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«Senza qualità!»... Ma intendendo naturalmente (come per Musil) senza spiccate disposizioni, senza segni particolari sulle carte d’identità, senza preferenze definitive nella vita... Altro amico di Desideria e d’Antonio, senza “caratteri” ma pieno di qualità diverse e anche rare, lo vediamo spesso in questi giorni, innamorato delle culture africane e asiatiche, e anche dei marmi, purché molto molto antichi. E allegri. In un Trianon delizioso, in mezzo a un piccolo giardino coi muri alti nel centro della città: coi suoi cani, una Bagatelle di fiori solo bianchi, terrecotte, Cina e Giappone, bronzetti. I suoi disegni di manieristi anche scoprendone in Veneto, i suoi saggisti francesi stagionati e arguti, le sue ortensie alle quali si può parlare, le mezze giornate negli scantinati delle liquorerie in cerca di vini meravigliosi spagnoli e tedeschi, sempre inediti, per molto elaborati pranzetti. Tutto molto sereno e fuori dai tempi. Ottima cuoca, bei lini d’estate e d’anteguerra, chiarissimi e trovabili solo dal suo sartino Ignazio; e scialli del Kashmir per sdraiarsi sull’erba e chiacchierare bevendo Château d’Yquem col connaisseur di pavimenti cosmateschi, l’esperto di rose storiche (documentate dalla Madonna del Roseto di Martin Schongauer), il pittore di rovine metafisiche, il restauratore di stucchi veneziani, il raccoglitore di musiche indonesiane, l’etnologo che passa sei mesi all’anno in Madagascar e disapprova su terreno scientifico Lévi-Strauss.

Che grande dilettante potrebbe essere: ci sono i viaggi, le letture, questo gusto dell’India minore così chambré («nella sua chambrette»). Ma un senso malinteso di “professionalismo” lo spinge all’impresa para-sotto-artistica “moderna” che non implica un mestiere e non impegna l’anima: le sceneggiature di film mediocri per produttori scadenti, i costumi per i teatri di second’ordine ove si adoperano le scenografie del magazzino, le ricerche in archivio di partiture musicali irrilevanti, magari per quei piccoli circoli di provincia dove regna chissà che garbo, e dopo lo spettacolo con pochi amateurs si cena in un palazzetto chiuso da decenni con tutto l’arredo che andrà poi a un’asta. Quelle contrade che non vincono mai un palio: il Grillotalpa, la Libellula... E un perverso senso della funzione pubblica, da “civil servant” d’altri tempi, in qualche meandro dell’amministrazione dello Stato dove non si sarebbe tenuti, e dove nessuno sarà grato... Non capisco se sono cose che poi lo divertono davvero, come dice, o timidezza o douce paresse o una vena ipocondriaca di autolesionismo o proprio guadagnare vagamente dei soldi, non ho capito; ma di giorno in giorno sembra che «Luiggi» si butti soavemente via per degli «amici che chiedono», e non per sé. Eccesso di buona volontà civile, volontà di credere. Intentions...

 

... Però, i giovin signori molto moderni che incontro qualche volta dai salumieri di Montenapoleone e al Cova, non saranno mai scesi giù qui su un set per un ballo Secondo Impero a Cinecittà o la solita battaglia navale con la solita frittata della troupe sulle scalee delle Cleopatre... Quei parecchi soldi loro li guadagnano facendo degli avanti-e-indietro commerciali vantaggiosi con l’Unione Sovietica, e poi li spendono fino alle ultime mille lire (date, ammiratissimi, come mancia al garzone del salumaio che ha incartato lo storione e l’aspic) battendo le sedi rionali del partito comunista e le balere nei cinema delle roccheforti rossissime in visoni interni sempre spalancati su questi enormi caschimpetto in forma di falce e martello in oro masisiccissimo (che l’hinterland adora)... E senza affatto rimorsi circa San Carlo Borromeo che ci vorrebbe tutti nati tra fango e sangue e sperma per soffrire e patire e dannarci con la mamma e la nonna e la zia, sennò, secondo i fans della sofferenza, non è contento... Via, via, invece, festosamente, alcoolicamente, e anche con nuovi ritrovati della farmacologia, sulle Mercedes cariche di metalmeccanici edonisti inediti per la pubblicistica, ma non per i bar... Dunque con occhi più aperti sul realismo leftist di quegli autori di mezza-sinistra che vanno in Russia nei mesi più exciting della destalinizzazione, e mandano cinquanta corrispondenze tutte sulle betulle, sulle farfalle, sulle icone, e le babe negli alberghi e le barbe dei popi...

 

... Qui si vede quanti (molti) buttano il loro Manierismo, il loro Oriente, la loro Secessione, la loro classicità, i loro Bianchi Bandinelli, in impresine di “arte applicata” che non sono “arti minori”, sono... cosine che contano e valgono poco, e non hanno molto in comune con la cultura; e qualunque praticone sarebbe in grado di farle meglio, forse... «Si sta insieme»... Ma come sarebbe a dire? Così la volontà di sentirsi attivi, di farsi strada coi propri mezzi, impegnarsi in un lavoro perché è giusto eticamente che sia così, con scrupolo di professionista anche nelle cose “minimal”, finisce per mortificare il talento di “Luiggi”, che probabilmente c’è...

E forse non sarà capace di Produrre, ma sarebbe certo portato a Brillare nella riflessione saggistica, proprio come nel mondo di Musil: nel commentario sulle arti, nella curiosità erudita, e i nessi da coglierle intorno (li conosce)... E l’osservazione behavioristica dell’eleganza spettrale, tra affettazione e sprezzatura... E il “frammento” filosofico-estetico che spesso nel gran centone «senza qualità» riesce (come in Proust, del resto) anche più affascinante delle parti d’invenzione, di narrazione: così da farci attraversare non di rado impazienti i passaggi e corridoi della narratività per entrare al più presto nella Camera Critica, sovrana... E non finire invece contro il muro a trompe-l’oeil d’una non-creazione infinita... Ma nel Pensiero Notturno: «Quanti, non solo nella nostra cultura e nel nostro ambiente, vengono rispettati e magari mitizzati in quanto e fintanto non scrivono, e si estende l’alone intorno alla Personalità...».

Voltando la Frittata, anche per non lasciarla bruciare: «Nemmeno Proust l’ha fatta franca, quando il libro appartiene a “uno che tutti conosciamo!”, “l’abbiamo visto tante volte!”, e viene sottostimato proprio per questo»...

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Qualche giro per i ristoranti d’estate lo si fa ancora, fra i rimpianti e i compianti. Raccontano molto di come si divertivano scoprendoli con Raimondo uno ad uno, appena aperti, e forsennati, in quell’estate già famosa delle Olimpiadi, appena ieri. Ma anche qui (hélas?) non sarà mai più lo stesso, già a partire dall’autunno del Sessanta? dalla primavera del Sessantuno? da un inverno dopo?... Tema dei Viaggi Perduti; e Leitmotiv delle rovine che si rovinano... Non si andò coi Crespi in India e Birmania, col finale ad Angkor Vat per l’illuminazione nuova appena inaugurata e i balletti... Non si fece la Persia con Calvino e Citati e Zolla e un’organizzazione di Eni e Rai... Non si ascoltò chi si era precipitato ad Abu Simbel con l’aliscafo da Assuan, lamentandosi poi per l’alzataccia alle tre... E si rimandò ogni volta perché c’era sempre qualcosa di “intriguing” e nuovo a Londra e a New York, e «tanto le rovine stanno là, ci si andrà in vecchiaia»... Perché non si era ancora capito che sono Londra e New York e Parigi a non cambiare mai di stagione in stagione, mentre le rovine si trasformano continuamente: e lo ripetono a me, che non sono ancora stato in America!

Non si ha un’idea di che meraviglia (dicono tutti loro) dev’essere stata quella stagione delle Olimpiadi, da cui scioccamente siamo fuggiti a Olimpia prevedendo Roma invasa dai peggiori turisti in gruppo, e troppo tardi al ritorno ci fu fatta una testa così coi racconti incontrollabili su tutti quegli splendori smaniosi da placare sotto le stelle ogni notte... E oltretutto proprio quell’estate Paolo Stoppa aveva chiesto a Antonio di tradurgli un play, quindi l’Agosto Olimpico avrebbe fornito proventi...

Solo i funerali del Duodecimo attraverso tutta la città parata per l’ultima volta, continuano a sostenere, e la grande esplosione bizantina del cadavere in San Pietro di notte, con brandelli di cellophane svolanti fra le corse degli archiatri pazzi e le guardie svizzere che crollavano tramortite per la gran puzza e lo spavento sotto il baldacchino del Bernini, ripetono in estasi, potrebbero reggere il confronto con la chiusura delle Olimpiadi del ’60, come avvenimento romano, imperiale, porchettaro, corale... Altro che una Coppa del Mondo... E anche questa brava persona del Nord sia pur vergognandosi da morire ammette di aver cominciato a provare affetto per la cara patria – come tutti questi, a cominciare dai peggio – dopo aver scioccamente pianto di commozione allo stadio olimpico, tutti, come midinettes au grand cœur, quando al tramonto si sono incominciati ad accendere i bracieri (Cinecittà? Roma Amor? Fascio?), e sfilavano le squadre delle nazioni con le bandiere davanti, e tutte le bande suonavano i “Fratelli d’Italia” col pubblico che lacrimava sfacciatamente e non trovava ridicolo, e gran baci fra sconosciuti con baffi e tutto.

È un momento che devono aver trovato indimenticabile: già commemorano quei fuochi d’artificio grandiosissimi per tutta la sera, su tutti questi colli romani vecchi e nuovi; e un ricevimento per quindicimila o centocinquantamila quasi tutti ceffi al Pincio bloccato al traffico ma coi vespasiani à la belle étoile pieni di sfrenati sportivi pronti a tutto e con tutto giù, o su. Feste Romane smaccate, al rientro da Olimpia: con pini e fontane e fanfare idrauliche, e cori di venditori di tramezzini, complessi di giardinieri e fontanieri del Comune. (Ma appena un filo d’acqua dagli acquedotti di Respighi ai rubinetti in casa). E una desolazione del più puro Tennessee Williams più tardi, quando verso le due o le tre hanno tolto i blocchi, e con le macchine aperte loro hanno cominciato a far le corse fra i resti della gran magnata romana intorno al Pincio, con mercenari e valletti che portavano via centinaia di metri di tavoli, migliaia di piatti, e gli addobbi trimalcioneschi pendevano bagnati e volgari dalle palme e dai pini, e si travolgevano sotto le ruote festoni colorati e palloncini alla veneziana, posate di cartone e bicchieri da bibite e bandierine italiane e supplì...

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Fra i posti sopravvissuti, uno dei più straordinari dev’essere proprio il villaggio tipo Khovantschina Kitsch dietro il quartiere fantasma dell’Eur illuminato al neon e con solo l’alienazione in giro: un meandro di laida campagna a rifiuti e scarichi improvvisamente gremito di lampadine festose, a ghirlande, col suo ponticello da balletto sul fosso dei liquami, una dacia fra le più tirolesi, e una fila di gazebini di marzapane della strega, con le loro finestrine di zucchero filato per acchiappare gli Hänsel e Gretel burini. Dentro, subito, una Russia pazza e godereccia da ballet russe alle fettuccine, con abbacchio alla Diaghilev: mugiki ciociari e kulaki bagnini che vengono incontro in stivaletti e colbacco anche in luglio, gran baffi tartari finti, pantaloni in panno blu da ulano turistico, gran camicione con passamanerie e manicone da dipendenti dello zio Vania, inchini fino a terra come davanti alla barba del conte Tolstoj. E “old girls” che si chiamano Vania: senza scherzi.

Nella dacia principale, un pianoforte a gran coda bianca tipo Liberace, tende di drappo rosso stampato in oro, stufe di maiolica con su dei versi di Puškin che firmato in cirillico diventa un po’ Pudovkin; e fatine dai capelli turchini, con veli e corpetti ricamati, che invece di piangere sulle sventure della Madre Russia come all’Opera vendono sigarette e fiammiferi e fotografano col flash. Ci sono ancora, le scatole di questi fiammiferoni lunghi, con la fotografia di lui e Raimondo e Desideria che bevono trasecolati, scattata a tavola e sviluppata durante il pranzo; o Raimondo con una signora della scena primaria, appunto una delle Vanie. Uscendo sul dietro, i servizi fantasma della Città Invisibile di Kitež, o Kitsch: ci sono o non ci sono, dove sono i cessi?... Ma l’orchestra è di balalaike! E i blinis al caviale ardeatino con la vodka dei Castelli, oppure anche il solito prosciutto e melone, mentre annunciano in francese da stazione un numero degli anni almeno Venti: la danza sulle ginocchia degli uffizialetti zaristi di Nettuno in polacchetti di vernice, intorno alla reginetta degli oceani seduta in una conchiglia da bagno tessendo un paltoncino d’alghe per Sadko, un pescatore di Fiumicino che guadagna soprattutto portando fuori di notte sul barcone un direttore della Rai innamorato delle reti e dei cefali, e dei calzettoni del pescatore la mattina dopo.

Appena attraversando le piste di polvere, una sala d’aspetto di stazione fascista chic del ’39, certamente dovuta alle firme più fini del movimento moderno, però interamente di plastica, con un pubblico di commercianti d’automobili per lo più usate che portano fuori la nuova bambinaccia piccola e nera, con la cotonatura gonfia e la gonna cortissima sopra la coscia muscolosa e larga. Spettacoli di varietà incredibili, per eclettismo e repêchage: una sera un balletto da Lido de Paris, la sera dopo le canzonette della guerra. I caccia-bombardieri e i sommergibili, rapidi e invisibili o invincibili, mah. Al microfono, Alberto Rabagliati, live. E non è ancora passato il corruccio, si dice, a un gentiluomo abbastanza amico di Desideria e suo, e piuttosto serioso nel mondo dei petroli, quando senza preavviso l’hanno trascinato lì a sentir due ore di swing fascista del ’41, ridendo come frenetici per lo spensierato revival mentre lui non partecipava affatto, sosteneva che erano solo ricordi bruttissimi, da vergognarsi addirittura.

Qualche chilometro più in là, una nuvola altissima di polverone si solleva gonfia di miasmi nel cielo, in aperta campagna, illuminata dai reverberi come una segnaletica: perché nessuna strada è asfaltata e un enorme spiedo da film gira su un immenso rogo da opera, in un locale all’aperto dove tutto è smisurato: le piste, i tendoni, i lanternoni, gli atri scozzesi tappezzati di tessuti a quadrettoni tartanici e di pelli di capre e caproni, in bianco e nero, sotto la gigantesca scritta “Brigadoon”, di tutti i colori. Anche i boys hanno uniformi scozzesi, e il pubblico porta molto la scarpa bianca, lo scialle a frange, la clip di celluloide. Qui, venendoci proprio con Antonio e Desideria, Raimondo ancora a Atene raccontava di aver visto il numero di «Zotica Zora», una egizia a zazzera nera, con tante paillettes giallo-zafferano e un bastone di malacca lucidato a coppale, usato con la massima sconvenienza dalle due parti, del bastone e sue.

 

In cima a una stradina del più fondo Trastevere, l’estate scorsa, Antonio dice d’aver dato una volta «un piccolissimo prenzo» per Desideria in un locale finto-Quattrocento anche parzialmente di plastica, con tavoli che son tavolacci, seggiole che sono scranni, i camerieri in collanone col medaglione, e Laura Adani incantata per certi dettagli da Cena delle Beffe... o delle Buffe?... delle Baffe?... Il trionfo del ferraccio battuto, del nappo in vetraccio verde, della volta a travi con stemmi anche un po’ calcistici, del candelotto con la sua cera di cartapesta, del menu a palinsesto miniato, con piatti rinascimentali e papali. Trovatori e menestrelli fra i pancacci in calzabraga, con la loro berretta, liuto e mandola e canzone ribalda. Al levar dei nappi, ci si deve avvicinare a un finto pezzo di scavo, la statuetta del Bacchino con sorriso da Sangiovannino, e con un ghigno da guida complice di Pompei uno degli alabardieri con l’elmo solleva la foglia d’acanto, e fa sgorgare il suo vino mielato dal cazzetto.

«Se mai gradisci il Miracolo Tedesco,» fa Antonio «si scende fra le buche e gli scivoli sull’argine del falso lago alle Tre Fontane, ti lasci guidare non dalle luci disordinate e mendaci ma dagli urli assatanati da Biergarten di Monaco, e arrivi in un finto Tivoli di Copenhagen, con perfino lo stand di danzatrici hawayane in gonnellino di rafia; e si sa che per essere autentiche, devono essere nane e grasse. Ti trovi al cospetto di un leone Wittelsbach di cartapesta alto una decina di metri, seduto col suo boccale in mano che va su e giù (e muove anche la coda), ed ecco un hangar pieno di festoni e vessilli bianchi e celesti, dunque un Oktoberfest in giugno, in luglio... Duemilacinquecento sgabelli; bandiere di castelli, vescovati, approdi sul Danubio; fronde d’abete in plastica lavabile; cinquanta chellerine con berretto alpino e piumaccini a pennello da barba; un’orchestra di quaranta grassi tutti calvi e non sexy, coi calzettoni bianchi e i Lederhosen corti, la camicia aperta e il gilet ricamato, il coltello al polpaccio e la bretella trapunta, intorno a una casina di pezza coi cuori alle persiane e l’orologio a cucù, e canzoni del più puro Spundloch, Bingerloch...».

«Ci tornate, qualche volta?».

«Non bisogna mai tornare nei posti: sai che è proprio vero? Tranne che in Olanda... L’incomparabile Amsterdam dove si può comprare liberamente tutto, tranne la libertà che è gratis... Qui si veniva con Raimondo, ci si è stati benissimo. Adesso basta».

Così si finisce per andar sempre nei “soliti classici”, scelti poi fra non più di quattro, cinque, sei, sempre gli stessi, e chiamati anche i Classici Moderni. E tutti gli stranieri, quando tornano a Roma: possibile che non ce ne siano altri? Neanche un ristorante chic? E forse pensano che glieli tengono nascosti.

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Ma la scelta non è mai facile, anche fra i Classici, per le esitazioni di Desideria non appena ha preso una decisione, le sue titubanze dell’ultimo istante sulle sue stesse scelte: per “minimalizzare”, le chiamiamo d’accordo le Capricciosità di Sua Grazia. E le calcoliamo nel programma.

Normalmente («né progresso, né avventure!») si combina per uno dei pochi ristoranti “buoni per ogni stagione”, dopo consultazioni piene di perplessità. Come se si trattasse di luoghi inauditi. Lei richiama poco dopo, o fa telefonare da qualcuno, chiedendo se non fa lo stesso andare da un’altra parte, piuttosto: con molte scusanti per l’irresolutezza, desolata, e trovando molte ragioni decisive per la variante. Ma quando ci si vede, poco dopo, si affretta a dire che forse anzi certamente il primo posto andava benissimo, le è sempre piaciuto moltissimo, è sicura che fosse la scelta migliore, e dunque andiamoci, andiamoci pure subito, anche se è la quarta volta in pochi giorni: con gli occhi meravigliosi che si smarriscono guardando intorno (cercando chi? evitando cosa?), ma tornano a sorridere appena si sente osservata in faccia, o si incupiscono se qualcuno la saluta di passaggio («chi può essere, quel ceffo?»); e si allargano, enormi, si sgranano sotto i capelli chiarissimi scossi dal fremito del collo per buttarli di qua, ributtarli di là. Ma come ricadono perfetti, scomposti, a posto.

Naturalmente ora Antonio o Giulio o Jean-Claude s’affrettano a ripetere che anzi l’altro posto è preferibile, ha fatto proprio bene a proporlo, andiamoci senz’altro, tanto lì si finisce sempre anche senza di lei, una sera sì e una no, however, anyway. Ma no, veramente, forse loro non ci vengono volentieri un’altra volta... obietta lei. Ah... sorridendo... Forse la mancanza solita di fantasia serale? E perché no, dopo tutto?... Andiamo nel primo! No, nel secondo. Scegliamo piuttosto un altro: benissimo l’altro... Ma perché no, ancora?... Non ce n’è uno che vada bene, mai, fra quelli che «vanno benissimo!». Come per il teatro: «Adorerei!». E il giorno dopo: «Spero che non abbiate già preso i biglietti!».

Normalmente questo succede ogni sera. Succede anche coi film, con tutto. Avrà pomeriggi animati, con imprevisti o catalessi verso le sette? Ma una volta stabilito che con lei succede, non vedo perché dovrebbe essere un inconveniente: se si vuol veramente vedere un certo film, basta andarci in qualunque altro momento; e quando lei telefona per combinare con Antonio di vederlo insieme ad altri da avvertire, rispondere «certo! benissimo!», accettando qualunque ora e luogo scelti da lei. Si è per lo più sicuri che all’ultimo istante cambierà idea, sopravverranno delle impossibilità oscure che ci lasceranno abbastanza disponibili, oppure si raggiungerà il ristorante alle undici, si finirà di pranzare molto dopo l’ultimo spettacolo, o ancora lei sarà stanca e vorrà andare a dormir presto, dunque si arriverà soltanto a un’edicola di Via Veneto per prendere le riviste straniere e tornare a casa con quelle. E del resto, chiunque si inviti a pranzo ovunque, nove su dieci richiameranno alle otto per farsi riconfermare l’ora, benché sia sempre alle nove.

Ma Jean-Claude sembra che non riesca a capirlo. Dopo lo speech che ci ha tenuto all’arrivo, praticamente non parla più con nessuno, come se non avesse più niente da dire, e del resto non conosce quasi mai le persone che sente nominare a tavola, in questi gruppi che si formano diversi ogni sera pieni d’amici stranieri di passaggio da qualcuno in piccolo Grand Tour; e spesso ci si conosce poco anche fra noi. Ambra? Viola? Quale Gioia? Margaret who? Ancora Princess Margaret? Quante Ninni credete che ci siano? Questa non poteva essere in compagnia con Totò quando c’era Gilda Marino! L’Argomento Principe è ammalato! Guido ci raggiunge dopo il concerto dei carabinieri! Quella non è mai stata una Sursock!

 

Il «ma chi può essere?» si diffonde rapidamente, come un’influenza di stagione, e come il «sarà arrivato un pullman?» quando in un locale entrano parecchi tutti insieme con grosse catene d’oro al collo, e aria fiera. Si viene convocati, una sera per un rapido drink, in fondo a una fila di saloni bui, in un palazzo con parecchi cortili mai restaurati. C’è un cugino che lei non vedeva da tanto tempo, e forse per non dover star lì sola con lui ci ha dato quest’appuntamento: poi si andrà in Piazza Navona. Ma lui è incanutito; e «non lo riconosco». C’è una ragazza. Forse una figlia. «Sei una figlia?». «Sì». «E le altre?». «E chi lo sa?». «Quante siete?». «Non si sa bene». «Abitano nel palazzo?». «Non si è capito». «Sono a Roma?». «Non si vedono». E lui, a Desideria: «Stento a riconoscerti, sei proprio tu?». C’è un gran dipinto pastorale, in una galleria, molto importante. Albani? Grechetto? «Viene dalla campagna». «Dalla Campania?». «Forse». «Ma di chi è?». «Abbiamo le carte di sopra». «Non c’è illuminazione, in biblioteca». «Eh, ma come si fa». Una vetrina è piena di custodie rotonde incise. «Dentro, è tutta cera!». Sono le bolle del Papa di famiglia.

«Le bolle, le facevano in bagno!» grida Meneghella sopraggiunta. «Anche il vostro!». (Altro Papa). Ma poco dopo, a tavola, lei stessa: «Chi è quella lì davanti?». «Il pranzo è per lei». «Con i capelli così corti? Non la riconosco». «Sono sempre stati i suoi». «Sono i miei, tutti!». «Come ci ha fatti ridere, Immacolata!». E attraverso la tavola, Meneghella: «Con tutto quello che vien fuori alla duchessa, e lei non si rimette dentro!». Una camicetta si era molto aperta... E l’altra: «Non si può sempre stare accollate fino alla pappagorgia come voi!»... «Claribel! Claribel!» chiama Fulk emergendo da una tavola vicina. «Da Nico el Greco se vuoi ci vai tu, io non ci torno più!» ribatte come trillando complice un’improvvisa Pignatelli americana, che si è seduta con noi, pettinata come un’upupa di Montale. E lui: «Tutto quel meraviglioso Corneille che abbiamo imparato benissimo dalle suore! Completamente inutile! Dacché sto un po’ in Francia, la televisione parla solo di bagarre e bagnole, e una volta appena aperta m’ha detto: tais-toi salope!».

 

E la Regina d’Etruria? Scoppia il caso della Regina d’Etruria, perché non è una napoleonide malgrado il titolo così neoclassico, e benché si chiami Marie-Louise e sia duchessa di Parma. Però da non confondere con la Maria Luigia vedova Napoleone di cui sono ancora innamorati tutti i parmigiani... E non si trova neanche in Proust!

C’è una coppia francese molto erudita e araldica in giro di palazzo in palazzo e di villa in villa per le dimore storiche (lei è famosa perché a un’inaugurazione di restauri ripeté più volte a De Gaulle quant’era felice, «mon Général, mon Général!», che lui somigliasse tanto a suo nonno; e il Général: «taisez-vous, madame»); e arrivano quasi offesi al restaurant perché in visita privata al Quirinale hanno visto un ritratto di Maria Luisa di Parma per niente somigliante alla Maria Luisa che si conosce benissimo. Ma questa, chi la conosce? Ci sarà stato un errore?

Ci sono un diplomatico-storico, uno storico dei marmi, una discendente di ciambellani del Re di Napoli, e mettono insieme i primi brandelli: era figlia di Carlo IV di Spagna e di un’altra Maria Luisa di Borbone-Parma, la coppia tanto ritratta da Goya... «Quei gallinacci a cavallo!»... E lei sposa il cugino Ludovico I di Parma che però muore presto mentre Napoleone li sposta da Parma annessa alla Francia nella Toscana tolta agli Asburgo-Lorena... Ma il Regno d’Etruria dura pochissimo, perché sopravviene la Baciocchi, «Marlia!», e Maria Luisa viene trasferita a Lucca come un’insegnante in balìa del provveditore. E anche dal Congresso di Vienna non otterrà niente benché corra là molto battagliera: in Toscana rientrano i Lorena, a Parma si installa Maria Luigia fin quasi al ’48...

«Maria Luisa ex-regina d’Etruria muore a Roma, a palazzo Grazioli» borbotta Giulio rapidamente; e ricorda a tutti che il suo ritrattista è stato Fabre. «Ma Fabre è conosciuto in Italia?» si informa Jean-Claude. «In Francia mi pare ignoto...». «Ma... e il Musée Fabre a Montpellier?»... «Contiene dei Bazille, mi pare»... Allora tutti: «Ma ci sono i suoi ritratti d’Alfieri, con la Contessa d’Albany, in qualunque libro di scuola!»...

«C’è ancora un’altra Maria Luisa duchessa di Parma!» esclama da un tavolo vicino un monsignore che non ha perso una parola, con una gran croce pettorale di gemme bizantine Art Déco. «La sorella del conte di Chambord!». Subito un paio di dame s’alzano e corrono a inchinarsi, per il bacio alle ametiste. E rialzandosi: «Dunque, figlia dei duchi di Berry!». Si rientra o ricade forse in Proust? «Ciel!». «La duchesse de Berry era napoletana, figlia di Francesco I, e diventa poi nuora di Carlo X, re di Francia» spiega una gentildonna in verde e perle dall’accento napoletano. E aggiunge: «Per favore, non parliamo della duchesse de Berry. Sono stanca dei discendenti della duchesse de Berry».

«Ho visto una psiche della duchesse de Berry!» irrompe di nuovo il monsignore: è francese. «Dal dottor Freud?» gli chiedono. «No, al Musée des Arts décoratifs» ribatte un po’ offeso lui. «La può vedere chiunque, insieme alla toilette e alla couchette in diversi legni preziosi e bronzi dorati che erano alle Tuileries, appartiene tutto al Mobilier national».

A casa poi si fanno i conti, fra Treccani e Gotha e Proust. Quest’ultima Maria Luisa di Parma era la vedova di Carlo III figlio d’una Savoia e assassinato da un sellaio e biografato (pare) da Vittorini nel Trenta. Cacciata dai Savoia nel ’59, si stabilisce nel cantone di San Gallo col piccolo Roberto che diverrà padre dell’imperatrice Zita e suocero dell’ultima Maria di Savoia. Ma Proust adatta e modifica i dati storici e genealogici? «Si leccava le babine al nome di Parma perché fa mauve: bisognava fargli pronunciare Steccata e Pilotta!». «A Parma, ci mancherà sempre uno Stendhal moderno come Antonio Delfini!».

Apriamo comunque l’indice della Pléiade: la principessa di Parma dà le più belle feste di Parigi, grandi soirées d’ombre cinesi, va ogni settimana in abbonamento all’Opéra dove «il y a pièces, opéra, tout», è sempre in dubbio se sia più realista Zola o Victor Hugo... «Già, però Proust non dice la cosa più importante: chi è il marito di questa che dà le feste, e di dove vengono i soldi? da Parma? Zola se lo sarebbe chiesto subito». Guardiamo un Gotha. «Ai tempi di queste feste, i nonni del duca Roberto hanno quasi cent’anni, i suoi figli sono piccoli, l’unico fratello sposa Adelgonda del Portogallo, le due sorelle sono sistemate con un Infante di Spagna e con lo spodestato di Toscana... Sembra Donizetti, non Proust!».

«Fermi tutti. Qui, nella stessa pagina della principessa di Parma all’Opéra, la cuoca Françoise fa amicizia col valet de chambre del principe di Agrigento. Chi è?».

«Nel Gotha, c’è un conte di Girgenti, Gaetano, quarto figlio della Reine de Naples e di Franceschiello, ma è già morto fin dal 1871, lasciando come vedova un’Infanta di Spagna principessa delle Asturie, senza discendenza. In Proust, il principe d’Agrigento detto Gri-Gri eredita il titolo dalla Casa d’Aragona, però “leur seigneurie est poitevine”. Ma secondo la Treccani, Girgenti diventa Agrigento solo nel 1927. Secondo la Britannica, nel ’28...».

«A Girgenti c’è il “Caos”, direbbe Pirandello».

«A Proust forse sfugge anche uno spunto buonissimo per soggetto di cinema. Quando alla duchesse de Berry nasce il futuro conte di Chambord molti mesi dopo l’assassinio del marito, viene salutato come figlio del miracolo! Ma quando le nasce anche una figlia dopo mesi e mesi in carcere, dov’era imprigionata da Luigi Filippo per aver scatenato la rivolta legittimista in Vandea, allora non è più del miracolo e lei deve sposare un conte Lucchesi-Palli...».

«Ma quanti discendenti aveva, la duchessa di Berry?».

La Regina di Grecia pranza invece dal Bolognese con Muriel Spark e un piccolo gruppo intellettuale e Lanfranco Rasponi, grande intenditore di cantanti. Studiosa e volonterosa, spiega intensamente che le sue attuali ricerche di pensiero la spingono a interpretare la religione induista in termini di teoria quantistica, e viceversa, ripetendo spesso «don’t quote me, don’t quote me», finché Antonio la prega di non temere, essi “quotano” tutt’al più Ford Madox Ford e Djuna Barnes, «Ma’am». Intanto s’avvicinano da un altro tavolo alcune duchesse romane a far la reverenza, e durante un profondo plongeon in poco spazio una culata colpisce il carrello dei bolliti che incomincia a correre con le mostarde e tutto, mentre la Regina discorre con l’ambasciatore d’Israele e con Muriel del jogging all’Olgiata...

«E l’Infanta?». «Quello è un pranzo di Natale, ma non finirà in nessuna Pléiade. L’Infanta si stufava un po’ a tavola perché raccontavamo una quantità di sciocchezze; così, prima ha parlato un po’ dei lavori nel palazzo, con gli elettricisti e gli idraulici; poi ha ricordato un pochino la regina Vittoria e la regina Eugenia; e quando si avvicinava la mezzanotte, e dunque Santo Stefano, accortasi che al tavolo c’era uno Stefano, mio amico di Milano simpatico, ha incominciato a dire “Evviva Stefano”, forse anche per farci smettere. E lui molto contento: sono cose che a Milano quando mai càpitano?».

«A Napoli, per mandar via quelli che si trattengono troppo dopo i pranzi, si è sempre detto: “Nun tenite casa?”. A Milano, cominciano a guardar l’orologio alle undici».

... Ma come farà Jean-Claude a tener dietro insieme (si è sempre tutti negli stessi posti) ai vari trapassi storici di certe sculture vantate di casato in casato come greche fino in fondo al Yorkshire finché un’analisi molto moderna appura sotto la patina che sono in marmo di Carrara e non Pentelico... e i restauri dei cuoi cordovani e dei fiori di Mario dei Fiori di proprietà Chigi all’Ariccia proprio sopra il (sempre evocato!) Bosco Sacro di Nemi e del Ramo d’oro, forse ancora col suo sacerdote assassino costretto a non dormire finché il prossimo assassino l’ammazzerà, lì nella selva fittissima rimasta intatta dall’antichità più arcaica, sotto il viadotto e le porchette...

... mentre a proposito di detti napoletani, ecco una disputa sull’origine e il significato di “fare ammuìna” nella marina borbonica... E à propos d’una cravatta arancione molto larga e lucida del «nostro Valentino» («il contrario delle cravatte strette e dei revers strettissimi di Carlo», «Carlo quale?», «Caracciolo»): «Quel taffettà per le gonne delle Musette d’una volta all’Opera»... «Ma non era faille?»...

... e mentre due vecchi cadetti di famiglie principesche molto antiche e molto nere vanno scherzando con flemma e in “romanino” sui riti di passaggio ancora in uso pochi anni fa: «A sedici anni tutta la parte maschile della famiglia m’ha portato in un casino molto perbene e molto riservato, per preti, per vedere se ce la facevo o no... A me le donne sono sempre piaciute moltissimo! moltissimo! Ma con gli zii, i fratelli insieme, tutti i cugini dietro, io lo sapevo lo sapevo lo sapevo che mi si sarebbe ammosciato!... Lei era una bonona, niente da dire; ma alzando gli occhi dal letto dove stavamo, c’era sopra un lucernario, e lì te li vedo sopra tutti! tutti! a guardare!... zio Ferdinando, zio Clemente, zio Giovannino, zio Nicky! e soprattutto il cappellano di casa, che mi faceva tutti gli incoraggiamenti!... Si saranno poi detti: questo è froscio!... Ma è l’unica volta in vita mia che non ce l’ho fatta con una donna!»...

«Ma voi lo sapete che in casa me volevano fà cardinale a tutti i costi!... Già il nome che m’hanno dato, che c’è nelle targhe delle strade e nei libri di storia!... E poi, fin da bambino, me mettevano le vestine da cardinale, e tutti intorno, papà poveraccio e mammà e nonna e tutti i parenti, tutti i giorni, a ripetere: ma guarda che bel cardinalone, già bello grosso, ma che bel cardinalotto... E io, duro: manco p’o cazzo!». (Avrà sentito, la Regina? Lancia sguardi sospettosi).

Ma attenzione! Si viene avvicinando al tavolo uno di quegli esuberanti ginecologi delle dive che si sposano due o tre volte e vengono denunciati da tutte le mogli straniere perché le picchiano, picchiano anche i vigili agli incroci, insegnano ai figli a picchiare i compagni di scuola, battono le saune e lì scopano tutti i poveri parrucchieri che chiederebbero solo un pochino di signorilità e di riguardi, poi si lamentano che c’è in giro poca fantasia. Adesso arriva qui con un mazzo di rose a salutar tutto il ristorante e facendo alzar la gente da tavolo a tavolo, gridando «non v’alzate!», lasciando la Gilera sul marciapiede col motore al massimo per l’alterco col vigile, e fra qualche ora se si va al Colle Oppio lo si trova addosso al travesti Marymount che strilla per niente «i ninfei non sono più quelli d’una volta!».

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Jean-Claude le sta dietro senza abbandonarla un momento, le sta addosso senza parlare, con attenzioni che possono solo infastidirla: not funny!... Stuferebbe chiunque, anche meno impaziente di lei: sempre così addosso, con questo caldo, zitto (ha già detto tutto? dato fondo al repertorio?... mentre gli “amuseurs” parlano e parlano, e stufano, stufano anche loro parecchio...), come un gattino amoroso in attesa del momento dei giochi; gli occhi semichiusi ma che brillano, come se fossero di porcellana, con le lampadine dietro; seguendo ogni mossa di lei, gli scatti sbigottiti della testa, il collo che si tende senza collane come in un ritratto di Avedon, lo sguardo irrequieto sul naso araldico, gli zigomi altissimi che orgogliosamente proclamano «siamo le famose e rare pommettes saillantes che anche senza interventi di chirurghi plastici garantiscono un profilo storico anche sotto i capelli candidi, perché il collo di cigno passa e va ma le pommettes alte restano!»... La mano che cerca un po’ affannata la borsetta, le dita che l’aprono come a caso per cercare un portacipria o briquet che mai si trovano...

Di ogni rara parola che sembra sfuggirgli, controlla di sbieco l’effetto che può fare su di lei: ansioso, preoccupato, con scrupoli anche fuori posto perché possono risolversi negli imperdonabili complimenti. Non tenta più bons mots di Parigi (che poi richiedono magari una spiegazione), forse ha capito d’essere precipitato in uno di quei “giri” dove si ride soprattutto su divertimenti privati che non derivano da battute della televisione locale o dei film classici, né dipendono dai libri bestseller... Ma non ha ancora trovato i fili, e non capisce che spesso si tratta di pronunciare buffamente un poncif di stagione, esagerare l’ostentazione di un birignao, virgolettare (come citando «Giovanna, ho i miei rimorsi» di Gilda o «Voi siete demente!» di Lady Macbeth)... dei... “motti”... rigorosamente “firmati”...

... «Erano tonnetti, e sono già balene!» di Ercolino e Sandro, rivedendo certe loro ex-ragazze di Capri... «Fingono di non vedermi perché non osano sostenere il mio sguardo!» della “vicina di casa” di Franca Valeri... «Stasera non conta!» della principessa Pallavicini, a un ospite che ha chiacchierato meno del solito... «Cuscini indiani come?» di re Umberto, quando vanno a raccontargli a Lisbona i nuovi arredamenti che gli piacerebbe vedere a Roma... «Non stringo mani che grondano cinesiiini!» di un’altera dama veneziana circa filibustieri e dittatrici sui Mari del Sud-Est...

Aggiungendo, magari, improvvisamente: «La Scala? Il più bel momento è quando si spengono le luci!... Sull’Arno? d’argento? Si specchia il firmamento!... Porta Portese? Ormai non ci si trova più niente!... Venezia? Un merletto! Piazza San Marco? Un salotto!». E tutti: «Ma dov’è più quel bel salotto d’una volta?». E immediatamente, in coro: «... dove ci si conosceva tutti!».

Non si diverte molto al «si può vivere al cinque per cento se si è Gulbenkian, non Montale!», e nemmeno al “numero” del blazer: «Avete un blazer? E quando mai ci si mette un blazer? E perché mai avete un blazer? Non esiste un’ora della giornata adatta a un blazer! Forse solo per una premiazione di canottieri?»... Ma chissà se sarebbe importuno, per tirarlo un po’ su, chiedergli come i più antichi «ma tu sei il mio martini, o la sua oliva?»... Sta già cuocendo o covando la famosa accidia del turista a Roma?... tutto solo nei momenti di insicurezza, o di confidenza un po’ troppo spontanea, egualmente fuori tono, out of touch. Gli verrà la claustrofobia?

Chi gli dovrà spiegare, tutte le volte, che «ooodio papà, ha amazato mamà» (cosa risaputa vera, del resto) sta sedendo in questo momento a questo stesso tavolo?... Che «hanno fatto entrare i turisti!» si riferisce all’arrivo d’alcune grandes familles sue connazionali molto econome negli impermeabili a un fastoso matrimonio romano ove si parlò soprattutto di quanti domestici si affittano per tenere aperti i palazzi?... E la “signorilità anglosassone” si dice a Roma solo a proposito di maîtres d’hôtel?.. E il classico «ils sont partis, mais ils vont revenir» del barista dell’Aia, seguito da «quelle chance pour moi!», non va confuso col più recente «you do this to me?» d’una vedova di Stato americana a un gentiluomo d’antico stampo convinto in buona fede d’essere stato invitato a un ritiro in villa per confortarla anche nel cuor della notte?... E l’Autore di Sotto il Gasometro non esiste? E l’“Autoritratto del Parmigiano” è uno scherzo cheap?

È chiaro che non riesce a sopportare, e gli fa rasentar l’uscita di senno, questo non saper mai in quanti si sarà, e con chi, quando si esce con lei; e a che ora ci si muove; e dove si andrà a finire, a spezzare i grissini in attesa. «Allora bisognerà che ci diamo un segnale, e ogni terza o quarta volta che lui dice “c’est pas grave”, tutti senza una parola in piedi sopra le sedie con giù i calzoni, e subito tornando a sederci come niente continuando i discorsi?». Comunque il gruppo è spesso numeroso, e cambia continuamente, perché lei chiaramente detesta le seratine a due o a tre. Forse le trova seccanti: come in quelle case del «saremo in pochissimi! così si potrà chiacchierare!». O inutilmente pseudo-intime e pseudo-furtive; e comunque va benissimo.

Neanche a otto, quattro e quattro, però; il calcolo delle coppie e dei numeri pari evidentemente viene lasciato perdere. E sotto sotto lei lo fa capire, che qui non sta a far la conta delle persone. Piuttosto spesso ci si trova in un gruppo abbastanza mal combinato, con metà della gente che non ha tutto questo interesse per l’altra metà, e anche pochi argomenti in comune. E non sospettando magari un’innocenza remota da qualsiasi calcolo, si sorprendono a guardarsi interrogativi come in un tour d’Amici dei Giardini sistemati coi fanatici delle cacce o dei concorsi ippici, e la stessa domanda negli occhi: «Chi siamo? Cosa vogliamo? Cosa ci unisce? Come mai si fu fatti venire insieme?».

«Oh, m’avevano telefonato nel pomeriggio appena arrivati, questi inglesi, non potevo proprio farne a meno, non li vedevo da un pezzo...» sorride lei, con i bolognesi che avevano avvertito da tre settimane, un’amica rientrata da Gstaad tutta perfettina, un’americana dalla Grecia tutta in disordine col suo maestro di ballo, due Frescobaldi, un architetto francese overdressed, e Gore Vidal. Ma posso capire abbastanza le sospensioni, lo smarrimento, l’attesa, le rabbie, gli ostacoli, di questo rêveur che veramente dev’essersi innamorato sul serio, anche magari scioccamente credendosi un bel balzacchino con tutte le sue cosine anche disinvolte sempre molto a posto: le désir, les interdits... E in realtà ha incominciato a innamorarsi di lei nel modo proustiano sbagliato, partendo proprio dal Nom, cioè dal sound...

 

E più tardi rimestando la menta col ghiaccio pilé: «Vedo e rivedo un ascensore che non riesce mai ad arrestarsi ai piani...».

Premiamo sul pedale? «Ma non ti viene mai la fantasia ad occhi aperti di sentirti miniaturizzare e diventare piccolissimo, una bambolina microscopica, fra gamboni di giganti? A Basilea, l’anno scorso, l’avevano tutti!».

«Ah, noi, a Lausanne...». E si intravvedono continuamente conti, banche, dentisti, fra gli altri che si intromettono a tavola appena sentono parlare di Svizzera.

Ma più tardi ancora: «Le porte d’ingresso stavolta sono due, simmetriche; ma entrando dall’una o dall’altra bisogna comunque appiattirsi...».

«O appiattarsi?».

«Lo stesso, lungo un passaggio strettissimo, per poter raggiungere il primo piano. Dove non c’è niente».

«E la vista?».

«Dà su una casa di fronte, scura e un po’ crollante come se fosse di fango secco, araba. Però con un paio di loggiati, abbastanza in alto, dove passeggiano illuminate benissimo due signorine forse molto anziane...».

«Signorine? Sei sicuro?».

«Si capisce subito che sono signorine, sono inglesi! Ma di aspetto molto giovanile! Sempre pettinate elegantemente, e con vestiti di color pastello, chiarissimi, che emanano luce opaca nel crepuscolo».

«E i dintorni?».

«Brutti, credo. Nella strada a sinistra non sono ancora riuscito a veder niente, cercherò di guardare, una delle prossime volte. Ma nel cortile di fianco, a destra, cose sgradevoli. Purtroppo. Pare che il portiere sia complice di furti di ruote di vespe e lambrette. Comunque è una strada molto disordinata».

 

... La realtà sonnambula come trasparenza onirica? «Naturalmente con colonne sonore da incubo di Miklós Rózsa?»... «Certe vecchie camicie che sicuramente non mi vanno più bene?... Lasciate per anni in armadi aperti sulla strada, ove ogni passante avrebbe potuto prendersele... E invece sono rimaste ancora lì, verdi, blu, a righe, cariche di polvere come ricordi logori nei cassetti, e forse li sono»...

Angolini poco illuminati con ombre lunghe e nere? Magazzini sconfinati e sconquassati verso il fiume? Cinema sconsacrati con improvvisi rigurgiti di folla anonima che si spoglia e si picchia? Insidie in un vicolo a imbuto fra case da Lyonel Feininger o Dr. Caligari, bloccato da una gang che forma un mostro e sembra un drago? O le minacce controluce della gigantessa dall’ombra lunghissima, la massaggiatrice assassina nel Robert Siodmak più noir?...

«E però nei sogni ricorrenti qualcosa non torna: per esempio, un prete molto piccolo e molto magro, in clergyman, con la stessa testa di Stroheim, tutta incongrua... E attraversa i vari sogni in fretta senza dire né far niente... senza guardare nessuno...».

Anche Antonio ha un incubo nuovo. «Mi mancano pochissimi esami per dare una seconda laurea, che però non mi serve. Ma quali esami? E quale laurea? L’incubo non lo dice».

«Ma nel sogno riuscite anche a leggere?».

«Solo qualche titolo. C’è confusione, sulle pagine».

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Di serate! di serate sinistre ne abbiamo più d’una. Ne abbiamo diverse. Fa caldissimo; Raimondo può morire in ciascuna di queste notti; e lo abbiamo già pianto e rimpianto, in queste settimane, come di più non sarebbe stato possibile. Come se fosse già andato per sempre. E Desideria, questa meraviglia come forse non ne conosceremo mai più, sta male, soffre, deperisce sotto i nostri occhi giorno per giorno, la pelle si inaridisce come esposta al vento senza creme, gli zigomi alti fra poco la bucheranno, e «nessuno può fare niente per nessuno» (che non è la stessa cosa di “Nothing is for Nothing” in chissà quale musical brechtiano. Era americano o inglese? Controllare Expresso Bongo).

Ma dopo aver detto tutti «per carità!», giustamente, alla sola ipotesi di un dîner-spectacle per l’inaugurazione di un altro “Trimalchio’s”, ancora una volta abbiamo di qua nel giardinetto del Passetto un tavolo d’argentini eleganti, ricoperti d’ori e di gemme in lini bianchi e grandi sigari e voci cavernose o languide, molto calme; e questi imprimés coloratissimi ed elegantissimi da corse a Longchamp... «Per quanto verranno ancora i miliardari dal Sudamerica?»... E di là, otto signori americani molto anziani e molto formali, e a capotavola una ragazza americana piuttosto giovane. «Anni fa sarebbe stato un musical». Quattro di qua, e quattro di là, con aria di banchieri... «Che siano i trustees di un’immensa fondazione intestata a lei?». E vengono a fare il rendiconto annuale proprio qui? «Certamente. Ogni anno in una città diversa. Però mai negli Stati Uniti».

Ma bisogna alzare la voce, tipo alterco: per il figlio sordo del famoso generale sordo che a Caporetto quando gli è scoppiata una bomba davanti alla tenda uccidendogli tutti gli ufficiali ha detto «avanti» credendo che avessero bussato. «È uno che sa tutte le genealogie...». «Quindi, culo». «Per niente! Fa benissimo i posti a tavola, ma ha sposato un’ereditiera che si dedica al recupero delle bottiglie vuote e della carta straccia nel mondo; e molto bene. Ragazza avvenente da tempo, lui però ama solo le signore molto più âgées, e lei ha soltanto dai cinquanta ai sessanta...». «Per lussuria, o interesse?». «Interessi soprattutto culturali! La vivacissima alla sua destra ha novantun anni, non si perde un concerto né un festival, è sua ospite da quindici giorni, e titolata solo per un matrimonio, il secondo su quattro... E grandissimo signore! Quando vede posarsi un bicchiere bagnato sui suoi tanti tavoli del Settecento di inestimabile valore sul Garda, non corre certo col centrino di plastica sotto come fanno certi vostri amici fini anche col travertino lucidato al mare... Fa solo un grande urlo senza alzarsi, e le persone beneducate capiscono!».

Forse però il più chic è un giapponese imbustato e ingessato, a un tavolino d’angolo; e anche imboccato, con le bacchette, perché non ha l’uso delle braccia, da una sua accompagnatrice di gran delicatezza. E con altrettanta grazia, lui come un cagnolino si protende con la bocca aperta, inghiotte e mastica, anche conversando amabile, compostissimo.

Ma Jean-Claude, se ormai non apparisse quasi un vecchietto, qui risulta veramente un topino. Non sciocco, malgrado gli attacchi di disinvoltura francese improvvisa (ma qui «se ne fottono», e del resto lo dicono). Niente affatto étourdi, nonostante questa forchetta sempre a mezz’aria o mezz’asta con la bocca aperta e gli occhioni che sbattono mentre gli altri chiacchierano. E così finisce il suo piatto mezz’ora dopo. Ma con questo “dono” così “inesprimibile” di fare e dir sempre la cosa meno adatta nei momenti non giusti: soprattutto momenti delle donne, direi. Non capisce niente? E poi dicono delle checche. Ma lo vedo nei locali, nei gruppi: uno di quelli che incominciano “sur le tard” i lunghi discorsi anche simpatici e intelligenti quando invece la signora vorrebbe una zampa addosso, è la sua ora. E magari l’allungano nel momento sbagliato, quando dessa vorrebbe invece sfogarsi con una checca amica, che la tien su nei brutti momenti. E tentano il bacino, nei momenti problematici, quando una desidererebbe soprattutto vuotare il sacco e dar la stura, raccontar le sue cose a qualcuno che sappia ascoltare senza guardar l’orologio perché il garage chiude, e dandole ragione a ogni costo senza far troppo ballare le chiavi della macchina, consolandola con qualche «sì, sì» sedativo, ritmicamente, ogni tanto, a fari spenti «per non scaricare la batteria», ma comunque la serata è persa.

Nessuno di noi, per esempio, pretenderebbe mai di accorgersene, quando al ristorante, qualunque ristorante, lei tormenta con le posate il piatto che ha ordinato e contrordinato e riordinato, e fatto cambiare, e rimandato indietro, e col vino lo stesso, in un vortex di «sì Eccellenza!», «comandi, Eccellenza!», «subito, Eccellenza!» di capicamerieri e camerieri che si affollano intorno, forse rimpiangendo quand’erano a servizio presso qualcuno della sua famiglia... E comunque si tiene intanto ben vivo e d’ottimo umore il recitativo o concertato che torna sempre ad aggirarsi su Londra, dando ostentatamente e di proposito – ma si è qui per questo – l’impressione che tutta la Nervosität sia soprattutto ornamentale, un vezzo senza problems gravi dietro... I trasalimenti nel mood? non nascondono proprio niente! anzi, sono citazioni, jokes, diversivi non privi di sense of humour, e insomma ci stiamo divertendo al fresco tutti quanti insieme, con le cineserie e le grullerie, dopo una giornata molto afosa e particolarmente stancante per tutti.

 

Sarebbero probabili, differenti attitudes?... Man mano si allontana quell’elegante Settecento (durato fin oltre Radiguet) di maniere tardive e sentimenti chic... Conforti d’una letteratura a quattro e cinque stelle che si era tenuti a portare anche in spiaggia, a sedici anni... osservando la psicologia più “cordon bleu” perfino tra le marchette della Croisette... Quante belle perspicacie e strategie sopraffine c’erano lì pronte fra i nèi e i cicisbei per vezzeggiare, circuire, “espugnare” come una piazzaforte barocca una damina col birignao che non la dava... perché ce l’aveva in porcellana, o più chic ancora in biscuit, fra giardini e maschere, orchestrine di sensibilità, bigliettini di stati d’animo, mariti lontani a caccia o fra donnacce, profumi e belletti, cerimoniali d’amore e psiche e soufflés formali come le precedenze e i placements in un villinetto smandrappato fra un’ambasciatrice presso la Santa Sede, una duchessa nata Altezza Reale, una marchesa in rappresentanza d’una ex-Regina Madre, un monsignore mondano su cui si raccontano certe histoires de cul... E senza ancora le ghiotte ambasce circa la scuola psicanalitica più appropriata per salvar l’anima e le forme, e redimere magari la faccia, senza sbagliar guru o divano...

Oggi pare diverso, qui. Intorno a ogni uomo si vedono parecchie belle corteggianti, e anche a me lo prendono spesso in mano. Sarà per proporzione statistica? ce n’è pochi su piazza? incombe il fantasma di quelle tavolate con un uomo, due donne vicine, un altro uomo, tre donne di seguito?... E nei locali, diversi famosi immoralisti ne hanno parecchie intorno; e non solo i registi e attori di nome e nomignolo. Anche arredatori e sarti di seconda e di terza, notoriamente svampiti (discorsi tipo: ah, sì? dici? non ho sentito, non ho visto, non c’ero, ah davvero?), ma supporti indispensabili per uscire, andare a uno spettacolo, sedersi a un tavolo senza ricorrere a un accompagnatore che avanza richieste.

Cambiano quindi le accortezze e scaltrezze, oltre alle banalizzazioni del tragique, adesso? Mai farsi avanti, mai correr dietro, mai darsi da fare, invece di scrivere lettere si disdicono all’ultimo gli inviti, secondo la risaputa villania romana, così ai pranzi si formano i «settori donne». A un tavolo, un uomo fa salotto con parecchie signore. A un altro, i soli due o tre uomini parlano direttamente fra loro mentre le donne fanno cerchia a sé come nelle società meno civilizzate. E a questo punto (come afferma chi è tipico per la scarsa urbanità, ed è perciò che viene ricercato: «divertente!»), «basta sfiorare distrattamente un culo a caso, e te dicono ancora grazie!».

Passano sui volti maschili, talvolta, alle feste, messaggi inespressi con parole: va’ con tuo marito, vedrai che bello... trovane un altro, ti porterà via i soldi residui... telefona ai tuoi amici simpatici: che bei bocconcini, tutti per te... Macché pagine e pagine di prelibata introspezione, a Roma. Lo scapestrato libertino: mangia prima di uscire, ci si vede sul tardi. Il licenzioso seduttore: che stamo a fà er taxi? tre dentro me ce stanno, ma le altre andove me le metto? sul tetto?

Nessuna psicologia, né civetteria, né galante schermaglia nel flirt. «Né marivaudages, né mandolinades, né mascarades»... Il maestro di depravazione, al giovane discepolo, al night-club: tu non devi fare niente. Lo scostumato vizioso: guarda che così me lo fai andar giù; e poi, chi lo ritira su?... Il dissoluto impunito: solo una persona all’oscuro dell’animo femminile poteva scrivere Les Liaisons dangereuses. Qua, te la tirano dietro. Vieqquà. Ahò.

 

Amoroso, preoccupato, sollecito, sconvolto, Jean-Claude non sa trattenersi e rovina tutto: versa il pinot grigio come se le stesse offrendo la vita, le domanda se non vuol mangiare qualcos’altro in un “tono alto” che vorrebbe suonare grand style, ma gli viene fuori un plein mélo. Non è ancora riuscito a rendersi conto che lei deve a ogni costo apparire come un falco o un’aquila; e allora niente può riuscir più sbagliato delle “premure” convenzionali, delle “piccole sollecitudini” che vanno bene per i perdenti, i losers, perché appena allontanandosi dal suo piano d’assoluta dignità formale si “dégringola”, e lei ha paura.

Dev’essere lei a scegliere l’ora e il momento, e il tono, e l’umore, ma andiamo! Scherziamo? Stiamo alle sue condizioni, «lasciamola al suo game»! Anzi, entriamo quando ci fa un segnale. Non è raro poi trovare dal portiere un frutto o un vaso o un regalo bizzarro e prezioso che lei stessa è passata a lasciar giù la mattina presto mentre si dormiva, con un bigliettino azzurro scuro d’una affettuosità straziante sotto i giochini di parole “casual”. «Quello shift o switch nei suoni che non è una cosa italiana!». Spesso, anzi; e sembra di non riuscir mai a ricambiare con la stessa tenerezza di tono, la stessa delicatezza nascosta nei sottintesi, anche se ormai si finisce a passar buona parte della giornata a pensare che cosa si può comprare per lei, dato che abbiamo preso l’abitudine di farle un regalo nuovo, ciascuno di noi, tutte le sere; e come diventa terribilmente difficile (in una città dove non c’è niente) trovare ogni volta un disco o un libro o un frutto deliberatamente sciocco o una confettura molto molto insolita o insolente capace di farla sorridere o distrarla per un attimo. («Attenzione! quando l’eleganza sembra diventata facile». Ma chi e cosa c’è di autre nelle sue ore che non conosciamo?).

 

«Bisogna incominciare a stare attenti» dice Antonio «a non nominare mai fortuitamente un oggetto che si potrebbe desiderare, perché ha sempre un negozio a Londra o a New York dove te lo ordinerà immediatamente, o è capace di girare per Roma lei stessa finché non lo ha trovato». Ma quando arriva quasi subito una scatola da Burlington Arcade, sarà riuscita a ordinarla in un paio di giorni, o ha già lì pronto un piccolo assortimento per le diverse occasioni?

«Non dimenticherò mai» dice «una sera che mi è sfuggito per caso che dovevo tradurre una cosa in inglese e avevo sonno, l’ha fatto lei senza che lo sapessi, e me l’hanno portata su la mattina dopo con la posta, mi sono vergognato da morire, cosa vuoi poter fare, tu, dopo?... le rose?...».

«Dorme pochissimo?».

«È un momento tremendo,» va avanti «perché è chiaro che lei deve avere la sensazione di non fare niente, non servire a niente, non essere utile a nessuno; di girare come nelle canzoni a vuoto, per cercar di dare alla vita una dimensione... Ma se la tua dimensione è già appunto la tua vita?... E se ha avuto delle vocazioni, le tiene molto nascoste». Meneghella racconta addirittura che sta su di notte a fare dei collages molto elaborati sulle telefonate che le hanno fatto di giorno. «Mah, mi pare troppo. C’è chi ha esperienza ma non trova il meaning: te lo spiega molta poesia inglese moderna. Ma poi è vero il contrario: saresti pieno di significati, però ti manca proprio l’esperienza. D’altra parte non c’è nessuno che si occupi veramente di lei: voglio dire, che le stia dietro, dalla mattina alla sera, le voglia bene al punto di dedicarle qualche ora in più non solo per portarla a colazione, qualche minuto oltre i soliti che si passano a tavola. Non ha una vera casa. Non ha una vera città. Neanche un ambiente familiare per lasciarsi riassorbire fra le abitudini. Tanti amici dappertutto, ma non servono a molto: amiche piene di problems... La sensazione forse di non appartenere a niente... di non essere necessaria... Vengono di lì certi slanci... Come le inglesi che a un certo punto piantavano lì tutto per curare i lebbrosi in Africa col celebre dottor Schweitzer; e come quelle sue amiche in India con ombrellini e guardaroba perfetti per qualunque lazzaretto...».

Sono fotografie che passano di mano in mano; e nessuna inglese fin-de-siècle in India è certamente mai stata così perfettamente inglese in India fin-de-siècle come queste eleganti in cotoni candidi sotto le tettoie di pagliarelle, con guantini e piccoli lebbrosi impeccabili, il guru in posa, una vegetazione selvaggia sempre a posto... «Ma se ti mostri appena un momento sollecito diventa freddissima e ti ride in faccia... come Raimondo quando gli dicevamo di andare a dormir presto... e ti ripete che sta benissimo, altera, e non ha bisogno di niente...».

 

Sarà anche imbarazzante controllare com’è vero che questo amòr non solo istupidisce, e sarebbe ancora niente; ma rende proprio seccanti. Con le sue belle maniere fuori tono e le sue attenzioni di tipo cortese, buffe, perché qui risultano subito piccolo-borghesi e signora mia, Jean-Claude non si rende conto d’essere capitato in diversi ambienti dove se si sente citare una frase inglese pesantuccia o la si legge fin troppo chiara nel mormorio romanino sulle labbra, questo non significa immediatamente che chi recita così debba essere per forza un «burino de’ rozzi» (gioco di parole sul nome dell’ambasciatore di Francia, persona squisita, Burin des Roziers). Non vuol dir niente...

Sconvolgerà lui, è probabile (io non lo so, mi pare...), ma chi altro, in una città da tanti anni così sputtanata, dove il dileggio è una tecnica e l’insulto un rumore di fondo, e praticamente ogni parolaccia possiede un suo pedigree rinascimentale con rime nobilissime, e l’espressione greve la troviamo consacrata in aurei versi dell’età d’argento. Ma anche a Parigi dopo tutto, andiamo... Però lui rimane come un cavaliere oltraggiato in pizzeria, quando è chiaramente inutile far scudo del proprio mantello alla gran dama, perché lei fermamente s’intromette in una contestazione col guardamacchine o il vigile, insistendo sul fatto che «tu sei straniero, ma io sono nata qui e lo so bene come si deve trattare con questi», e li mette a tacere, sparando il sorriso dopo l’albagìa di una gentilezza spropositata. E subito dopo per uno scatto d’umore che è stato impercettibile a tutti improvvisamente non tollera più altro che un’etichetta da Grand Siècle; e si secca, visibilmente. Si chiude in una specie di arroganza asciutta, rigida; che in lei non è rara, ma forse è frutto soltanto di stanchezza, che non inibisce più l’orgoglio, di nervi à bout per mancanza anche di sonno, i soliti prodotti contro lo stress e l’Angst? E allora, magari, «n’è duce il viscontino?» o «ella verrà qui col barone?» come nella Traviata: galleria nel palazzo di Flora... Ma se lui fosse a bagno in un inconscio di romans parisiens con due copines che si innamoreranno en vacances di uno stesso beau mec con la Renault e il cache-col? mentre un’abbronzata sposata a un tricheco oh-là-là con la pipa farà mille smorfie di chic in deux pièces davanti ai catini di crudités nel villaggio di vacanze? e una quadragenaria con le occhiaie di vita vissuta si congiungerà trasgressivamente a un quinquagenario con gli occhiali delle mutue, e al culmine del Bataille in treno si faranno la pipì addosso senza occhiali?... E Madame de la Fayette, affacciandosi con imbarazzo tra le penne all’arrabbiata e la Traviata e la ritirata...

 

«L’étalage dei sentimenti... il contrario della buona educazione anglosassone...» è quella espressione costante di rabbuffo che par di vederle tornare sulle labbra e nello sguardo, quando uno sembra sul punto di darsi via, di cedere: lì lì per confidàr, o rivelàr, qualche proprio dolòr, cioè quello che più di tutto si ha il dovere di tener per sé a qualsiasi costo... E allora lei pare veramente Alice, quando al Tè del Cappellaio Pazzo gli ribatte «non si fanno personal remarks, è da villani» con tutto il dispregio che le riesce possibile – che trivialità, che bassezza... – come dicendo «non si mettono le dita nel naso, non si mettono i piedi nel piatto...».

«E ai Cappellani del Dolòr, allora?... Pazzi d’entusiasmo per le sventure e i dispiacer, ma non per sé?».

«“Sono terribilmente...” che bell’inizio di verso» trovo su uno fra i tanti foglietti d’appunti sparsi in casa. Ma Jean-Claude sta terribilmente perdendo presa, sui diversi terreni; e non soltanto sull’ansiosità e la sollecitudine. Eppure vede che quando si esce insieme di sera noi ci mettiamo al meglio, anche per non proiettare intorno a lei, per chi la conosce, un’immagine di gruppo mal combinato o di seconda. I «nine o’clock angels» potranno esser casual nell’anima, giammai nell’abito! Quindi tutti, alle nove in punto, siamo sempre vestiti di blu formalissimi, lini e alpagas finissimi, tendenti semmai a un nero-viola raro, camicie di voile, gemelli d’oro, cravatte invariabilmente di Turnbull & Asser o di Charvet; e le Grazie e Letizie e Serene arrivano magari stravolte da una vasta gamma di neurosi e psicosi e anoressie rarissime, e col cane Bananas, però appena uscite da parrucchieri eccelsi, molto più teatrali che a Milano, e in abiti molto più barocchi e scenografici che in tutto il Nord (altro che i nostri architetti e stuccatori ticinesi da Borromini in giù); e lei chiaramente si veste da Valentino o Givenchy, di bianco e oro e argento e arancione e rosa e nero, o quei veli molto avvolgenti color fumo o peonia e verde tenero di sarti che io non so ma forse Jean-Claude potrebbe riconoscere (certi gialli-arancioni molto accesi dovrebbero esser tipici!), anche se a Parigi frequenta delle parsimoniose. Ma collane talvolta fra le più sobrie.

O forse no, lui non vede: perché arriva con un vestitino fra il grigio e il marrone, come un belga o uno svizzero raccolto all’aeroporto, o come se ci fosse stato un equivoco sull’ora e il posto e l’occasione e la gente. L’abito fatto, e per di più francese, misero e sintetico, un po’ lucido nei riflessi metallici: peggio che la giacchetta italiana a quadretti da presentatore televisivo; e con spacchetto centrale, dunque con falde stropicciate quanto più leggere: dovendo poi trovarci sempre in luoghi ove chiunque è vestito giusto, non uno senza giacca, e «chi fa i posti stasera?» non si dice ma si fa con gli sguardi, e lei conoscerà una quantità di mondani insopportabili, e ha magari detto nel pomeriggio che non poteva uscire con loro, quindi portati a dar giudizi, a far confronti, commenti... Ma lui non lo capisce, questo peso delle sfumature: come quei critici di poesia finissimi col salotto pieno di soprammobili. E a questo punto mi domando proprio se val la pena d’essere intelligenti, sensibili, colti, educati al Bello su Valéry e Watteau, per poi vestirsi e gestire e apparire come cassieri di banca o maestri di scuola: senza poi rendersene conto. L’immaginazione sontuosa in giacchettina a quadretti? Spiegare Giorgione o Mantegna con su una cravatta di tipo regimental a stemmi, che poi significano Royal Canadian Air Force o Regional Hospitals Board (c’è il prontuario a Londra alla Scotch House)...

Ma cosa sussurra, in questo caso, l’inconscio? Non conta l’abito, prevale lo spirito? O tanto non val la pena di spendere, con questo fisico? (Chissà come si presentava, con le camicie e i gilet, Stendhal).

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Una delle serate più sinistre la passiamo dall’uomo senza qualità – sempre più secondo il senso vero di Robert Musil: privo di caratteristiche... Per farla sorridere, ha preparato un pranzo deliziosissimo: mousse di prosciutto con sorbetto di melone e salsa di fichi; tre diversi soufflés da paragonare verseggiando su rime predisposte in un programma di musiche acconce; uova in vari travestimenti del Rinascimento bolognese, testimoniati da incisioni d’epoca; gelati casalinghi di mandarino e visciola fuori stagione, come da una ghiacciaia in villa.

Tutto di grandissima qualità e accompagnato da salsine spumose, calde o gelate, in una collezione di salsiere del Sei e Settecento a soggetti mitologici-marini, con sirene e tritoni e fiori di campo, garofanini e primule, nelle valve d’argento e nelle bùccine di vermeil. Composizioni di brillii lucidatissimi dalle caffettiere e cioccolatiere in fila sulle mensoline verdi nelle pareti di specchi antichizzati o antichi. E una formazione di candele romane in giardino, fra i piccoli orridi e i divani di rattan e gli spot orientati sulle macchie bianche di ortensie e chissà che rododendri. Ma Desideria alle dieci e mezza non è ancora venuta. Le telefonano: pare che sia nel bagno. Morta? No, è appena uscita, sta arrivando, dice poi un cameriere straniero. E la cuoca di Luiggi s’affaccia, domanda, metterà i soufflés nel forno; prepara le salsine per l’arrivo imminente.

Sediamo con Antonio e Giulio e Jean-Claude e due o tre Letizie, bevendo il nostro sherry e non volendo neanche cambiare in drinks più lunghi e più freschi; non parliamo neanche più. Una Serena molto spiritosamente ha già raccontato fin dall’inizio che certi cugini di Palermo pretendono di vendere delle stampe che varranno al massimo cinquemila lire – anche roba di caccia – e continuano a mandare agli antiquari dei fotocolor che costano almeno diecimila. Si è ridiscusso l’invito a una festa in Chianti: l’inaugurazione d’una villa di inglesi che nessuno di loro conosce, suona Rubinstein, anche un bel programma, black tie... Ma non saranno stati invitati solo in quanto amici di Raimondo? Dunque, tutti: non mi pare il caso, non ne ho voglia, non accettiamo, ringraziamo, magari si manda anche un telegramma...

È anche già stata riraccontata più d’una volta («tu la sai già, vero?») la celebre storia di Peter Heyworth – grande critico musicale dell’“Observer” – che arriva per il weekend dalla Svizzera nel Canavese liberale da Nina Ruffini, e non s’accorge dell’ora legale, e nessuno gli ha mai detto niente... Non sarà scattata accidentalmente qualche ora legale anche stasera, qui?... Mangiamo una quantità di mandorline salate mentre Luiggi va e viene dalla cucina inquietissimo, e quando Desideria arriva alle undici e mezza, sconvolta in faccia e scusandosi, senza spiegare il perché, i soufflés sono suole di scarpa, le uova affondano nell’acqua, e una Letizia si è trasformata letteralmente in cignale, man mano che spiega la serenità della sua nuova vita per tutto l’anno in Maremma, fra i cignali appunto.

Tutti i pranzi ove mai si arrivò sbagliandosi di giorno – o di piano!... E lì, via la stura, a tavola: al primo cocktail di Nathalie nella casa nuova, in un palazzetto sempre morto in una strada sempre buia, ma quella sera al primo piano c’erano porte aperte per un ricevimento di americani, e si entrò fra stranieri che non si conoscevano, cercando la padrona di casa, e qualcuno gradì intanto un drink, prima di appurare che il party di Nathalie era al piano di sopra... O quando Gioacchino invitò con civetteria «martedì alle ventuna», e si arrivò il martedì 21 a un pranzo che c’era già stato il martedì 14...

Ma neanche dopo, quando sediamo in fondo al giardino, davanti alle antenne di Monte Mario che s’accendono di luci rosse e si spengono nella caligine fulva, riusciamo a parlare o a sorridere, tutti quanti, malgrado i limericks e gli apocrifi già preparati. Non ci rimane che scherzare seriamente, lo facciamo per il resto della sera, sulla «pera d’angoscia», un disturbo che deve esistere veramente, e anche in francese: dice Jean-Claude che si definisce «poire d’angoisse» questo nodo quasi fisico d’affanno che non si riesce né a mandar giù né a buttar fuori, e può impedir di dormire, e di mangiare, e di parlare normalmente, addirittura per giorni e giorni. Ma anche, passando a consultare i dizionari, soprattutto per far correre il tempo, sul Littré: «bâillon de fer pour étouffer les cris». L’uomo senza qualità, aprendo il Robert, sbadatamente legge forte: «poire en caoutchouc, à injections, à lavements». E allora, per tirar su il tono: la pera Kierkegaard, la pera Kierkegaard! cresce dietro le spalle e matura al buio!

Il traffico della via Flaminia scorre lì in fondo, silenzioso e lontano, sotto di noi, verso le luci spettrali e pungenti dei nuovi stadi, ci dev’essere una grossa partita notturna. Riempiamo di ghiaccio i nostri bicchieri d’amari alzandoci a turno fra le zanzare, e proprio in queste intermittenze di ticchettii di cubetti e di ghiaia e silenzi passano involontariamente low in mente forse a tutti loro i banali miti degli affetti impossibili o finiti male di Desideria, di cui non si parla mai e sempre perfettamente improbabili: era un operatore oppure uno sceneggiatore oppure era un fotografo, che nessuno ha però mai visto e si serviva di lei mondanamente, per arrivismo romano finito in un paio di piccoli processi?

Chi ha poi preso tutto e dato niente, fra quei convenzionali che vanno ai parties solo per la carriera, o usano la carriera per andare finalmente ai parties? e lì appartandosi per discutere solo di problemi, progetti, programmi, prodotti?... E i due o tre sinistri uomini di potere che non le si sono mai visti insieme e poi non sono compatibili fra loro, ma secondo le amiche e i giornali la farebbero ancora soffrire a turno o en bloc in questo momento, però allora per orgoglio?...

Chiacchiere poi sempre così banali, da serve, senza un minimo gesto o scatto di fantasia, proprio mai niente d’originale, di vissuto con differenza, o almeno paragonabile a un film del Trenta... e poi le stesse già sentite raccontare le mille volte di tante, ma tante, di seconda e di terza, fin da bambini, a St. Moritz ma forse anche a Pontresina, a Celerina, a Cortina, a Ortisei... La passione da “Bolero Film” per l’attore francese pigmalioneggiato dal vecchio regista geloso e serva che gli metteva i fili sulla porta della torretta per controllare se usciva nottetempo dal suo nido football-rococò... Il gran valzer da Jezebel in Balenciaga nero coi polsi orgogliosamente fasciati al Blue Jesus il giorno prima... Il furto degli smeraldi forse in una villa in Sardegna o forse qui all’Excelsior (ma da parte di chi?)... Ciàcole da galline padovane e parmigiane e torinesi che adesso trovano supremamente râpé ripetere con qualche stagione in ritardo – finalmente anche loro! in après-ski e gemme! – «l’uomo delle macchine! l’uomo delle barche! l’uomo degli aerei!»... senza accorgersi che ad altri tavoli del Palace potrebbero avere il privilegio di sentir declamare un magnate d’Amburgo totalmente alticcio: «A Sankti Pauli nel corso del tempo spesso ho conseguito successivamente la nonna, poi la madre, poi la figlia... e non c’è un solo orifizio del mio corpo che non sia stato violato... Ma da quando c’è Alexandra nella mia vita, non ho più bisogno di nessuno perché è come avere un intero bordellò in casa»...

... O ascoltare un armatore d’Anversa nella sua fiaba prediletta after hours: partito per gli Stati Uniti con la prima nave dopo la guerra per riprendere i gioielli, le perle della mamma sembravano pericolosamente deperite dopo la permanenza in banca. Era urgente rimetterle a contatto con una pelle umana vivente, e lui si sobbarca. Ma quando dal barbiere del Queen Elizabeth di ritorno si slaccia il colletto, il suo vicino di poltrona si presenta «my name is Cary» sotto una nube di sapone da barba – era lui! – e scattano quasi per scherzo episodi indimenticabili...

... Mentre poi quelle solite vecchie solfe e chiacchiere da giornaletti scadenti e sdati, in questo buco di Roma, sollevano subito un gran dolore, fabbricano dolore vero, comunque riferite e applicate da sguince e slandre a una leggendaria così leggendaria già oggi... qui sotto gli occhi... E riflettere che sono fumetti monotoni, d’una casistica limitata dall’A alla B, senza allure eppure forse con qualche probabilità volgare di vero, appunto... Anche se non parrebbero corrispondere per niente, in niente...

... E comunque si sa ormai che sono le cose veramente banali e stolte a far soffrire di più...

... E sono poche, poi, poche, sempre le stesse, praticamente... E ancora peggio: il Dolòr trasforma in Autentico le sdatarìe («Via della Sdatarìa: sai, giù per la discesa?») più impresentabili e false... e non “sortables”...

 

Tornano involontariamente in mente, come sovrapposizioni di slides (e chi diceva che dopo aver visto al buio slides e slides luminose di Rothko o Barnett Newman, quando si guardano gli originali al Moma paiono spenti?), quelle orribili immagini a cui non si ripensa mai, anche se sono di pochi anni fa, di Antonio in clinica, Antonio senza memoria, non ancora born again a Roma: gonfio e spaccato e talmente punto in tutte le parti del corpo per nutrirlo artificialmente che le ultime iniezioni gliele facevano tra le dita delle mani e dei piedi... E logicamente non vuoi più sentirne parlare, «ancora lo sturbo?», ripete che queste cure forti si fanno appunto per dimenticar subito anche le cure, e se non sapesse che allora almeno una volta l’ho visto, e m’ha visto che lo guardavo, subito sarebbe pronto ad assicurare come tutti loro che non è vero e non è successo niente e perché non provi anche tu: tisane! fanno benissimo!... Li guardo tutti, uno per uno, continuo, non parlo, sto zitto, fra i tic-tic del ghiaccio che frana nei bicchieri. Sono intelligenti o stronzi? Sono finti o veri? Sono loro, o sono altri? È Setteciuento, o è dolòr?

Posso pensare tutto: perfino che Desideria sia innamorata di Antonio senza saperlo, e lui ugualmente di lei, senza dirglielo; o sapendo bene che il primo che parla (soprattutto con se stesso) perde sempre tutto, su ogni tavolino. Sembrano due decisi a non farsi male un’altra volta. E almeno sono sicuro che Jean-Claude ne sia convinto, perché altrimenti con che ragioni eviterebbe Antonio di proposito... Non gli parla, non lo guarda, se non per seguirlo preoccupato con gli occhi quando si alza, in qualunque movimento... e del resto è così naturale quando si è elastici per la ginnastica curvarsi a sfiorare chi rimane seduto, guancia a guancia fra pelli fresche e di fragrance buonissima anche dopo tutto quello che hanno passato – disgraziati!... Ma addirittura si mostra contrariato quando come stasera sarebbe carino magari non sottolineare che il pranzo è riuscito un flop, proponendo a Desideria di ricondurla subito a casa, all’una e un minuto, in tassì, come se non ci fossero tutte le nostre macchine, col pretesto che lui, Jean-Claude, non lei, è stanchissimo e ha bisogno di sonno.

... Adesso è l’uomo senza qualità, che invece di coricarsi affranto, non vorrebbe più andare a dormire: «La vedo ancora come quella prima volta, lo scalone è un immenso cubo neoclassico, grandi statue! c’è passato Canova! Ma poi, sopra, la galleria era lunga e stretta, con molte finestre e molte consoles, e non un posto dove sedersi, perché il camino naturalmente è a metà, ma fra lì e le finestre ci stanno pochissime poltrone, quattro o sei al massimo, le altre finirebbero nelle zone inutilizzabili, e naturalmente i divani bloccherebbero il percorso...». (Parla proprio di lei). «Ricordo che m’hanno commosso i vestiti, quasi tutti nelle valigie mai disfatte... E alle pareti, appena due incisioni, due stampine del palazzo dov’è nata per caso, non so più se a Imola o a Iesi...». Ma lei è assente, altrove. È anche andata via senza salutare?

E allora, tentando di venire in qualche modo al dunque («veniamo al dunque!» si va ripetendo soprattutto sulle sciocchezze)... Buon per lei, se durante la giornata si dibatte con dei volgarissimi o degli elegantissimi che magari la picchiano? siamo qui per questo? (Però, se si telefona alla clinica dove c’è Raimondo, risponde lei, che lo assiste; e certamente senza far dei calcoli fra le diagnosi dei medici e le prenotazioni per le vacanze in agosto)... E se è vero che sfoglia soprattutto i rotocalchi e magari anche quelli giù giù per il presenzialismo dell’esserci, com’è che passa tutte le sere in appartamenti o luoghi senza glamour con persone come noi, che possono anche passare per cinquanta volte a Via Veneto o in Piazza Navona senza che i fotografi si spostino? E l’esistenza autentica?

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La sera dopo ancora un momento qui da Antonio per trovarsi e decidere cosa mai sarà di noi (sempre immersi nello chic fino al naso?) quando saranno arrivati anche gli ultimi, e sarà troppo tardi per quasi tutto: l’ultima sarà naturalmente lei; ma lo si sa. Per telefono si è deciso alle nove, come ogni sera con quelli che escono alle nove da tutta la vita, però chiamano anche alle otto e mezza per domandare «a che ora?»... Dunque la aspettiamo alle dieci e mezza, alle nove si è ancora discinti in un gaio e spensierato variété... Tutto diverso il cast: Enrichi, Edoardi, Riccardi, Marine Grandi e Piccole... E io guardo ancora, li guardo a lungo per vedere fino a che punto uno èvero), o invece fa Tristano o Aspasia o la sorella Paolina o Bruto Minore, e chi potrebbe aver deciso di far fronte con mezzi propri, autonomi, all’ondata di dolòr?

Ma palesemente, sì o no al dolòr? Beviamo champagne, ridiamo sulla scissione fra alcune belle che si vedono come tante Marilyn ormai icone di serie (e guai a ricordare quando si truccavano da Bardot), e le meno belle che con l’età si presentano come delle Cassandre e Antigoni politiche. E con nostalgie non più per George Cukor o Roger Vadim ma sotto sotto per Stalin, buono per le masse, con una background-musichetta di «si stava meglio quando si stava peggio»... (Al termine di una elaborazione teorica). «Soprattutto per gli intellettuali, sora Cecia». «Bei tempi, eh, sora mia, quando gli intellettuali gelavano nelle soffitte e scrivevano feuilletons sui balli al castello... Mica come adesso: sugli attici dei palazzi, sempre a occuparsi della fame dei braccianti, come i pittori. Champagne?».

Girano delle chicche salate al pomodoro, al formaggio, al sedano. «Uh, l’Angst!» grida troppo forte Giulio; e annerisce di troppa angostura il bicchiere di gin che ha in mano, sarà una cosa terribile. «Buona, la salsa tabasco!» urla addirittura, subito dopo, e muove dei gran passi spietati per versarsene tanta su una carota da star male per i bruciori e gli ardori. Ma assicura che non gli fa niente; è capace di mangiare i peperoncini rossi anche crudi, d’estate, in Brasile e in Messico, dice.

Quando Desideria arriva è bellissima, e riposatissima, ridente per certe sue storie di un immenso bagaglio che la segue da un paese all’altro, con intervalli enormi, per tutte le residenze successive: così appena lei sta ripartendo da una casa che non ha mai fatto in tempo a sistemare, vede arrivare col solito ritardo questo carico di mobili, dipinti, porcellane, biblioteche... Non ancora a Roma: in quale spostamento prossimo le andranno dietro?

È appena arrivata la storia del tartufo: parecchie madame di New York, tra le più famose, convocate a una colazione di straordinaria finezza per un grossissimo tartufo appena regalato dal Piemonte. E soprattutto le due o tre italiane di passaggio, interpellate sui migliori modi per valorizzare il tartufo bianco: risotti, fondute, crostini? I suggerimenti vengono trasmessi allo chef, e qualche giorno dopo siedono a tavola per il festino. Arrivano i risotti, i crostini... E il tartufo? «Non è ancora pronto, madame» dice il maggiordomo. E lo ripete poco dopo. Crescono le apprensioni italiane; e finalmente l’enorme tartufo appare fra squisite decorazioni vegetali, bollito.

«Così, così mi vestiva mia madre, da bambina, tweeds e navy-blue» sorride sfogliando gli album di fotografie da “Vanity Fair” negli anni Trenta, pieni di regine in lutto e favorite in Riviera, Magda Lupescu e Mrs Simpson fra dei Roosevelt e dei Barrymore, Elinor Glyn con due gatti in spalla. «Autrice del Figlio dello Sceicco?». E breakfast a letto di Edith Sitwell, Dolores del Rio in piscina Art Déco, boxeurs biondi e damigelle di nozze, Einstein, Shaw, Joyce con la benda nera all’occhio, i Lindbergh, le gambe di Mistinguett, Katharine Hepburn adolescente col broncio... Cavalcade!...

«Mi portava in giro per i templi d’Agrigento in piena estate vestita di tweed, come un’assicurazione contro la pioggia... Non l’hai mai vista mia madre?» domanda a Antonio. «Era una Bella del Rinascimento, tipicamente romana pur non essendo romana: il modo di portare il collo, la testa, le spalle... ma ha avuto un modo perverso di annullarsi: scozzese più irlandese... Il mio primo vestito da sera... è stato proprio al ballo di Bonadea, e ci vergognavamo da morire tutt’e due... io in rosa-confetto, proprio pizzo rosa da sottoveste... la Bona in tulle bianco, con delle ninfee di perline in fondo... È stato un mezzo scandalo quando siamo andate finalmente a prenderci delle cose a una liquidazione... Sono in fondo pochissimi anni che ci si riesce a vestire come una desidera...».

 

Raccontato dalle Marine o dalle Serene, il fumetto del matrimonio di Desideria (con un anglo-cattolico molto ricco, molto bello, molto scemo) sembra un patchwork di almeno tre o quattro storie di Fitzgerald già sfruttate dal cinema, di un déjà vu da piangere. Lei ragazzina, sempre tenuta in casa dai parenti terribili. E lui probabilmente il più bello della Riviera, il Mito della Stagione quand’erano ancora belli e parecchi, i belli e scemi sul serio. Per sei mesi dell’anno, pare, abiteranno a Parigi facendo tardi tutte le sere, e sempre insieme anche nei locali volgari e banali di striptease per turisti; bevendo con le ragazze, ignorando ogni mondanità, venendo proclamati «a disgrace to their families» dalle americane che arrivano per farsi i vestiti, si aspettano di venire intrattenute, e mandate a quel paese non perdonano... Però facendo davvero tutte quelle vecchie sciocchezze in ritardo tipo organizzare una fila di carrozze per andare a veder l’alba al Bois de Boulogne con alcuni ubriaconi e travestiti?... Assistere al quarto o quinto matrimonio d’una direttrice di club, il lunedì quando il locale ha la sera di chiusura, il ricevimento è solo per gli habitués, e quindi non si potrà schivare la più trita Maison Tellier?... I soldi nelle cassette di sicurezza in un albergo, gli assegni cambiati nelle boîtes: «cose da americani dei Twenties!»... Ma anche la loro propria nozza, ricordano Serene e Letizie, si svolse in un castello francese d’amici produttori di cognac, e il décorateur alla moda aveva ricoperto facciate e torri e donjon di corone di foglie che sarebbero una tradizione dinastica in Lorena, però gli invitati italiani e soprattutto napoletani si toccarono parecchio le palle.

Gli altri sei mesi dell’anno, in Scozia, in questo castello molto lasciato andare, per le controversie circa a chi spettano le enormi spese per le strade e i ponti che crollano e le linee elettriche nell’immensa proprietà, e per riparare tutte le travi intaccate da questo terribile tarlo: pescando il salmone senza dire una sola parola, bevendo cognac per sei mesi interi?... Con questa vecchia madre completamente andata, a cui bisogna allontanare i tavoli con tutte le bottiglie-campione dei whiskies artigianali che sono il vanto della proprietà – «verdini, marroncini, paglierini, zolfini, e anche color acqua...» – e che passa il tempo con una matita, facendo continue liste per invitare amici in gran parte morti... avendo anche perso la nozione d’indice alfabetico...

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Sarà la veritààà? O sono vere stronzate? Lei non è sempre stata famosa per l’orgoglio del rifiuto, la calma nell’insolenza anche quando parrebbe smarrita, con quel piccolo tic di risucchiarsi le guance all’interno, e il rifiuto altero d’Altezze Reali noiose e d’Assistenti al Soglio bruttini?... Famosa, ti confermano tutti... Ma adesso per tutta la sera parla molto fittamente con Jean-Claude; si è finiti (come i più temevano) ai Trenini, si è diventati parecchi, e loro si sono seduti vicini. E io mi domando come farà questo povero troubadour, ménestrel “in moderno”, a mettere insieme i diversi strips e spots di questa personalità così scissa, complicata da ricomporre...

La sua repugnanza, ma insieme attrazione, per la gente ordinaria, le cose più volgari, nella folla... fino ai contatti fisici... Il voler conoscere tutto, tutti, leggere e sapere qualunque cosa... E infatti conosce poi tutti davvero, in Europa e in America, ma come per caso, «è capitato», qui lei sembra molto vera (un Orléans l’altra sera, la Garbo in barca)... Come volendo rifarsi di un passato perduto, rubato... con punte di isterismo... e probabilmente d’autolesionismo, fino a che punto conscio non so...

Il perfezionismo frenetico... per tutti i particolari maniacali per cui si può anche star su di notte... in una vita che poi complessivamente è un caos... Uno dei suoi termini preferiti è infatti «appurare», e un altro è «sobbarcarsi», ma poi lei è il contrario... E Meneghella continua a sostenere con Antonio (e anche con Antonioni, rivelano certe spie) che Desideria passa ore a leggere ogni giornale più abbietto al mondo, i rotocalchi di pettegolezzi inglesi e francesi... «e spagnoli!»... per prima cosa, ogni mattina, ansiosa d’essere nelle “gossip columns”...

... Ma perché?... Vanitas pubblicitaria, ad ogni costo? ma che senso ha l’Ansia dell’Esserci («il famoso Dasein! l’opposto del Where am I?»), dal momento che non ha un lavoro, né una ditta, né prodotti da vendere, dunque dov’è il vantaggio d’una ricaduta d’immagine?... Infilarsi nelle situazioni, anzi provocarle, conoscere i personaggi, figurare tra i protagonisti?... Ma com’è possibile, quando passa tutto questo tempo con noi, ed eccoci qui ai Trenini?... E se comunque ci fosse una parvenza di vero (cioè, di Alienazione, come per i commendatori milanesi che diventano matti se non lavorano come matti), ma allora è un dramma?...

À propos... Una sua amica trasferita a Milano, sta raccontando, le telefona oggi disperata: «A Milano non si fa assolutamente niente! Lavorano, e basta».

 

I Trenini, terribili, sono stati proposti e addirittura imposti da Marescotto, connaisseur massimo e restauratore sommo di tutti i mosaici e i marmi storici dell’Impero, raccolti a frammenti in tutti gli scavi e sterri intorno al Mediterraneo, riconosciuti e nominati uno ad uno nei pavimenti cosmateschi e nelle gallerie dei palazzi dove sono stati rifatti deplorevoli negli anni Trenta... Quindi il contrario – sempre lo fa osservare qualcuno – dei codici di comportamento devozionali per cui si deve camminare contemplando non già l’umile cotto (le bassure di quaggiù) bensì le volte che raffigurano il Cielo, su, su, su. E via col granito verde minuto, il porfido serpentino bigio, il cipollino marino, il pavonazzetto di Frigia, la lumachella d’Egitto... Ma con questa vanitas crescente dello scomparire, del non esserci... Dunque la scelta e anzi la coazione di questi Trenini, col pretesto insensato di certi tegamini (all’uovo, al tartufo, alla cervella, al colesterolo, non so...), ma in realtà perché si tratta del posto più squallido immaginabile, e non ci si troverà mai nessuno di conoscenza; e forse nessuno del tutto...

Da uno svincolo tenebroso – che bisogna conoscere, perché non si vede – sull’Appia Antica, si risale a spirale su una collinetta grigia di rifiuti e di ceneri, anche fumanti perché sono discariche abusive, con vista su una distesa di stoppie da cui risale ogni tanto trafelato Pasolini ricoperto di cacche, accetta malvolentieri un sorso d’acqua al tavolo, niente vino, e riscompare di corsa, in grandissima fretta. In fondo, la linea ferroviaria Roma-Averno, con trenini locali e sepolcrali (ecco perché il nome della trattoria) che passano spesso carichi d’anime morte e dannate nella luce livida, immobili e poche.

Dovevamo essere diciotto. Quattro hanno telefonato da Radicofani e poi da Acquapendente assicurando che arriverebbero in tempo, ma tutti sappiamo che mai ce la faranno, la Cassia è la Cassia. Arriva invece all’ultimo un lieto signore non invitato e non giovane per comunicare che altri due invitati delle nove sono dovuti assolutamente andare a un concerto in un palazzo – uno di quei concerti eleganti molto tipici perché non si sa e non importa chi suona cosa, conta solo il palazzo – così siamo a tavola in tredici. Un gentiluomo napoletano si stacca del tutto dalla tavola, sostenendo che non succederà nulla di male purché lui non la tocchi in alcun modo: perciò tiene il piatto e le posate in mano, il pane in grembo, il bicchiere per terra, e se lo fa riempire con una bottiglia che non abbia mai sfiorato la tovaglia. Subito si racconta di un indimenticabile pranzo dove si è avuto il privilegio di sedere a tre tavoli da tredici, per malintesi di americani che hanno sbagliato la strada o si sono dovuti alzare per correre all’aeroporto. Il momento migliore pare che sia stato l’arrivo per il caffè di un incerto vegliardo solitamente non accolto da esplosioni di giubilo, e ora gradevolmente stupefatto perché da tutti e tre i tavoli tumultuando gli gridavano «siediti con noi!» per fare finalmente quattordici.

Quando arrivano dal concerto e hanno raccontato chi c’era, si va indietro intricatissimi a certi zii e forse ormai prozii: il collezionista di San Sebastiani estroversi e preferibilmente molto grassi, con bellissima argenteria in via Gregoriana; il raccoglitore di canottieri ancora fascisti nelle paludi invernali di Sabaudia, quando bastava un camino rustico acceso nell’architettura Novecento che non lo prevedeva. E il lupo mannaro viareggino che ottenebrato dalla vendemmia con diversi complici mai trovati legava i giovani pastori alle traversine del treno per farli a pezzi dietro i cipressi del Carducci a Bolgheri, fra gli urli della vaporiera nella deepest Maremma d’antan...

Di lì si ripassa al Debito Ottomano: anziana storia di una cospicua rendita dotale in Levante che avrebbe potuto risollevare un casato o due o tre se non fosse stata improvvidamente investita in una elegante produzione cinematografica, medioevale e colossale, proprio durante il passaggio dal cinema muto al sonoro che provocò a Roma una famosa catena o voragine di fallimenti, specialmente gentilizi... «E non dimentichiamo il tappeto!». Già, perché Vimercatella, nel palazzo di Venezia, pretendeva di non riuscire a dormire per gli starnuti («anche se non si parlava ancora di allergie!») se non si toglieva un certo tappeto dalla sua camera. E così, ogni sera, nel salone, passavano due servi col tappetone arrotolato davanti al vecchio Sagramoso che giocava con delle Brandoline e delle Vendramine; ma dentro il tappeto c’era la contessa che raggiungeva i suoi drudi al Casinò, dove contribuiva al dissesto del casato giocando terreni e palazzi contro ex-droghieri di Ferrara... Mentre nello stesso campiello il Senatore Zuanne, rientrando a palazzo una sera tardi e imbattendosi sulla porticina col Circospetto Almorò galante della moglie («l’indelebile Foscarina!») che usciva, ebbe a pronunciare la rinomata frase «cussì zovene, e zà a puttane!»...

Più della metà, si sono già sentite. («Ma anche M. de Norpois era controllore del Debito Ottomano, in Proust, no?»). Dopo i pavimenti di marmo del Trenta, anche al Quirinale, viene rievocato ancora per un attimo un non-ballo palladiano memorabile del Trentanove, quando per un divieto personale di Ciano tutti e duemila si decommandarono alla vigilia dopo aver accettato, e soprattutto lì fra gli Asolani molti capirono che la guerra era imminente, quindi presero subito le loro misure specialmente per gli investimenti e i soldi...

 

Fra i pranzi di queste sere, invece, ne viene raccontato uno dai Rudi Crespi a Palazzo Odescalchi, per i Liberman di “Vogue”; e la Grande Tatiana imperiosamente proclamava come una zarina tra i mondani che la prosa di Solženitsyn in Agosto 1914 è la sola degna in questo secolo d’essere paragonata a Tolstoj. Nessuno ne sa niente: pubblicato solo in russo, oltretutto. Scappa detto, a Antonio, «chissà cosa ne direbbe Šklovskij» (che era appena stato a Roma, avevano pranzato ai Tre Scalini), e non l’avesse mai fatto! «Šklovskij taccia!» ribatte lei molto altera. «Šklovskij girava con un paltoncino rivoltato color topo! con il colletto rotto! Šklovskij con questo paltoncino orribile sembrava un vero topo, e girava intorno a una mia cugina che non ne voleva sapere! Šklovskij non scriverà mai una prosa magnifica come quella di Solženitsyn!». E in una di quelle pause assolutamente casuali ai pranzi, echeggiò attraverso tre tavoli (non da tredici) il grido di Tatiana: «... E lo saprò ben io, che sono stata l’ultima fidanzata vera di Majakovskij!».

Pare che a New York l’avesse già dichiarato più d’una volta, ai pranzi. Ma qui, nella generale sorpresa da terz’atto della Traviata, un po’ dispettoso Antonio le avrebbe detto: «Per fortuna abbiamo qui a Roma Angelo Maria Ripellino, grande studioso di Majakovskij. Tutto questo gli verrà da me riferito domani all’alba!».

Ma lei, sempre più grandiosamente: «Appelez-le immédiatement au téléphone!». Ma sono le dieci passate... «Dites-lui seulement: de la part de Tatiana Jakóvleva!». E la padrona di casa, Consuelo, abbastanza allibita: «Puoi chiamare dalla mia stanza...». E Ripellino, all’apparecchio: «La Jakóvleva! Qui! Da anni la vado inseguendo!».

E la storia prosegue: «Stettero un’ora al telefono, arrivavano urla di spasibo, fu saltato il gelato, si diedero un appuntamento la mattina dopo al Grand Hôtel. E Ripellino raccontò poi: non è più stata in Russia, m’ha tempestato di domande sugli appartamenti, vuol sapere come vivono oggi le altre fidanzate più o meno abusive, tutte in povertà...».

 

Di russo in russo, secondo un’altra storia: Nabokov avrebbe detto appena l’altra sera, su un divano al Grand Hôtel: «Lo sguardo di un artista è un fenomeno molto più complesso dello straniamento secondo Šklovskij... Da bambino, sembra che avessi delle notevoli doti artistiche; e come prima cosa, il mio insegnante di pittura m’ha detto: ora siediti, e disegnami una cassetta delle lettere. Naturalmente, avevo sempre visto le cassette postali. Ma al momento di disegnarne una, cioè di rappresentarla, mi sono accorto che non ci riuscivo: non la vedevo più. Sono uscito, e la prima che ho visto mi sembrava tutta diversa da come la ricordavo. La vedevo, cioè, con occhi diversi. E non si tratta di straniamento. Nella mia narrativa, gli occhi girano attorno alla realtà; e praticamente sono loro che le dànno forma».

Aggiungeva: «A Roma, le cose che mi si presentano immediatamente più vivide sono le vecchine che dànno da mangiare ai gatti; ma i miei amici slavisti o americanisti italiani non le vedono. Così come non si impressionano vedendo i sacrestani dell’Aracoeli sbattere i tappeti sulla scalinata – una combinazione di storia e mito e realtà moderna addirittura commovente, ogni volta! – davanti a un mondo di macchine che si incrociano e vigili che fanno contravvenzioni... E anche l’America, con i miei occhi europei, devo averla vista così, in Lolita, che a mio giudizio è un libro molto più tragico che comico... Che cos’è, infatti, se non la storia di una bambina triste in un mondo tristissimo?... E c’è dietro una fatica di schedatura tremenda, come quando si fanno i lavori accademici: libri di medicina, carte topografiche, sentenze di tribunali di minorenni... Volevo soprattutto che la parte ossessiva, un po’ ipnotica, si mescolasse strettamente al puro scherzo, così ci si diverte magari al giuoco, ma nello stesso tempo rimanendo turbati, coinvolti in una storia angosciosa...».

Ma la signora Nabokov, seduta accanto a lui (carnagione freschissima, capelli bianchi ben pettinati per uscire a pranzo, belle perle, bell’abito nero): «E se invece di venir raccontato dall’uomo, fosse scritto da Lolita stessa? Sarebbe altrettanto triste?».

 

Con Šklovskij, invece (appena scoperto al Plaza, sulla lista degli invitati a un congresso, e ancora ignoto da noi), avevano parlato della Dolce vita in Piazza Navona: «Protagonista del film è la Paura! e anestetizza la sensibilità come quegli ubriachi che si feriscono e non sentono dolore... C’è dentro tutto, Garibaldi e l’amore e il sogno e l’Italia e le nostre stelle e noi che scriviamo la teoria della letteratura!».

E poi, sempre con l’interprete, perché lui non parla né francese né inglese: «La letteratura si sviluppa non per fasi ma per frane: le convenzioni letterarie di un’epoca franano, cristallizzandosi altrimenti nelle forme dell’epoca seguente; e queste forme servono a interpretarla. Dante lo sapeva bene: infatti la Divina Commedia riassume la storia passata nella struttura di un giornale futuro – il Giornale dell’Inferno! - mentre nel Paradiso appende tante icone a una struttura di cupola fiorentina...

«Tra realtà e letteratura, i rapporti equivalgono a quelli tra fisica e matematica. La matematica! Che scienza seria! Tutta astratta, con tante leggi affascinanti lì pronte da scoprire!... Ma parlando di realismo, mi viene sempre in mente il massimo antirealista, Tolstoj: la prima volta che è andato in treno è sceso gridando che la ferrovia sta al viaggio come il bordello all’amore!

«Non esiste infatti un buon romanzo che non sia un antiromanzo! È cominciato con Cervantes, continuando con Sterne e Flaubert, finché s’arriva appunto a Tolstoj: emerge dall’interno dei loro romanzi una contestazione dell’organismo romanzesco, magari attraverso personaggi emblematici che si dissociano da quel romanzo con ricusazioni significative... Senza una sterzata semantica, le percezioni abituali diventano automatiche, e la vita passa e scompare trasformandosi nel nulla. Gli automatismi inghiottono tutto: oggetti, abiti, mobili, e la moglie, e la paura della guerra!... Ma dopo Joyce e Proust, il romanzo non rinuncerà più alla forma sinfonica... Si avvierà a trasformarsi in poema: e gli conviene!... È facile scrivere una bella poesia, e addossare idee o sentimenti al poeta è assurdo come bastonare il Giuda delle filodrammatiche... mentre il romanzo “perfetto” è impossibile!...».

Antonio si batte il palmo in fronte come fa Gadda: ah, l’aver dimenticato di chiedergli un paragone fra il Romanzo e le sinfonie di Mahler...

 

Non mi sarei aspettato però quello che racconta andando verso casa. Le era seduto dall’altra parte, a tavola, e ha sentito: per tutto il pranzo Desideria ha continuato a ripetere a Jean-Claude che non ama nessuno e si annoia tutto il giorno, odia la società dove è nata e ha sempre votato comunista, e alle prossime elezioni ancora, fino alla prossima rivoluzione, perché non si aspetta più niente da nessuno, se non proprio dalla Russia, e forse neanche più da quella, dopo che è morto Stalin, l’ultimo che capiva come si trattano gli uomini...

Però intanto continuava a chiedergli che cosa si dovrebbe fare oggi della propria vita, secondo lui... domande da 1936... ma con una vera angoscia, secondo Antonio... E posso bene immaginarmi lo sgomento di quel malheureux personnage, lì ai Trenini, tra i fumi della discarica e i tegamini di cervella... sul montarozzo di ceneri, davanti alla ferrovia dello Stige... «Petit Swann o kleiner Schwanz?».

«Il malheureux aveva incominciato dissertando di fiori da taglio, e ripetendo “à Paris, à Paris, à Paris”, perché in Italia non trova nessun amore per i fiori, e dai fiorai nessun assortimento, mentre à Paris pare che adesso si usi mandare i fiori in modo che assolutamente non sembrino uscire da un fioraio, ma da un giardinetto di casa, raccolti come vengono, anche con un po’ di verdure... Sembrava molto animato, sui mazzi e mazzètti. Poi però lei l’ha abbastanza raggelato, quando gli ha detto che trova una vera gran signora una nostra amica tedesca di Milano, da lui non considerata, e invece una povera mentecatta una dama tutta gioielli di Torino da lui scambiata per l’epitome dello chic italien a Montecarlo».

... E se lei invece avesse scherzato, come il Gatto Silvestro, tongue in cheek?... Anche noi (del resto), non ci siamo privati di nessuna sciocchezza, quando tra i fumi e le cacche e le ceneri dell’atroce montarozzo – e Pier Paolo che continuava a tornar su in disordine, ma per bere solo acqua perché segue una dieta – cambiando e ricambiando i diciassette o diciotto posti a tavola davanti ai trenini per l’Ade, gli cantavamo e ricantavamo, e chiedendogli se la ricordava, la Valse langoureuse composta in un film durante la guerra da Jean Marais musicista romantico ma tenuto come il Trovatore in un’orribile sentina sotto un cupo torrione da un castellano pazzo che quasi certamente era Fernand Ledoux, mentre la figlia di lui Michèle Alfa biondissima e stirata e con occhi quasi bianchi si struggeva per il segregato al chiar di luna... E del resto erano – più o meno – gli stessi due o tre valzerini del Diable au corps con Gérard Philipe, forse di Georges Auric o di Jean Françaix...

Ma Pier Paolo non ne voleva sentir parlare; e Jean-Claude meno che meno... Allora Antonio gli chiede se è vero che à Paris l’Inferno è strutturato come il Linguaggio – «ça c’est du Lacan!» fa lui, indignato – e allora se anche chez i cinesi il loro inconscio sarà strutturato come il loro linguaggio a migliaia di ideogrammi... «E l’inconscio dei paraculi romani che fanno solo ahò, ahò?»... E di lì si ricade nell’amena celia del professeur Lacan in Chianti con parecchie Antigoni e Clitennestre del Pomino e del Brolio, e magari esausto per le bibite dopo colazione in un suo camiciotto da guru alla Nehru, quando gli fanno il solito scherzo: un cameriere, quattro o cinque sale più in là, finge di rispondere al telefono dicendo «donna Marella dal Portogallo», e queste sono le cose che lui sente benissimo anche attraverso decine di povere Giocaste disperate che fanno la pénnica, e allora incomincia a correre e travolgere gridando «Marella! Marella! c’est Marella! il faut que je lui dise bonjour!»... Ma dopo che ha rovesciato delle Fedre che stanno prendendo il caffè coi loro Edipi, mentre sta per afferrare l’apparecchio gli dicono «la linea col Portogallo è tombée!».

 

Di qui si precipita nelle edizioni rare: Kiki ha comprato à Paris un dattiloscritto paranoico di Dalí rilegato in canapone écru e chiuso dalla fibbia di un costume da bagno del Trenta, con una piccolissima riproduzione in bianco e nero dell’Angelus di Millet. Dentro, cartoline di Leonardo e Watteau, oltre che di Millet e Dalí e Duchamp, e bambinacce e menhirs. «Ma non ci sono Mantegna né Max Klinger né i Cassoni Campari, e manca il Vuitton!». Acclusa, però, rilegata anonima in un vellutino verde bruciacchiato come dall’incendio di un confessionale, una Madame Edwarda «con la nonna porcella che perverte il nipote trappista negli orinatoi della Madeleine che racchiudono la Summa Seraphica del Pastor Notorious, vero?».

Ma senza andar lontano, guardando quella coppiaccia al tavolo vicino al cesso, lei che senza repugnanza bacia in bocca al pomodoro aglio e peperoncino quel rospo che magari «nun cià ’na liraaa»... Se si comportano con tale transgression davanti agli avventori dei Trenini, pensate che cosa sono capaci di fare al gabinetto quando nessuno li vede: le Surréalisme romain, même!

Jean-Claude si fa portare da Lancellotta e Falconetto a una stazione di tassì, come se stesse male, noi siamo indecisi se andare a ballare o no. Scipioncelli insiste, la Sanseverina anche. Desideria dice che ne avrebbe voglia. Ma ormai lo so: arriviamo fino ai piedi della discarica, e lei con un sorrisino stanco chiede alle Grazie, che sono di passaggio, se non s’arrabbiano. Lei è sfinita, vorrebbe dormire, domani mattina deve alzarsi presto. Loro non dormiranno presso una Marina? Lei ha la sua macchina, se ne va da sola, e finiamo per salire tutti in Via Veneto.

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Sotto le Trinità dei Monti d’Antonio Donghi, bevendo baby in circolo sui divanoni di Rosati, ecco i superstiti dello Stile Inglese che non sanno l’inglese e non sono stati a Londra: Amici del “Mondo” in grisaglie chiarissime e discussioni accesissime, flanelle “old England” delle Due Sicilie, gessati da ambasciatori con “pochettes” assortite alle calze, in ammirazione di un’astuta mossa di La Malfa, dei nuovi sederi delle starlets di Cinecittà, dell’impaginazione dell’“Observer” preso fresco all’edicola sapendo tradurre forse appena i titoli... «Mentre a Milano i più intellettuali e facoltosi vanno aggirandosi in giacche di tweed con gomiti di cuoio come per caccia alla grouse in via Solferino, scarpe da golf come per nove buche in Montenapoleone»...

Bevendo canarini e tisane in lini bianchi sotto i tendoni blu di Doney, gli amici eleganti sul marciapiede opposto paiono tutti ugualmente e nobilmente fuori del tempo, signorilmente contrari alle mode, affezionati ai begli oggetti del passato di cui riempiono le case e di cui si innamorano. Oggetti poi che magari non durano, non resistono, forse neanche il porfido, continuando a regalarne e a comprarne di nuovi. Sanno tante risposte... Sento discorrere un’altra volta di bronzetti...

... E man mano che fra amari e granite s’allarga la cerchia dell’after-dinner sui marciapiedi, scatta (un nuovo giuoco ogni sera) la competizione sui titoli possibili: Piccoli Martiri crescono, Il ritorno delle Due Orfanelle, I figli della Cavallina Storna... Miracolo a Portici: the Muta speaks!... Scandalo a Sorrento: la Cieca ha visto tutto!... Anche un post-Antonioni nuovissimo: Un non-intellettuale in crisi!... («Non togliete il neo al neorealismo! È come levarlo alle Rosaure!»)... E giù al Café de Paris, i nuovi distinti incominciano ogni frase con «Cortesemente!», dicono d’ogni cosa «Allora la metti in una busta!», pronunciano Càravel, Càmembert, Cìtroën, récital, révival... E più tardi, affacciandosi al Club 84, si può ammirare l’avvocato Agnelli, il solo che sul tavolino ha davanti non un bicchiere di “consumazione” o due ma un’intera bottiglia: un whisky J&B!

 

Su questo 84 c’è già una piccola leggenda dell’anno scorso, quando Antonio e Desideria e Raimondo sono riusciti a trascinare fin sulla porta Gadda; ma già un’altra volta, proprio mai domi, l’avevano convinto a una colazione con Luchino Visconti, alla quale i due hanno fatto di tutto per sottrarsi. Però poi, in pieno blu da mattina tutt’e due, su un bellissimo attico fiorito, dopo aver finto un pochino di non conoscersi, l’uno più impacciato dell’altro, si erano lasciati sfuggire un «sì, siamo stati presentati a Milano tanto tempo fa da Gorgerino»... E allora tutti, posando lo champagne appena versato: Gorgerino! Ah, Gorgerino! Cosa c’è sotto? Chi sarà mai Gorgerino? E subito, con fazzolettini e fazzolettoni, tutto un improvvisarsi delle gorgiere immaginarie intorno al collo sempre più secentesche e spagnolesche e barocche («borromaiche!» bofonchiò lui). Tutto un Frans Hals che piacque pochissimo.

Ma anche sulla soglia dell’84, si era bloccato, l’Ingegnere. Di scatto. «Saremo tenuti a danzare anche non volendo?». Ma per carità. «Verremo inconsapevolmente ripresi da indiscreti fotografi, all’interno?». Nooo, non li lasciano entrare. Non se ne parla. «Ci saranno trombettisti negri?». E Desideria: «Lo prometto!». «Sguaiati?». Siamo qui per questo. «Suoneranno fragorosi saxofoni?». Si capisce. «Allora entriamo!».