GRANDE “PARTY”
Sulle tovaglie rosse i candelabri d’argento sono tutti accesi. Scintillano: gliel’ha fatto vedere lui alle cameriere come si fa a pulirli perché luccichino: oggi, con lo straccio in mano, «così! così!». Non c’è vaso della marchesa Rovescalli che non sia stato riempito di ginestre colte in campagna, anche i più baracconi; tranne che nella cappellina, piena di gigli con un profumo da svenire («i zigli! i zigli!» gridano tutti), due candeline sottili, e una duchessa napoletana seduta sulla porta, che pare una guardiana di gabinetti in attesa della mancia, col suo chignon disfatto e il suo piattino vuoto, in Francia. Lo champagne è in ghiaccio nei secchielli, non basta mai; e sempre del ghiaccio nuovo a blocchi vien portato su, dentro un paio di secchi gialli di plastica, con le flûtes lavate, da una stanza-ripostiglio piena d’abiti da mattina appesi a una corda, e dove stanotte dovrebbero dormire in tre.
Raimondo è vispissimo. «Madeleines, e supplì!» aveva annunciato. Ma l’insalata di riso freddo con le olive e gli scampi l’hanno già avuta quasi tutti, con le diverse altre insalate, e i grissini. Ci sono sulle tavole delle insalate di pomodori, del prosciutto, mozzarelle, ciliegie, e (mi pare) basta. Da bere, invece, proprio soltanto champagne. Mentre s’arriva su portano dentro fra gli applausi una caldaia di salsicce e lenticchie con la Judy dietro che aiuta, seria in faccia e mestolo in mano; e dopo un minuto la Canobbiana servita per prima con Wally soffia con forza sopra le sue lenticchie, con una salsiccia intera in bocca, esclamando in milanese tra ogni soffiata e l’altra «che bontà! che bontà! che bontà!». (E Gadda, poi, a raccontarglielo: e certo! giusto, un sostantivo della sfera morale!). Si secca un po’, e s’ingozza, quando provano in due o tre entusiasti a vestirla da Luigi XIII, con un po’ di scialli e un cimiero, per proseguire la Maria di Rohan trasformandola in musical del Sistina. Ma Desideria li caccia via.
L’abito d’argento brilla anche d’oro, e la fa sembrare «noi del Venticinque siam le donne / accorciamo sempre più le gonne / e ci pettiniamo alla garçonne...» (sempre al Sistina), con le sue occhiaie fonde e tutto. Ma che occhiaie stasera. Già del Ventinove? Fa un pochino da padrona di casa, dando più d’una mano a Raimondo ma fingendo solo High Spirits. Con una camicia inamidata rigidissima, piegoline strette strette, dei bei bottoncini di brillanti, lui dritto in piedi sui gradini dell’altana chiama i camerieri, dirige i piatti, bacia la mano alle ultime arrivate che traversano gridando di gioia il ponte sospeso, e le fa servire in piedi ove si trovano, appoggiate ai davanzali a guardar la piazza del Duomo illuminata, con tanta gente come a un dopomessa ferma in strada sotto, che guarda su.
La Canobbiana ha sete. Affondata in una bergère senza molle al centro dell’altana chiama Antonio per cognome, e si fa portar da bere, lasciandole lì la bottiglia per terra, con la mano sopra. Infila naso e mento insieme nel bicchiere, come in Fedro. Mentre lui si china, lo afferra per un braccio – «non abbandoni la bottiglia per nessuna ragione!» – come dando ordini ai camerieri, che mancano; e vuol sapere tutti i nomi d’una nidiata di farceurs che ridono in toscano appollaiati alle sue spalle. Le ridono addirittura addosso perché qualcuno sta strillando che le ch’opate e i ch’avallucci senesi per veri connaisseurs si trovano solo in una certa farmacia fuori Porta Pìspini; e lei, irritatissima perché non capisce di cosa parlano. Continua a picchiar gran colpi di ventaglio sulle braccia di quelli che le passano vicini, lo fa anche a me. È la prima volta che vedo usare il ventaglio per chiamare gli uomini. Forse sarà anche l’ultima, non le porterò via la bottiglia.
Sono poi tutti antiquari fiorentini anche un po’ cantanti dilettanti, non giovani; e cruscanti nella parlata in falsetto. Tutto sulla grulleria, sull’ovvìa. Competentissimi di quelle operettacce vernacole rappresentate negli antichi dopolavori: se ne sono già visti e sentiti anche alla famosa Trattoria Romana, a colazione. E ridono forte cinguettando di fiere dell’Impruneta, di feste del grillo; nominano rificolone e fusciacche; urlano cognomi tripli e quadrupli di soprani che hanno seguito per decenni tra Poggibonsi e Pontassieve, con spropositata delizia...
«... Ma la Manon di Monsummano adesso l’è ricca, la si è maritata a Pescia e la sfoggia le perle, e la ripete “e non s’immaginano quelle in cassetta di sicurezza!” per far dispetto alla Tacchinardi Persiani, che la fa ancora la maestra di canto»... Ce ne sono almeno quattro che pendendo addosso alla Canobbiana cantano tutti insieme e con molti acuti «Da quel che par / non giudicar / son le Lucrezie / rare a trovar / spesso è il rigor / di donna in cor / manto a nascondere / segreto amor»... E lei non ne può più, dà dei colpi indietro col ventaglio e a ogni nome che sente fa un piccolo grugnito. Ma questi: «Mettere il gatto in cantina / l’è un’impresa di molto coraggio / ma se invece del topo si mangia il formaggio / questa è una trappola da rimediar!... E la dà una volta all’anno una sua festina tutta d’artisti al pianterreno d’un villinetto dietro piazzale Michelangiolo, decorato come il Bargello ma tutto piccino: corridoietti dove si passa uno alla volta di sguincio, armaturine, savonaroline, ferrini battuti... La usciva anche in carrozzino tirato dall’asinello...».
La Canobbiana sbuffa. Lasciata lì, a becco asciutto. E non solo con Antonio che ormai l’ha mandata affanculo fa dei numeri di prepotenza e invadenza. Chiama, quasi gridando, «Berengardi! Berengardi!», un vecchio omino in blu un po’ stempiato che forse voleva evitarla; certo, anzi; ma non ci riesce, per buona educazione suicida, e deve piegarsi in due sotto le rificolone, per sentirla, con una sua vistosa che rimane un po’ indietro.
«Ah, ma è sempre la stessa del ballo Serra!» gli fa la Canobbiana, riprendendo a urlare. «E perfino a Venezia era proprio questa qui che aveva insieme, no? Perché non me la presenta?».
«Marchesa...» si difende l’omino; e fa segno discretamente al donnone di restare indietro.
«Perché?» grida forte lei. «È la sua amica, sì o no? Allora vorrei conoscerla, ecco! Si vergogna?».
Lui si torce un po’ di più. E intorno: «La Rosmunda Cesaroni! Grande contralto rossiniano! L’è finita in Spagna!».
«Su, su, Berengardi, me ne hanno già parlato in tanti!» insiste la Canobbiana.
Lui tace ancora. «L’air de sorbet, l’air de sorbet!» fanno inaspettatamente le rificolone. È arrivato un notaro molto grosso e molto fine, con un gelatino. E incute chic.
«Ma la mantiene? No o sì? Le passa un mensile?» chiede lei, a voce sempre più alta. Il notaro vorrebbe salutarla, lei non gli bada, lui le si siede davanti su un cuscino per terra a un metro, e la guarda.
«Non mi vorrà dare a intendere che quella bella ragazza non nata ieri le viene insieme per niente, Berengardi! Andiamo!».
«Marchesa...» supplica lui.
«Ma andiamo! Per esempio, ai vestiti, al vitto, chi provvede? È una che ha del suo?».
«Senta...».
«Chissà che dispiacere, eh, Berengardi, per la sua povera mamma!». E aggiunge borbottando: «Quando si è mauvais genre, si ha almeno il dovere d’essere divertenti!».
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«Com’è stato lo spettacolo, niente! Non lo voglio sapere, io non ho visto né sentito niente!» quasi grida Meneghella passandoci sui piedi senza fermarsi, con le due braccia stese avanti. Attraversa tutto un «te trovo bbene», «quando siete arrivati?», «quanto ve trattenete?», «dove stai?», «da chi stai?», «con chi sei qui?», «quando andate su?», «quando andate giù?»; e sempre vociando prosegue, inciampa, tossisce, sta male, e cade su un carrello di bicchieri, a ruote, che parte con lei sopra. «Ma una vera signora, il vino bianco lo vomita solo sul pesce» osservano alcuni bon ton bon genre.
M’arrivano attraverso i pìspini «... un prete travestito da Pasolini!», «ma no, non era Pier Paolo travestito da prete?»... e un elegiaco «forse gli ultimi tempi che si sarà potuto ancor dire sui trivi e quadrivi “non voglio comprar le tue rose ma te”»... mentre Antonio sta avendo col direttore americano a riccioli ormai perfetti di föhn una di quelle perdite di tempo assolutamente americane – col bicchiere in mano e il didietro su un davanzale e incominciare tutte le frasi con un noioso verbo di “ritenere” o “credere” balbettato parecchie volte per non sembrar troppo perentori su West Side Story se è più cheap di Gypsy, o su Gypsy se è più corny di West Side Story. E restando alla fine di un’opinione che non interessa a nessuno, solo perché una trafelata ha detto all’uno e all’altro «devi assolutamente parlare con quello», piantandoli immediatamente lì.
Vado a cercarmi un gelato, così. Ma di centocinquanta o duecento, forse di più, persone sull’altana, almeno la metà fa muro davanti al buffet, dicendo «à petites tables, come a Parigi, proprio come a Parigi, tutto à petites tables con tutti i posti dati, stupendo, in questo loro giardino benissimo tenuto a Posillipo, e questi tassisti napoletani fuori incantati anche loro, li conosco tutti, sono tutti grandi amici miei simpaticissimi». E uno molto alto, con parure importante: «Non vedo un grande avvenire, per la schiatta». E una vecchietta, a un’altra vecchietta: «Come già diceva mio nonno, chi gà case no gà pase». E due vegliardi molto scuri di pelle, ancora napoletani, a voce bassissima: «Sono nuovi, nel Quattrocento non c’erano ancora, tuo padre queste cose le sapeva benissimo».
«Ma quel famoso... come dire... UT de poitrine, dove è finito, oggi?»... «Mancanza di éclat, di métal...». «... Ma si è perduta soprattutto la proiezione»... «E la morbidezza, che non si trova più?...».
Gli amici del Wilhelm! Anche qui! Arrivati non solo dai loggioni della Scala e della Fenice – «dove quando si sente gridare “Bravo Maestro!” oppure “Divina!”, chi credete che sia?...» – ma già tali e quali nel Meister. Riscontrati alfin li abbiam, a casa: perfino in quella provincia tedesca dove il melodramma e il bel canto non erano lì pronti come alla Scala di Stendhal, con la cavatina vertiginosa che si conosce già dalla nascita e la cabaletta con gli espedienti per aggirare le trappole... «Erano i-den-ti-ci!».
«... Una coloratura drammatica d’agilità... con un soupçon di rigidità nel registro grave che bisognerebbe ricontrollare se e quando affronta Fiorilla... Ma la piattezza dell’emissione, aggiunta all’assenza di caratterizzazione, all’ignoranza proprio dello “specifico”, nel “vociare” i colori del timbro... E siamo in un Donizetti!... La miseria di quella vocalizzazione corsetée... specialmente nei sovracuti...».
«Sovracuti, quelli!» si bloccano coi piattini in mano. «In un Donizetti!». Sì, sì, devono essere di Bergamo. E hanno trovato un francese come loro. «Una Minghini Cattaneo tutta costruita...». «Irene!». «Ma con molta più nobiltà di quella vera!». «... Urletti ripetitivi e penetranti...». Fuori di sé dall’ebbrezza e dal piacer! «Come dire? dei “grelottements” come di una sonnette messi a rimpiazzare la scala cromatica!»... «Couac!».
Allora, calcolando solo quelle chiaramente sopra i settanta, e quindi ex-soprano-coloratura dell’epoca Gatti-Casazza, con le infanzie in Slovenia e i debutti in Slavonia, oppure eredi di quasi tutte le miniere e le ferrovie del Nordamerica, con parecchi lineamenti impastati l’uno sopra l’altro dai pionieri della chirurgia plastica, ecco qui davanti un cenacolo di profili immobili. «Ma a Leonardo, non piaceva tanto osservare le vecchie e far le caricature? Qui sarebbe contento!». «In romanesco si dice: ’a morte sua!».
Una, interamente in rosso-corrida, con una tiara di rubini in forma di roselline sopra i capelli antracite, pettinata come le Giselle classiche e la Duchessa di Windsor prima maniera. Ha un accompagnatore tutto in toni di viola, su base bianca e oro, vecchio come lei e maràntega da sketch.
Una porta un manto di faille verde-bandiera sopra un corsetto rigido che fa addirittura degli angoli, e un turbante da Hedy Lamarr di maglina dorata; col suo sigaro ben corto e grosso. Una che non sta mai ferma ha una redingote rosa-salmone e una cloche di papaveri («tre rossi che sbattono»), molto birichina ma coi due polsi fasciati da dopo-tentativo. E una, grandi rose rosse, quelle di strass dell’acconciatura uguali precise a quelle stampate dell’abito; e la bocca insanguinata a cuore. Ripete a tutti, anche a me appena le passo vicino: «Absolutely!».
Un’altra fa: «Quite!... Quite!... Quite!...», avvolta in un cespo di ramages giapponesi, rossi e bianchi e neri, con nastri che spuntano da molte parti, ma un po’ vessillo del Reich come effetto complessivo. Una piccola piccola, ma roba proprio di un metro e venti, per di più si inchina volentieri, in mantelletta di scimmia, e tanti struzzi piantati nella gonna, anche dietro: ogni volta che si siede, schiaccia e spezza qualche struzzo.
La più alta invece in sangallo bianco a camicione, in testa un cappellone larghissimo tipo giardino, di velo color fumo, i suoi bandeaux alla Elizabeth Barrett Browning, e bianca bianca in faccia, magnolia con due occhiaie viola e verdi profonde fino al labbro stinto. Languida. Però sprezzante e cattiva con la molto piccola, che continua a chiederle «Henry who? Henry who?», e lei fa apposta a non risponderle.
E Desideria in mezzo, scortata da Raimondo. Riesce a farle parlare! Come se fossero vive! Le fa conversare di cavalli venduti e giardini morti, magari le indispettisce perché scoppia a ridere su un’orribile jattura e poi si scusa esageratamente. Ma poi racconta Raimondo che quando una di Roma le ha detto «scusi signora», lei le ha risposto «signora sarà lei».
I nostri voltano maestosamente il dietro a una enorme rozza di Bologna in celestino madonnina a balze, contessa squadrista e con due immense caviglie da edema all’ultimo sfascio, malamente mascherate da calze a rete nera e da fibbie alla Richelieu sul collo dello scarpino; detta nelle sue terre la Fragolotta, o la Fragolaccia, e peggio (informano subito): rossissima in faccia, e con l’occhio porcino che non emana “flair”. Ha insieme un suo giovanotto non particolarmente bello o brutto... a basettoni foschi... ma impressionante perché non è attualmente possibile, con le robe che ha addosso, il taglio e il colore e gli accessori, sfoggiare un look da gigolò di Cannes più trottoir di così. Ma proprio di quelli tipo «c’est le pognon qui me fait bander», da buttar via appena passato Capodanno; e «a Montecarlo, malgrado tutte le vecchie lì pronte, non li lasciano più entrare».
Neanche una parola, fra questo che si guarda in giro e parla alle piante, e la Fragolotta: lei con un bocchino d’oro lungo il doppio di quel che deve aver lui lì sotto lancia occhiate molto malevole, e si sporge per afferrare con un’unghiata alla spalla una piccolina abbastanza cieca, d’una vecchiezza eccezionale; con pochi capelli rossi corti e lisci, e una giacchettina di scoiattolo modesta, da stringer l’animo; sta passando con un gelato in mano che si liquefa e chiamando «Cesarone! Cesarone! Cesarone!», ma a bassa voce, e nessuno la sente.
«Maria! Qui!» vocia la Fragolotta con prepotenza, artigliandola; e la piccolina che già non ci vede sbanda, e coprendo istintivamente il suo gelato con una manina macchiata di scuro abbassa ancora la voce per dirle «ma io cercavo Cesarone». Però ci riesce quasi subito, a scivolarle via di sotto, piegandosi in due; poi sparisce immediatamente. E un vecchino molto garbato e roseo in smoking sciallato blunotte: «Non è sesso ciò che è sesso, è sesso ciò che piace!».
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Torno con due fette di ananas ma Antonio non c’è più, nel vano del finestrone spumeggia una nidiata di piccole frugole americane impresentabili che si ripetono solo battute di Tallulah o Gilda in film indimenticabili, ma come si vestono male! Tutto in liquidazione?... Dando importanza non all’abito o al fisico, ma solo alla spiritosaggine? Jewish humour spregiudicatissimo non disgiunto da parsimonia nel budget?... «Se fossi un ranch, potrebbero chiamarmi Bar Nothing»... E giù a ridere come se non l’avessero mai sentita. «Potete buttare in mare me, non la mia macchina da scrivere»... E via a sghignazzare, come se l’avessero appena inventata. «Unisci le labbra, e soffia»... «Ah, è questo il tuo viso nella luce?»... Risate molto rumorose, a bocche aperte. «Dove sono le mie pillole?»... «Considerati a casa tua!»... E al colmo dell’irriverenza, «prego, signore, potrei averne ancora un po’?» di Oliver Twist, e «non aprire la porta, potrebbe essere la Gestapo!» di Anna Frank, mentre i pìspini ormai liberati dalla Canobbiana e dal notaro – che stanno prendendo il caffè avvinghiati, e quanti giardini storici in comune! – smaniano adesso che in questa città «a un òmo non è più permesso d’uscire solo». Avranno avuto la loro avance sul greve? il dileggio per eccesso di spilorceria? E invece, il primo anno del Festival, «con du’ ch’aramelle s’aveva tutto, ovvìa». Proprio come a certe fiere di Signa o Sinalunga che riprendono a raccontarsi correggendosi i vecchi dettagli a vicenda; e dove pare che basti dire «be’, be’, che c’è di nuovo? che si fa, che si fa, che piace?» per ottenere «qualunque favore» senza spendere. Luoghi comuni ovvi come «Non si può aver la botte piena e la moglie briaca», o «Le sbornie si scontano, prima o poi i briaconi la pagano», Marcello osserva che loro li presentano come un concentrato di sei secoli di fiorentino spirito bizzarro; e anche «Prima o poi, Verdi tornerà di moda». E le frugole di Brooklyn, alzando voci baritonali: «Perché Arthur? Perché proprio Arthur? Qualunque Tom e Dick e Sam si chiama Arthur!»... Un urlo: «David! Abbiamo un problema terribile! Tu hai Gable, e lo voglio io!».
«Il debutto di Laird Cregar in Sangue e arena!... Edward Everett Horton in Ziegfeld Girl!... Monty Woolley alle prese con Billy Burke!...».
«Edward Everett Horton precipitato da Carmen Miranda nelle gioie del camp sex!...».
«... In The Gang’s All Here!...». Bassi, più che profondi.
«Le memorie di Carmen Amaya e Katherine Dunham!». «Le biografie di Maria Cebotari e Zasu Pitts!». «L’edizione critica dell’Ismene di Diabelli!».
«Se Adelina Patti fosse viva, si rivolterebbe nella tomba! Anche questa è di Sam Goldwyn!».
Ma lo spirito della Città del Fiore... «La Emma Gramatica la si trucca ancora da vecchia a ottant’anni e passa! Tutte le rughine una per una! La ci impiega ore! Adoro!».
«... Per non parlar della Adina dell’Alfani Tellini e della Colombina dell’Adami Corradetti...».
Ogni tanto, guardano dentro un armadio scuro a muro. «Nooo, che non muore!».
Questi però frullando e tubando stanno già domandandosi tutti insieme a voce molto alta se è vero o no che Raimondo sta per morire; l’hanno appena sentito dire; e nello stesso momento la Canobbiana torna a prendere la borsa e si fa metter per terra la tazza del caffè da un americano, e incomincia a voltarsi e a gridare per chiamare Antonio appena appena ricomparso, ebbro; e anche lei gli domanda subito se Raimondo lo sa o non lo sa d’avere il cancro.
Mi vien voglia di andar via, di andare a bere; e vicino alle bottiglie trovo ancora Desideria. Adesso di fronte all’ambasciatore di Francia; ridendo forte, addirittura squillante: il suo predecessore gli ha lasciato gli specchietti per osservare seduti a tavola i dettagli birichini nella volta della Galleria dei Carracci. Se ne scoprono sempre di nuovi? Raimondo s’avvicina in fretta, domanda con un sorriso un po’ forzato «ancora un po’ di Altezza, pesce?» – come chiese una celebre dama di Milano a una colazione per Umberto di Savoia, che era venuto a sentire gli umori, pessimi, prima del referendum fra monarchia e repubblica; ma si allontana subito, adagio, non ha tempo di fermarsi con nessuno. Mi deve aver visto, in ritardo, perché dopo un passo si volta e torna indietro, domanda con gli occhi scintillanti se mi sono accorto che meraviglia, stasera con le ciglia finte di stagnola da cioccolatini ce ne sono almeno tre, «... soprattutto la Chillington! che è una Tyringham! il divertimento era vedere a Lindos quante volte si riusciva a farla cambiar d’abito in un giorno!». Ma c’è anche il famoso ladro di saluti! «Va’ a vedere: si mette sulla porta ai pranzi degli altri e dice “grazie d’essere venuti” a tutti. Gli imbucati vanno a casa contenti!». Sta mandando in giro due dei camerieri con delle dragées di cioccolato e delle gelatine di frutta, e tutte le bene sospirano dei ridenti «no grazie».
«No, no, per carità di Dio» dicono insieme la Gazzaniga e le milanesi, ferme in gruppo come una pattuglia di vigili sopra un gradino, con le loro flûtes piene di champagne non bevuto in mano. Sorridono soltanto, ma con indulgenza; e occhieggiano dalla parte di Desideria interpellando la Maria di Rohan armena sulle tappe più importanti della sua carriera. Dietro s’affaccia Jean-Claude e mi domanda se so che cos’è uno «scolmateur». Queste l’hanno ghermito due ore fa, e da allora vogliono sapere come sono gli scolmateurs nei parchi nazionali in Francia, perché occorrono gli scolmateurs anche nei prossimi parchi del Ticino e del Lambro e dell’Adda e del Mincio, previsti da un loro professore preparatissimo e intelligentissimo.
Vedendomi passare vicino, la Gazzaniga con un cenno di fazzolettino si allunga fuori dal gruppo e mi chiede forte se ho visto Renato, che infatti lì non c’è (sarà a quattro zampe in un cespuglio, speriamo). Poi mi fa, pianissimo e sottolineando la discrezione: «Ma io non sapevo che questo povero ragazzo così gentile... ma come mai?...», con un paio d’ammicchi signorili verso Raimondo, col mento. Desideria sta proprio passando vicino, con una famosa sorda che non sentendo niente le parla solennemente come lasciando intravvedere chissà quali misteriose e profonde stronzate. Ma lei, avrà sentito? Volta le spalle di colpo, ma forse perché qualcuno cerca di fotografarla con una Rolleiflex mezza nascosta in un golf, credo. Però l’ho ormai imparato, da Antonio, come decommandarsi in questi casi: «Poso le posate!» le faccio, senza niente in mano e tirando su il naso senza fermarmi.
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«Senti, elefante!» mi chiama Klaus che è con due pastor fidi di Desideria, Giulio e Ferdinando; e Ferdinando mi fa subito: «Sai come diceva W.C. Fields? le donne sono come gli elefanti, belle creature ma non si possono tenere in casa». E l’altro: «Tu sai chi è quello lì che abbiamo appena salutato? Come testa, imperatore romano o garçon de coiffeur. Non si sa se dire “Ave Caesar” o dargli la mancia, chi è?». L’Ave Caesar avrà sentito? Si volta battendosi le due mani sullo stomaco, e fa: «Sono più o meno i soliti cinque o sei chili che vanno e vengono da quando ci siamo conosciuti, non fatemi dire quanto tempo fa». «Spero che non manderete più in giro il Caravaggio» gli fa una gran signora tutta bianca, in velluto nero. E lui: «No, no, non lo mandiamo più, perché ci ritorna male!». «Dimmi dell’Artena, piuttosto». «Non la venderemo mai!».
Ma questo Giulio stava raccontando la straordinaria storia di un suo indimenticabile viaggio nelle Due Sicilie, poco fa. «È un regno che non esiste quasi più, nell’Italia del Profondo Sud» spiega con un enorme sussiego alla Judy che si è avvicinata; e vedendola così curiosa, seccamente aggiunge: «... però mio padre è ancora ministro dell’Interno del Vicerè De Roberto... Com’è ovvio, una carica puramente onorifica, oggi: si riuniscono solo due volte all’anno, e decidono tutto».
Tenta di spingerla verso un gruppetto intorno a una coppia di brasiliani molto tipici; e lei prova un’entrée tipo radiosa presenza, come destinata a provocare un «che gioia!» fra giacche bianche. Ma stanno parlando di prezzi d’appartamenti. Prendiamo un altro caffè, e Meneghella ci passa in mezzo ghignando, con Jean-Claude dietro. «Sono i nostri polacchi di Maria Teresa» gli sta spiegando. «E si capisce dai cognomi. Tutti i Casaschi e Zelaschi e Torlaschi sono stati spostati da là a qua nel Settecento per ripopolare l’Oltrepò, e si sono trovati bene. Più su, in alto, verso i Malaspina, pare che ci siano ancora dei Sadowski mai scesi...».
Ma cosa vuole, quella lì? Sempre quest’aria da furbona, da gran dritta, quella che sa ma eh eh eh non dice... O forse poveraccia è convinta che per sopravvivere con questi bisogna far la furba per forza. Klaus improvvisamente ride fortissimo: alle sue spalle un piccolo Mickey Rooney tutto brillantina sta urlando «allora capiiisci, papà apre per caso quella porta e trova che l’ambasciatriiice, perso il ben della ragione, si stava facendo dei veri diiitaliiini davanti ai ritratti della famiglia Kennedy avec dédicace»... Ma dev’essere una storia di Ischia dell’anno scorso o dell’anno prossimo.
«Ci siamo un pochiiino persi di viiista, Fabriiizia! Cheffai, cheffai dibbello?».
«Scrivo di tanto in tanto di gioielli su “Epoca”...».
«Ma è un giornale comuniiista!».
«Ci siamo persi un pochino di vista, Fabrizio».
«Non c’è qui Alberico?» domandano delle “bien” a Klaus, certamente con malizia. «È passato prima, per salutare Raimondo,» spiega lui, calmo «ma deve pranzare al Festival Club con tutti quelli dell’opera».
«... E poi, il Mercante di Venezia lo può dirigere solo un gran signore!»...
«Ma naturalmente ha conosciuto Napoléon Trois! Anche Eugenia de Montijo! duchessa de Peneranda!» spiega Giulio parlando d’una di quelle eterne duchesse di Palermo tutte longeve e tutte drogate, sempre a letto coi gatti in trip, e ripetendo «la morfina non dà assuefazione, sennò dopo tanti anni me ne accorgerei», parente di sua nonna. «Gliel’ho chiesto, com’erano, ma lei parla solo di lui. Bello, grande, coi baffi, con l’uniforme, splendido, quando entra al ballo da loro, indimenticabile... “Ma lei, com’era lei?” continuavo a chiederle. “Era molto bella?”. Ma lei: “Stizzosa... Stizzosa... Uh, quant’era ordinaria!...”».
Della Judy non ci si libera, torna a piantarsi lì e vuol sapere se il Gattopardo è storia inventata o storia vera. Non collaborerà a qualche gazzetta di Liverpool con esclusive e scoops? Le ribattono tutti d’accordo che se ne prepara un supercolosso di Corbucci, con sceneggiatura di Carducci, anche con spunti dalla Tigre reale di G. Verga e dalla Pantera nera di E. Salgari: tutte belve italiane di successo. Italian Jungle! E la trama? «Si rifà a una deliziosa operina di Puccini con lo zio bonzo, lo zio gonzo, e lo zio stronzo, per il settantennario». E lei: «È vero che è la fine di un’epoca?». Ma Christian cosa fa? Non le sta insieme neanche un attimo? Lo vedo poco. Non conosce proprio nessuno? Sparisce, qui in mezzo, come se si facesse piccolo. «Nooo, che non muore!» continuano a urlare le rificolone.
«... Di famiglie che i conventi li hanno protetti per generazioni, dai secoli degli spagnoli...» sta ridendo Giulio negli orecchi di Ferdinando e di Klaus, dev’essere un vecchio numero che viene spesso richiesto, come quello della finta Ginevra degli Almieri nella tomba, col cartellino «do not disturb» e dicendo al pubblico «son cose troppo profonde per me». «... E l’urna l’ha sempre in custodia mia zia Malù nel palazzo di Palermo... Ogni tanto bolle di rabbia, e devono chiamare i Cappuccini... Ma loro due nella clausura ufficialmente entrano per suonare il violino alle novizie e alle converse... E certo, che le superiore son tutte contente... Sempre loro che telefonano, magari alle due di notte, quando c’è da odorare prima degli altri le miracolose appena morte, che poi diventano famosissime... Ma certo: duchessa lei e principessa la cognata, benefattrici da secoli, e quando suonano cadono tutte per terra in trance... E certo, che loro se le fanno tutte, una dopo l’altra: vanno lì apposta...».
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«Ben fu il giorno avventurato / che a conoscerti imparai / nobil cor che tanto amai / non invan fidava in te!» ricomincia Klaus – la Maria di stasera colpisce ancora! – cercando di incantonarmi per raccontare che un benzinaro di diciott’anni, con una faccia simpatica, di chi ha pulito tante coppe dell’olio, oggi è corso dietro a Renato e gli ha detto di andarlo a trovare stanotte a una sua pompa segreta quando non c’è nessuno... Ma è Ballo, o Fanciulla? in Maschera o del West?... Quelle solite storie di Renato che poi son tutte palle... palle italiane tipiche... Sto mitomane: tutti lo guardano, tutti gli vanno dietro... Vogliono fargli tutti l’amore insieme... E Klaus non vuol proprio capire che non bisogna mai credergli...
«Senti!» mi chiama Antonio. «Non dir niente, hai capito?».
«Di Raimondo? Ma non sono mica stupido!».
Gli chiedo chi sono esattamente i due.
«Giulio: Due Sicilie, hai sentito, no? Riforma agraria, via tutto, ma decadenza giusta; cardinali atroci, sepolcri nelle certose. Del palagio sopravvive il portale. Incastonato in un condominio».
«E l’altro?».
«Piemonte Reale, con quei cognomi tipo Barolo di Gavi o Nebbiolo di Grignolino. Petite noblesse, molte medaglie d’oro, ma soldi scarsi anche lì».
«E allora perché la Judy è sempre lì addosso?».
«Li vede alti uno e ottanta, belli, con Desideria, uno bruno e uno biondo, qui poi tanto sul Fabergé rustico, e lei crederà che a Roma abbiano in mano l’high life. Non lo sa, la malheureuse, che uno odia famiglia e ambiente, loro ricambiano, e quindi non va mai nelle case. E l’altro arriva adesso; prima di far l’antiquario era impiegato a Torino alla Sip. Mangia tutt’al più alla solita Trattoria Romana, come il sottoscritto quando abitava su quei comignoli, come tu ben sai. Ma attualmente, per lo più patronized da regine del cabaret».
«E con Desideria?» gli chiedo.
«L’ha conosciuta dopo di me. Lui è amico di Giulio che è amico di Desideria fin da bambini. Me l’ha detto lei, vanno al mare insieme qualche volta, non al Gambrinus. Ma non per questo crediamo choses».
«Ma allora, la malheureuse?».
«Come si sente narrare di una focosa Artemide che cade spesso da cavallo e ha la casa piena di gatti, “la malheureuse a perdu l’odorat”. Succede, cadendo. E questa, la vedi che perde tempo, se spera che poi loro in città la portino nei bei posti... La presentino a Luigia Pallavicini o a Vittoria Colonna... Guarda come s’attacca proprio con Ferdinando. L’odorat. Perdu».
«Antonio! Senti!». Adesso Desideria lo chiama per nome? Arriva alle spalle. «Raimondo è stanco» gli dice a bassa voce. «Cominciamo a fare andar via un po’ di gente, aiutami; e mandiamolo a letto».
«Come vuoi fare, a mandarli via senza che lui se ne accorga?».
«Vieni qui». Lo prende per un braccio. «Sempre in plancia, l’ho avuto vicino, sempre sereno, sempre coraggioso!» le dice inchinandosi un calvo altissimo e molto lucido, fascista. Ma lei risponde solo di sì, e porta Antonio più lontano.
Arriva lì Renato, e domanda: «Ma ti diverti, tu?... Questi americani dell’Off-Off-Off mi paiono dei gran dilettanti! Scendono giù fra il pubblico a fare il coinvolgimento mezzi spogliati, però s’arrabbiano se appena li tocchi un po’ come s’era sempre usato al café-chantant!».
«Ti diverti?» ripete Jean-Claude, spuntando con un bicchierino piccolo piccolo in mano, di grappa. «Mais qu’est-ce que ce scolmateur?». E sparisce ancora, subito.
«Tantissimo!» faccio a Renato. «E il mio benefizio, stasera, l’ho già avuto tre volte e mezza».
«Io vado a fare un giro al Festival Club, forse c’è del movimento» fa lui. «Vieni anche tu?».
«Aspetta un attimo, siamo in una sola macchina. Sento prima Antonio». Che però sta dicendo a Wally Toscanini: «Secondo Gabriele Baldini, chi non ha mai sentito Julius Patzak in Erode, non ha una vera idea delle possibilità dell’isterismo tenorile». E lei: «Lo diceva il papà! Dev’essere stato anche un grande Mime!».
Ma si avvicina la Gazzaniga. «Dove sei stato?» chiede al suo ragazzo, senza neanche guardarmi; e gli comunica bruschissima che la Canobbiana ha chiesto come mai non c’era. E anche la Viboldona: sorella del più importante salotto di Milano. «Non le hai neanche salutate?» domanda.
Renato frigna, scioccamente, come un bambino pigro. Ma lei molto molto secca gli ordina di andare a parlare subito con tutt’e due, e «far due frais» anche con la Biki. Molto perentoria: «Vedi bene che non posso muovermi di qui, perché devo aspettare la Lalatta!».
Meneghella deve aver sentito almeno la fine perché era quasi per terra a raccoglier le tazze lì sotto, con un occhio semichiuso molto ironico; e ridacchia da sola. «Capirai!». Magari anche simpatica: col lucco e i lauri sarebbe identica a un Dante Alighieri da copertina. Mai ferma, con queste due spalle rugose e scure che le scappan fuori dalle bretelline, scrollandosi le ceneri; cavernosa anche più del solito domanda a tutti uno per uno se si divertono e se vogliono ancora un po’ di caffè; e gira fumando a catena delle sigarette senza filtro evidentemente umide, perché ha bisogno di chiedere continuamente se qualcuno la fa riaccendere.
Antonio sta passando quasi di corsa, e lei lo tira per il fondo della giacca, con una certa energia. «Really!» fa lui, voltandosi di scatto alla Cary Grant; e ridono. «Sentite un po’» lo chiama lei con la sua vociaccia, e coinvolgendo anche me. «Le sapete riconoscere qui dentro le appartenenti alla mia infelice generazione?». E ce ne indica tre o quattro sparse, due di Firenze, una di Parma, una di Venezia sposata a Roma: con una cert’aria bellona e avvinazzata, d’epoca. «Ah, ma una poco fa m’ha preso in mano l’uccello dicendomi “caro Ottieri, io e lei dobbiamo fare un lungo discorso!”» osserva Antonio. «Eccola lì che torna, le dico che sono Testori?».
«Le individuate subito,» ridacchia Meneghella con le due braccia pendule e le spalle in avanti «per l’aria Via col vento che hanno ancora più di allora: una volta che ci si è identificate con Scarlett O’Hara alla vigilia della guerra, è finita, anche se poi vai a pranzo cento volte con Hemingway e lo chiami Papa all’Harry’s Bar. Eccì, eccì, ecciù, ecciù... Rosse, con tanti capelli, spregiudicate, audaci, capaci di fare innamorare oggi i gemelli romani e domani i colonnelli tedeschi... ecciù... di fare evadere i grandi cocainomani dalle case di cura in cinquecento sotto il naso dei piantoni... È la Scarlettina, la Scarlettina... un’epidemia contagiosa da cui non si guarisce, non c’è stato più niente da fare!...».
«E pensare che vi chiamavate tutte Marisa o Mirella e tu per prima!» le fa passando al volo Raimondo, col primo sorriso disteso che gli vedo in faccia stasera.
«Ma è vero o no quello che mi stavano dicendo?» bisbiglia Meneghella cambiando tono e faccia, e tira Antonio in un angolo accennando a Raimondo col gomito.
La Canobbiana, senza guardare nessuno, ci passa in mezzo per uscire al braccio di Desideria, che le tiene la borsa con l’altra mano, una borsona di pelle nera lucida grande abbastanza per portare un maialino al mercato; e le chiede come mai Emanuela non è ancora arrivata, è in America? c’è qualcuno che non sta bene? chi è che non sta bene? Poi blocca uno che corre dietro un altro. «Piemontardo!». «Eh, sì, cosa vuol farci, siamo proprio dell’astigiano, anche se abitiamo a Roma». «E quanti siete in casa?». «Otto tra fratelli e sorelle». «Piemontardi tutti?». «Eh, sì».
«Hai notato il tacco!» mi fa Raimondo voltandosi indietro quasi con un casqué. «Basso, largo, di scuola direi tedesca... La comodità del piede d’abord, solo Mimì Pecci sa competere! Ma tu non sei stato nell’ultima stanza? Dieci George Sand vestite da uomo, nane, che saltavano su un divanone Secondo Impero! Davanti a profondi balconi, avremo profondi divani: sai di chi è? di chi potrebbe essere?». E ringrazia molto caldamente per essere venuti appunto la contessa Pecci Blunt, Vittorio Caprioli, Valentina Cortese, il prefetto di Terni, e Balthus. «Sono dispiacentississima!» quasi grida una quasi mortificata ma molto altera, tutta in giallo, al sottosegretario Graziano Graziani. «Ma ho parlato con lei per tutta la sera scambiandola col sottosegretario Graziano Graziani! Mi scusi molto e mi saluti sua moglie!».
Le rificolone ripetono con grandi giubili fra i piatti sporchi per terra un loro famoso sketch da trattoria fiorentina: la padrona di casino che telefona al questore per aiuto, perché un bersagliere energumeno dopo averne fatte di tutte non aveva un soldo, e dunque l’hanno chiuso in un armadio della biancheria con tutte le donne che si appoggiano con la schiena alle ante, ma gridano che può soffocare... Ecco perché tutte queste urla di lei, «nooo, che non muore!», mentre fa notare al questore com’è stata carina a fingere di non vederlo quand’era con sua moglie sulle giostre, e d’altra parte, quando lui viene a trovarla, «un ferro! un ferro! ce l’ha come un ferro!»... Però Meneghella forse non capisce niente perché incomincia proprio adesso a sedersi. Fa salottino con delle ragnatelose anche un po’ fuligginose, cipria e ciglia tra il verde e il violetto, che parlano di comò come se non fossero quasi le tre.
«Il mobilio, l’hanno dovuto comprare! Come le mutande che i genitori non possedevano!».
«Tutto ciò che è umbertino, è eccentrico! Naturalmente, a meno che non sia stato fatto da un bisnonno con almeno dodici servitori solo in casa!».
«E tutti alti uguali, come da Donina!».
«Soprattutto bisogna che lui stia sempre zitto! Basta lasciar parlare la ca-sa! Ti dice già tutto! E non mente, come fanno loro!».
«Appena vedi la madre, hai già capito tutto!».
«Ma chi, poi, è la vittima di chi?».
Torna lì Antonio e le chiede come va il libro che sta scrivendo, anche lei. Non era la psicoanalisi di un cane? E lei infila la sigaretta in un gelato, non dice niente. Ride soltanto. Fa: «Il contrario dei genovesi, che primo compravano i quadri, secondo compravano l’argenteria...». «E i gioielli!» interrompe una fuligginosa. «E terzo, molto dopo compravano le porcellane perché si rompono e si scompagnano...». Riprende la trousse che aveva lasciato su un tavolo. «Beh...» fa, dopo un sospiro profondo. «L’infanzia di una gran famiglia di bambini, in una gran casa di campagna con tante soffitte... sul lago... Tutte le cose dimenticate che ti ritornano, quando si fa l’inventario per le divisioni e per l’asta... Ma te ne parlo più avanti». E va dietro Desideria. Si volta, e fa: «Una saga per tutte le età, dai nove ai novant’anni!».
Verso l’anticamera vedo che corre anche Jean-Claude, venendo fuori di dietro un pilastro, come se fosse stato nascosto, con degli occhioni da miracolato, alla Maria Schell. Là in fondo, attraverso l’infilata delle porte, vedo che Desideria gli fa una strana carezza, ma molto strana: sulla faccia, come a un bambino piccolo.
«Ma povero ragazzo!... povero ragazzo!...» sento che dicono tutte insieme parecchie voci alle spalle; e sono una fila di mondani di qualche città o villa qua vicina, forse parenti fra loro. «A me francamente confesso non era mai stato molto troppo simpatico e l’avevo invitato diciamo poco a casa... per una specie di diffidenza... diciamo stupida...» sta recitando una delle madame. E conclude: «Certo che è terribile».
«Ma di che famiglia è?... Hanno dei mezzi, almeno, per curarlo come si deve?...» domanda uno villoso e tetro. «Credo che non abbiano di queste preoccupazioni... almeno... andiamo...» fa una vecchia bianca e viola, col suo nastrino di velluto in testa. «Andiamo... andiamo...». Dentro in casa c’è un po’ di trambusto, perché una bella e disinvolta signora ha detto sbracciandosi a un illustre giornalista «venga a sedersi qui con noi, ci faccia un po’ ridere!», si è sentita rispondere «ma vada a cagare, piuttosto!», e ne ha approfittato per fare una sua lamentela. Scorrerà del vino rosso?
«Andiamo anche noi?» chiedo a Antonio. «Aspettami giù: un momento» mi fa. «Ma da quando vi date del tu, con Desideria?». «Da un po’ di tempo» risponde.
«E... soffrire... soffre?» chiede una ragazzina quasi tra le lacrime, avviandosi giù dal ponte dell’altana. «Con queste medicine americane che gli faranno due volte al giorno, m’hanno detto che non si sente niente... credo...» riflette il suo papà. «E poi se soffrisse tanto lo vorrebbe sapere che cos’ha, no?» dice la mamma, attenta a mettere i piedi sugli scalini, come per ribattere a due sottobraccio davanti che stanno borbottando insieme «ma figuriamoci se non lo sa»... E vanno avanti: «Anche lei, però, arriva lì al funerale con gli sci sopra la macchina perché proseguiva per Cortina, e con questo bambino maleducato che continua a parlar forte durante la funzione, a dire “ma allora è nella cassa?... ma adesso puzza? puzza o non puzza?”... Lì, davanti a tutti... E lei, non capace di farlo smettere?».
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Raimondo è lì nella grande anticamera scura, e salutando mi dà l’impressione che si tiri un po’ indietro per evitare d’essere abbracciato; mentre mi limitavo a ringraziarlo con una buonanotte. «Ci vediamo domani, ci vediamo domani, grazie, grazie» mi dice, sorridendo rapidamente a tutti, uno dopo l’altro in fila. Antonio l’intravvedo uscendo, al di là delle porte sui servizi: in uno dei guardaroba, in piedi vicino a Desideria, con le facce molto vicine. Tutt’e due a testa bassa: lei, specialmente, affranta, mentre lui la tiene per un braccio.
«Ha cantato Luna e Posa fino alla vigilia della morte!» stanno esclamando due rificolone vecchissime, coprendosi di sciarpine invernali e guardandosi fissamente negli occhi. «Aveva la stessa età della povera Cloe Elmo!».
Ancora, giù per le scale, mi tocca sentire due o tre delle cotonate parioline ultime venute o imbucate che fanno dei commenti anche loro: poveretto, chi l’avrebbe mai detto, proprio adesso che aveva tutto, le cose che sognava, la bella casa, i soldi, la café society, il meglio di Roma ai suoi parties... Ma le blocca un vecchietto terreo, con l’occhio ceruleo spento e fisso: «Tu sei la piccola Lucioli Calboli? E tu sei la piccola Migliarini Barsenti? Vi prego di farmi la grandissima cortesia di salutare molto da parte mia mammà, e vi prego di farmi la grandissima cortesia di salutare molto da parte mia papà». E una: «Ma quale era, lui?».
Stanno gridando, giù in strada. Davanti al portone, la Fragolotta seduta in una seicento con due che s’affannano a sollevarle le gambe per farle entrare dentro, gonfie e pesanti come se fossero morte. Non le guarda neanche, come se non fossero sue, e urla «degenerati! pezzenti mascalzoni!» a dei bambinastri fermi a un metro che sghignazzano facendo siepe e coro. «La strada è di tutti» borbottano insieme, senza muoversi.
Antonio arriva di corsa con Klaus, che anche lui, proprio incredibilmente, l’ha saputo solo adesso e cerca di farsi spiegare se Raimondo lo sa. «Ma perché? perché?» continua a chiedere. «Non ne ha proprio parlato a nessuno, che tu sappia?» domando io a Antonio. «Assolutamente con nessuno. Neanche a Desideria, che poi del resto non deve sapere nemmeno lei fino a che punto è grave. E guai a voi se le dite qualche cosa». «Venite un momento al Festival Club?» chiede Renato, uscendo da solo. «No!». «No!». «No!» rispondiamo tutt’e tre insieme; ma Klaus aggiunge «vengo subito!». «Ma perché questa festa, allora?» chiede a Antonio rapidamente, sul punto di correr via.
«Deve aver deciso di non ammetterlo: si vede, no?... Leggete i vostri testi! anche antichi!». «Ha più forza che non si potesse indovinare». «E lo dimostra, deciso: continuare fino all’ultimo a far le cose che ti piacciono di più, invece di lamentarti e compiangerti. Elementare, ovvio, classico».
«Si fa in fretta a dire: io farei questo, invece... Un altro magari si ritirerebbe in campagna o in Svizzera, ad aspettare... Non si lascerebbe veder da nessuno...».
«Io, per esempio, se ho soltanto un po’ di influenza, non ho proprio voglia di vedere gli amici, e neanche di chiacchierare al telefono».
«Ma non verrebbe voglia di leggere tutti i libri che non si sono mai letti?... Vedere i posti dove si è sempre desiderato di andare, e non lo si è fatto per i soldi, i piani di studi, la carriera, i progetti per il futuro?... Andare in Giappone...».
«O poi uno, chissà, non vorrebbe niente... Neanche gli amici con cui ci si divertiva, e adesso ti compatiscono... Vale più la pena?...».
«Qui comunque ha ragione lui. Alla lunga, lo stoicismo è la scelta più giusta. Almeno, non ti sbagli».
«E riuscirci?».
«Hai sempre ottimi modelli in letteratura».
«Ormai ci siamo vicini, qui... no?».
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Ci avviamo al Festival Club, a piedi, dietro Renato che fa passi lunghi, per queste vie strette in salita. C’è una gran luna piena: «Oh, moon of Alabama!». «Nooo, è di Recanati, qui». Però non arriva in fondo alla strada.
«Swann, anche, un po’...» osservo io a Antonio. Ma non risponde; e ci riesco da solo a accorgermene quando una cosa detta suona inopportuna. «Ce l’avremmo, noi, lo stesso coraggio di salutare tutti prima di andar via?» domanda prendendomi per lo stomaco.
Klaus sta zitto; e io non saprei cosa dire. Anche se sono il più alto dei tre, abbiamo in mezzo Antonio con la giacca bianca, io e Klaus neri ai lati, e con le suole delle nostre belle scarpine da sera battiamo forte come percussionisti sui sassi. I polli e qualche asino rinchiuso fanno dei versi dietro i muri degli orti in città, ma la mattina è ancora lontana. «Se vi faccio una matinée stasera, mi fate una soirée a mezzogiorno?» diceva Raimondo in Grecia. Quando m’insegnava le canzoni della radio del Quaranta: «Guarda guarda guarda il bel pinguino innamorato, col colletto duro e con il petto inamidato!... Non si rovina il frac! le scarpe fan cic-ciàc!... Domani sera andremo a spasso in Topolina!... Com’è delizioso andar sulla carrozzella!... Siamo tutti al Grand Hôtel! non c’è nulla di più bel?... E la nebbia portata dal vento, discende dal ciel... Rispondere: com’è il ciel?...». Camminiamo con lo stesso passo da tre moschettieri, uguale, ma senza parlare per un po’ tutt’e tre, lungo la salita.