ce marciano”.

«Ma era così?» domandiamo.

«Così, così, fino a poco prima di sposarsi» conferma la bellezza. Poi domanda immediatamente, anche lei, come sta, cosa fa, con chi sta. «Suo marito l’ho visto a Firenze, la settimana scorsa».

«Simon è in Italia? Vive ancora?» si stupisce Lorenza.

«Sì, sul Settebello, era proprio lui. Abbiamo fatto colazione a poca distanza».

«Era solo?».

«No, finalmente l’ho vista, sempre che fosse lei. Una tedesca o austriaca senza sopracciglia, direi mannequin».

«Proprio uguale?» chiede Lorenza.

«È possibile confonderle. Alta uguale. Lui la veste proprio come Desideria, la pettina come lei, secondo me le insegna anche a muoversi e a parlare come lei. Ormai sono identiche. Stessa taille, lo stesso mantello di Dior che le abbiamo visto cento volte... Quasi stessa allure».

Sembra che le luci s’abbassino ancora, come se andasse via la corrente. «E il libro, come viene?» chiede Antonio a Meneghella. «Ah, dobbiamo parlare ancora dei vari editori,» dice subito lei «perché mi sta diventando tutta un’altra cosa... Metti: bisogna disfare, perché è stata venduta, una grande casa dove una stessa famiglia ha abitato per diverse generazioni. Dunque ci si deve liberare di un gran numero di oggetti, e ciascuno si tira dietro qualche tuo ricordo preciso, poetico o non poetico, e che comunque morirà con te... Cioè quello che capiterà qui fra non molto, perché tu verrai qui fra un paio d’anni, e lì davanti troverai le villette, lì i condomini, e qua dove siamo l’inevitabile golf club... Ma per il poco tempo che avrò ancora i diversi oggetti sott’occhio, a te risulta che esista o che qualcuno stia scrivendo in Italia un libro del genere?». Beve due sorsi del whisky buono. «E a proposito, che libri di poesia mi consiglieresti di leggere?». «Delfini e Wilcock, non si sbaglia». «E per mia nipote che deve dare un esame di storia dell’arte?». «Sarebbe sufficiente attenersi a Baudelaire e Diderot, no?». «Certi amici di Parigi mi consigliavano molto questo Elie Faure... Ma sarà buono?». «E il romanzo del cane psicanalizzato?». «Oh, quello deve finirlo mia nipote Guendalina».

«Martino... e Fabrizio?» chiama Lorenza mentre entra suo marito: esageratamente alto, con pochi capelli, gli occhi sporgenti, vestito di blu. «Abbiamo parecchia gente che ti raccomando, stasera: arriva la famosa Madame Bowery della Bowery Opera Company...» ridacchia Meneghella mentre ci presentano. «Peccato, proprio, che non vi possiate fermare. Perdete una serata di quelle».

Subito si attacca a parlare di tombe licie: quelle appena viste, l’estate scorsa, e le nuove da vedere l’estate prossima, sempre col “Deadpan” di certi loro amici inglesi a Bodrum. «L’antica Alicarnasso!». «Ma non è rimasto niente!». «Invece Didime...». «Però Priene...». «Hanno lottato per anni orrendamente contro queste madri, coinvolgendoci tutte e facendoci anche soffrire» aggiunge Meneghella tirando Antonio da una parte. «E poi diventano identiche alle madri, semmai ricevendo un pochino meno bene...».

Vanno fino in fondo al salone, si appartano un attimo nella zona buia, mentre mi tocca star lì a ripetere quello che ho appena sentito dai miei cugini (ci sono appena stati) sulle fatiche per arrivar con la jeep in cima al Nemrut Dagi prima dell’alba, per vedere al levar del sole queste famose teste giganti della Commagene, quasi ai confini della Siria. Ma non ci si risiede neanche, e andiamo, via, stanno arrivando le macchine.

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«Antonio! Andiamo! Ma tu ti sei innamorato davvero!».

«Diamo – come direbbero gli ordinari – i numeri?».

«Non fai che parlarne e riparlarne! Non parli che di lei, da quando la conosci! Ti troveranno monotono! Si dirà che hai le fissazioni!».

«Ma io non sono innamorato di nessuno! Quando mai? Mai stato!».

«Non fare il mondano! Se le vuoi bene...».

«Ma cosa te ne importa?».

«Prova a sposarla».

«Differenza di classe».

«O cerimonia tutta da inventare?».

«By the way, she’s married, my dear fellow».

«Cosa provi allora per lei, domanderebbe una zia Pina impicciona. Me lo spieghi, perché ti rendi ridicolo parlandone continuamente con tutti, facendo domande a destra e magari a sinistra? Qui si rischia di rasentare Tizio e Caio...».

«Sa cosa le dico? Vada...».

«Nell’horror ove vivete laggiù... e che può essere solo crescente... Ma siete riusciti, sì o no, a capire almeno cosa non siete o cosa non volete?».

Mi prende a pugni, invece di rispondere, approfittando del fatto che sto guidando io. E così intanto arriviamo al bar del Puma che sono le otto e tre quarti passate, e (lui sì che ha una sua fierezza) naturalmente non c’è.

 

Adesso fa un piccolo teatro, anche riesumando dei rinfacci. «So Jung, e già erotomane!» mi scappa detto. «Chissà che dispiacere per la sua povera nonna Speranza, eh!». Ma lui, furibondo sul serio, mai lo vuole ammettere. Sostiene che se per avventura lo sta diventando «un pochino», sarebbe in fondo soltanto per colpa mia, per il senso di Albero della Libertà che gli avrebbe dato, quand’era già sui vent’anni passati e sprovvisto d’ogni energia vitale, il vedermi a Cannes che ne avevo neanche diciotto sul passaporto, in poltrona col mio sigaro da commendatore – ma Commendatore cliente della Pinuccia, non padre di Donna Anna – con lì Monsieur Paul et Mademoiselle Virginie che mi facevano sur un lit Directoire il loro spettacolino privato intitolato «Voulez-vous violer l’intimité d’un couple?», e per l’elefante solo.

«... E tu malfidente, però: sempre alzandoti a controllare, con delle creme...».

«Certo!». Ma per chi mi prende? «Tutto bisogna esaminare, con quei due lì. Altrimenti fingono, e basta. Non hai un’idea di che mentalità sindacale... L’orologio alla mano... E prima ancora di finire, lui che fa: “on m’a proposé... pppt!... avec des chiens dressés... pppt!”... E lei, fra un “doucement” e un altro... “pppt!... des chiens dressés... pppt!... je me ferais payer bien... pppt!”...».

Andiamo a mangiare: risotto al salto e orecchia d’elefante, la vera milanese in the grand manner, con coppa e salame prima, e barbaresco perché il Barbacarlo è finito. «Però poi non me la contavano mica tanto giusta, secondo me». Bisogna che glielo dica, onestamente: l’elefante è incapace di mentire. «Quel Monsieur Paul: tutto uno scambiarsi le informazioni con lei sulle liquidazioni della biancheria alla Samaritaine... È proprio sempre lì che cascano tutti, davanti al cliente che sente...».

Poi, ancora verso l’irrémédiable périphérique, ma la nebbia è fittissima e la città pare morta. Negli allegri locali non c’è nessuno. In uno, solo la polizia che domanda le carte ai due unici clienti. «Una letteratura come elaborazione del lutto lombardo? Ma che è il lutto?». Si va adagissimo. Per la strada non si vede niente. Tutte le finestre spente. Ma dove sono, tutti? «Nei famosi salotti?...».

«Perché non ti tieni un cameriere presentabile in casa, a Roma?» gli chiedo, guidando sempre io.

«E dove lo metto?».

«Dove vuoi... lo fai dormire con te... Uno come me, che va d’accordo, con le spalle grosse, andrebbe bene, di fronte alle varie ammiratrici, sai? Cercano di portartelo via, ti fa anche da autista... col suo berrettino ben messo...».

«Ma in casa voglio star solo. La macchina, mi diverto a guidarla io!».

Lo riaccompagno alla sua, bell’affare. «Quando vieni su ancora?» gli chiedo.

«A Natale, ormai. Ci vediamo a Santo Stefano dopo l’horror, se ti va bene».

«Telefoniamoci per St. Moritz, per piacere. Ti chiamo io. Fino al 23 sto a Zurigo. E Christian, ti dà tanti compiti per le vacanze?».

«Scio-cc-hezz-zze!» grida lui, imitando una scioccona che a sua volta copia e rifà di terza e quarta mano. «Però subito prima o subito dopo Natale si prospetta un’andata di tutti o quasi a Londra, t’interessa unirti al panel?».

«Trattasi di onoranze per Alberico? Meneghella m’era parsa lì lì, sull’uscita».

«Incontri e pretesti... Nel suo già notorious Mercante di Venezia ci dovrebb’essere una ragazza che deve fare un film per Christian questa primavera... Ma noi dobbiamo tutti comprarci delle sciocchezze: gran shopping party!».

«Il film, è già il vostro, e dunque si ricomincia a soffrire?».

«No. Un altro. Impegnatissimo: non si va al cinema per divertirsi! Ci vieni? Tanto, spendi del tuo».

«Da quello che credo di aver capito, è la Tina, una mia cugina considerata la disgrazia della famiglia, che sta comprando con la sua società di costruttori questa proprietà in Brianza dove siamo stati; e adesso si capisce dove stanno andando a finire i soldi lasciati da sua zia Rina, che faceva la tabaccaia non ti dico dove e non aveva mai visto né Parigi né il mare».

 

La sua macchina, al Parco, ha su tutto lo smog di Milano; e da piazza Castello verso il viale grande c’è un fuoco acceso con le puttane intorno e anche delle divise. Si va lì, e c’è un paracadutista con una faccia anni Trenta stupenda: occhi chiarissimi e i suoi stivaletti, e sempre il loro foulard celestino al collo anche quando fa caldo, come un tocco di gigolò. «Vieni a fare un giro con me» gli dice subito Antonio, passandomi davanti in fretta. Farà così anche nelle ambasciate fini? E tutto perché l’avrò fatto un po’ soffrire senza pensarci dietro qualche porta chiusa, ma chi se lo ricorda.

«Se mi portate a casa mia» dice questa meraviglia. «Vado alla Nord a prendere le mie borse, faccio un salto». E non sospettano, non immaginano, che se dicessero invece «voglio far tutta l’estate prossima in Costa Azzurra» ci sarebbe qui la competizione fra i «ti ci porto io!» con la lingua fuori.

«Sììì, che ti porto!» fa subito Antonio; e io gli domando «dove abiti?».

«A Camerlata». È gentile. «Ho perso l’ultimo treno, e mi tocca aspettare fino a domani mattina, se no».

Sulla mia strada, quindi. E col fantasma sempre ricorrente d’uno splendore in divisa di pompiere che in una sera di maggio m’ha fermato al casello dell’autostrada chiedendomi se andavo appunto a Camerlata. E l’elefante, col suo sorriso migliore: sììì!... Ma fu punito, perché a questo punto da un gruppo di pompieri uno più avvenente dell’altro dietro la cabina fu spinto nello sportello aperto un pompiere obesissimo e rintronato dalla commozione perché la sua consorte aveva dato alla luce un pupo a Camerlata, e dunque gli astuti camerati s’erano appostati sul “No Autostop” per acchiappargli una macchina giusta.

Adesso invece Antonio già mi spinge verso la mia, «... ma un po’ di rispetto per una Bmw!»... «Per la strada ci fermiamo, e vedrai che ti trovi bene» gli sta dicendo il parà: gran sorriso giusto, oltre che bien gentil. Salgono, e subito sgomma, come piace a loro, con una tale velocità che per quanto subito gli corra dietro con la mia nella nebbia non riesco più a trovarlo, anche facendo gli avanti e indietro fra Parco e Nord.

Dalla rabbia mi viene un mezzo infarto. Perché lo so che queste sciocchezze le fa per farmi rabbia. E poi raccontarmele come se fossero tutti Classici del Novecento. Ma poi basta sfiorarli, questi vari Classici, e magari diventano “carini”: proprio quello che non va. Altro che sfiorare, però: darei delle botte, in momenti come questi. E meno male che ne trovo un altro per me quasi uguale, di parà, sperso anche quello coi suoi occhi chiari e il suo foulard celeste intorno a un altro fuoco d’altre puttane e castagne, sul macadam. Non male, però docile anche questo. Ma era il suo che volevo; e lo odio proprio tanto, stasera, quell’egoista. Che odio, che odio, che rabbia mi fa.

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Il giorno dopo, un po’ incredibilmente, lo incontro di nuovo, verso San Fedele. «Come mai sei ancora qui?».

«Ma è proprio un’intermittenza! Qui davanti alla trattoria dei muratori! Dove ho fatto il mio primo sogno! Un vecchio sogno dentro un altro!». «Non una nuova epifania? Che tutte le feste le porta via?».

«Una piccola. Beviamo qui. Eravamo in quattro, molto giovani, certamente in vacanza, in un grande appartamento che ci avevano prestato a un ultimo piano, pieno di mobiletti e oggetti fine Ottocento, ma non di valore, in una città di mare, molto probabilmente La Spezia. Era sera, era tardi, però tutti sveglissimi in casa, e ancora movimento per strada. Dunque, sensazione di star perdendo il nostro tempo; ma d’altra parte discussione se ripartire la notte stessa.

«E il più giovane grida “ho voglia di far l’amore!”, e si butta su un letto o su un divano allargando le braccia. Ma subito è scosso da tremiti violenti, spasimi, come l’epilessia che si vede al cinema; nella realtà non so com’è...

«Come si fa a non perder tempo sbagliando tutti i soccorsi, in questi casi, quando non si sa assolutamente cosa fare? Tremavano i tavolini, i vasi, i paralumi; si sarà anche rovesciato qualche oggetto...

«Sono corso nella stanza vicina, al telefono, e c’era un elenco di medici in pennarello e in stampatello; ma sentivo aumentare la violenza dell’attacco, mi domandavo se non sarebbe stato meglio chiamare il mio medico. Però non gli avevo mai telefonato a casa o di notte...

«Mentre mi domandavo se era il caso, distrattamente ho appena sfiorato una rosa di vetro giallo che era lì su un piatto accanto al telefono, fra delle lampade Belle Époque. Mi si è rotta in mano, mi è venuto da riflettere: guarda, ho rotto anche questa rosa».

«Invece io sogno sempre che mi rubano una Mercedes». Adesso comincio anch’io. «In un garage pubblico, però con una facciata uguale a casa mia, e con un personale tutto cambiato che nega d’aver mai visto questa macchina. Che fra l’altro non è mia, ma sarà dei miei. Faccio la mia dichiarazione di furto a un poliziotto, e ho l’impressione che sia un complice dei ladri, e io sto anzi fornendogli i dati per far sparire definitivamente la macchina. Tanto vero che mentre siamo al telefono, vedo nella finestra di fronte uno in camicia bianca come me che forse sta dando le disposizioni al suo telefono, mentre parlo.

«Torno al garage, e tre custodi mi si mettono due immobili ai fianchi e uno agitato davanti come nei peggiori film. Minacciano senza toccarmi, perché non avrei prove per denunciarli. E mi viene un’idea fissa: tutto perché non ho tolto il libretto di circolazione, sempre bisogna togliere il libretto di circolazione... Mai, però, mi viene in mente, nel sogno, di rivolgermi alle assicurazioni!».

 

«Nell’epifania più vecchia, sto passando qui davanti alla trattoria dei muratori, in un giorno sereno di gran sole. Sto andando verso il corso Vittorio Emanuele, diretto al Circolo della Stampa per sentire la Divina che deve cantare tre arie di Bellini alle cinque e mezza. Dovrebbe essere naturalmente la Callas, ma di prove non ce n’è.

«Un’automobile targata “U.S. Forces in Germany” si ferma a chiedermi un’informazione. “Voi che parlate e parlate di distensione,” dico io “sapete almeno che cosa intende per distensio Sant’Agostino?”.

«La realtà del tempo è nella distensione dell’anima, nella coscienza dell’uomo, nella continuità della vita spirituale che conserva dentro di sé il passato e si protende verso il futuro. Il tempo non ha altra realtà che nella vita interiore dell’uomo, al modo stesso che l’eternità non è reale se non come vita di Dio.

«Ma se qualcuno potesse guardar giù sull’umanità da un osservatorio, non dovrebbe commuoversi al vedere quanto sia infelice la vita degli uomini?... Camminando mi sono accorto che qualcuno mi seguiva... Stato così miserabile e triste, secondo Arnobio e altri, che sarebbe empietà sostenere che l’uomo sia stato creato da Dio: dev’essere stato creato da una divinità inferiore – e di parecchi gradini – in dignità e potenza al Sommo Dio.

«Ero quasi a San Babila, e non osavo ancora voltare la testa; non mi rendevo conto dell’aspetto dell’inseguitore, sentivo solo che tracciava lunghe spirali dietro di me come il can barbone del Faust, lacci magici per prendermi dentro.

«Come una volpe al laccio, trema una vecchia lince d’inferno? Volteggiate in qua, volteggiate in là, e in su, e in giù, e sarà liberato? Ma dove correre! Via Borgogna, via Cerva, no, via Visconti di Modrone, e indietro per corso Monforte? Dove correre per eludere l’inseguimento, via Borgogna, via Visconti di Modrone, via San Damiano, e arrivare di corsa al Circolo della Stampa, salvo, in tempo, per ascoltare la Divina? No, più lontano, via Borgogna, via Visconti di Modrone, via della Passione, via Conservatorio; e poi? Conservatorio, o Passione?

«È incredibile come sia potuto succedere, in pieno pomeriggio. Tornavo correndo da via Passione, su uno spiazzo di buche, e fuggendo correvo intorno a una piccola voragine, sentivo i passi e il fiato di chi m’inseguiva; è bastato che un tassì mi tagliasse la strada; e un’altra macchina si è fermata al mio fianco. Subito m’hanno fatto salire, e nessuno ha mostrato di accorgersene.

«Altre due persone c’erano sulla macchina, un negro e un altro straniero, basso di statura e robusto, vestito di blu; e anche l’inseguitore, salito davanti, era ugualmente piccolo e grosso e vestito di blu: non negri né bianchi né mulatti, questi; piuttosto giallastri o olivastri.

«Non mi hanno lasciato più andare. Non si capiva per quanto tempo durasse. Gli aghi infilati sotto la pelle delle dita mi tenevano in uno stato d’eccitazione continua e lievemente ebbra. Le pareti cambiavano, ma non se ne usciva quasi mai. Le portavamo con noi?

«Sedevamo un giorno a un caffè stranamente d’angolo fra corso Venezia di qua e via Dante di là, ma appena ordinato da bere già ci si alzava di scatto: un attimo dopo si è abbattuto un autobus enorme sui tavolini; ha travolto tutto; e poi c’è stata una stupida lite col cameriere, perché fra le rovine si sono trovate delle fettine d’ananas dentro un piattino di sciroppo; e nessuno voleva pagare.

«Io volevo tornare in collegio; ma mi ripetevano: “adesso non è più bello come a quei tempi; il direttore nuovo impone di sedersi in circolo, e se vuole può prelevare il sangue sempre dagli stessi invece di seguire il turno”.

«Siamo finiti al Parco. Dietro l’Arena una folla immensa da Giorno dei Morti riempiva le rampe circolari di un colossale monumento a un non-evento, una sfera con doppia scalinata verso un cunicolo cieco. Come sapendo che nel sotterraneo in cima si fanno gli incontri con tutta la zona Sempione, abbiamo incominciato a salire per poi scendere; ma dopo qualche centinaio di gradini non eravamo ancora a metà strada. Ci sentivamo stanchissimi e faceva troppo caldo. Il nastro del mio cappello bianco era già scuro di polvere. Così abbiamo rinunciato.

«Allora il negro voleva riprendersi l’ombrello, e ha ottenuto che un usciere in uniforme sfondasse la porta dove lo tenevano da tanto tempo. Abbiamo attraversato quattro cortili e giardini quadrati sotto gli archi, e poi l’usciere se ne è andato, nell’uniforme della polizia austriaca. Gli altri due aspettavano fuori. Io e il negro ci trovavamo in un gabinetto dalle pareti occupate da armadi, a pannelli di specchi opachi; un bambino piccolo è uscito senza rumore da un’anta, e poi si è chiuso in un’altra. L’ombrello non si vedeva. Probabilmente non era quello, ma uno somigliante.

«Poi abbiamo sentito gridare, e siamo usciti. Eravamo in macchina noi quattro, e io ero molto seccato di trovarmi in pigiama; tanto più era un vecchio pigiama, un tempo arancione e ora stinto per le molte lavature sul rosa.

«Davanti a San Carlo al Corso la macchina si ferma, e non va più. Io ero talmente seccato di trovarmi in pigiama, che siamo saliti sulla scala di fianco agli Amici della Francia. Ci trovavamo seduti in una nicchia, e aspettavamo. Poi una vescica si è gonfiata, si è accesa, e hanno detto che il dottore ci attendeva.

«La stanza era molto piccola e senza finestre, rivestita di mogano rossastro, con tante vetrinette di strumenti a orologeria. Il dottore sedeva a un tavolo nero, molto aggressivo, e quando era necessario dalle aperture spalancate uscivano alcuni assistenti per tener fermi noi quattro. Il dottore mi girava dietro, mi camminava intorno, mi faceva sdraiare sotto il tavolo. Dietro le orecchie sentivo la sua lingua, scabra come una lucertola, anche dietro le due orecchie contemporaneamente; e mi grattava la nuca con le unghie lunghe. Ha frugato con queste dita freddissime dentro la fessura del petto, a fianco dello sterno, ma questo non faceva male. Poi premeva, qualche centimetro sopra e sotto il ginocchio, ed era un dolore insostenibile. Allora: “Anche la rotula! Anche la fibula! Il castigo di Milano!”.

«Con occhi terribili ha comandato che si portassero via gli altri tre. Poi sono stato rinchiuso in una cassa, e devo esserci rimasto parecchio tempo. Dopo qualche giorno siamo discesi nel sottosuolo molto profondamente. Qui si facevano le esperienze di simbiosi con gli animali. Un assistente mi aveva già introdotto un apparecchio di infundiboli. Il negro non si vedeva più. Ho udito la voce d’uno degli altri due, urlava disperatamente da una camera vicina: “no, no, questo oggi no! piuttosto, ancora gli uccelli e i piccioni!”.

«Poi ho visto l’altro, che non parlava, sotto una lampadina accesa. Aveva la testa reclinata, come un fantoccio di pezza, ma con un braccio alzato, e teso ad arco; sotto l’ascella, dentro una grossa enfiagione trasparente, si vedeva un capretto che muoveva le zampe.

«II dottore mi riconduce in alto con parole tremende, che non capisco. Rivedo il mogano, le vetrinette illuminate con gli apparecchi automatici. Usciti sul pianerottolo, preme il pulsante dell’ascensore. Subito uno sportello si spalanca sotto i piedi, e io precipito nell’Assoluto».

 

Si fa anche tardi. «Non dirlo a nessuno, sono andato a trovare Desideria» mi fa. Come sta? Non lo dico a nessuno, glielo assicuro; e a chi, del resto?

«Sta per venir via, ma è in una clinica delle più famose, dietro il parco di Monza».

«Cos’ha? Sta male?».

«Sembra quasi un ospedale, pieno di gente; chissà se la staranno curando...».

«È lì da tanto?».

«Sarà un mese. Così m’ha detto Meneghella ieri. Da loro non lo sa nessuno, neanche Lorenza; ma lei già comincia a vaneggiare che soprattutto è una cosa poetica, alla Tender is the Night. Già ieri sera, in mezzo minuto: ah, se vedessi, una Nicole Diver essenziale con bellissimi scialli antichi del Kashmir fanés come le ultime rose bianche dipinte da “Pippo” – cioè De Pisis – qui a un passo da casa nostra...».

«E lei, come l’è venuto a sapere?».

«Quando ridiciamo i misteri e i nonsensi. O forse neanche. Le ha telefonato, pare, Desideria stessa, di là dentro, passato il peggio. E del resto la villa dove siamo stati effettivamente è molto vicina alla clinica. Le ha anche detto di avvisarmi: chi se no?».

«L’hai vista oggi?».

«Sono andato là verso mezzogiorno; e l’ho trovata vispissima, che stacca assegni e litiga coi medici. Magra in maniera preoccupante, e tutta Hermès mai visti, come se avesse preso le diverse cose in un negozio solo... Sai, proprio nessuno apparentemente che se ne occupi, non un parente o un amico in giro. Quindi ha lei tutto il controllo dei denari in mano, si fa delle superdiagnosi, e licenzia i medici se dicono qualche cosa che non le va».

«Ma com’è capitata, lì dentro?».

«Ah! Non gliel’ho chiesto. Forse non me lo direbbe neanche. Probabilmente non se lo ricorda».

«Cosa ha avuto?».

«Tosse asinina, stagionale. Ma a tutti bisogna dire raffreddore da fieno, allergico. Butta parecchio a terra: uh, come butta, ho provato anch’io. Vengono dei vuoti nella memoria incredibili, è segno che si è giovani, e poi in pochi giorni si rimette a posto tutto e riconosci anche Maria Denis in televisione».

«Ma lei ragiona?».

«Secondo i momenti. Magari ricorda le stupidaggini e non le cose importanti. Per esempio non si ricorda che ci siamo visti a Venezia e che è morto Raimondo. Per questo ho insistito, stia lì ancora qualche giorno».

«Vuol venir via?».

«A Parigi, a Parigi! Voleva andarci addirittura oggi o domani. Via, via dall’Italia subito: quelle cose lì. Mangi, si riposi, faccia dei sonni, invece. Le ho detto anch’io come Meneghella che farebbe meglio se mai a andare in Svizzera. Ma non a St. Moritz o a Gstaad dove ricade su tutti. In uno di quei posti dove tout n’est qu’ordre sans beauté; e naturalmente luxe et calme, senza volupté. Ma lo so già che non ci va. Dopo una mezza giornata che è su, s’annoia e vuole scappare. Sente un po’ di medici, sceglie la diagnosi che le conviene. E ricomincia con le verbene e le mente».

«Ma non c’è proprio nessuno che se ne occupa?».

«Insomma, questa specie di marito passa per l’Italia, due volte in un mese; e m’ha detto Meneghella che una di queste volte è riuscita a fargli telefonare dal direttore della clinica. Ma lui è arrivato con mezza giornata di ritardo perché aveva giocato a golf, e poi per dire che doveva tornar subito a Londra e ci avrebbe pensato là».

«E Meneghella cosa dice?».

«Ah, quasi andata... Da un lato si dà abbastanza da fare, a modo suo, perché forse vuole davvero abbastanza bene a Desideria... Va lì a raccontarle delle sue storie, già poco allegre... E magari la irrita, però le fa passare il tempo... Dànno perfino lezioni di pronuncia alle suore, che le adorano: “my potato, your potahto, one tomahto, two tomatoes”... Ma poi, con me, e chissà con quanti altri... sta già inventando dei miti... nuovi, incredibili... Per esempio, si sta trattando in Mediobanca la vendita di un complesso industriale piuttosto grosso, di quelli nazionalizzabili... Lo si sa in pochi, e l’amministratore delegato è cognato d’una delle zie imparlabili della Nostra... Ma secondo Meneghella questo signore va alla clinica con la Rolls, la lascia lì fuori ben visibile; però avrebbe lì pronta una millecento alla porta di dietro, e senza salire una sola volta a trovare lei corre in un’altra villa lì vicino, dove hanno queste trattative... per non farsi venir dietro i giornalisti o le spie, non so... con Desideria quindi usata come pretesto, come esca, non so...».

«L’avrà visto al cinema... La guarda, la televisione svizzera?».

«Ma intanto Meneghella come ci dà dentro, in tutta questa storia, e ogni volta aggiunge dei particolari incoerenti... sempre più drammatici... Si lascia sfuggire delle stravaganze, lì davanti a lei... Ti racconta che era lì quando finalmente arriva questa zia di Madrid che ha i Goya... E ti descrive la scena così: dunque, da questa stanza semibuia, si sente a lungo questo tacchettìo preoccupante: tac, ta-tac! tac, ta-tac!... Finalmente appare un cavallo. Un cavallo? “Sì, un cavallo nero, con delle mèches chiare da una parte” ti fa lei, con naturalezza. E questo cavallo è la zia di Desideria, che fa tutti dei suoi gran fffrrr... con la testa e la coda... E poi il cavallo parla, e dice: io vado!... “Va’!” le risponde Desideria, già di cattivo umore: cosa doveva dire? “Ma guarda che se ti spiace invece rimango” nitrisce sempre questo cavallo. “No, no, che non mi spiace... Va’! va’!”... “... Perché ho un pranzo, e faccio già tardi” spiega allora il cavallo a Meneghella, che commenta – lei – “proprio un’antologia in pochi minuti di tutte le cose che non si devono fare con una che non sta bene”...».

 

«Ah, poi stamattina m’hanno dato queste impressioni su Milano di Leopardi, tratte dalle lettere. Al fratello: “Al primo aspetto mi pare impossibile di durar qui neppure una settimana”. “In Milano gli uomini sono come partout ailleurs, e quello che mi fa più rabbia è che tutti ti guardano in viso e ti squadrano da capo a piedi come a Monte Morello”. A uno zio: “Io vivo qui poco volentieri e per lo più in casa, perché Milano è veramente insociale, e non avendo affari, e non volendo darsi alla pura galanteria, non vi si può fare altra vita che quella del letterato solitario”. Al padre: “Io sto bene, quantunque l’aria, i cibi e le bevande di Milano sieno il rovescio di quello che mi bisognerebbe, e forse le peggiori del mondo”. E ancora al fratello: “Il fatto si è che a Milano nessun pensa a voi, e ciascuno vive a suo modo anche più liberamente che in Roma. Qui poi, cosa incredibile ma vera, non v’è neppur una società fuorché il passeggio ossia trottata, e il caffè... Vedi dunque quanto io era lontano dal provare il senso dello scoraggiamento per non poter far figura dove nessuno la fa, e dove centoventi mila uomini stanno insieme per caso, come centoventi mila pecore”... Siamo nel 1825».

E su Roma?

«Egli vede la noia dipinta sul viso di tutti i mondani di Roma... Al fratello Carlo: in questo letamaio di letteratura di opinioni e di costumi (o piuttosto d’usanze, perché i Romani, e forse né anche gl’Italiani, non hanno costumi)... Alla sorella Paolina: la frivolezza di queste bestie passa i limiti del credibile... In Roma non potrei conversare se non con letterati stranieri, giacché non vi sono letterati romani... Si è perso Muriel Spark e Gore Vidal».

«E Füssli? E Thorvaldsen?».

«Non parla mai neanche di Piranesi o Valadier... L’ultimo classicismo che sembrava antiquario ma era onirico... Prima che con Canova si fuoriuscisse dal sogno verso l’Impero e David...».

«E non lo dice, Leopardi, che dove c’è poca conversazione si rischia di diventare monologhisti pazzi, come ci sono i motociclisti pazzi a Los Angeles?».