MONDANITÀ NELL’INTIMITÀ
«Di qui nei giorni limpidi si può vedere il cementificio».
Klaus fa il padrone di casa “rifinito” con le sue signore e i suoi tedeschi, fra le tazze di tè della prima colazione. Mi diverte proprio tanto. «E nella rocca, chi ci abita?» domanda la Gazzaniga, additando il castello sopra la città.
«I carcerati. È un ergastolo».
«Sì» dice la Trona. «Fanno quei lavoretti di vimini esposti giù in piazza per beneficenza. Si sono visti ieri arrivando».
«Cariiini...» fa la Gazzaniga. «Di che epoca è l’edificio, esattamente? Non capisco perché, così grande, non lo trasformino in albergo. Come posizione, è magnifica».
«L’ha costruito un cardinale Albornoz verso la fine del Trecento; ma dopo, si capisce, l’hanno ampliato» informa Klaus.
«Non è un pregiudizio, sa» si volta indietro lei a Bustini, che mangia delle ciliegie e legge i giornali. «Sarebbe comunque conveniente, non trova, ricostruire il penitenziario in un’altra zona meno turistica, nuovo, comodo, e trasformare questo in un hôtel, data la posizione. Tutte stanze con bagno, la solita carenza di questi posti... Una bella vista... Andrebbe benissimo».
«Ma maaamma...» le fa Renato. «Chissà quanti ci hanno già provato... Arriva lei, adesso... Figurati se il penitenziario sgombra!».
«E allora l’amministrazione dello Stato fa male i suoi affari, dico» sospira lei. «E noi paghiamo, come al solito».
La Trona ha trovato un articolo sul “Corriere della Sera”, da Parigi, dove si ammette con molte cautele che forse una signorina amata da Proust, e di nome Madeleine, probabilmente non era affatto signorina, bensì, ehm, secondo certuni o taluni, giovanotto.
Bustini è molto contento: «E chissà se l’inzuppava o se la sgranocchiava... Non dice come la sorbiva?...». Ridacchiano insieme, soddisfatti. «Tante variazioni, e non ancora un tema» le dice piano lui. «Dov’è che li hai lasciati, oggi, i tuoi Supplements?» gli chuchotta lei affettuosamente. «Non ci sono più né degli Stracciari né delle Scacciati» si dicono adagio ogni tanto. Li si potrebbe chiamar così anche loro, o s’offendono?
Ma lui guarda soprattutto gli annunci mortuari, anche sui giornali di Roma che girano per casa. «... E qui, neanche un incredulo! A Milano, più della metà dice che lo dànno increduli, il triste annuncio!». E lei pronta: «Parecchi, anche sbigottiti e attoniti! I più parvenus!». Dev’essere un numero che fanno spesso in casa. E lui: «A Roma, invece, neanche uno! Tutti creduli?». È contentissimo. Sul “Tempo” e sul “Messaggero” scopre queste gran differenze tra i nomi generazionali. «Ma come! Lo piangono costernati i figli Italo, Benito, Vittorio, e poi però le nipoti Esmeralda, Diamante, Giada, Rugiada... C’è qualcosa che non torna!».
Scatta perciò subito una ricerca di mercato di nomi giusti per non ricadere nel fascio e neanche scimmiottare in ritardo i bene. E si partecipa tutti. Le bimbe di un costruttore di successo, potrebbero attualmente chiamarsi non Tormalina o Malachite, come tutte, ma piuttosto Puntarella, Misticanza, Mentuccia, Rughetta, e anche Rucola... Più nuovo, più fresco, e talmente chic.
«E anche a Venezia, per esempio, basta con quegli Alvisi e quelle Contarine!» scatta Renato di colpo, sotto il naso della sua mamma sbalordita. «Pensa invece che fine, che chic: a un ballo di debuttanti, hanno brillato e (come sarà il participio di splendere?) Canocia Marcello, Seppiolina Brandolini o Valmarana, Peocio Nani Mocenigo...».
«I peoci bisogna andarli a cercare di persona!» spiega la Trona. «Ho sempre avuto la mia barca e ho sempre dato a tutti del tu! Gondolieri e facchini li conosco tutti e siamo grandi amici, però remavo io, le leggi della marea nella mia famiglia si conoscono da generazioni, altro che il modello idraulico dell’Università di Padova!... Bisogna arrivare in barca nel plenilunio verso certi banchi in Laguna che conosciamo ancora in pochissimi, vicino alle ortaglie... E lì, i peoci quando sono in amore si lasciano prendere così facilmente! Stanno alla superficie, non scappano!... Allora si possono raccogliere anche con le mani, questi peoci innamorati, ma soltanto i maschi! Per qualche giorno diventano completamente molli, perché cambiano il guscio: bisogna sapere quando! E si portano a casa con un po’ della loro acqua... Poi si preparano le due pentole vicine. In una frigge l’olio, e nell’altra si intiepidiscono adagio adagio i peoci: sono ghiotti d’uovo battuto; e appena loro sentono questo tepore e si aprono, subito dentro, zac! sbollentati e fritti!».
«Ecco Don Bosco» annuncia il cameriere, portando in braccio un cagnolino con la faccia simpatica, mezzo addormentato; e lo dà in braccio a Klaus.
«Gli avete lavato il musino dopo che ha mangiato?» chiede lui. «Tutte le volte, mi raccomando».
L’hanno trovato ieri sera nei boschi, e subito l’hanno battezzato Don Bosco anche se la Gazzaniga non approvava. Scuote ancora la testa. Lei e Bustini avrebbero preferito Signor Fontana, come nel Falstaff, anche perché c’è una graziosa fontanella all’uscita dei boschi.
«Antonio?» domanda Renato.
«Uscito mentre dormivo» gli dico. «Mi par d’averlo sentito alzarsi, ma non ci siamo parlati. Lo troviamo all’una giù al concerto. Io sono andato a dormire tardi. Non ti ricordi se il corso della luna è immorale o immortale?».
«Io ero da Alberico, ma hanno smesso di fare le sciarade molto presto, avevano sonno tutti. Ha vinto Lilla Brignone perché ha indovinato “optalidon” alla prima botta. Io invece facevo “No sex please, we are British”, e non ha capito niente nessuno».
«C’erano Desideria e Raimondo?».
«No. Non erano a Rovescalli?».
«Macché. C’erano altre feste in giro?».
«Non so. Non credo...».
«E Jean-Claude?» chiedo.
«Sparito presto anche lui» dice Klaus.
«Loro non avrebbero visto in giro per caso la mia guida dell’Umbria, verde?». Anche qui! Puro «madre mía, que horror!». Questa che è entrata non si sa come è identica alla vecchia di Malaga, nella tabaccheria: si era fatta portare una sedia per accomodarsi, aveva insieme una vecchissima serva e una nipotina che voleva una medaglietta con la Madonna. Si era appena stati, portati da un tassista che prometteva fanfaronnades, e io lì ci casco sempre, non posso trascurare neanche un’ipotesi, dopo esser scappati da Gibilterra dove nonostante il mito non s’era trovato niente di niente (lo racconto a Renato), si era appena stati in questa casetta molto molto fuori, dove il tassista aveva promesso uno spettacolino per marittimi, ma poi c’era solo una povera disgraziata con un cagnolino sul letto, e tutto il resto della famiglia dietro una tenda, tutti vecchi, nella stessa stanza.
E lo spettacolino? (vuol saper Renato). Macché, tutta la famiglia di vecchi ripeteva, come un annuncio: «El perrito, trabajando, trabajando...». Siamo scappati di corsa. E nella tabaccheria, la tabaccaia scendeva e scendeva di prezzo, con le Madonne: dieci pesete, otto, sei... E ad ogni prezzo, la vecchia: «Madre mía, que horror». E la serva, facendo eco: «Madre mía, que horror». Ecco, questa della Guida verde, tale e quale.
«Ve l’ho fatta, intanto, ieri sera» mi fa rapidamente Renato. «Un camionista sui quarant’anni che non riusciva a dormire; e si agitava parecchio, quando m’ha visto. Ma io gli ho subito chiesto se aveva dei figli, e lì s’è perduto, perché ne ha uno della mia età! E allora subito ho cominciato a chiedergli se ce l’ha più grosso lui o il figlio, se gliel’ha visto, e se lo sono misurato, insomma... E gli è scappato detto nell’eccitazione che gliel’ha guardato in bagno! E allora io, mentre mi scopava come un matto dentro il camion: papà, papà! mettimelo dentro tutto, fammi male, sono tuo figlio, papà, papà!».
E le signore, versandosi e riversandosi il tè fra il latte e il limone e i grazie e i prego: «Ma questa Canossian è veramente un’armena d’America?»... «Mi dicono che Maria Golovin ha avuto cinque repliche al Beck Theater di Nuova York»... «E come va, come va, la pittura?». «Ceramiche!». «E i bambini?». «Al Forte!»... «Ma come sarà questa Euridice in Kenya che ci tocca la settimana prossima? Vuoi vedere che è lo stesso Via dalla pazza Pina che ci è toccato due anni fa, con qualche piccolo cambiamento ma sempre la stessa Vanessa Pellico?»... «Una veramente garbata visione di Bergamo Alta»... «Però, vedendo su un cavalletto con drappo di velluto verde, in salotto, proprio la stessa stampa di caccia che abbiamo sempre avuto noi con il suo pendant in un corridoio»... «È il limone Lunaria, che fiorisce e fa frutti per tutto l’anno giù a Roma?»...
E noi? «Ci si fa sorprendere dalla vieille a sussurrarci che c’è stata un’importante querelle fra petits maîtres, magari in una ville d’eau?»... «E se fosse un divertissement a ritmo di balletto, piuttosto?»... «L’ho vista dalla finestra del bagno» fa Renato. «Si dà il talco tenendo sotto un giornale, poi lo raccoglie tutto e lo rimette via».
La Trona sta dando da mangiare ai bassotti, e chiede a uno dei due: «Arcangelo, vero che a te piace tanto la musica atonale?». E poi: «Ma la preferisci al quadrato o al cubo?». Invece Bustini parla dei tempi di Otto Klemperer a Berlino con un marito e una moglie di Wuppertal, della sua età; e poi comincia a fare dei vizietti esagerati al bastardino bianco e nero che tiene in braccio Klaus: «Sono il signor Fontana...» gli fa, infilandogli il dito nella bocca. «Son di stirpe mondana...».
«Son figlio di puttana...» mi fa Renato, adagio.
«Son figlio di campion» ribatte pronto il poeta a Don Bosco. «Sono spaniel breton». E poi, alla Gazzaniga: «Bisogna davvero che la conduca una volta o l’altra dalle Babe, contessa: veramente posseggono gli esemplari di spaniel breton più preziosi che si conoscano, ne avranno trenta, fra l’Austria e il Veneto, uguali a certi che si vedono nei dipinti del Correggio... E anche in tutta la ritrattistica francese e inglese del Settecento, del resto... Coi loro bei musini intelligenti... sopra un pouf...».
«Me ne ha già parlato tante volte» risponde la Gazzaniga, un po’ fredda; e Renato domanda chi sono queste Babe.
«Delle dame d’altri tempi che stanno a Milano, deliziose amiche nostre, con una bella campagna vicino al Po e due splendidi Canalettoni in sala da pranzo; o forse in questa stagione saranno magari in banca. Specialiste in confetture, in cotognatine... Violette candite per gli entractes all’Opera... Le fanno loro, sa? con le loro mani... Proprio con la violetta vera dentro, il fiore... E sempre accordando il colore del servito con i fiori e la frutta della stagione: le peonie e i lamponi in armonia con la tovaglia di un loro particolarissimo rosa... La Baba prima e la Baba seconda...».
In questi momenti di gran finezza, volentieri subentra la voglia di correggere l’atmosfera, per esempio dicendo: «A proposito di Proust, quando all’inizio dell’Opera da tre soldi si canta “Jenny Towler, ward gefunden, mit ’nem Messer, in der Prust”, Prust non vuol dire prostata?».
«... Le ho fatto vedere, no? contessa... Il ritratto delle due sorelle fatto da Lenbach? Sono ancora molto simili: una casa veramente lombardo-veneta, bronzetti e stucchi, fuori del tempo, dove si parla tedesco... Anzi, no: austriaco... in una delle più belle vie del vecchio centro, che pochi conoscono... Ah, sono loro, fra l’altro, che hanno lanciato l’idea del monumento a Radetzky in una piazza o anche piazzetta di Milano, per il centenario... e anche per incominciare a recuperare un po’ di cultura asburgica, dopo tanto tempo... Io trovo spiritoso, non trovate?... Ci sarebbero tanti libri di prim’ordine, da tradurre e far conoscere... Tengono questi piccoli concertini da camera, squisiti, la mattina di Capodanno, nel salone da ballo della famosa nonna, per pochissimi...».
«Fa’ attenzione, sta arrivando l’Azione Parallela» mi fa piano Klaus. «Fra poco l’avrà inventata lui?».
«Ma sì, ma sì; me le inviti pure, una volta» gli fa invece la Gazzaniga, sbrigativa; e poi chiede a Renato come va col suo mal di testa. Lui subito fa un musino da malato. «E allora, se non stai bene, copriti e rimettiti a letto, sono posti umidi! Cosa fai, su?» gli dice sua madre, mentre si sente ancora la Trona che a bassa voce domanda beffarda al perrito: «E a te, Elvezio? Ti piace sempre il Rosenkavalier, vero? E il monumento a Radetzky, vero che ti piacerebbe?».
Mi chiama il cameriere: al telefono.
«Proprio carino il suo giardinetto, qui» fa la Trona a Klaus. «Uguale preciso al cimiterino dei cani a Bamberg; lo conosce? Dietro la Residenz, sulla riva del fiume... Ma non il Vescovado vecchio, quello medioevale con tutti i gerani, nevvero... Proprio sotto il Vescovado rinascimentale, quello col suo Rosengarten...».
«Certo» le fa lui. «Identico al Cimitero Marino di Paul Valéry a Sète, quello così famoso in cima al paese con la celebre vista su quegli immensi depositi di benzina... come ci raccontava un giovane poeta francese recente...».
«Vicino a quel gran cementificio dove mettono di solito nel cemento le rompi della mafia?» aggiunge Renato.
Al telefono è Antonio. «Vieni giù subito,» mi fa «senza dir niente agli altri. All’Albergo Falcone, ma di corsa. Raimondo sta molto male. Muoviti!».
L’albergo è misero, con dei corridoi bui e storti. «Lei è un amico?» mi domanda una cameriera di mezza età sulla porta della stanza; e spiega che non bisogna lasciar passare nessuno. Antonio accostando la porta mi fa segno d’entrare. Sono lì lui e Giulio, in pullover, con la finestra chiusa. Raimondo steso sul letto l’hanno già riempito di morfina. Lo si vede già come se fosse morto, diversissimo, con una smorfia tragica perché soffre ancora moltissimo; e non parla. Mi fa solo, appena muovendo le labbra, «non appoggiarti, per favore», perché senza rendermi conto avevo messo le mani sulla spalliera del letto, avvicinandomi; e questo leggero movimento deve dargli dei dolori ancora più forti.
Non diciamo niente, nessuno. Antonio mi guarda fisso senza parlare; e passa così più di mezz’ora.
Entra Desideria in punta di piedi, con due occhi scuri enormi e i capelli tirati, come se uscisse dall’acqua. Dietro di lei, quasi subito, una ragazza loro amica che era anche l’altra sera al party di Raimondo, e si chiama credo Luciana. Antonio mi prende per un braccio e mi tira fuori.
«Ha trovato questa stanza qui perché voleva riposare con calma; e ha detto a Desideria che non aveva bisogno di niente. Così lei è andata a dormire. Poi s’è sentito male, e non è riuscito a chiamare: vedi che non c’è telefono. Non sappiamo neanche quante ore sia rimasto così, il medico di qui ha fatto quello che ha potuto».
«È finita?».
«Era già finita comunque e lo si sapeva: gli avevano dato quindici giorni di vita due mesi fa. Questa crisi è l’ultima. Dovevano aspettarsela da un momento all’altro».
Luciana uscendo viene subito verso di noi. «Se andate a Roma, qualcuno di voi, avvertitemi a ogni costo. La stanza al Blue Jesus c’è già. Ho fatto mettere in mezzo mio padre perché non ne hanno mai; lì almeno ha le cure migliori. Ma bisogna che qualcuno vada giù subito a metter le mani in quella casa...».
Esce anche Desideria. Terribilmente magra, controluce, con due gambe filiformi... Dice a Antonio: «Tu stai qui e non ti muovi dalla stanza, vero?». Ma Giulio si riaffaccia alla porta, e le fa segno che Raimondo la vuole.
«L’ambulanza è già partita da Roma» dice Desideria prima di rientrare nella stanza.
«Senti» mi fa Antonio dopo un po’. «Se vuoi andare a mangiare, va’ adesso. Io sto qui. Però se l’ambulanza tarda molto io non posso andar giù a Roma insieme a loro, e tornare: stasera devo essere al teatro. Porta giù tu per favore Luciana e Giulio, torni su domani».
Infatti vado giù io. Desideria fa il viaggio nell’ambulanza con Raimondo, e io porto gli altri due a Roma.