DOMENICA CON INCIDENTI
Tornando su la strada è piena di macchine, è domenica. Arrivo dopo le due del pomeriggio, ma non c’è neanche bisogno di dire a Antonio che Raimondo è già scomparso fra le mani degli addormentatori e non lo lasciano più vedere. Ha appena telefonato alla clinica, e gli hanno fatto capire che la notte deve averla passata speriamo talmente istupidito dai prodotti che non avrà sentito molto dolore. Anche Desideria resta a Roma.
«L’opera di Klaus poi è andata abbastanza bene...» informa. «Parecchi applausi; e lui contento, in complesso. Come serata è stata abbastanza spettrale per molti, lo puoi immaginare. Ma lui dirigeva, era molto preso, giustamente... Dopo, gli siamo stati molto insieme: sotto sotto credo che tema egualmente l’etichetta di “Produktivismus for connoisseurs” da una parte, e il rimprovero tipo “easy Americana for the mob” dall’altra...».
«Ma i giornali di Roma sono abbastanza favorevoli».
«Finché se la cavano con la totalità dell’assolutezza e la completezza della perfezione, si rimanda il problema più pericoloso: se uno del nostro tempo è un eclettico. Cioè acchiappa e mescola tanti elementi stilistici in giro. Quindi non si distingue per un tono proprio: come un’opera collettiva. Oppure è un manierista: e sviluppa con importanza spropositata un solo elemento neanche significativo, a detrimento dell’unità organica del tutto... Però non tutti leggono Adorno; e Klaus adesso si trova lì una collezione d’articoli lunghi e tutti con titoli molto lusinghieri per lui, senza quelle nozioni d’ingombro come Laboratoriumkunst o Konsumproduktion. Lo scopo mi par raggiunto bene, per adesso».
«E tu?».
«Il cosiddetto fruitore. Uno che incomincia ad averne viste e sentite abbastanza d’ogni colore. Dunque, solo riferimenti concreti a quello che hai sentito e visto lì; come quando vai a una mostra. Senza mai nominare la tensione o la temperie, né la metafora, né la parabola, e neanche la pregnanza o la flagranza. Se ne sentirà la mancanza?».
«Andiamo a mangiare».
«Klaus è a Assisi per un impegnativo brunch di Renania e Westfalia protese al futuro. Bustini è in meditazione, e secondo un mio uccellino leggeremo presto che la Storia della Musica è una Grande Fuga ove le grandi nazioni intervengono in alternanza: scommetto un Moët & Chandon. Alberico si è offeso e ha tirato su il naso perché lo paragono a Visconti, m’ha già mandato a dire da Renato che non mi vuol più vedere alla corte dei suoi miracoli e tanto meno mangiare insieme. Andiamo a questo Pentagramma: ci troviamo dei milanesi che si conoscono».
La Gazzaniga sta presiedendo là una specie di table d’hôte confindustriale fiorita di glicini che ha messo a posto lei, uno per uno; spiega tutto, e fa provare certi polli alla fiamma raccomandati come la specialità del posto insieme alla bruschetta coi peperoni a non meno di venticinque persone arrivate ieri sera che hanno visto subito l’Erik e vanno oggi alla matinée della Rohan, così rientrano stasera stessa. Lei ha evidentemente finito adesso di raccontare tutto il festival, benché siano in media alla prima insalata; la sua emicrania l’ha sempre, e si vede dal gesto, ma ha già progettato una “friandise” per la prima della Rondine: un dîner aux chandelles dopo lo spettacolo, invitando tutti i parenti viventi di Puccini, di Mascagni, di Giacosa e di Illica; e tutti dovendo indossare qualcosa di rosa. Domanda a tutti se non è un’idea straordinaria – «cosa ne dice, Franchina?», «cosa ne dice, Giorgina?», «cosa ne dice, ha sentito, Carlina?» – obbligandole a rispondere di sì.
«Come gruppo» è robusto e ordinato, gradevole d’aspetto e molto calmo; piuttosto giovani e con belle abbronzature già tutti; molto ridenti. In più la Judy, in pantaloni grigioverdi. «Li mette per venire un po’ incontro a Ferdinando» mi fa Antonio. Ma Ferdinando oggi dov’è? Faccio appena in tempo a chiedere chi sono tutti, e parte il disco: «Neocapitalismo illuminato, impegnato a correggere le storture del paleo; seconda o terza generazione; villa a Cadenabbia, tomba al Monumentale, barca a Beaulieu; provvidenze per le maestranze; diversificazione delle attività; leggono l’“Espresso” e in parte lo possiedono; colazione sull’erba in settembre da Giangiacomo a Villadeati; interessati al cinema; amici di qualche attore o regista, d’estate ciascuno ha il suo, ma portati a stupirsi clamorosamente coi “ma no!” per qualunque gossip romano; e stamattina saranno andati insieme a visitare una ruina del Dugento e un giardino che qualcuno sta rimettendo a posto con le rose antiche. Inoltre, due architetti marito e moglie che soprattutto scrivono; un editore-seduttore con proventi dagli alberghi di famiglia; un urbanista e la sua signora che mimano l’adulterio senza commetterlo; un piccolo sociologo della risaia che scompare, protetto dai due architetti, con una fotografa di gioielli; un pittore di rivoluzioni molto popular a Cortina; uno scultore che beve e fòrnica e a cui si perdona tutto perché è buon raconteur ma senza offendere; un pique-assiette di Positano accompagnatore di signore nel pomeriggio. Fine scheda. Desidera altro dottò?». Subito siede fra un marito e una moglie sportivi in vellutino mostarda che gli fan posto, a me toccano i condòmini di Punta Ala.
Bustini continua a farle gli occhietti, di lontano, e a un tratto sentiamo soltanto la sua voce che improvvisamente pronuncia la frase «concerto dagli Odescalchi». Domandano tutti ovviamente cos’è; e con che orgoglio lui mostra e fa passare di mano in mano un invito della Bach Gesellschaft per questo concerto di stasera: la Fireworks Music di Händel eseguita appunto con full fuochi artificiali al castello Odescalchi di Bracciano. Non breve e non agevole, come spedizione, per stradine e straducce appenniniche e medioevali, tanto più che lui non ha macchina; quindi nessuno ne parla sul serio. Ma quando ci si alza da tavola c’è ancora qualcuno che ne discute, e il progetto s’installa e s’ingrossa nella hall dell’Hôtel dei Duchi dove quasi tutti loro alloggiano; e dopo un po’ con un certo divertimento assistiamo a uno spettacolo di meravigliosa efficienza e divisione dei compiti. A un tavolo si stanno consultando carte stradali per fare il conto del percorso e dei tempi; il portiere telefona continuamente a Roma per prenotare stanze all’Excelsior e voli Alitalia domani mattina presto. Altre telefonate urgentissime a Milano spostano appuntamenti dalle nove alle undici o dalle dieci alle quindici. Una voce da Roma conferma che i biglietti sono tutti esauriti, ma sarà possibile trovarne al castello quanti se ne vogliono, chiedere ai guardacaccia sopra gli spalti dove sta Massimo o Augusto. «E pensare che il giovane Händel era invece maestro di cappella presso l’eccellentissima casa Ruspoli» gorgoglia Bustini alla Judy.
Si presentano entro pochi minuti una Flaminia con autista, due indirizzi d’antiquari lungo la strada specializzati uno in tavoli fratini e l’altro in arte povera, aperti anche di domenica; ecco il dépliant con gli orari di Villa Lante a Bagnaia, da poco riaperta e da visitare passando; e anche, se si fa in tempo (e chi non c’è mai stato), perché no il parco dei mostri a Bomarzo, che richiede però una deviazione perché la strada principale è interrotta... Ma cosa importa anche se è una stradina: ci si può fermare per un tè dalla zia di Bianca Maria Sforza o dai nipoti di Axel Munthe, che possiedono tuttora la pala Ferrarelle e la predella Sangemini... «Cristina, hai macchina?»... «Piero prende Pupa!»... «Isabella, che distanza c’è fra Montalcino e Coltibuono?»... «Io porto Marina e Marina»... «E Camilla e Camilla?»... «Tu, che Gioia aspetti?»... Una moglie attivista persuade l’ultimo dei disinvolti esitanti, e Bustini trionfa. La Judy verrà.
Partenza per tutti alla fine della Maria di Rohan, subito (ma per le cinque e un quarto è terminata, informano dal Teatro Nuovo), e per cambiarsi sosta eventuale a quell’albergo nei boschi di Manziana dove alloggia il Re di Svezia quando va a scavare le antichità etrusche messe lì apposta dal Comune per fargliele trovare: dunque sarà «un posto decente». Cena, se fosse ancora chiaro, a Bracciano stessa, sul lago, al club dello sci d’acqua, anche se forse quello di Bolsena potrebbe essere più simpatico, si vede l’isola proprio davanti. Altrimenti dopo il concerto a Roma, in un nuovo posto che nessuno ha ancora provato ma si è detto e si è letto che è il trionfo delle grillades alle erbette della nonna.
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C’è tantissima gente in giro, e fra i negozietti che vendono tazze e piattini d’artigianato e medioevo si continua a incappare in Elsa Maxwell che arranca su per le salite vestita come una barbona, e chiede con una vociaccia terribile «where’s Luchino? where’s Luchino?» ai passanti, agli stipiti, perfino a me. Su al conventino prepariamo le valigie perché Antonio non intende più tornar qui. Lasciamo in alto gli abiti per cambiarci stasera, raccomanda. «Mettiamo per ultimo il blu, teniamoci un po’ su». Klaus è appena tornato dalla sua colazione, e ha mandato a dormire la coppia Wuppertal. Subito decide di venire a Bracciano anche lui. Una Fireworks Music così non gli è mai capitata, coi fuochi artificiali su un castello già Orsini, dunque elisabettiano, The White Devil, e col lago sotto per rifletterli; forse anche i cannoni.
«Ti porto io?» mi chiede. Così Antonio porta giù Ferdinando e chissà chi altri ammucchiati nella sua. «In piiiccolissimo comitato?». «Anche Desideria rifà qualche volta il verso del “piccoliiissimo prenzo”: ma lei, poi, si pente!». Klaus abbraccia Don Bosco e continua a dirgli: «Cànide!... Cànide bello!... Ti porto con me a Berlino!... Estasi! Mistica! Rivelazione! Angst!...». Ma urla selvagge rompono il riposino e le palle dei dormienti. La Trona e Bustini gridano nella loro stanza, con la porta aperta e i due cani agitati sul letto. Ma non litigano fra loro né stanno ammazzandosi, come pareva. Le è sparito un diadema, pare di inestimabile valore, che però nessuno ha mai visto, e butta per aria la stanza, i corridoi, i cessi, corre sempre gridando a cercare la servitù che invece è tutta in città, naturalmente, perché è festa.
La Gazzaniga arriva subito, pronta, come un commissario di pubblica sicurezza, però molto seccata; e per quasi un’ora dobbiamo sopportare tutti la confusione obbligata di questi casi e casini, con le recriminazioni cento volte ripetute e tutti i «ma è proprio sicura d’averlo lasciato proprio lì?», «sicurissima!», «ma non l’avrà lasciato a teatro, o in giardino, non se l’è mai tolto in trattoria?». No. Lei esclude, e parla già di furto. Stamattina voleva metterlo, ma poi non l’ha messo perché era lento di sottogola! L’aveva lasciato in quel certo cassettino con la serratura rotta, tutte rotte queste serrature! Sotto un fazzoletto, è l’ultima volta che l’ha visto, prima di scendere in città a colazione. È così, e ricorda benissimo; e senza dubbio è un furto.
Antonio e Renato incominciano già a dire sgangheratamente che non è il caso di fare tanto «bordel! foutoir!» per una miseria da accattoni che ricordano benissimo, di marcassite, neanche tremila lire sopravvalutandola, e purché stia zitta e non rompa gliene mettono in mano quattromila subito, due ciascuno cash, così lei ci guadagna ancora la vacanza e non è venuta fin qui a spezzare i coglioni per niente. Anzi, Antonio sostiene che era una coroncina di plastica con gli strass incollati e la cartolina del concorso, la solita sorpresa nelle uova di Pasqua da drogheria, marca Venditozzi-Vip. «C’era inciso élite, sul revers?». Ma Klaus ovviamente è imbarazzato, seccato. Non sa cosa dire. Non è capace di mandare affanculo. E cosa mai potrebbe fare, oltre che promettere di far cercare bene in tutta la casa.
La Trona pretende che si frughi subito nelle stanze dei domestici. È prontissima ad andarci lei stessa, ha già lì pronti degli occhiali da feroce batrace, come se qualcuno dopo aver rubato il tesoro lo lasciasse lì sotto il naso. Klaus naturalmente si oppone, e Bustini insiste nel dar ragione a lei, molto inopportuno e nervoso: oltre tutto l’edizione del pomeriggio con le sue recensioni non arriva nel Centro Italia, e la Gazzaniga gli ha detto «pazienza, me le farà avere a casa». Giulio propone di metter giù una mappa delle posizioni di tutti ieri sera, al teatro e ai cessi, perché sostiene che all’andata lei lo sfoggiava e al ritorno no. Lei si sente presa in giro o per lo meno poco sul serio, e ribatte minacciosa che a Milano neanche tanto tempo fa erano proprio i giovanotti più insospettabili che portavano via gli argenti dalle case per fare uno scherzo (dicevano), a chili, a chili, però poi li vendevano, e comunque sono stati scoperti. Così come è stato smascherato l’ex-critico preso da una padrona di casa avveduta mentre portava in strada un dipinto importante col pretesto di vederlo meglio alla luce naturale e non nel buio del saloon.
È una giornata molesta di scirocco e di brutte nuvole. Bassa pressione. E uno dice: «Una meraviglia di tale portata a quest’ora è già oltrefrontiera, c’è dietro sicuramente una gang internazionale». Uno assicura: «O ci sono dietro i collezionisti maniaci, che impazziscono per un oggetto e lo contemplano per tutta la vita in un bunker in Arabia Saudita... O come succede a Palermo, sono attrezzatissimi, entro mezz’ora dal furto hanno già fuso tutto». Un altro sostiene che a Napoli, quando si portano in giro valori simili, la polizia rimprovera addirittura i derubati, perché il povero guaglione che si ritrova con tanti soldi in un colpo solo sarà invogliato a fare altri furti invece di cercarsi un onesto lavoro. Altri rievocano una famosa trousse d’oro sparita a Capri qualche anno fa durante una festa, e allora chiamata la polizia, perquisiti tutti, trovato niente, e la ladra era una conosciutissima, una benissimo, che l’ha raccontato solo molto dopo, l’aveva nascosta «proprio dove immaginate voi!». Qualcuno osserva: «C’è già nel Pelléas et Mélisande: girando sventatamente per le piscine, c’è chi perde la corona, e chi un anello, e ben gli sta». Giulio alza la voce: «Emergenza! Emergenza! A tutte le macchine della Sacra Rota! Chiamare subito il Dr. Freud, il Dr. Schweitzer, il Dr. Fidel Castro e il Dr. Živago! Quando arrivano loro, via la macchia e via l’alone!». E Renato, eccitatissimo: «Una taglia! Una taglia, offro dieci dollari subito, e voi? Manifesti di “Wanted!” su tutti i muri del Festival!».
Antonio è più sobrio: «Un pasticciaccio proprio brutto. Ingravallo ha controllato tutti i pitali?». Ma questi si offendono ancora di più. Comunque sono ormai le cinque, e i milanesi passando a prenderci veramente travolgono via tutti. Anche perché vedendo che le macchine dei più importanti sono lì pronte in seconda fila – mezza via Sant’Andrea e via Gesù con occhiali da sole e apparecchi fotografici e foulards di Hermès legati alle borsette, in attesa – la Gazzaniga all’ultimo afferra la Trona per un gomito e le dice adagio (ma Giulio ha sentito): «Non l’avrà perso per caso stamattina quando ha continuato a far dei dispetti alla cameriera col pretesto di farsi pettinare? Con queste pareti sottili non si può fare a meno di sentir tutto!». E siccome la Trona momentaneamente sta zitta ci buttiamo in macchina, e via incolonnati verso Bagnaia.
Klaus è ancora pallido, è chiaro che questi incidenti lo turbano. Inutile far gli spiritosi, ripetergli che l’Italia è come un asparago: dipende da che parte lo mangi. Guido io. Ma le macchine vanno abbastanza adagio per non perdersi di vista. Così accelero e li sorpasso tutti per portarlo a Bomarzo (ha detto che gli piacerebbe), e raggiungere poi gli altri a Villa Lante. Ma che anti-climax, Bomarzo: si capisce che i surrealisti godono tutti a vedere una panchina dentro una bocca spalancata; ma senza neanche un po’ d’orrendo bosco attorno, lì nel giardinetto, che mostri domestici, dall’elefante alla casina sbieca al drago, su e giù per l’erba secca di un parco che non c’è... Cosa dovrebbero dire, allora, quelli che vendono le patatine in un grosso ananas o in un hamburger gigante nella più illetterata Florida?
«Goliardico» trova anche Klaus. «Ma ormai anche il vero Bosch più Bosch si trova nelle lavanderie e nelle agenzie immobiliari in California». Perdiamo invece la testa e la voce in quella splendidissima Villa Lante, coi due tipi di giardino più eleganti che si conoscano: quello d’acque, con pietre e muschi di sublimi non-colori formati attraverso secoli, e quello d’erba, soltanto di toni diversi di verde, grigioverde in pratica sotto questo cielo coperto, con esclusione d’ogni fiore e d’ogni altra tinta.
I nostri amici sono ancora sparsi per il parco, ma le gaie brigate cominciano a scendere perché hanno visto già tutto. Di aragosta in aragosta (sono gli emblemi del cardinale costruttore, cardinal Gambara, ma più che gamberi paiono scorpioni o astici) e di fontana in fontana facciamo svelto il giro dei due Padiglioni e del Quadrato del Vignola, fra statue di Mori e Fiumi e Piogge risaliamo questa delizia della “catena d’acqua” fino al Teatro Acquatico, dove il Cardinale intratteneva chissà che simpatici ospiti nelle sue alfresco extravaganze dentro un chiostrino segreto fiorito di camelie, ma senza il congegno idraulico di quegli arcivescovi salisburghesi nei seggi all’italiana di pietra percée... Ed ecco un grido che nulla ha più di umano – senza scherzi: «Le mie braccia sono vuote senza te!». E lì caschiamo su questo gruppo scultoreo... una Dafne?... un Marsia? una Marisa?... No: Bustini sconvolto in faccia e anche più nei capelli che tende mani tremanti e unghie sporche singhiozzando «m’ammazzerò, m’ammazzerò» verso la Judy, come per palparle polsi e gomiti e braccia sotto la camicetta stampata a etichette di hôtels: Dorchester, Martinez, Ambasciatori Palace, Meurice, Waldorf Astoria, Monaco & Grand Canal...
Più che un ensemble da giardino adatto al décor di zampilli o clisteri lui sembra però un Coppelius agganciato a una bambola meccanica che fuma la sua gauloise e gli dice: «Soprattutto non sia ridicolo!». E poi, pignola: «Conosco almeno quattro persone che l’hanno già sentito e lo raccontano uguale, questo standard gag del mancato suicidio: una ragazza di Londra molto a posto, un’altra canadese che lavora alla Fao... quella mia amica di New York che le dicevo ieri, e che sta preparando una serie su “Literary Drinking from William Faulkner to Dylan Thomas”... Che arma di seduzione del ràviolo!...».
Non possono non averci visti: anzi, lei ne approfitta per cominciare a scendere; ma non con noi. Fa dei richiami. «Uhù». Ci fosse qualche Boudeuse, chissà quanti «la legge della Taglioni!» avrebbe già urlato dietro i cespugli. Usciamo nel grande giardino all’inglese di un altro cardinale “early Lautréamont” dietro la villa, scriviamo «Mr & Mrs Hyde» sul registro, e torniamo giù – siamo fra gli ultimi – a riprendere la macchina.
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La luce del tramonto è curiosamente verde-arancione e rosso-Scipione, e giallo-blu sul bruno delle colline: molto espressionismo romano? o forse viterbese? Fa già buio quando ci avviamo entro questi boschi neri neri della Manziana, così compatti. Posti da orror sacro... da sibille rurali... lasciate indietro dagli etruschi nei cunicoli di un anfiteatro sepolto dalla vegetazione di felci come questo di Sutri, con qualche leprotto impigliato fra le radici scoperte dei castagni... Böcklin?
«Mecklenburgo...» dice invece Klaus, a bassa voce, afflitto. «Ci ho passato gli ultimi mesi della guerra».
«Ma come vivevate allora? Cosa facevi tu?».
«I boschi erano come questi. Scuri, fitti. Con alberi altissimi. Come questi. Naturalmente ero sotto le armi, benché fossi molto giovane; un soldatino di Hitler che si turbava ascoltando del Bruckner eseguito neanche bene in un cinema-teatro di Rostock... Fafner, morendo, non pensa forse tutta l’Ottava di Bruckner?... O magari la Settima, a patto che lo Scherzo diventi per violenza la guerra?... Ormai avevano richiamato tutti. Ma come studente di musica, m’avevano messo alle trasmissioni: al radiotelegrafo del campo. Era un posto d’addestramento per le reclute, capisci; e di lì mandavano verso i russi. Io mi sono salvato per puro caso. Un sergente, sposato, operaio, s’è preso una specie di cotta per me, e m’ha fatto mettere ai turni di notte. Così di giorno dormivo nella baracca e nessuno mi vedeva in giro, capisci? Per farmi dimenticare, capisci? Come se non ci fossi più...».
«Ma è durato tanto?».
«Logicamente, no. A un certo punto è venuto l’ordine anche per me di andare al fronte. Era tra l’inverno e la primavera del ’45, il momento del disgelo dei fiumi. Stavano arrivando tutti i profughi dai paesi baltici, dai castelli distrutti... Quest’uomo è andato dal comandante del campo, gli si è presentato davanti puntandosi una pistola alla testa, e gli ha detto: “La guerra è perduta e lo sappiamo tutti. Sappiamo anche bene che se questo ragazzo musicista viene mandato al fronte, entro una settimana sarà morto come tutti gli altri. Ma se dovesse partire, io senza aspettare mi sparo fin da questo istante e avrete un morto di più!”».
«C’è riuscito?».
«Quelle incredibili cose che potevano succedere alla fine della guerra... C’è riuscito, sì. Altrimenti non sarei qui con te adesso: morivano veramente tutti, attraverso la Pomerania, sai?... E pensa, qualche giorno dopo, una sera tardi io e il mio sergente passeggiavamo in riva al lago, e incontriamo proprio questo comandante del campo, che veniva avanti da solo. Con un po’ di spavento lo salutiamo. E lui risponde: “Buonasera... voi due!”. Nient’altro».
«E il tuo sergente?».
«Non ne ho saputo più niente... Ma! Elefante!» mi grida. «Qui piove!».
Addio concerto, gli dico. Semplicemente, sono le otto passate; come fanno? Ormai non lo fanno più. Fermo la macchina; tiriamo su la capote. Dopo mezzo minuto sta già venendo giù un acquazzone fortissimo, da farci rallentare per forza. Altro che espressionismo del Tuscolo. Anche coi fari abbaglianti non ci si vede, quasi; e per poco non vado a sbattere contro una fila di macchine ferme.
«Ma cosa combinano questi?» domanda Klaus.
«Ci sono sempre dei passaggi a livello chiusi per ore, su queste stradine del cazzo» gli dico. Invece è crollato un ponte. Ce lo dicono appena cessa un po’ l’acqua e si scende. I milanesi sono lì tutti, dentro questa lunghissima fila d’altre macchine e d’altra gente, davanti e di dietro, che andava quasi tutta al concerto. Un fosso di due metri, pare; e un’arcata sola. Ma ormai è andata, niente da fare.
Quelli con macchine aperte o malchiuse sono sotto gli alberi con dei plaids in testa, in un mare di fango giallo che rende anche impossibile uscir di strada per voltare. È talmente stretta la strada, che quelli più avanti addirittura non riescono più a muoversi per colpa delle macchine grosse che la intasano interamente, troppo addosso una all’altra. Così lampeggiano i fari e suonano i clacson, ma non possono spostarsi senza tamponare.
Antonio ci raggiunge ridendo a piedi, venendo dall’inizio della colonna, con un impermeabile bianco in testa. Gli chiediamo quante macchine saranno in tutto.
«Più di cinquecento» fa. «Tutte in the shit».
«Ma tu non ti puoi muovere con la tua?» gli chiedo.
«E come faccio? Ho la madre di Renato che mi tampona nel didietro, e ho davanti una Studebaker di vescovi in drag. Ma neanche voi vi potete più liberare». È vero. Basta voltarsi, e si vede quante altre se ne sono aggiunte alle nostre spalle.
«Siediti qua dentro» dico a Antonio.
«Aspettate: io vado un attimo a sentir Renato» dice Klaus. «È lì davanti con sua madre, no?» chiede a Antonio, e si mette a correre, senza niente in testa. Sta riprendendo a piovere, e tuona perfino, adesso.
Dopo un’altra mezz’ora finisce di nuovo e arriva la polizia della strada. Cominciano a tentar di passare, lampeggiano coi fanali blu. «Sarà meglio che vada a muoverla, se ci riesco» mi fa Antonio, e s’avvia.
Passeggiando avanti e indietro ho per qualche minuto da un finestrino all’altro uno spettacolo di varia umanità non mondana ma musicofila; un film di litigi fra coppie, con rinfacci e ripicche e tanti «l’avevo detto». Portiere sbattute, sigarette rifiutate. Vecchine romane smarrite. Teste nervose che in mezzo alla discussione spariscono infilate in un pullover e non ricompaiono più. Tutto fra persone beneducate e irritatissime. Ma siccome Klaus non torna vado avanti a vedere cosa cavolo fanno.
C’è da saltare da un sasso all’altro in questo fango; e arrivando al posto dove li vedo riuniti e bagnati tutti come druidi da Norma coi golf in testa tra i fari e i clacson delle macchine che incominciano a muoversi e ci schizzano, càpito sopra una deprimentissima scena che non so fino a che punto sarà stata lunga e penosa prima, però mi angoscia subito di colpo, per l’impressione d’esserci già passato altre volte, in qualche vecchio libro, o incubo. O forse (dicono dopo) è già una prova del film Du côté de chez Charlus che Visconti minaccia sempre di fare, e speriamo di no.
Sarà mica una “scena primaria”? La prima frase che sento è di Bustini, una specie di urlo: «Perché è chiaro che chi è... chi è... è anche bugiardo! e chi è bugiardo è anche ladro!» con un dito puntato contro Klaus, e quella teppista della Trona che alla luce dei fari fa delle Valpurghe per suo conto.
Somiglierebbe al ritratto di Shakespeare nell’in folio, il vecchio; ma recita col groppo faringeo, alla Zacconi. Completamente partito, e bagnato: come non piacerebbe a Visconti, e meno che meno a Strehler! Punta il dito, tutta la mano rifiutata dalla Judy, addirittura contro la Gazzaniga, grida che si meraviglia come ha fatto lei ad avallare suo figlio con Klaus, sotto lo stesso tetto e chissà con chi, con tutto quell’andare e venire, in quella casa... Tutti hanno visto, e giudicato, e riferito, o forse sarà stato... sia pure in buona fede... da parte di qualcuno... un calcolo?
Avallare, vidimare... Dirà mica anche la congrega e la combutta, la camarilla, o la combriccola? O... la conventicola? Ma cosa può fare (ci si chiederà poi), un romantico o un neoclassico, davanti all’isteria traumatica? Un “alt” urlato alla Visconti-Strehler, alle prove? Forse gioverebbe un coretto sgangherato alla Boudeuse: «Charlus, Charlus, è il sapone delle donne belle!... Charcot, Charcot! Toccasana per la vostra pelle!». Ma non ha più un muscolo della faccia che gli stia fermo; non riesce a controllarli, e sbaglia quasi tutte le desinenze. Le sopracciglia grigie gli vanno su e giù automaticamente, come nei cartoons.
Grida ancora un po’, poi ha detto tutto, e tace. «Cosa è successo?» chiedo a Antonio, ma lui fa segno di star zitto, che me lo racconta dopo. «È la Morte Civile della Conchiglia Fossile, un melodramma verista che si esegue sempre più raramente!» mi fa, forte. «Potrai raccontarlo ai tuoi nipoti! Come quei nonni leggendari che ebbero il privilegio di stringere la bacchetta al maestro Leoncavallo ancora calda!». La Gazzaniga alza la voce, ma non con arroganza, anzi piuttosto fredda e secca, come rabbrividendo per la sera, massaggiandosi i polsi, dice che comunque è stata una cosa molto spiacevole e molto stancante, e sarà meglio andar via tutti: la strada dovrebbe essere sgombra. Suda, e le gocce scure di rimmel le colano lungo il collo, lungo le perle, sul vestito umido. «Sì, sì, meglio partire» intervengono insieme due dei vescovi italo-americani, che si sono avvicinati per curiosare («stesso tetto? o stesso letto? come ha detto?»), sotto un ombrello a spicchi bianchi e rossi e verdi da albergo. Klaus cerca parecchie volte d’interrompere, ma non ce la fa: è senza voce; e non si sente. Gli altri, cosa devono fare? Tacciono.
Antonio mi dice: «Klaus viene giù con me. Tu porta giù Ferdinando». E Ferdinando lungo la strada dice che già durante la sosta s’era visto Bustini seduto in macchina immobile con la faccia verso il finestrino e senza parlare. Due o tre miliardari lo prendevano in giro, è vero; ma blandamente, quantunque abbastanza seccati per il tour inutile e la mattinata del lunedì persa. Gliel’hanno ripetuto parecchie volte che nell’India di A Passage to India chi propone delle belle escursioni così va a finire sotto processo; però senza cattiveria, senza infierire, in maniera scherzosa, lì nel fango, soprattutto per far vedere che avevano letto la recensione di Paolo Milano al romanzo di Forster sull’ultimo “Espresso”.
Klaus poi deve aver detto qualche cosa... Cosa? Ah, sì. La Gazzaniga l’aveva invitato a suonare il piano al suo party dei discendenti Puccini dopo La rondine, e lui naturalmente l’ha mandata a quel paese; e lo si vedeva indignato, sinceramente. È allora che a Bustini scatta improvvisamente l’ostilità contro di lui, prima a bassa voce: l’Orfeo negativo, l’Orfeo negativo... cincischiato e negativo... intercambiabile e negativo... «Molto fitzgeraldiano, molto fitzgeraldiano, quel ricevimento dove lei non è potuto venire» gli fa una di quelle che indovinano sempre il momento giusto. E lui: «Certamente, se si apprezza l’orrore essenziale». È lì che si sente una vocina: «Se mia zia, ad Abbazia...». E Bustini, convinto che sia stato Klaus, per sfottere. E allora, sempre lì nel fango, proprio una piazzata di fronte a tutti.
Insomma, l’accusa tutt’insieme d’essere un corruttore del gusto musicale italiano, e anche di piccoli italiani leggeri e vaganti, e scemi; e naturalmente complice delle orge di modernismo ai festival come dei mariuoli in casa, giacché nelle avanguardie tout se tient... «... Secondo me anche esagerando,» osserva Ferdinando «perché alla fine pareva che la colpa non fosse di Renato, dato per scemo, ma della sua povera mamma, come se lei si servisse dello scemo per arrivismi o snobismi suoi... Di’ un po’ tu... Rischiare di farsi tagliar fuori dalle case e dai giri, come se fosse diventata stupida anche lei da un giorno all’altro... ma andiamo!».
«E Renato?» gli chiedo.
«Renato, niente».
«E Antonio?».
«Niente».
«Non è saltato su uno degli stronzoni a gridare che è tutta una cosa che non s’usa più, come la gomina in testa o la ceralacca sulle lettere?».
«No, nessuno».
«E gli altri? Tutti quei vescovi?».
«Cosa volevi che facessero? Nessuno, niente».