FINE DI POMERIGGIO

Non è possibile! I bassotti della Trona si chiamano uno Arcangelo e uno Elvezio! Abbaiano rabbiosissimi in tutti i corridoi, e anzi ci svegliano: la prima cosa che sentiamo – orribile – alzandoci da un sonno di quasi tre ore. Allora, qui, non soltanto le tre del pomeriggio ma anche le quattro e le cinque sarebbero l’ora del dileggio? Facciamo degli atroci «miao miao» dietro la porta, così almeno il casino impazza. Chi lo avrebbe dubitato, però, di trovarceli tutti fra le palle qui, subito?

Ormai, forse, era anche facile da prevedere, l’Innommable. Ma così presto... Pare che tutta l’ora morta sia stata sconvolta da un traffico frenetico tra il conventino e la città, come nelle epoche più scomode per l’Umbria. Era apportatore di sventure, tutto il vociare e discutere che si è sentito dalla parte del giardino: con Klaus, la Gazzaniga, il cameriere, e villani con villane tutti lì fuori sulla ghiaia fra Bustini e la Trona e gli orrendi cani avanti e indietro. Uno già se stava a magnà un piatto (d’argento) di tramezzini pronti per il tè di Radio Colonia: una di quelle istituzioni dove tremila tremano davanti alla gigantessa che abbiamo qui nell’Altana del Serafico, con la sorella amazzone conservatrice dei più bei Klee. Ma appena una villanella ha tentato di salvare il famoso piatto cesellato, prontamente è stata morsa a sangue, con urli e sturbi e intervento d’urgenza e antitetanica con degenza qui in casa e una vecchia mamma da mandare a prendere.

Un letto in città non c’era più veramente, ma questo lo si sapeva: dormire in stalle e pollai “riscoperti” è uno dei vanti di questi chic all’inglese; e pernottare a Spello è considerato un “bonus” da Lady Darjeeling. Allora il Vate ha fatto «the mad scene from Verdi’s Tosca» (come si legge su un disco d’auguri internazionali di Ponti o De Laurentiis) trasportando su qui Trona e cani come prima cosa in tassì; e poi – è grave il sagrifizio! – ripartendo con mille addii del passato verso una bianca cameretta che gli avrebbero proposto «laggiù», presso una famiglia ferroviera senza lavabo e con un picciol desco troppo troppo picciol per poterci scrivere sopra... E giù sospiri ardenti, lamenti, tormenti – «proprio sotto un gasometro di Sironi!» – anche in vista della recensione che dovrà fare stasera dopo i Fogli d’Album... e soprattutto domani (“Danger!” non lo si dimentichi un attimo!) per l’opera di Klaus.

Così il povero maestrino si vede forzato a dirgli di star qui se vuole (certo che vuole) con la sua Megeria, e a far cercare una rete metallica da mettergli giù in qualche stanza, col suo materasso, che va cercato, anche lui. La rete e il materasso non si trovano. Il mio regno per una rete. L’Umbria intera ha esaurito i suoi materassi. Telefonate giù a Raimondo. Raimondo riposa. Desideria anche.

Bustini incomincia a scendere in città, per ritirare certe borse già lasciate (ma sarà vero, o qualcuno ce marcia?) nella camera ammobiliata. Dramma di finance & business: dovrà pagarla, adesso, anche se non ci dorme? Non la dovrebbe “regolare” semmai l’ufficio-stampa del Festival, che sarebbe tenuto a ospitarlo evitandogli i “problems”?

Ci pensa la Gazzaniga, a metterlo a tacere. Gli fa paura, lei, s’è visto, nelle questioni di prestigio e spese. E poi finalmente, naturalmente, si trova la rete, si trova il materasso, e tutti quanti franano sotto la loggia assetati di tè freddo e con gli occhi pesti.

 

«Noi andiamo giù con la braghetta aperta? Ci infiliamo dentro una banana molto molto vistosa? Tiriamo fuori i petti a tavola e ce li strapazziamo come fa Christian? Cosa si potrebbe fare per buttar molto giù il tono di quella allegra brigata?».

«Parliamo solo al femminile e in falsetto come i parrucchieri di periferia, tipo “non far la scema, Barbara”. È una cosa fine che piace sempre».

«Volentieri camicia di seta nera, slacciata fino al terzo bottone, con gli occhiali neri soprattutto di notte? parlando solo di pischelli e di piotte, con le madame che vorrebbero essere intrattenute su principesse e parures?».

«Guarda che hai quasi trent’anni...».

«Hai ragione, lo farò a quaranta, dirò “mustra!” e “slandra!” come i Legnanesi, e sosterrò che è più nazional-popolare di Brecht. Ma bisogna, bisogna fare un qualcosa di vergognoso, un certo non so che per cui si rendano conto d’essere caduti fra i peggio dei peggio, mentre tutto lo chic e la cultura si svolgono altrove, e loro non ci sono...».

«Potremmo improvvisare una penosa scena di gelosia, molto imbarazzante per tutti e costringendoli a schierarsi fisicamente... Tirandoci dei pezzi di pane in testa attraverso la tavola, e ripetendo per esempio “ma perché tu vai insieme a quello stronzo? per il suo portamento o il suo sense of humour?”...».

«Par délicatesse verso Klaus, si potrebbero sempre fare i tic: l’occhiolino di tipo equivoco, la lingua che saetta tipo lucertola, o l’ammicco di testa tipo “andiamo di là”, ripetuti qualche decina di volte, possono fare uscir pazzo chi ti siede di fronte».

Invece poi – «Why waste your tears?» – non ci fermiamo neanche mezzo minuto, lì sotto, con la Trona che dà il tè ai due bassotti di shit. Faccio appena in tempo a sentirla che dice alla Gazzaniga «quel Musil per me ha sempre avuto un certo je-ne-sais-quoi alla Agatha Christie, non mi fiderei...», e scendo l’ultima rampa di corsa con Antonio. Viene giù anche Jean-Claude.

«Voi mangiate prima o dopo lo spettacolo?» domanda.

«È alle otto e mezza, quindi dopo» gli fa elaboratamente Antonio. «Vediamoci là; ma sarebbe opportuno anche mangiare qualche sciocchezza verso le sette. La saggezza della mozza(rella). Io dovrò correre avanti e indietro fra lì e il teatro grande per la prova generale di Klaus. Quella comincia alle otto. Sì, ci vediamo verso la fine di tutto e possiamo souper con una bruschetta al Pentagramma».

Klaus viene su dal fondo del giardino. Ha accompagnato al cancello quattro di questi suoi tedeschi. Non li vediamo mai, se non di sfuggita. Devono essere importantissimi.

Si capisce che è un po’ nervoso. Butta via un bastone che ha in mano, viene su adagio; e respira forte, in fretta, muovendo le mani come per dirigere degli sprazzi di musica che gli siano venuti in mente, rivolto più alle salvie nelle aiuole da stazione che a noi.

«Ma perché ti preoccupi, quando siamo sicuri che andrà benissimo perché ci sono tutte le premesse?» gli chiede Antonio. «Mi par di vederlo cosa scriveranno dopodomani, almeno i nostri: un temperamento musicale enormemente ricettivo, versatile, eclettico, però la partitura è formalmente unitaria, denota una personalità ben precisa. Il nostro tempo c’è tutto. E poi? Le facce di Stravinskij e di Schönberg si mostrano insieme, come un’erma bifronte o un carro tirato in due direzioni opposte... attraverso la memoria storica e critica di quella Mitteleuropa leggendaria che si tende fra le clitoridi delle Clitennestre viennesi e le lame di Jack lo Squartatore e Mackie Messer puntate su di voi!... Fra un innato e confermato impegno sui “valori duraturi”, e una tentazione di successo “mondano”... Sia... sia... Vuoi... Vuoi... Non solo, ma anche... Sebbene, quantunque... E con tutto questo, ha stile!... uno Stile che si riconosce, si distingue, si discerne!... perché è una Zeitoper critica! Non l’ultima vittima di Lulu e degli Zulu!». E gli mette le mani sulle spalle: il tocco fa bene.

«Ma chi ha poi deciso che un’opera abbia valore e senso per coerenza e unità e armonia? e non invece per dissidio e conflitto?... Questo, te lo chiedo io. Contraddizioni interne deliberate? Benissimo, siamo qui per questo! Inconsce? Ma tanto meglio: la dialettica dentro l’opera aperta!... Volevano invece essere epiche o pornografiche o pontificie a ogni costo e tutte d’un pezzo, e invece fanno dormire o fanno ridere? E ben gli sta! Sai chi chiamava “tramelogedia” una sua Zeitoper? Il conte Alfieri!».

«Scusatemi, ci vediamo subito dopo, vado a coprirmi» dice improvvisamente Jean-Claude, e risale la scala in fretta, ha freddo, coi suoi sandali gialli da Croisette pare un Malvolio in castigo.

«No, no, no» sta dicendo Klaus niente affatto contento. «Andrà bene per quelli che dicono che l’ultimo Puccini della musica è stato Wagner! Ma per me, per come sono oggi, così non va più. Bisogna fare una revisione molto drastica, subito incominciando da domani. Non voglio farmi delle illusioni... Non posso nascondere la testa nella sabbia come hanno fatto gli Orff, gli Egk, i Menotti, quando sono stati sul punto di capitolare musicalmente... Vedi: nella musica strumentale, la grande crisi armonica del nostro tempo ha trovato una quantità di soluzioni... Rimane sempre un po’ di buona musica in mi maggiore da comporre per i reazionari che si travestono da rivoluzionari, però sotto il cubismo rimangono ottimi in disegno come il Picasso del periodo rosa o blu...».

«Ma guarda che il tuo pubblico di domani sera potrebbe essere quello che chiamava Berlioz Derlioz e diceva “speriamo che le sue prossime sinfonie non siano troppo russe”... La Trona stava appunto dicendo “come ai funerali del povero Igor”, mentre il povero Igor viene quest’autunno a dirigere una sua Messa a Santa Maria Sopra Minerva per la signora Panni, che gli fa anche una merenda col porchettaro dell’Ariccia nel giardino dell’Accademia Filarmonica... Ignoti ai tempi tuoi, erano i drammi buffi, Orazio mio, e gli usi nostri seguitar vogl’io...».

«... Ma è sul côté melodico che la musica si trova nei guai! E non è facile trovare delle scappatoie. L’opera è una faccenda vocale. Solo se si è grandi melodisti, ci si possono prendere confidenze con le parole. Invece, sentivo in questi giorni, non si capiva niente! Ho trattato le sillabe come un’imbottitura. E il vizio dell’abbondanza mi vien fuori da tutte le parti. È ancora troppo eclettica, questa musica. Troppo libera. Troppo selvaggia. Come l’elettricità: non la conosci, però la usi. Bisogna veramente tagliarle le unghie. Ricondurla a un ordine che non sia più solo in gloria dell’Ordine. Legarla di più al testo poetico. Tutta la struttura dev’essere più forte, più omogenea. Sentirai la Pentesilea. È lì che ho incominciato a capire. Più stilizzata, dev’essere. La voglio meno scompostamente strumentale nei contorni. E magari meno Boulez nelle parti vocali: è un altro che bellineggia, sotto sotto... e gli senti dietro delle Armide, delle Alcine, delle Kundry... Il canto nelle scene di battaglia in Pentesilea scoppierà a brevi strappi, furiosi, sempre col suo pianoforte buttato in mezzo alle percussioni, ma con risonanze non troppo giavanesi, ho deciso... Niente grandi variazioni per pianola trascendentale... Una secchezza abbastanza ruvida... Iterazioni insistenti... Come del resto, usando quasi solo percussioni, diventa inevitabile...».

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Risaliamo sotto la loggia. La Gazzaniga e la Trona hanno finito col loro tè, e ci hanno lasciato lì un porcaio. Klaus chiama il cameriere per far portare via subito la tovaglia sporca e le briciole, entra in casa, e mentre siamo lì aspettando di sederci lo si sente un momento al piano che suona. Ma torna fuori subito; e dietro di lui Bustini. «Non strimpellare, piccolo!» esclama tutto allegro il vate, con un sorriso furbetto.

Non capisco Klaus, come si trattenga dal gridargli subito un vaffa in faccia; ma glielo si legge chiarissimo negli occhi. Bustini invece continua a sorridere compiaciuto, e si siede contentissimo insieme a noi. «Così mi diceva sempre la mia maestra di piano a Varese!» ci fa. «E io tutto in velluto nero da Amleto col mio collettone di pizzo e i boccolotti lunghi...». Arriva il nostro tè, e comincia a versarsi il latte per primo, soddisfatto. «È andata a finire in un modo!... Le sono capitate certe cose!...» fa, tutto consolato. «Si capisce che quando si strimpella come si poteva far noi da piccoli si finisce sempre per cascare nell’à la manière di qualcuno: il solito Chopin, il solito Schumann, quando poi non è il solito Beethoven delle domeniche tristi... Però, in certi momenti privilegiati, magari involontariamente, càpita che sotto le mani anche del dilettante fiorisca un accordo reminiscente che apre una illuminazione sul vero mondo poetico del compositore...».

«Mi pare un po’ un vecchio luogo comune, che si è sempre sentito» brontola rannuvolato Klaus. «Quello di pretendere che siccome Mozart o Beethoven erano dei grandi improvvisatori, ah se potessimo aver qui le registrazioni di qualche loro esecuzione estemporanea, troveremmo chissà quali sconvolgenti aperture sulla creatività allo stato nascente... Magari anticipazioni più affascinanti che nelle opere pubblicate... Ah, uno sguardo segreto nell’officina... Fantasie di Bach, varianti di Mozart... Magari la pratica rapsodica di Schubert o Mahler...

«Ma non è poi tanto vero. Il fatto di improvvisare, o come dice qui il professore di strimpellare... un pochino d’influenza indubbiamente l’avrà sulla tecnica di composizione, almeno per i maestri “classici”... E magari certi colpi di genio sono proprio venuti fuori improvvisamente, alla tastiera... Il tasto sbagliato premuto per caso, e poi la riflessione in seguito per razionalizzare l’accidente, normalizzarlo, farlo rientrare nella strada maestra del discorso musicale... Però i limiti sono fin troppo ovvi: Bach o Brahms possono improvvisare una composizione già quasi impeccabile da un punto di vista scolastico... o per lo meno plausibile... Ma riuscirà per forza prolissa... di una forma che non resisterà alla prima revisione... Ci vuol forza, diceva Haydn, per sviluppare un’idea con le regole dell’arte... Il vantaggio è piuttosto che “strimpellando” si libereranno gli impulsi più spontanei e volages... che poi si cattureranno sì o no... Ma non credo che siano espressioni del “caso”... Sono il portato non dell’ispirazione o delle aspirazioni, ma dell’esperienza...».

«In realtà,» ribatte Bustini «in tutte le epoche i compositori vostri preferiti hanno poi scritto il meglio della loro opera lontano dalla tastiera... perché avevano paura di confessarsi!... E oggi? Solo forse gli organisti possono pagarsi il lusso di improvvisare... ma soprattutto quando non sanno prevedere la durata d’una cerimonia!».

«Mica vero!» osserva Klaus. «Neanche per Cole Porter che diceva sempre “la vera ispirazione viene dalla telefonata di un producer di Broadway!”... Uno dei fascini dell’opera italiana è proprio quel flair sensuale e cantabile che arriva direttamente dall’elemento-improvvisazione, oltre che da una memoria interna di voci... Anche se Verdi l’immaginiamo poco al pianoforte... Ma Schumann sogna soprattutto con le dita sui tasti... Tutto Liszt è una specie di sublime strimpellata dove corpo e strumento fanno tutt’uno, e quando l’uno s’ammala muore anche l’altro... E se non sono laiche le confessioni di Ravel al suo strumento complice... Addirittura in Wagner o Chopin, benché tremendamente difformi nel pensiero, però benissimo organizzati nelle strutture formali, si trova in comune questo elemento di natura emotiva... che affascina immediatamente, perché afferra, prima ancora di riflettere sulla costruzione intellettuale delle composizioni...».

«Mi sembra un po’ strano sentirlo dalla voce di un Komponist soi-disant avanzato!» salta fuori a dire un po’ pesantemente Bustini, rosso in faccia come se avesse bevuto vino buono e non tè. Il Maestro improvvisa? («Sta provando e riprovando un suo pezzo già pensato o addirittura già scritto. Grazie per gli eventuali suggerimenti. Terzo Programma alla Rai»). «... Come se non si fosse spezzato ir-ri-me-dia-bil-men-te il legame fra la creazione musicale intuitiva e spontanea ov’è in gioco l’intera personalità del compositore, e la teorizzazione astratta dell’intelligenza musicale... Fino a Debussy ci credo: meraviglioso improvvisatore, più intelligenza musicale acutissima, più orecchio finissimo... Ma vorrei proprio assistere alla improvvisazione di una composizione seriale in grado di utilizzare tutta intera la scala delle dodici note... senza contare che nel caso della musica elettronica, quel legame che dicevo non è mai neanche esistito... Vorrei un po’ sentire cosa strimpellano nei momenti di ricerca o abbandono i Nono, gli Stockhausen, i vari musicisti per cui il giudizio di valore più positivo è ripetere “rigoroso”, “scientifico”, “logico”... Questi che passano la giornata in laboratorio coi loro nastri e le loro consoles alla ricerca di trouvailles timbriche... E hanno come tutto ideale una valigetta di “tapes” ne varietur come un Settebello lanciato sul binario senza fermate né a Chiusi né a Orte»...

«Adesso Klaus s’alza e gli lascia andare uno schiaffo» mi fa allegramente Antonio. «E allora noi ci lasciamo andare a una rumorosa nostalgia per i veri bei tempi della Poesia, quand’era in mano alle famose improvvisatrici, come la Fortunata Sulgher Fantastici, celebrata dal Monti e dall’Alfieri e da Madame de Staël: altro che le trattorie toscane degli ermetici e post-ermetici alla ribollita...».

Invece Klaus sorride come la Regina d’Inghilterra, manda piccoli saluti benigni e sorrisi come ai sudditi, e fa: «Ma dopo tutto un laboratorio non è solo un posto di esperimenti... Può essere anche un luogo di... soi-disant... sogni... situazioni... atmosfere... grandi rêveries amorali... happenings fatti solo di varianti... Eventi aleatori che esprimono solo il Wille e il Sein di se stessi... e per di più, tanto “casual” che ad ogni esecuzione possono risultare diversi... per la quantità di improvvisazione e d’arbitrio senza programma che ci mette l’autore-interprete... Magari, spiegando proprio i moods più desolati nella vecchiezza inutile di un connaisseur di musica senza più speranze... Il Liszt di Richard Wagner a Venezia e della Lugubre gondola... Non sempre il solito “Immenso Fthà, ta-ta-ta-tà”...».

«Strimpellate... strimpellate... piccoli...» ghigna ancora Bustini, come un ebete. «Ach, Isolde! süsse Holde!». E sorseggia. «Ach, Isolde, Isolde! Wie schön bist du!». Ma io non ne posso più. Sempre con questi, mi vuol far stare Antonio? E sono le mie vacanze!

«Vado giù da Raimondo» gli dico.

«Cambiati prima» mi fa lui.

«Ma non sono ancora le sei, c’è il sole...».

«Lo sai che dopo non fai più in tempo, a tornar su a vestirti».

«Non fare l’aleatorio, stasera!» mi grida dietro Klaus.

Va bene. Di sopra trovo Jean-Claude che mi domanda se lo porto giù: vuol venire da Raimondo anche lui. E allora anche lui dovrà cambiarsi.

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Sull’altana Rovescalli, un gran disordine. Raimondo e Desideria corrono in vestaglie indiane uguali tutt’e due, molto lunghe e molto scure e vivaci, lucenti; e anche Sir Fulke Greville, un vecchio giovanotto anglo-siculo vispissimo, ma tutti lo trattano da giovanissimo, con lo stesso nome del padrone di casa nella Cena delle Ceneri di Giordano Bruno, «un Ezra Pound del Cinquecento, imparentato coi Pembroke». Ha anche la stessa età di Sir Winston Churchill «che come pittore è molto meno bravo di me», ce lo annuncia subito. Ha dormito lì, appena arrivato da Tangeri.

A lui che è piccolo la vestaglia coi disegnini cashmere arriva fin sui piedi; e inciampa; ma continua a trascinare un enorme leggìo scolpito, di noce ecclesiastico, lungo tutto il ponte sospeso, finché riesce a portarlo giù dai gradini e a sistemarlo come vuol lui contro un pilastro, da solo.

«L’aiuto io, signor duca!» gli fa il cameriere che è venuto a prendere le tazze del tè.

«No, no, lascia, sta’ lì, tu! Portami un tappeto rosso, piuttosto» gli grida Fulke senza fiato; e bada bene a drizzare il suo leggìo, con su un fascicolo della “Scena illustrata” del ’14, appoggiato aperto su una pezza finto-Fortuny.

«Anche l’angolo Lyda Borelli è fatto» sospira, con un improvviso singhiozzo di collasso per fatica.

Il tappeto lo portano arrotolato («c’è Opprandina dentro? che va dal drudo? sotto gli occhi di Pierfederico che gioca a scacchi?») Giulio e Ferdinando, uno in calzoni a rigoni rossi e uno in mutande “paisley” pisello, carichi anche di cuscini con la frangia d’oro, di quei chintz francesi a fioroni spampanati che sono più belli sbiaditi che nuovi.

«L’angolo Cecil Beaton, su, avanti, svelti!» ordina impaziente Fulke, scuotendo i capelli grigioverdi un po’ “poudrés”, più lunghi davanti che dietro. «E un piccolo whisky, grazie, per favore». Il cameriere corre col bicchiere e il ghiaccio. «Un po’ di vimini: Brighton, Brighton, qui, qui, presto! Ma non la Brighton d’oggi, andiamo, indietro! Per dirla tutta: Bath!».

Le poltrone di vimini arrivano, tirate per le gambe da Raimondo e dal cameriere. Li aiuto anch’io. Jean-Claude afferra un vaso tipo Deruta. «Nooo! Quello!» urlano in tre. Desideria toglie da un cratere etrusco un fascio di dalie appassite, le butta in strada e vuota anche l’acqua, guardando in su e non giù.

«E anche questa è fatta...» s’accascia Fulke su un divano. Ma glielo spostano subito insieme alle due o tre poltroncine più frananti, per fare ancora l’angolo Tennessee Williams – «ah, sì, ma non miteux!» scatta lui – con una pelle di gattopardo sul divano sfondato, una copia del Gattopardo su una tovaglietta di pizzo – «non ci dimentichiamo del povero Giuseppe!» – una zebra tarmata, una tigre – «ma qui si fanno confusioni filologiche tra le Indie!» – e delle tende a volantini gialli appese con le puntine da disegno alle travi. Dietro, una bambinaccia di terracotta da tomba Piccolo Mondo Antico con la pamela e il cerchio, enorme. Ai quattro lati le stanno sistemando su dei treppiedi quattro notai e marchesi anche loro di terracotta ma piccoli, e dei sempreverdi che son tutti uno spuntone e una spina come altarino e “memorial” alla Regina Margherita. «Jolly good girl!».

«No, quelle lì magari no» prega Raimondo, vedendo portar fuori delle ceramiche dalla camera delle meraviglie. «Vestitevi, su; e tu Giulio, per piacere, i calzoni». Ripete (ma deve averlo già detto più volte) che dovrebbe essere già arrivata la marchesa Rovescalli padrona di casa, invitata anche lei a questo cocktail di Menotti, dove almeno per un po’ staranno pur tutti a intrattenere quelle belle creature; prima ha mandato a chiedere se può andar su con loro in macchina.

«Io sono pronto» risponde risentito Fulke, e torna a sdraiarsi coprendosi col gattopardo. Desideria gli mette un mezzo limone in bocca, e lui se lo tiene. Arriva Antonio.

«Come mai in blu?» gli chiedo.

«Perché è una seratina di prose, molto minore» risponde con una carezza molto maschile. «Smoking bianco ieri per l’inaugura, giusto. E quello nero domani per il Klaus. Tutte le sue cosine a posto, no? bestia?».

Si guarda attorno. «Ma fai venire qui anche stasera tutti quelli?» domanda subito a Raimondo.

«Noi, veniamo; se abbiamo voglia, dopo il teatro» risponde lui. «Mangiamo insieme in un’atroce sentina, dopo, no?... Verrà chi vorrà, oh, insomma!».

«Questo è un disco dei tuoi nuovi?» chiede Antonio a Desideria. Arriva infatti un filo di merengue dalla cappella.

«Vado a alzare» fa Ferdinando. Entra là, ma esce di corsa col suono subito più violento, gridando: «Ma che odore! Non si può resistere!».

«Togliamoli, sì» propone Raimondo.

Ci vogliono in tre, a sgomberarla dei fiori più profumati, cacciati lì dentro stamattina: bracciate di ginestre, tuberose, fresie, già anche un po’ marce. «Cosa ne facciamo? una pira? des Indes Galantes?» domanda Giulio carico sulla porta.

«Qui, no: solo palme in vaso e orchestre d’archi!» esclama Fulke deciso, e salta in piedi chiudendosi la vestaglia davanti con un cordone da tenda.

«Derek, dorme ancora?» chiede casualmente Desideria, ma scoppia subito a ridere.

«No... no... gli abbiamo già rotto la macchina» prega Raimondo. Ma Fulke incomincia a correre, e Ferdinando e Giulio dietro di lui con le braccia piene di fiori s’infilano nella biblioteca. Aprono una porticina nella tappezzeria, e li rovesciano tutti sopra e intorno al letto, dove s’intravvede una forma lunga e magra sotto un plaid. Chiudono bene la porta; e si incomincia a ballare questa merengue.

Desideria con Ferdinando; Antonio con Fulke, e con delle gran cascate da tango; io invito Raimondo, ma risponde «grazie no, ben lieto il prossimo». Giulio ancora in mutande li fustiga e staffila tutti sulle gambe con un gladiolo lungo un metro e mezzo. «Come quelli che regalano i cavalieri veramente fini a Evita Perón che va dal Papa!». Corre intorno col passo dei cavalli lipizzani: sollevando le ginocchia fino alle spalle, pura Spanische Reitschule. Anche Jean-Claude afferra la segretaria di Raimondo che sta attraversando il ponte col ghiaccio. Subito dietro lei s’affaccia la vecchia Rovescalli in tricorno e veletta, vestita di nero, in punta di piedi in casa propria, col suo collarino bianco e la sua breloque.

«Vuole un whisky, marchesa?» le chiede Raimondo versandoglielo addirittura, in una tazza da tè.

«No, grazie» (e se lo beve lui), risponde lei, inghiottendo l’aria; e non scende neanche i tre gradini dell’altana. «Credevo fosse già tardi per recarci dal Maestro... ma vedo che loro forse non intendono... Oh, mi perdoni, principessa, non l’avevo veduta» aggiunge in fretta con un profondo inchino da educanda, verso Desideria in vestaglia.

«Scusi questi frenetici, veramente, marchesa» le fa lei sorridendo, e le va incontro a darle la mano. «Oh... oh... oh...» gorgoglia adagio la marchesa. «Era un po’ una rozzeria, come divertimento,» le sorride ancora Desideria «ma in realtà siamo pronti fra meno di un minuto», con una mestizia quasi timida, e si ritira.

«Bel giovane!» sentiamo gridar forte dalle scale interne; e una vecchia gotica altissima con una gran fronte corre senza freni attraverso il ponte dei sospiri in direzione di Raimondo.

«Anzilotti!» grida la marchesa quasi brutalmente; mentre lui in fretta mi dice: «La vecchina del Cacao Talmone! E voi non mi credete mai, quando vi racconto il déjà vu!».

«Il famoso signor Raimondo!» gli sta urlando in faccia la vecchia, arrivandogli addosso tutta sudata. «L’abbiamo visto tante volte sui giornali! Noi qui siamo informatissimi, seguiamo tutto! E finalmente lo abbiamo fra noi! Ma è poi tanto bella come si dice, anche nella vita, Liz?».

Dopo pochi minuti sappiamo veramente tutto: che da una settimana lei guarda sull’altana giorno e notte divertendosi molto e approvando tutto, perché «al gran mondo,» come dice lei «è giusto che tutto sia permesso!». Poi c’è una sua amica moglie di un dentista che ha una tovaglia del Cinquecento d’inestimabile valore da vendere, e vorrebbe farla vedere. Ma non troppo tardi, perché prepara il miglior caffè freddo del mondo e se no passa l’ora: con la panna. Da parte sua lei è sorella del generale Barba di Bronzo, e la collana che ha addosso gliel’ha fatta con le sue mani un’altra sorella, con certi semi duri che crescono solo in Abissinia. «E la principessina, dov’è mai la principessina?» domanda improvvisamente, come se parlasse di un topolino o di un grillo.

 

Desideria è immobile sulla scaletta, e ci guarda fosca a occhi spalancati, come un’aquila sopra il ramo, pronta davvero in meno d’un minuto in un abito di velo rosa-verde leggero come fumo, e maestosa; labbra e sopracciglia perfettamente rifatte. Gli altri la seguono tutti in blu. Nel bailamme scendendo le scale si decide d’entrar tutti in tre macchine e di vedere insieme la tovaglia benché Anzilotti sia apertamente preoccupata perché siamo troppi e Rovescalli debolmente protesti perché si farà tardi e lei invece era pronta all’ora giusta e ci terrebbe che gliene si desse atto.

«Cosa dirà poi il Maestro?» continua a sollecitare. «Il Maestro non dirà niente!» le viene assicurato. «Il Maestro ha ben altro da dire!»... «Se lo dicono loro che sono amici...» subisce lei curvandosi per entrare in una seicento con la sua troussina a fiocchetti sotto il braccio. «Simpatico, simpatico, no?» le dice Fulke sedendosi su di lei. «Tutto così divertente, così scomodo: mutande scambiate, docce che non funzionano... Il mio asciugacapelli e i miei profumi li adoperano tutti... Eccitante come i nostri primi balli, marchesa, non trova?». E subito le propone di andare insieme una mattina al tribunale dei minorenni. «Non c’è niente di più delizioso per capire una città che non si conosce che veder condannare dei giovanissimi a delle pene detentive grossissime, no?».

Dove sta la tovaglia? Alla Torre dell’Olio! Dell’Oro? No, dell’Olio! Proprio dell’Olio? Di Santa Uliva? No, un’altra: comunque del Dugento; e comunque si va lo stesso. L’entrata è del Dugento avanti Cristo, e Anzilotti fa un nuovo tentativo per non lasciarci andar su tutti.

«Si può forse lasciar fuori in strada una principessa?» le chiede grandiosamente Raimondo. «Può l’Onore riempirvi la pancia? No! E un piede? E un dito?».

«No, no, per carità; e la marchesa, neanche. Figurarsi la marchesa!» risponde Anzilotti, che per di più di Rovescalli è inquilina. Rovescalli non vorrebbe far fatiche né tirar tardi, ma Fulke le sta canticchiando dentro la seicento: «In Spoleto – and Orvieto – every transept – is a concept...», quindi si piega in quattro e vien fuori.

«E il Prence Lampedusa di Modrone, sul marciapiede?» domanda Giulio, indicando se stesso.

«No... no... Dio... Dio... come si fa... il Prence...».

«Et le Baron de Rougon-Macquart-Citroën-Pécuchet?» (indicando Jean-Claude).

«Per carità...». Ormai chiaramente ha paura.

Ma Giulio non lèsina. «E Lord Eminent Victorians? E Sua Altezza Serenissima l’Arciduca Kindertotenlieder von und zu Wienerschnitzel? E il baritono Almidoro Antifoni de Ringabella?». (Sarebbe Antonio). «E il Reverendo Éminence?». (Questo sarei io). «E siamo in attesa della Margravia Elsa di Moravia, che arriverà non si sa ancora se a cavallo di un cigno o di una scopa, con le sue damigelle Griselda Gewandhaus e Melinda Bundesliga»... Finché, come Tornabuoni o come Tornacattivi, entriamo tutti; e poi, di sopra, questi frenetici, tutto un horseplay di spalancare armadi e cassoni di prepotenza, a delle povere creature molto smaniose, fra le pezze, ma anche esterrefatte sentendo «conoscevo Maria molto prima che fosse vergine» o «la pala Edisonvolta, appena qui dietro, a voi concedo riveder!». «E dove, all’occasione?». «Muta! di Portici! d’accento! e di pensier!»... Una vergogna, quasi da sprofondare, scappar via, non guardarsi più in faccia o nel televisore per la vita.