FINE STAGIONE
Raimondo è morto praticamente tra la fine di luglio e i primi d’agosto, una mattina: con solo Desideria presente nella stanza, e dicendole appena un attimo prima «ti ringrazio di tutto... per favore salutami tu gli altri». E due giorni dopo ci alziamo abbastanza presto per andare alla funzione, tenuta in quella spaventosa chiesa novecento di Sant’Eugenio, a Valle Giulia. Durante la messa, che alcuni prendono come un cocktail, con molti saluti, in sportivo beige, e tutti i ragguagli sulle crociere imminenti in Turchia anche dei bambini, che hanno finito le scuole, ecco appoggiate alle pareti lì in fila pesanti e molto colorate le corone estive di grossi fiori gonfi coi nastri neri e viola e i nomi «Desideria», «Marina», «Marina», «Camilla», «Camilla», «Giulio», «Giorgio e Grazia», «Sandro e Gloria», «Enrico», «Antonio», «Lorenzo», «Gaia», «Letizia», «Serena», «Allegra», «Gioia», «Gioia», tristissimi in oro. «Che brutta cosa, invecchiare, vero?» si ripetono a voce anche alta certi vecchi mondani “dei circoli”, vestiti chiarissimi. «Ma ti ricordi quant’era bella Donatella, di’? La riconosci? È quella! Ti dico, è lei! Ma tu forse non ti ricordi che splendore, Nicoletta, con quelle gambe e quegli occhi, eh? Eh? La vedi? Che hai detto? Eh?». Magari facendosi sentire dalle vecchie che girano un po’ irrequiete per la funzione, anche zoppicando. E se un altro vecchio dà un colpetto per avvisare «te sente! c’è il rimbombo!», sempre con voce portante: «e mica lei lo può sapere che se stava parlando de lei!». E subito, rimbombando: «La sola che sta un fiore me pare invece Francesca! Sempre stata così brutta da giovane! Invece guarda adesso che gambe, che taille, con quella sua arroganza così precisa! E poi, sempre stata elegantissima! Migliora, migliora, ha la mia età... Sapete come se diceva a Montecarlo per non dire “è una scema” de sua madre, che era una vera scema? “Poor Nane, so intelligent and so underrated!”...».
Tutti gli chic tendono a restare in fondo, per far del gossip. Ma il prete, avendo deciso d’essere moderno e leggero, ha incominciato la messa con «venite pure avanti, è aperto a tutti quanti! non vorrete lasciar qui soli Raimondo e me!». Si scusa perché è un po’ frastornato, non solo per la morte di un amico caro ma per un po’ di jet lag, è appena rientrato dal Brasile. E nella predica fa dei commenti intelligenti sull’orrido gusto architettonico di questo tempio, che però potrebbe diventare oggetto di qualche prossimo revival, come del resto il Foro Mussolini là in fondo; e come questo divertirebbe il caro amico che siamo qui riuniti a salutare per l’ultima volta. («Veniva spesso a trovarmi» dice. Sarà vero?).
Ma i bien: questo fa di tutto per imitare il mondanissimo vescovo Rossi, però manca di allure – «troppo conciliare!». Non lo farebbero neanche entrare nella metà di quelle case dove le dame si prosternano a baciar gli anelli e a placer il porporato al posto d’onore... Però questo ha già come parroco una zona importante, chiunque esali un ultimo sospiro sull’Appia Antica deve dipendere da lui per gli estremi aneliti anche se non lo si è mai invitato una volta a casa!... Molto meglio all’Olgiata, allora, dove c’è da qualche tempo come parroco una persona squisita, tout ce qu’il y a de mieux anche se non gioca a golf... Ma fa un tale caldo, prima ancora delle undici, che uscendo non si riesce a fermarsi più di un paio di minuti sulla porta coi parenti; e ce ne andiamo rapidissimi, senza dir niente, col sole atroce, vestiti tutti di nero come siamo sulle nostre macchine quasi tutte aperte, quasi tutte bianche, o verdi-erba, o celestine, o rosse, oggi qui abbastanza incongrue, le Austin-Healey, le Triumph, le MG, le Mercedes e le Farina a due posti, anche macchinone nere targate Ginevra e Montecarlo, che partono tutte insieme accelerando in tutte le direzioni, con quest’afa spessa e senz’aria, come se ci sentissimo in qualche modo colpevoli di qualche cosa... ultimi venuti nel «te trovo bbene» e non nel «finiranno male!»... «Dove starà andando, Raimondo?», anche guardando sbadatamente l’ora. Ma se uno ha ripetuto «ti trovo benissimo» per tutta la vita, anche per scherzo come lui, invece di «gli va troppo bene! le sconterà tutte in una volta!»... perché non dovrebbe esserci una differenza di boomerang, nel dopo?
Non si vede nessuno, per un giorno o due, ma con la sensazione che siano in città ancora tutti. Poi Giulio telefona con impazienza, e ci si vede a pranzo fuori con Desideria, come se non fosse successo niente, in Piazza Navona, proprio facendolo apposta, per lei, parlando addirittura dei film.
Ma il vero feeling che Raimondo non ci sia più, e non si sia ricomposto proprio niente, almeno io lo provo nettissimo più tardi, oltre una settimana dopo. Meneghella telefona a Antonio, vorrebbe vederlo per parlargli di questo libro che sta finendo, pare ansiosa di discutere il problema degli editori, e addirittura dei premi: lo Strega, il Megera, l’Arpia... Antonio un po’ mandandola a quel paese e sempre più ingolfato nei suoi papers in ritardo naturalmente si sobbarca a invitarla a pranzo, anche perché si è saputo che Desideria esce con Alberico, appena tornato molto bellicoso a Roma da Spoleto, e dopo queste picche e ripicche si sente anche troppo che tira in giro un’aria di faide, taglie, taglioni, «son chi sono!», scomuniche di nèi e cicisbei. «Non conosce l’oro dal princisbecco!... Non vi esibisco la mia protezione!... Mi si deve portar rispetto!... Signor Marchese, con licenza del signor Cavaliere, non senta quell’intingoletto fatto con le mie mani!»... Quindi, aggettivazioni reciproche, e nessuna voglia di incontrarsi in una locanda.
«Voi cosa fate?» chiede Antonio a Desideria. «Ci si vede da Ascanio e Polissena alle nove». Va bene, noi alle nove andiamo a prendere Meneghella a casa sua, e a momenti si piange. Anche per non ridere. Quartiere deepest Salario: buonino, «appena dietro Luchino», ma ai bordi del peggio. Casa decorosa, ma al pianterreno. Stanzine piccole, mobili e tappeti bellini ma non belli; in una sola parete quattro piatti, quattro vasi di farmacia, una marina quasi astratta opera sua, un’icona di San Giorgio, un mortaio con pestello, due coccetti etruschi, una collezioncina di conchiglie. Cassepanche. Un terrazzino con una tettoietta di plastica ondulata, gialla; caldo da soffocare; tre sedie da spiaggia, la bottiglia del bitter, un piattino di crackers: una vera tragedia.
Invece di uscire, lei ci tiene lì, con un caldo! in fondo al cortile! E invece di tirar fuori il suo romanzo ce ne improvvisa un altro, foschissimo, ripescando tante vecchie solfe circa Desideria, che tutti ormai abbiamo sentito negli anfratti dei cocktail almeno una volta e giudicato fumetti e mélo dei più lamentosi, improbabili, addirittura indegni per la loro ovvietà. E quindi senza neanche voler sapere se possono esser veri o no: non per lei, ma per me! Mi si vuol far passare per stolto? Semplicemente non se ne parla e non ci si pensa. Anche per non far fatica, col caldo. Ma queste sue storie non si distinguono mai da quelle che si trovano su “France-Dimanche” o su “Ici-Paris”!
Forse le fonti saranno quelle, fra cassepanche e terrazzetta, o forse qualche film con Euripide in moderno, quando ritira fuori il più frusto dei miti greci di questi anni a St. Moritz, quello dell’armatore greco. E lei aggiungerà le fosche tinte, di suo, ai racontars soliti del Chesa Veglia: enormemente vecchio, orribilmente brutto, basso, largo, noiosissimo, arrogante con tutti, insopportabile coi camerieri, scoreggia a tavola, tira schiaffi in pubblico, del tutto privo di sense of humour, non è vero che racconta divine storie di cavalli, anzi villano perfino con lei... E lei avrebbe confidato, chissà a chi: «È il solo che mi capisce! parliamo lo stesso linguaggio!»... Incontrato (ma non è possibile...) a Rio! Ma immensamente ricco, potente! «Gli americani gli hanno affidato il mare!»... E qui la nostra cadrebbe, o vacillerebbe, sulla ricchezza e sulla potenza, che per quanto sembri straordinario devono avere questo effetto incredibile su una persona così ironica, e intelligente, e «che possiede tutto», e «non ha bisogno di niente»... sicura di sé... désabusée...
«Déracinée» corregge Meneghella come una sibilla, alzando la borsa per vedere se c’è tutto... E in queste orribili storie tout se tient, apparentemente, d’altra parte: anche se pareva mito più mito la fabula di lei che telefona a Meneghella nel cuor della notte perché non arriva una certa telefonata, e passa giornate intere piangendo e lamentandosi buttata proprio su questo divano lurido, qui, dove siamo adesso... sotto i quattro piatti di Bassano («là ci darem la mano?»)... Come avendo lì delle Marie Bonaparte o Anne Freud, e non “Oggi” e “Gente” coi nostri corrispondenti speciali dalla favolosa isola privata di Pathos... Scegliendo proprio Meneghella come druidessa dell’anima, poi... Non è possibile, si dice subito. «Non è possibile», come diceva la Morosini quando credeva che il Gran Senusso fosse un Grande Eunuco con cinquanta figli. «Non è possibile, me l’hanno cambiato», come diceva la madre di Gabriele Baldini quando lo chiudeva fuori da piccolo sul pianerottolo a piangere, e poi «non è possibile che questo bambino così cattivo sia il mio».
Ma non è possibile che non ci sia niente di vero... (Già il veleno ci ha rosi? qui nel cuor s’annida Scarpia!)... Troppe cose adesso coincidono: i viaggi improvvisi, le sparizioni, i turbamenti, gli spostamenti, gli impegni affannosamente annullati... I tempi, gli itinerari: l’America, la Svizzera, la Grecia, tutti i luoghi dove ci sono appunto i medici e le banche e le case estive e forse chissà un bambino o dei bambini, però sempre anche una famosa casa del monster, presso Montecarlo o a Montreux, sulle diverse isole... E certi accenni come accidentali e ridicoli: Rancho Encantado, Palm Springs, Ocean View... «Dovevate vedere,» e insiste, questa «una sera, a Parigi, eravamo un tavolo di otto, da Lapérouse, e c’era una ballerina di Hollywood famosissima, non ricordo il nome, una rossa con tanti capelli! e si sapeva che era una delle amiche di lui... Anzi lui una volta le ha sparato per gelosia in quel posto lì che s’immagina, sbagliandosi per pochissimo... In che stato si è ridotta. Come non ha mai smesso di osservarla. Senza mangiar niente. Ho avuto paura. Come la guardavano tutti. Ho fatto di tutto. Per distrarla. Per portarla via. La mattina dopo, su un aereo!».
«Non è possìììbile!», però, immaginare un mélo che le somigli meno di questa odissea larmoyante e baraccona con le telefonate di lui dalla Giamaica e da tutte le altre isole, raccontandole cosa sta facendo con queste sue porcone di Las Vegas o di una Real Casa, e allora subito lei chiamerebbe proprio Meneghella urlando, tenendola sveglia, come se stesse perdendo il barlume, «come già l’altra volta!»... E si dispera, si lascia andare, si butta via, si consuma, e naturalmente si perde, perché probabilmente anzi certamente lui la farà bere, come tutte le altre, e sicuramente le darà delle sostanze tremende, mettiamo «quando lei pare sul punto di liberarsi e sfuggire»... E insomma siamo al «signore mie, chissà mai che le farà!», al déjà vu banale non c’è proprio limite né rimedio? E allora, tutto un disperato peeerdersi... un desolato slow... come quando (il sabato sera, da piccini) nel sublime Filo del rasoio la povera Anne Baxter in voile nero abbandonata in compagnia di un filtro che si chiamava cucaracha o marimba da Gene Tierney bella e malvagia nelle sue volpi da gran sera, con l’occhio torbido si avvinghiava alla bottiglia vedendo pipistrelli sul soffitto tra violoncellate di Dvořák – e noi dovremmo creeederci... Ma perché non è invece probabile che abbia sottomano come tante e tanti qui un industriale padano o (se non un principe del pomeriggio) qualche valletto romano a dir poco impresentabile che le fa delle vassallate molto terra-terra – e che lei tiene giustamente e furbamente nascosto, tanto se non viene arrestato prima finisce per sposare una parrucchiera e non entrar più nei pantaloni di taglia 54? La nostra Autrice, qui, non sarebbe certo contenta, senza Ocean View. Ma non sarebbe più semplice e più carino, a quest’ora?
«Insomma: dove si va a mangiare?» le chiediamo, per farla finita; e discutiamo come sempre i Classici per almeno un quarto d’ora. Piazza Navona no: incontriamo troppa gente che si conosce, e non si riesce a parlare. (Non sarebbe male...). Tor Carbone no: stasera magari è umido. Casaletti e Casaloni stanno diventando troppo alla buona in senso cattivo. Via Appia, troppo spettrale, per carità. Sui marciapiedi intorno a Via Veneto, lasciamo perdere. Nessun altro posto ci va bene. Finisce che si decide al Passetto: che fantasia. Al momento di salire in macchina, siccome lei va con Antonio e io devo seguire con la mia da solo (non ha voluto altri, peggio per lei), lì in mezzo alla strada domando ancora: «Allora, abbiamo deciso?».
«Ti lascio andare uno schiaffo...» fa lei ridendo, ma già irritata. Andiamo, ci sediamo all’unico tavolino disponibile per tre, e forse la gran tavola apparecchiata coi garofani in mezzo al giardinetto avrebbe dovuto metterci sull’avviso... Ma chi prevede, mai, pure “essendo tenuto”?... Noi abbiamo appena scelto i nostri pomodori e peperoni col riso, e già vediamo arrivare a questa grande tavola prima Camilla e Luiggi... Arriva Ferdinando, e passa da noi a farci un frizzo... e non ci si pensa ancora... scioccamente... Finalmente, eccoli tutti, hanno parcheggiato: Desideria in uno dei suoi bianchi-e-oro più belli, con Alberico, Enrico, Giulio, Jean-Claude, due Christine, un paio di faccioni del Sud già sulla piazza estiva da anni, un paio di faccette nuove del Nord Europa che hanno preso il primo sole...
Facciamo delle cineserie tipo morbinose e frasconazze, i cicisbei ripetono che il vero nèo è quello del neorealismo; ma è puro straniamento vedere come – di colpo – Meneghella diventi molto più nervosa di Desideria, e improvvisamente poco disinvolta. Sente evidentemente che il suo posto sarebbe all’altra tavola, dove nessuno l’ha invitata, e con un placement fra i più impegnativi: tanto più che tra un favorito e l’altro un posto per dama sciolta non mancherebbe. Non riesce neanche a parlare del suo libro; e tenta di fare la spiritosa sulle estati in montagna da bambini con piemontesi che alle escursioni portavano un uovo sodo cadauno, e su un matrimonio recente di mezza pompa coi parenti ducali e comitali in vecchi impermeabili e camicette, e i parenti di nuovo generone edilizio ricoperti di gemme di Bulgari... Poco la consola che verso il gelato si vada scivolando davvero nella frascheria tra cavalieri da una tavola all’altra...
Giulio e l’altro – un po’ “Fevdi” e un po’ “a’ Nandooo!” – guardano e sogguardano dalla nostra parte coprendosi gli occhi con le dita, tipo bautta. «Siora maschera, la reverisso. Servitor umilissimo di lor signore. Siore maschere, le perdona la mala creanza». Marina Piccola gira il dito, tipo «telefoniamoci domani». Alberico e Antonio tirano su il becco affettando di non vedersi, come nelle operine con paravento. In un vuoto d’aria si sente di colpo un lamento bolognese e molto fine: «Il servizio e il manzo erano meglio quando venivo con la povera mamma, trent’anni fa», da una tavolina d’angolo. Un vecchio signore addirittura finissimo. Prima ha salutato quasi tutti.
Desideria scoppia a ridere forte, e gli dice «grazie!». Arrossisce, verecondo. «Mi fermo ancora soltanto un giorno, ma l’aspetto in autunno. Ci sarà il Rubens». Enrico si sporge verso di noi, col menu piegato a megafono, e balbetta garbatamente: «Un Ghislieri per uno non fa male a nessuno, prendi su e porta a casa». Passa Guttuso (era seduto appena dietro), e propone di pranzare con Mimise e lui domani sera. Enrico tuba nel menu arrotolato: «Avete poi visto le sue scene per Le nozze di Tito e La clemenza di Figaro?»... Meneghella, perso il barlume e il lume, quasi grida a un cameriere «sia una persona fantastica! faccia per me una cosa assolutamente meravigliosa!» arrotando un groviglio di “erre” lombarde profonde giù giù fino in fondo alla salpinge; e gli domanda un bicchier d’acqua per le sue pillole; poi lo richiama per ricordargli il ghiaccio; e quando l’acqua arriva urla «perfetto! splendido!». Si voltano i tavoli, il cameriere è offesissimo: teme di venir preso per il culo. E lì, improvvisamente, ridendo, io e Antonio abbiamo insieme la fitta, la sensazione che Raimondo non c’è più e non lo vedremo mai più: è una situazione così tipica e ridicola dove lui si sarebbe trovato in mezzo con una cravatta di Charvet e gli occhi brillanti; o comunque glielo avremmo telefonato subito la mattina dopo; o gli avrebbero telefonato gli altri. Avrebbe riso molto quando è stato chiesto «ci sarà Fede a Ravello?» (intendendo Federico Cenci, e certi hanno capito chissà cosa)... Avrebbe certo aggiunto che di tanto in tanto bisogna punire Meneghella rinfacciandole che le sue tragedie da biblioteca circolante del Salario sono nulla di nulla paragonate alle nostre, quando ci siamo conosciuti e facevamo le governanti – la Colombo e la Beretta, o la Colciaghi e la Repossi: un vecchio sketch – in un castellaccio sul Monte Olimpino con tre sorelle scrittrici pazze, un fratello oppiomane, un guardiano gobbo che ripete «ah, la maledizione!», un bambino e una bambina molto anormali che vedevano apparire l’Innominato mentre faceva cose innominabili con Daphne du Maurier, su una torre gotica da non aprire a nessun costo... Ma è andata così, più niente da fare. Dove si starà avviando, adesso?
Desideria dobbiamo vederla a pranzo la sera dopo, appunto coi Guttuso. Lei stessa parlando con Antonio al telefono verso mezzogiorno promette di raccontare molti frilli del festino d’Alberico. Aggiunge: «Ho appena ritrovato il punto dove la Woolf dice che per aprire lo champagne ci vuole il cavatappi, e ho già perduto il segno!». Ma verso le sette chiama il cameriere di sua zia, e pare veramente uno scherzo: dice che lei si scusa, ma è dovuta partire improvvisamente. Per un giorno o due, torna subito. Ma dove è andata? In Svizzera.

Giulio non sa niente. “Luiggi” neanche. Né le Marine e Letizie, nessuno degli altri. Meneghella meno di tutti: vera fanfarona?... Ma una volta che Desideria era scomparsa, ricorda adesso Antonio, si è venuti a sapere da altri che era sprofondata nella deepest Calabria, accompagnando in treno di notte la bara di un vecchio padre d’amici che sono mondanissimi a Roma e a Crans, ma per questi lutti ricadono in rituali atavici a dir poco agghiaccianti; e lei non l’ha mai ammesso... Però sempre più spesso i vari telefoni non rispondono. «La Sip non raggiunge ancora gli eventuali vagoni funebri?». E Jean-Claude ammutolisce, scompare. Come se la morte di Raimondo, e non la stagione, non già le neurosi, avesse sciolto i gruppi e tagliato le amicizie: in un giorno o due partono improvvisamente quasi tutti, e senza salutare, senza avvertire dove stanno andando.
Noi restiamo per un po’ di tempo incerti, anche un po’ inerti. È una stagione interminabile, funesta... Meglio forse evitare il Ferragosto passandolo a Roma, vecchia fola, nell’aria condizionata, dormendo? Oppure, varcare la frontiera prima di allora, liberi...
Desideria dovrà pure tornare, da un giorno all’altro. Ma nessuno la aspetterà, qui? Anche se sta via poche ore, manda sempre almeno una cartolina buffa... Telefona Jean-Claude da Orvieto, ma non sa niente e non ha deciso niente. Non decidiamo niente neanche noi, per qualche giorno: Antonio sta sempre finendo qualche sua cosa, perché data questa maniacalità non appena una è fatta se ne scoprono almeno un paio d’altre inaspettate però già avviate. L’anno scorso gli è rimasto il fiato di dir no, quando Stoppa e Morelli gli hanno chiesto alla fine di luglio di tradurre entro la fine d’agosto Caro bugiardo, cioè le lettere fra G.B. Shaw e la protagonista di Pygmalion. E così le ha tradotte Emilio Cecchi. Stavolta ha proposto lui a Romolo Valli e Adriana Asti di recitare il carteggio fra Giosue Carducci e Annie Vivanti, dove ci sarebbe un bel “tormentone” teatrale perché si preoccupano sempre di chi porterà i bottiglioni di anicione in montagna. Una pre-sambuca al posto dell’assenzio e anche del simbolismo... Ma per fortuna hanno già risposto che a loro interessa solo Proust. E per le lettere di Pascoli e Mariù “traditi” dall’altra sorella perché si sposa, è ancora presto.
E poi si lamenta, «mi sta già venendo il didietro da scrittore?», come gli ripeteva una volta afflittissima Elsa Morante: «Me lo sono rovinato standoci seduta sopra, è come usare un batticarne sul muscolo! era duro, era sodo, era da ragazzo, aveva una forma perfetta, adesso non è più niente e non c’è rimedio! bisognerebbe scrivere sempre in piedi su un leggìo! Tu usi il leggìo per scrivere?».
Mentre l’estate precipita e Hollywood sul Tevere tracolla, sembra che (Desideria disparue, Piazza Navona retrouvée) si ammassi e ammucchi prima della “Chiusura per ferie” tutta una liquidazione di balli e pranzi e debutti, «intruppaaandosi!». Non vedo Antonio quasi più, se non mentre si cambia di corsa fra un garden-party di rose storiche a Bracciano e una festa di nozze con tre orchestre sul Porto di Traiano, o quando ci troviamo con le macchine parcheggiate al Colosseo dopo le tre. «A questo ballo di Barbarelle e Barbarelli (per dove l’ho visto partire in cache-sex di vernice nera sopra i jeans e stivali da Eugenio Onegin gran sera), un grandissimo salone a mansarde su due piani sopra Piazza di Siena, pieno di tavoline habillées, e su ogni tavolina centinaia d’oggettini d’argento piccoli piccoli. Non dev’esserci ancora passata “m’hanno svaligiato la borsa!”... Ma i tavoli per il pranzo erano in una fila di corridoi molto ampi e senza finestre, con armadi bianchi a vetri come nei gabinetti di storia naturale. E lì, impagliati e illuminati da neon fortissimi, tutti gli uccelli sparati da lui a Palmarola e a Ponza e a Giannutri e al Giglio. Ma non grandi rapaci come nei castelli asburgici: anche passeri e storni e anatre da giardinetti della stazione»... Mentre però loro perdutamente danzavano con le Adriane e le Mirelle e le Moniche fra le cinciallegre e i galli cedroni al neon, sotto un animatissimo archivolto flavio io mi sono trovato davanti, al chiar di luna, Senso! Ancora in ottima forma e beltà malgrado qualche chilo extra specialmente dietro, e di gran vispezza nelle prestazioni come nelle pretese – wow!
All’alba dopo il pranzo coi Guttuso è arrivato un dipinto del Maestro con un bigliettino affettuoso: «Sono rimasto sveglio tutta la notte ripensando a quei racconti!». Aveva voluto sapere in ogni dettaglio le scene e i costumi di Léonor Fini per il Concile d’amour di Oskar Panizza visto di corsa da Antonio a Parigi: è un testo anarchico che lui amava da ragazzo, e adesso è molto curioso sul lavoro di Léonor. Dunque ecco questo suo «Léonor à la manière de Renato» con un Cristo da Officina Ferrarese molto smunto, una Madonna da spiaggia popolare che allarga le cosce in calze marroncine fra teste alate d’angiolini patiti in nimbi gialli e verdini molto lividi, e un “W Panizza!” come “W la Lazio!” sui muri: tutto fatto sulle descrizioni, in poche ore... «E tu, adesso?»... «Ventiquattro rose a lei, magari? E poi, sulla stessa parete dei regali di Maccari?».
Arriva a Roma Edmund Wilson, e gli organizzano un festeggiamento di quartiere: prima un drink qui a casa, con Paolo Milano e Mario Praz, Giulia Massari e Franca Valeri. Chiama e si unisce Gabriele Baldini. E nel pomeriggio, una telefonata di Furio Colombo, appena arrivato da New York. È l’estate a Roma... Non si vedono da un anno, e ascolto: «se ci raggiungi verso le otto... viene anche Edmund Wilson». Si sente un attimo di sospensione, poi prevale il senso del gentiluomo: «peccato per stasera, ho già un impegno a pranzo con un’amica». «Tu invece potresti andare» mi fa Antonio gentilmente «a quella stazioncina tiburtina così rinomata perché frequentata solo da bruti sposati col camioncino e la “Gazzetta dello Sport”». Più tardi viene raccontato che dopo un cibo stravagante fra chitarrate e fiaccole al ristorante spagnolo di fianco a Palazzo Falconieri (aperto solo quest’anno), si salì nel famoso appartamento del Professore, appena di fronte. E lì fra le cere e i cammei e i marmi e le bambine morte e gli elmetti e gli oboi e le tombe di Pio VII tessute dalle monache con barbe e capelli e stagnole e ceralacche, e gli album di dagherrotipi e gli acquarelli di salottini, sono stati tirati fuori degli automi che giacevano avvolti in vecchie pezze turchesche sotto i sofà en housse e le poltroncine en vertugadins: violinisti demoniaci, toreri goyeschi, danzatrici di fandango, incantatori di serpenti carichi di rasi e perline coi loro carillons a chiavetta: e tutti funzionanti... Sono stati rimessi in piedi, caricati, hanno danzato suonando il tamburello fra le culle Impero e le rilegature inglesi dorate e certi flaconi molto alti e molto lunghi pieni di elisir e rosolii negli stessi colori giallini e verdini e rossi delle bibite ai chioschi in Trastevere.
«Wilson? Molto autoritario, come tutti i piccoli. Molto somigliante a Sidney Greenstreet nel Mistero del falco. Senza collo. Incantato dalle mani della Franca. “Beautiful little hands, beautiful little hands”... Si è mangiato malissimo; e Paolo Milano gli ha chiesto cosa cucinava Mary McCarthy quando erano sposati. (Non gli si dice però che Mary sta finendo di scrivere The Group in un mezzanino che le hanno prestato sopra un concessionario Lancia in viale Tiziano). Un pentolone di “all purpose food” ogni lunedì, spiega lui; e poi veniva riscaldato per tutta la settimana. Fa ancora una smorfia, al ricordo... Le vere nourritures terrestres... E Paolo Milano: anche Tucci, a New York, scalda ogni giorno il tutto, e non una parte».
Ma lui: «Mi piace molto, nella critica italiana, l’articolo davanti al nome. Spero di poter venir chiamato il Wilson, da qualcuno, un giorno».
Invece a me è capitato un avvenente scaricatore dei Mercati Generali, nel ribollire vivacissimo dell’Ostiense all’arrivo delle verdure. Saranno state così, le Halles di Parigi nei migliori anni della Grande Guerra, in Sodome et Gomorrhe, nel Temps retrouvé?... Sedani e pomodori conferiscono allure?... I più seducenti facchini e portatori aspettano al bistrò dei bravi signori di sinistra che li prendano a benvolere con un compenso almeno pari alla mercede per lo scarico dei broccoli e broccoletti dai camion. (Altro che l’inautentico mondo dei salotti). Questo era molto simpatico, molto giovane, ma voleva andare nei posti che sapeva lui, e lì c’era sempre qualche cane che incominciava a abbaiare nei momenti migliori.
Al terzo cane provo a cambiar zona andando verso l’Eur, ma ci blocca una macchina della polizia, e gli dicono «tu vai a casa a piedi». Si fa il vecchio gentiluomo, in maglietta? Mi frappongo per l’ospite? Macché, mi fanno: «Vada, vada, per lei è meglio così». Forse per omaggio alla targa svizzera? E neanche volendo potrei dire «è un mio amico, lo porto a casa», perché se mi chiedono come si chiama? Comunque, alla prima frenata, esce da sotto il sedile di fianco un coltello con una lama lunga, ma lunga... Dove lo teneva? Dentro una gamba dei jeans? Con la lama libera? E come faceva, quando si piegava?
Lo butto nel Tevere, e via. Ma poi Antonio mi fa: «Questi del delitto le vogliono provare tutte, prima. Anche un allettante sciatore di Monaco, sai, di fianco alla stazione principale, l’altra stazione dello Starnbergersee? Hai presente, nei primi versi del Waste Land di Eliot? “Summer surprised us, coming over the Starnbergersee / With a shower of rain”?... Ecco, proprio lì. Prendiamo l’autostrada di Garmisch – un giorno si rivaluterà Richard Strauss! la Marescialla! Capriccio! – e poteva ammazzarne dieci, dietro la Raststätte addormentata nel cupo bosco nero. Macché. Là ha voluto fare tutte le sciocchezze, insistendo, per ore, e di gusto. Poi invece il coltello me l’ha puntato solo tornati in città, alla gola, facendo “grrr! grrr!” coi denti, ma proprio sotto la Villa Stuck. Anche lì in un posto che sapeva lui, però fra le case».
Forse non sapeva guidare neanche un Volkswagen dell’Avis, magari?... Comunque rievocando madeleines e coltelli vediamo il Principe delle Pagode che sta facendo la Strega di Biancaneve in mezzo al Tritone, proprio davanti al “Messaggero”. Altre volte lo si era trovato dopo la Scala, the wonderful Rjabučinskij, in preda ai dèmoni e senza macchina, ma qui ci fermiamo a soccorrerlo perché se va sotto un motorino, questo come balla più?
È in balìa di smanie ardenti, e anche «furious at Luchino!» da morir, perché invece di provvedere al suo benessere il Conte l’ha voluto portare a un lunghissimo pranzo in via Sistina dove si parlava solo di politica interna dei partiti, e «all communists! all communists!»... Anche il delicato poeta della Titanus? Anche il sarto di Gina e Sophia? «All communists!». Fuori di sé.
A Milano s’era sopperito portandolo in giro per le gaie pagodine intorno alla Fiera, gran perimetro di sfogo lombardo e carosello multicolor di targhe MI, VA, CO, BS, BG, PV, e magari MN e PC; e per le suggestive ruine d’una filanda neogotica dove tra le spettrali nebbie di un canale di scarico in brughiera danza la più esuberante e misteriosa Brianza; finendo però, noi, in un soffice nido di cuscini William Morris della Rinascente... Qui, a quest’ora, non rimane che il Saint-Francis, dove infatti troviamo come in attesa un super-ex-danseur-nu del Lido che parla solo con uno squisito accento lucano. Vanno benissimo. Ma non c’è altro che una tenda scomoda su una scaletta... Arriva un’illuminazione: da Eddy! (Noi a questo punto avevamo sonno). Questo è un architetto inglese di giardini all’italiana che abita sopra i carabinieri a Palazzo Corsini, e rientra appunto verso queste ore con la sua Lotus granata a tutti ben nota. Telefoniamo, glieli lasciamo lì senza fermarci, e la sera dopo questo Domenico incontrato per caso sui lungoteveri spiega che è stata una cosa stupenda, perché hanno continuato a buttarlo nell’acqua fredda del bagno, e si sono divertiti tutti tantissimo.
Però semmai, prima di tornare a casa, si passa un momento a dare un’occhiata al Vittoriano, là pronto che aspetta d’essere dipinto a pois da Lichtenstein, ma nel corpo di guardia dopo le due spesso fanno entrare volentieri. Bersaglieri e Aviazione e Marina, per lo più: con qualche ufficiale o sottufficiale che dice «io no» ma invita a entrare per i sottoposti, così lo prendono in simpatia e diranno «lui sì, che è bravo». Dentro, veramente il surrealismo: camminamenti smisurati al buio su assi traballanti fra malchiuse porte come tra rovine di Ercolani o Eldoradi fino a una cosa che loro chiamano “il sottosacello” ma dev’essere addirittura sotto il cavallo, ed è il dormitorio, dove i più insonni aspettano, coi vent’anni che minacciano, e si rimena l’ondata della vita.
Stanotte c’è più movimento. Un marinaio che trasportava da Taranto alla Spezia il cadavere di un ammiraglio nella sua bara, avvolta nel tricolore su un camioncino a vetri, passando da Roma viene a battere all’Altare della Patria, col camioncino e la bara su. Ma investe una volkswagenina rossa che probabilmente lo batteva a sua volta. Subito lì tutte le polizie, e centinaia di curiosi.
Arriviamo purtroppo in ritardo. Un tenente in uniforme bianca sta già portando via il marinaio su una 850 blu. Dalla rossa ammaccata devono essere scappati, benché dalla parte della ragione in quanto investiti; le polizie stanno chiedendo un po’ di documenti; dal posto di guardia, tutti fuori in mutande; e sopra il camioncino (sono andato a controllare subito appena sentita la storia) l’ammiraglio morto è rimasto lì per ore dimenticato da tutti.
Arriva anche Henry Kissinger, già prenotatosi da due o tre mesi: nel suo giro annuale, i vari ex-discepoli nei diversi paesi vanno facendosi in quattro per ricambiare al meglio le sue colazioni a Harvard, dove li faceva incontrare tra gli altri con Arthur Schlesinger, «sempre con dei bei papilloncini, ma un po’ grossi», con David Riesman e John Galbraith (La folla solitaria e La società opulenta), e perfino Eleanor Roosevelt, «con una borsona da mercato, a bauletto».
Saletta da Ranieri, Mario Pannunzio, Arrigo Benedetti, Ugo La Malfa, Vittorio Gorresio... Il Professor è insospettito. Voleva incontrare Aldo Moro, e invece gli hanno proposto un certo Morlino. «Is that a diminution?» chiede con gravità. E certo che un po’ c’è, benché... Ma lui va al dunque: nel sistema politico italiano, è frequente questo uso dei diminutivi per i “numeri due”?... Il Professor è impaziente, perché gli interlocutori italiani sono poco “fluent” in inglese, e perciò non capisce come possano essere così sicuri nei giudizi sugli Stati Uniti. Fa un test. È appena uscito The Brutal Friendship. E cos’è The Brutal Friendship? chiedono gli italiani, un po’ disturbati. Un volume dello storico inglese F.W. Deakin sulla brutta alleanza fra la Repubblica Sociale Italiana e la Germania nazista. Nessuno l’ha letto. C’è in italiano? No. «Ma io l’ho letto anche se non sono italiano, perché mi interessa la politica di Mussolini a Salò» dice il Professor. Quante pagine? «Circa ottocento, con documenti diplomatici e interviste agli ex-ambasciatori». Mah, si vedrà, fanno tutti.

Con Gadda, invece, si rimane in ansia fino all’ultimo, perché quando lo invitano alla Campana lui apparentemente si diverte abbastanza, mangia e beve parecchio, rimane volentieri a tavola fin dopo le quattro. E per tutto il ritorno chiacchiera animato, per niente addormentato, anzi attentissimo alla velocità sul contachilometri, gridando di rallentare nei sorpassi, e aggrappato al freno a mano con le due mani per poterlo tirare di colpo, specialmente in curva su dal piazzale Clodio alla Camilluccia... Ma poi, per settimane o per mesi, risponde che è troppo stanco e non si sente tanto. O richiama con lunghe e agitate scuse per decommandarsi. Perché si è divertito troppo a sentir le sciocchezze, e vuol punirsi? O perché si è stufato, dunque farebbe di tutto per rinviare?... Una cosa è certa: non gli piace per niente aver discepoli, epigoni, la corte intorno, Pasolini come continuatore, forse perché ormai è tardi, bisognava che tutto accadesse prima, preferisce fare il vecchio elefante che muore solo... Ma il riserbo reciproco è spropositato. Se gli si telefona ogni tanto per invitarlo fuori, lo si disturba perché le considera “scocciature”, oppure gli fa piacere trovarsi fra persone che gli vogliono bene, come Pietro Citati e Angelo Guglielmi, invece di sentirsi dimenticato proprio dai Nipotini dell’Ingegnere, che gli devono tutto o quasi (anche un po’ di guadagni) e sinceramente lo venerano, mentre parecchi suoi coetanei dementi ancora lo considerano un faticoso umorista, un marginale cincischiato, un anomalo eccentrico?
Si mettono insieme dei bei piccoli zibaldoni e crestomazie, qui in casa, schedando le coglionerie su Gadda dei critici suoi contemporanei. «Ironia oziosa», «Scherzo a vuoto», «Aggrovigliata tessitura», «Prose ricche, troppo ricche», «Non ha leggerezza di movimenti», «Non sa fondere bene le parti», «Non vede le varie arti in un’una, le vede disgregarsi», «È un Barilli a cui manca tutto quello che è di Barilli!»... Nel dossier da squadra mobile intestato a “Ingravallo e altri” figurano Gargiulo Alfredo con «Non sempre egli scherza», e De Robertis Giuseppe con questa bella leccata di culo: «Libri avventurosi, diari nudi e distaccati, paragrafi di saporitissima scrittura, rappresentazioni frescamente epiche, confessioni coraggiose e crudeli non c’erano mancati che sopravanzassero il livello mediocre delle false cronache, o della letteratura male spesa, o della rettorica eroica: Mussolini, Soffici, Baldini, Comisso, Stuparich, Stanghellini...».
E per il Carlo Emilio, che mme ddite, dottò? «Solo la guerra, e la mortale fatica, sanno sprigionarlo da sé; altrimenti egli non sa guardarsi dall’indulgere ai mille richiami e, così indulgendo, un poco perdersi»...
... «Non sempre egli scherza!»... «Non sa guardarsi»... «E così indulgendo»... «Un poco perdersi»...
Sono diventati adesso i parametri qui più abusati di «typical Italian stronzago» – pronunciato come plumbago e Tobago – anche fuori della letteratura... Soprattutto a proposito di camerieri e mangiare. «Non sa guardarsi» per gli sbrodolii da pinzimonio, e le richieste di recensioni da un tavolo all’altro. Anche in canzonetta: «’Nu poco peeerdersi...» fra i marinai in divisa bianca e lunghe ciglia in pizzeria... dove al «che je famo pure un po’ de bucatini, dottò?», il moderno plurilinguista per “far” Revival del Trenta in lino bianco elegantemente ribatte: «che gnente gnente ciavreste un po’ de Mussolini e de Stanghellini ar dente come va dicendo qua er sor maestro?»...
... E l’indimenticabile «Non sempre egli scherza», ora neo-sperimentale, quando la Stradale va facendo una multa, e dietro gli occhialoni neri finge di non “sgamare” che si canticchia «Io ti darò – di piùùù – se poi verrai – con meee!!!»...
«E così indulgendo...» – lo va ripetendo er sor maestro – quando poi ci si va a recuperare alticci, l’un l’altro, fra lo sperimentale e l’empirico, nei viluppi umani estivi sotto le Mura e gli Archi, e «... questo di chi è?».
Ma col sommo Ingegnere alla Campana loro adesso ripescano soprattutto vecchi termini milanesi di famiglia e di casa, che ormai forse adoperano soltanto Anna Bonomi e lui: naturalmente il babacio e il mammalucco e il macaco e il tarlucco e i ciospi, per indicare diverse nuances di pirloneria milanese. E fare “ciflis” invece che cilecca, in guerra e in altro. E i giavann, e i baloss, che lui riassapora volentieri e ripete piano, riaggiustando i suoni, coi tananà e i tanavèi, e i magatell, e cicìp e ciciàp... Ma non gli va affatto bene tutto: per esempio non gli piacciono certi brutti termini provinciali lombardi (forse neanche nel Porta) come ciulandari, gandula, e luitòn. E sulle parole sconvenienti, i tabù reciproci sono sempre stati totali. Anche quando gli si favoleggiava che una gran dama dai mille volti, rinomatissima per il minuscolo baby di champagne che portava solo per sé alle cene di prestigio, estraendolo di sotto il tavolo a sorpresa, lo conservava in fresco, frappé, proprio dentro là.
Sempre alla favorita Campana, colazione milanese con Franca Valeri; e alla fine lei intimoritissima osa domandargli se non sarebbe disposto a scriverle una commedia proprio lombarda. E lui: «La desidererebbe forse in un atto, o in tre atti, o in cinque, o come si usa attualmente – mi perdoni – in due tempi? Rispettando – si fa per dire – le cosiddette unità aristoteliche?... Si potrebbero probabilmente envisager tre atti unici che sommati costituirebbero serata, sul tema di tre donne milanesi che in tre generazioni successive – la nonna, la madre, la figlia – per attaccamento al danaro perdono in identica situazione l’amore... Ma a questo punto – mi scusi... – perché non la scrive direttamente Lei?».
Invitato però una volta al Passetto da Livio Garzanti, anche con Bertolucci e altri letterati di buon nome, Gadda evidentemente si riprometteva un banchetto. Ma l’editore in un accesso di semplicità si toglie la giacca e ordina una pizza. Gadda, come tramortito, lascia cadere il menu, e non ha mangiato quasi niente.
Dopo una colazione di Pasqua con molte fettuccine, invece, da Alfredo con Moravia e Pasolini e Carlo Levi, tutti al cinema Fiamma per vedere L’eclisse d’Antonioni; e nella platea che zittiva compunta, lui chiedeva forte e un po’ esasperato a Antonio: «È ancora la madre? O adesso è la figlia? Ci sarà forse stato, inavvertitamente, un flashback?». E quando appare un negro in un aeroporto vuoto, fra sé, desolato: «Anche un etiope, adesso. Ma sarà un ascaro o un dubat?».
A colazione, in abito blu, camicia bianca, fazzolettino bianco, scarpe nere, cravatta comprata in un abominevole magazzino a Sant’Andrea delle Fratte (e sempre molto preoccupato, voluminosamente, di “ricambiare”, anche con vini francesi portati a casa), quando sono in pochissimi l’Ingegnere dà opinioni confidenziali e perplesse circa gli autori italiani. «In Ugo Foscolo, io non odio il poeta. Se mai, odio l’istrione, il basettone. Non odio l’innamorato. Ma vantarsi del pelo! È una veduta da parrucchiere! Una volta nudo, era sicuro di riuscire irresistibile. Avanti, signore e signori! Una lira, una misera liruccia! Per vedere il petto a Ugo Foscolo!... E non mi sento di moralizzare nessuno, ma sospetto nel Foscolo una teatralità sprezzante cattivona che non doveva competergli. Ha cercato di imporsi nelle lettere e sulle donne con le basette, col pelo, con questo “largo petto”, “nudo petto”, “irsuto petto”, come se fosse merito suo avere un irsuto petto! E come se fosse vero che molto pelo vuol dire molta musica! È un narcisismo da torero! Senza contare che il narcisismo dell’irsuto petto è sbagliato anche come narcisismo, perché il Narciso classico è appetibile a se stesso in quanto glabro...
«Inoltre l’abuso che fa di alcuni vocaboli rivela in lui una fissazione probabilmente edipica per la femminilità della madre. “Sacerdotessa” ricorre in misura crescente in tutte le testimonianze del suo Gradus ad Parnassum: Caduta da cavallo, Amica risanata, Sepolcri, Grazie, sempre con aumento preoccupante di frequenza! sempre la donna promossa a sacerdotessa!... E questo abuso della parola “vergine”: abuso di virtù riferita alla donna senza camicia (o che sta per togliersela), ponendo il poeta talora moralista in contraddizione con se stesso... Non rimprovero che gli piacessero le donne: ma in quanto la vergine in camicia è destinata a diminuire nella società umana il pourcentage di vergini che sembrano inebriare lo spiritato poeta. Rapito da un vaporare di fantasime femminili in camicia, scorge delle vergini perfino sull’aereo poggio di Bellosguardo! Tutte vergini, per lui! Ci sono più vergini nei millenovecento versi del Foscolo che in tutta la storia di Roma antica... Nelle Grazie, poi, sono vergini anche i quadrupedi. Vergini gli uomini, vergini le donne, vergini che si salvano a nuoto, vergini i cavalli, vergini le cavalle, vergine la cerva di Diana. E Diana stessa. E tutte le Muse. E Minerva. Nessuno si salva dalla verginità. Neanche le vergini britanne che nei Sepolcri pregano i Geni per il ritorno del prode Nelson “che tronca fè la trionfata nave / del maggior pino, e si scavò la bara”. Qui però le vergini non hanno portato fortuna al prode, con le loro preghiere. Il prode torna sì all’isola natia, ma vi approderà cadavere... Epperò il Foscolo non par mai voler incontrare il martirio (coltellata del rivale) per una vergine. Ha sempre tentato di adire donne maritate, e soprattutto malmaritate, di condizione agiata, per conquidere il cuore delle quali non occorreva pagare scotto né di buona entrata né di buona uscita».
Ma l’Ingegnere, che odia le imprecisioni tecniche, riprende il Foscolo anche per le espressioni poetiche che risultano ridicole per mancanza di controllo. «L’inizio delle Grazie è una sciarada: “Entra ed adora”... Ma che verso è? chi entra ed adora, si troverà col naso davanti ai tre cocò. “Vorrei coprire di rose la tua tomba, e sedermi sopra in perpetuo pianto”. Ma per prima cosa gli sarebbe capitato di pungersi. E “ho passato un’intera notte a piangere” è fisiologicamente impossibile!... Il Foscolo, col Carducci, è il più grande strafalcionista del lirismo italiano ottocentesco».
Le colazioni e le conversazioni alla Campana ormai vengono trascritte subito... «Qui si lasciano scomparire gli ultimi grandi senza interrogarli!» va protestando Antonio. «Aspettano dopo la morte, per fare le domande ai testi secondo un metodo o un altro, che definiscono “scientifico”, senza curiosità per le risposte che avrebbe potuto dare l’autore in vita, non filologiche ma autentiche...». E Gadda, non sempre contento di venire interpellato sui poeti del canone come in un cabaret letterario (una ferita forse ancora aperta, da quando i vecchi colleghi lo provocavano, per applaudire poi le “battute”, considerate facezie?), dice abbastanza affranto, in fine di colazione: «Non si può lasciar passare una grossièreté estetica come il “caso dell’Alfieri” nell’ode Piemonte del Carducci... “Venne quel grande, come il grande augello / ond’ebbe nome; e a l’umile paese / sopra volando; fulvo, irrequïeto / Italia, Italia / egli gridava a’ dissueti orecchi...”. Ma qui si pone un problema che il Carducci non si è posto, mentre sarebbe stato tenuto a porselo. In quale toilette volava il grande Alfieri, secondo lui? Nella tenuta d’Icaro? E che spettacolo offrirebbe allora a chi guarda di sotto in su? E se volasse invece con abiti del suo tempo? In ambedue le ipotesi, la cosa è grottesca... Questo Alfieri che vola, sarà stato così entusiasmante da contemplare per chi se lo fosse visto passar sopra? Un individuo in volo sopra di noi fisicamente dà la sensazione che ci possa lasciar cadere qualcosa sulla testa, può essere pericoloso... che so, un sasso, una bomba...».
Qui sarà passata l’ombra forse della guerra, ma soprattutto di un ricordo d’infanzia: la sola volta che Gadda bambino fu finalmente portato dai tirchi parenti a prendere un gelato in Galleria, un piccione da un cornicione rovinò quella “chicca” lungamente fantasticata. (Non fu comprato un secondo gelato: apriti Freud? E apriti cosa, sul bersi addosso a morte di Gabriele Baldini, persona di magnifico sense of humour e di melanconia irrimediabile? Il modello “larger than life” di Falstaff? O quella madre che chiudeva fuori il bambino ripetendo dall’interno «me l’hanno cambiato, non è lui, non è lui»?)... «Insomma,» conclude Gadda «sono del parere che far volare la gente sbocchi in situazioni impoetiche per eccellenza: grottesche-barocche; anzi, di tipo grottesco-grullo. Ho visto il manoscritto originale dell’Ode, ove si trova la parola “uccello”, poi biffée e sostituita da “augello”. Segno che già il Carducci doveva aver capito che era una situazione ridicola».
E più avanti, nella stessa Ode, Carlo Alberto muore in esilio a Oporto. «... E nel crepuscolo de i sensi / tra le due vite al re davanti corse / una miranda visïon: di Nizza / il marinaro / biondo che dal Gianicolo spronava / contro l’oltraggio gallico...». E qui prima di tutto a Gadda non pare serio che un re, sia pure in esilio, muoia sognando un marinaio, per di più a cavallo: tanto più che un marinaio a cavallo appare una contraddizione in sé, come un cavaliere in barca. E Garibaldi spronava dal Gianicolo, a molti chilometri dal mare... «Perché mai avrebbe dovuto abbigliarsi da marinaro, per spronare dal Gianicolo? Senza contare che quando spronava si era già nel ’49, non era più né giovane né biondo, aveva più di quarant’anni, soffriva di reumatismi dolorosi... Come del resto, perché l’Alfieri dovrebbe essere “fulvo”? Aveva contratto la tigna da giovanetto alla scuola militare dei cadetti, era calvo come un ginocchio...».
Ma questo Pascoli, Ingegnere?... (Non c’è forse un altro scrittore moderno così interpellato da ammiratori e fans che prendono mentalmente appunti, e poi a casa li stendono. E come si consultano per confrontarli... Lui solo sa usare insieme termini come ebefrenico, ipotipico, simultanare, cippirimerli!). Però sul Pascoli si mostra sfinito. Porta la mano alla fronte senza batterla col palmo, si limita a far notare che «la psicologia e la storia del personaggio Zvanì e delle sue gentili sorelle m’interessano piuttosto come mia ricerca e possibile documentazione psicologica, e come atto mio di commemorante pietà»... Aggiunge anzi che da mesi desidera comprare il prezioso volume delle memorie di Mariù, «ma per stanchezza fisica e mancanza di possibilità di moto topografico non sono ancora riuscito a procurarlo». Come per giustificarsi di fronte a vecchi universitari dei suoi tempi. Mormora che «di vittime d’atroci delitti e sofferenze ve ne sono state molte, nella storia della criminologia italiana, però non hanno strascicato per tutta la vita il loro pianto e il loro processo contro la società che li ha offesi, con relativa imposizione di un guidrigildo... nel caso del Pascoli, guidrigildo cristiano: da lui imposto a tutta la società, oltre che ai presunti offensori...».
Ma il pomeriggio va avanti, a tavola, tra i fiaschi di Chianti Sammontana a consumo; e i camerieri della Campana, in piedi, che aspettano. E l’Ingegnere osserva che «Pascoli ha certamente suggerito qualche eccitazione ad un eventuale plurilinguismo (attualmente negatissimo) del grande Montale, che odia sì i dialetti, comprendendovi ogni gergo e parlata di mestiere, ma almeno nomina precisamente uccelli e alberi... onomatopeico con misura... Non ne rifà il verso, degenerando come il Pascoli nella scioccaggine infantile, ma ne rappresenta leonardescamente la rapidità folgorante e il movimento. Specialmente la caduta: il saliscendi del balestruccio, il falchetto che strapiomba...».
... E invece quelle grevi sieste estive in casa Pascoli, tra fiaschi di vino meridionale pesantissimo da cui poi la cirrosi, tutti vestiti a letto, con gli spaghi legati alle dita dei piedi del fratello e delle sorelle, per tirarseli da un letto all’altro... «Qualche esempio di scioccaggine?... tra Sammontana e sambuca... Ingegnere!».
«Nel Fanciullo mendico, un bimbo che deve aver dormito in un fienile, povero e macilento e orfano, bussa all’uscio del Pascoli, che è solo in casa, in ciabatte, senza sorelle». E a qualcuno viene forse in mente Palazzeschi, che va ad aprire la porta in vestaglia ai fattorini, al suo ultimo piano sopra il teatro Valle, tra le porcellane in parte rubate, i De Pisis, e senza telefono. «Ha ancora delle paglie nel parruccone di ispidi riccioli. Ma si presenta con un aspetto precocemente virile, e senza dir nulla stende la mano al Pascoli...». E qui l’Ingegnere è molto scandalizzato per il contegno del Poeta, «che di fronte alla richiesta d’elemosina, invece di accordare il suo obolo senza tante storie, indugia cercando tirchiamente la monetina più piccola. Stringe il bimbo a sé, e questo è già ridicolo, perché il bimbo si suppone più piccolo di lui. Dove gli sarà arrivato? Al cuore? Comunque la posizione è grottesca. Ma intanto il Pascoli si commuove. Così gli tende l’obolo piangendo. Ma prima della monetina arriva al bambino una lacrima del Pascoli sul parruccone ispido».
L’Ingegnere si dà un colpo alla fronte, col palmo. «Il Pascoli si affretta a tergerla con un bacio. “E io quasi chiedendo perdono / gli tersi la stilla smarrita / con un bacio, e ponevo il mio dono / tra quelle sue povere dita”. Ma a questo punto il bimbo più fiero del poeta esonera il Pascoli dal contributo assistenziale, non lo vuol più. Rinuncia all’obolo, che il tirchio poeta è ben contento di rintascare; e se ne va a mani vuote, dicendo “non li voglio; non voglio, signore / che scemi la vostra pietà”. E il Pascoli, che non ne ha ancora abbastanza, aggiunge: “Io sentii che il suo greve fardello / godeva a portarselo dietro”. Godeva? Per giustificare la rintascata moneta, attribuisce cioè una sorta di felicità masochistica al povero bambino. O desiderio di martirio? È una storia tutta molto strana».
E scioccaggini del Pascoli sulla Patria? «Quando cerca di inseguire contemporaneamente la rettorica di Carducci e di D’Annunzio, lo ha già osservato a suo luogo il Contini! Così l’Inno a Torino, per il Cinquantenario dell’Unità d’Italia, risulta una scemenza: “Toro divino ch’oltra due fiumane / sbalzando al piano, corneggiando al vento”... E Garibaldi vecchio a Caprera, nella poesia omonima: prima “cova il fuoco, cova il suo pensiero”, così gallinesco, così poco dignitoso. E dopo rimemora i suoi anni giovanili sotto forma de “lo stallone e la sua gioventù”. Ma è vagamente ridicola questa epopea dello stallone d’Italia. Ed è leggermente comico che il Pascoli pretenda di rappresentare i ricordi di gioventù di uno stallone, in una piccola isola...».
E il D’Annunzio? «I soldati non lo nominavano mai nelle loro canzoni, ritenendolo uno iettatore, e al sentirne il nome si toccavano le stellette. Del resto amava circondarsi di decori funebri, di urne, sarcofaghi, lampade votive... A Fiume era alloggiato nel Palazzo del Governo; e quando fu sparato il primo colpo di cannone dall’incrociatore San Giorgio si precipitò in basso; e attraverso un sotterraneo si rifugiò in un convento attiguo di suore, travestendosi immediatamente da educanda. Finché la badessa gli fece capire con buone maniere ma anche con una certa decisione che non poteva trattenersi lì, non era il caso. Allora si rivestì da Comandante; e in tale veste subito s’arrese».
Lo trova esibitivo, narcissico; giudica fastidiosa la sua “municipalistica” per l’Abruzzo, le montagne... Prova tuttavia un grande senso di rispetto per il suo studio della lingua, «anche se compiuto sui vocabolari». E una grande stima per la capacità di lavoro. «Uno di questi giorni vorrei ritirarmi anch’io in solitudine, nutrendomi di succo d’arance».
E il Vittoriale, allora?
«Questo popolo di mangiatori di maccheroni non riesce a distinguere il sano dall’amente! Nessuno ha mai voluto capire come D’Annunzio, da un certo momento in poi, sia stato appunto amente... Aveva collocato una prua di nave su un mucchio di sassi, e faceva sparare col cannone sull’altra riva del Garda. Va bene che era a salve: ma qualche volta lo caricava a palle, rischiando di uccidere i contadini nei vigneti...».
... Ma quale personaggio letterario avrebbe voluto essere, Gadda? «Se un Dio... non il padreterno morale, intendiamoci... Ma se un Dio estetico mi domandasse in quale personaggio dei Promessi sposi vorrei identificarmi... risponderei subito: in Don Abbondio!... Per la sua povertà disarmata, la sua paura fisica, la sua ragione stessa d’aver paura... per la confessione che fa a se stesso della sua reale condizione umana... È quello che vede più chiara la sua posizione, al di fuori d’ogni esornazione teatrale... vera mancanza di spirito esibitivo, narcissico, gratuito... Il più vicino alla mia mancanza di teatralità, di messa in scena...».
Don Abbondio?... «Il Cardinale vince con la sua altezza di conoscenza, vince come Racine e Pascal, come mente. Ma come diretto conoscitore della propria vicenda, della propria realtà senza fronzoli, Don Abbondio ha ragione. E la sua ragione è già nella sua stessa posizione indifesa, sperduta, di fronte alla nobiltà terriera prepotente. Per Moravia, rappresenta la corruzione della borghesia. Ma che borghesia c’era in quegli anni!... A meno di non ricordare il cugino Bortolo che ha fatto fortuna nel Bergamasco... E quale corruzione? Semmai, una povertà dimessa, un bicchiere di vino ogni tanto...
«E certamente, il Cardinale per me rappresenta con un certo fascino la presenza fisica della Chiesa cattolica di rito ambrosiano nel contado, in occasione della visita pastorale stupendamente descritta... Solennità che non s’abbassa mai stilisticamente: nel colloquio con l’Innominato sono di fronte due pari grado, due giansenisti raciniani... Il “delirio passeggero”, lo scampanio all’alba... “Ho l’inferno nel cuore!”... E poi, “eppure provo un refrigerio, una gioia”... Stupendo! Mentre fra il Cardinale e Don Abbondio: il cielo me la mandi buona, adesso sto fresco, adesso vien la grandine...
«Questa Milano borromaica, però...».
«Apprezzo il lato borromeiano-romano del Cardinale! I suoi antenati erano buoni osti che curavano il traffico di pellegrini e romei, e se ne sono arricchiti. Credo che provenissero da San Miniato al Tedesco, di cui era originaria anche la famiglia Bonaparte, del resto: la stessa San Miniato al Tedesco dove frinivano le cicale del Carducci... Ma non si chiama più così. Si chiama San Miniato al Monte, mi pare. Il “Tedesco” è stato abolito dopo che i tedeschi hanno fatto saltare la torre di Federico II... Abitava lì una buona borghesia d’origine fiorentina, a cui dovevano appartenere i Borromeo... mentre i napoleonidi probabilmente hanno origini pisane o sarde, da uno dei giudicati pisani della Sardegna...
«Poi si sono trasferiti nel Veneto, fra Treviso e Padova, dove si sono imparentati coi marchesi Vitaliani, ereditandone fra l’altro anche il nome, che ricorre così spesso nella famiglia Borromeo... E poi finalmente nel Milanese... migliorando continuamente la loro fortuna topografica, ed economica, e terriera... E a Milano, verso la fine del Settecento, si sono alleati per matrimoni coi marchesi d’Adda... donde Febo d’Adda, il giovanotto dell’ode Alla Musa del Parini... di cui il Parini tanto amava le elette doti umanistiche, tanto vero che non appena si sposa rimprovera la moglie: “Giovanetta crudel, per che mi togli / tutto il mio d’Adda, e di mie cure il pregio / e la speme concetta, e i dolci orgogli / d’alunno egregio?”...».
Only connect!... «I Borromeo hanno tentato di sostituirsi ai Visconti e agli Sforza nella déconfiture sforzesca dopo Ludovico il Moro, tentando di costituire un baluardo lombardo nella rocca d’Arona... La differenza coi Trivulzio è che Giangiacomo era fuoriuscito, mentre i Borromeo sono sempre rimasti in Lombardia, dando prova d’ossequio formale verso la Spagna dopo la battaglia di Pavia...».
Dunque, Don Abbondio, fra noi...
«... Ma le istanze fisiche, ormoniche, nervose, uterine, della nostra felicità, sono collocabili a un livello più basso del sistema organato della ragione platonica; e un’etica consapevole dei suoi mezzi e fini dovrà tener conto di questo fatto. Le istanze fisiche ci sono date dalla Natura, compresa nell’opera di Dio. Le istanze logiche profonde di alto livello ci sono date dal Dio supervisore della Natura stessa. Né un livello né l’altro possono essere ripudiati da un’etica nostra: sono entrambi delle realtà... Uno nella realtà... inferiore... L’altro nella realtà superiore, a sua volta inferiore rispetto a un’altra... E sono infinite! Già gli alessandrini sostenevano... e Leibniz... Diversi piani di conoscenza uno sopra l’altro... E il secondo piano diventa primo rispetto a un terzo, e in futuro se ne aggiungeranno forse altri...».
Antonio lo riaccompagna e ritorna dopo le sei perché l’Ingegnere ha voluto ispezionare le finizioni e le tubature del nuovo Hilton, vicino a casa sua: piano per piano, anche controllando la qualità degli intonaci e i tempi degli ascensori. Sulla terrazza, all’ultimo piano, si fermano per riconoscere le cupole romane secondo una prospettiva tutta diversa. Un prete americano passeggia lì intorno, leggendo il breviario, e Gadda con la mano aperta si dà un altro colpo fortissimo sulla fronte: «Così, dovevo nascere! Americano, prete, e vivere all’Hilton di succo d’arance!». Ma è preoccupato perché da qualche tempo attraversando il piazzale della Camilluccia per andare dal barbiere incrocia ogni mattina Goffredo Parise che va all’ufficio postale, di fronte, con dei pacchetti molto strani. Goffredo sostiene che da quando l’“Europeo” ha cambiato formato, arrotolandolo stretto dentro un foglio di guttaperca si possono confezionare dei cazzi finti bellissimi per consistenza e per forma; e ogni giorno ne spedisce alcuni anonimi alle dame letterarie più in vista nel salotto Bellonci. E Gadda si inquieta parecchio, perché tutti sanno che abita alla Camilluccia e teme che osservando il bollo dell’ufficio postale verrà riconosciuto e accusato come colpevole. Tanto più che da qualche tempo una di quelle dame va spesso a prenderlo in automobile coi suoi due cani chiamati Florindo e Rosaura; e lo conduce in una sala da tè d’altri tempi dove sotto il tavolino di vetro Rosaura e Florindo sconciamente si accoppiano – indubbiamente dressés, secondo l’Ingegnere – per ficcargli in testa idee di nozze, o peggio. Per essersi trovato una volta solo in un ascensore stretto con la sorella brutta di un collega della Rai (confidò a Giulio Cattaneo), «ora mi toccherà sposarla».
Oppure, come sostiene Desideria, è probabile che appena girato l’angolo del palazzo si tolga la maschera perturbata e apprensiva che ci mostrava, e rida di cuore alle nostre spalle?
Non parla volentieri del Dossi, però. Mai l’ha citato, lo si è scoperto da soli, e poi ha sempre lasciato cadere ogni accenno.

Solo da Roberto Longhi, mi sento ripetere con rimpianto (quando mai si riesce a trovare il tempo per Firenze?), si possono sperimentare diletti d’una qualità “comparable”... Ma è lontano e arcano: si diverte piuttosto a far piccoli numeri d’abbassamento ironico, a colazione, ridendo con sottintesi e “agudezas” sulle manie dei colleghi più seriosi e stizzosi, mentre le piccole braci delle sigarette continue calano anche accese sulla giacca di cashmere: «Paszkowski nel Trentacinque era il nome di un caffè letterario. Oggi bisognerebbe farlo passare per uno strutturalista, allievo di Jakobson fin dal Diciannove».
Sembra mascherarsi o nascondersi, gattone o pitone se non tigre ironica nella giungla, dietro l’imitazione sobria a mezza voce delle prime canzoni urlate di Mina, dei fervori più acuti di Cesare Brandi, della mimica assorta di Sam Jaffe, vecchio gangster, vecchio specialista di casseforti e di scassi in Giungla d’asfalto... tra la grande biblioteca da piccola certosa elegante, e i piccoli poggi a sbalzi d’ulivi: «Il Tasso»... «Quando le sere al Tasso»... Però là davanti al Caravaggino impazza la terribile Bantessa, carica di “assoluti” aggressivi e priva di sense of humour. Lui si diverte ai couplets da cabaret, da canticchiare come inventari: «un catino / absidale / di Masolino / da Panicale... gli arditi / da sbarco / De Viti / De Marco... Amor che a nullo amato / Giustino Fortunato... una lupa, un leone, una lonza, una Monaca di Monza, un’isola di Ponza... un uomo di pena, Caterina da Siena, Zefiro torna e il bel tempo rimena... ecco ridente in cielo / spunta la bella aurora / la vita fugge e non s’arresta un’ora / chi non lavora / non mangerà... date udienza insieme / e rendetemi la speme / o lasciatemi morir... dopo la morte poscia / inibizione sintomo e angoscia»... E socchiude gli occhi bizantini con un ammicco arabo...
Lei, no. Intima «basta coi giochini!», «basta con la sensiblerie!», oppure basta con quant’altro, dans le Moderne, con toni e sguardi e pettinature e cappellini molto severi, e «basta!» perentori all’ombra di lui... Come (pare) una certa sarta autorevole di lì, la Lumachi o la Pitechi, che «quando la dice: basta coi godets! tutte le sartine di Firenze l’obbediscono». E quanti assoluti da lasciarle lì in casa, uscendo, come bocconi fatti scivolare nel fazzoletto o nel portombrelli.
... Ma naturalmente qui a un passo – altri mots, altre leggende! – c’è in via Giulia il sommo Anglologo!... Altro “intellectual hero” di pochi fans deplorato per decenni di meschinerie provinciali dai suoi colleghi accademici burocrati; e considerato marginale, eccentrico, dunque morboso e riprovevole – altro che English Eccentrics... – proprio per la sua erudizione smisurata negli estri fantastici delle arti cosiddette “minori”... capricciose, ghiribizzose, grottesche... e perciò indegne d’attenzione critica, per la piccola borghesia dei funzionari letterari che mai saprebbero uscire dall’ortino chiuso della “propria materia” e dai centrini ricamati dell’Io: quell’Io italiano tanto interessante quando parla di sé, e del ritorno al paesello, sempre tanto bello come il tinello...
Che costernazione fra i tinelli e i paeselli, allora, quando un illustre docente invece di consacrare la propria immagine fra i Classici del Canone si spreca e si sciupa fra la Bellezza & Bizzarria di manieristi lunatici e visionari decadenti... senza mai ricrearsi come tanti sulle sventure quotidiane dei miseri con la scusa del neorealismo o delle microstorie... senza sottrarsi al Giudizio col pretesto “scientifico” della Filologia o delle Strutture... sperdendosi fra il mobilio Impero fuori moda... fra arredi desueti in castelli tedeschi e russi scomparsi... sperperandosi nelle stravaganze di Fontainebleau e di Praga, nelle strampalerie di Nazareni e Preraffaelliti... dissipandosi fra gli acquarelli d’interni, i tavolini pompeiani, la decorazione all’egiziana, le cere anatomiche, le grisailles e gli emblemi, i boudoirs delle regine d’Olanda e le gambe delle consoles nel classicismo rivoluzionario... in una ricerca vertiginosa di nessi fra la letteratura e le varie arti... infiniti relais e raccordi capillari, trasversali, comunicanti, interferenti... tra motivi e figure magari latenti o miscellanee... sprofondando fra le serpentine e i serpenti: i deliri erotici visionari del Manierismo e del Barocco, le follies del Movimento Estetico, della “Mauve Decade”... giardini di supplizi e delizie che sgomentano lo studioso dabbene medio, nel suo tinello dei supplì...
E non scrivendo neanche benissimo... invece di imparare dagli idealisti “del bescottìn” che il vero modello letterario italiano e manzoniano è un angiolino che “si converte” in un pretino: pio prima, pio poi... (Eppure, talvolta... «Soltanto il cielo vuoto, vuoto fuorché di quella luce calda e trasparente che nessuno, prima di Poussin, s’era sognato di prendere a soggetto principale d’un quadro...»).
Anche l’Anglologo, mal capito e mai raggiunto (come Gadda) dai suoi coetanei provinciali e scolastici, rilutta dalla “piccola corte”, dai proseliti, dagli epigoni. Li dichiara, piuttosto, tasselli di marmi pregiati o pietre dure connessi a formare la sua lapide tombale accademica, come nel poemetto di Robert Browning sul Vescovo che ordina il proprio sepolcro in Santa Prassede. Basalto nero antico, fior di pesco, rosso-vino, verde-pistacchio, lapislazuli blu come una vena sul petto della Madonna... e Gabriele Baldini, colorito in viso, diaspro sanguigno!...
Ma sembra incantato di ricevere per il celebre tour guidato pomeridiano nella sua Casa della Vita a Palazzo Ricci pochi ammiratori che da anni si preparano sul Royal Pavilion di Brighton e sulla Pfaueninsel nel Wannsee, sui sideboards shakespeariani e le puppenhuisen olandesi, la camera-tenda a rigoni del Duc de Morny illustrata da Delacroix, le collezioni di Rodolfo II nel Castello di Praga, il castello neomanuelino-neomoresco-neogotico-vegetale di Fernando II del Portogallo a Sintra... Con ammiratrici belle e uscite da magioni e collezioni anche pregevoli, affascinate dalle straordinarie leggende che fioriscono intorno al Professore...
Miti e aneddoti che si sentono favoleggiare inesauribili, circa una figura d’originalità impressionante: una tra le ultime personalità formatesi in solitudini vertiginose prima dei mass media, in anni che ignoravano il luogo comune e la frase fatta, ma dove la creatività nasceva autentica, la grazia e il disinteresse potevano svilupparsi del tutto remoti dal mercato, dalle piccinerie dei faccendieri, dalla omogeneizzazione della cultura... E gli schedari delle mode minori anticipano inconsciamente i futuri movimenti del Gusto... Secondo Edmund Wilson: «Praz è un artista d’una personalità unica che si esprime attraverso la propria arte, di qualunque argomento stia trattando; e i suoi libri sono oltre tutto uno straordinario gabinetto di curiosità, di “prazzesco” in quanto eccelsa mescolanza di stravagante e grottesco, di bizzarro e macabro»... Come queste mirabolanti leggende di sortilegi e portenti che coinvolgono soprattutto orologi, lampadari, ascensori...
... I lampadari afflitti che si spengono l’uno dopo l’altro nelle case dove il buffet s’apre troppo tardi, secondo lui. Ne rimane acceso uno solo, semiologico e segnaletico, sul tavolo da pranzo ove è atteso il risotto; e quando viene servito allora tutto finalmente si ri-illumina. Oppure tutti i lampadari si spengono in segno di mesto saluto mentre il Professore passa davanti a una villa dove c’è un pranzo dopo un Purcell all’Accademia Filarmonica, nella macchina di Maria Luisa Astaldi che ha deciso di riaccompagnarlo suo malgrado a casa perché «Mario, tu mi sembri stanco»...
L’orologio antico da taschino che il suo illustre collega Trompeo con un gesto istintivo non gli ha porto da esaminare, e allora esce da solo dal gilet, saltella – tic, tic, tic – per metri e metri sui sampietrini finché si infila nella rotaia del tram, mentre il tram sta passando... L’orologio di Cartier del nostro amico Willie che arriva in ritardo per il tour della Casa benché l’appuntamento fosse come sempre alle cinque, si sente rimproverare «ma non ha un orologio?», controlla che sono le cinque e mezza, si fa il tour comunque, e all’uscita Willie vorrebbe controllar l’ora sul pianerottolo e il Cartier non c’è più, suona alla porta e il Professore riapre «totalmente trasformato», e lo caccia dicendo che in quella casa non ci sono orologi...
Ascensori puntualmente arrestati in circostanze stranissime, quindi rimessi in moto da sé... A un ricevimento per la Regina d’Inghilterra a Castel Sant’Angelo, in cima all’appartamento di Paolo III, Antonio salito in ascensore vede arrivare per le scale il Professore arrabbiatissimo cui l’ascensore era stato nascosto, forse per timore dei portenti. Inciampano insieme su un gradino rotto: «sarà stato mozzicato dal Cellini!» ridacchia il Professore. E dopo un attimo, un urlo! Un enorme ammiraglio paonazzo del seguito è precipitato sullo stesso gradino travolgendo il principe Filippo. Che casca proprio sotto il graffito d’uno struzzo identico alla marca dell’editore Einaudi, anche con sotto lo stesso motto: «Spiritus durissima coquit». Vandali dell’Einaudi arrivati fin qui? Macché, viene appurato da Elena Croce con la sovrintendente: è cinquecentesco autentico!
E alla presentazione, non appena la Regina gli dice «ma noi ci conosciamo», il Professore risponde «ma certo, da quando Vostra Maestà m’ha dato una decorazione bellissima», e fa una lamentela perché in Italia non ci sono mai pretesti per sfoggiarla, e questo pranzo gli sembrava un’occasione buonissima, però gli è stato comunicato dal protocollo: «senza decorazioni». E Sua Maestà: «come to London! wear it there!».
Alle cinque in punto – sono ormai racconti le mille volte rielaborati – suonano tutte insieme le decine di orologi Impero nella Casa della Vita, e un’amazzone sepolcrale emerge dai corridoi chiedendo gravemente «lemon or milk» sopra le tazze del tè, preziose e storiche, ma apparentemente anche un po’ rotte. E il Professore non manca di osservare che per i Vittoriani le dimore Impero erano l’epitome della casa tenebrosa e lugubre, «come se fossero allegre le loro». Ma dopo il marmo di Amore alato e inginocchiato nell’ingresso, da lui, tappeti e divani e cuscini sono di colori vivacissimi, come da Napoleone e Giuseppina giovani, a Pietroburgo con Alessandro I.
Gialli-oro, blu militari, scarlatti squillanti e verdi festanti sotto i soffitti a cassettoni, rosoni, festoni, rosette, palmette... E fra le grandi biblioteche chiare come il pane e il miele, vasi, candelabri, cippi, tripodi, lucerne, elmi di dragoni, ventagli virgiliani, maioliche policrome, alcove ad abside, Madame Récamier, Robert Adam, Thorvaldsen, Carolina Murat, Pindemonte, Keats, Thanatos... Busti, miniature, educazioni di Cupido, allegorie della Pace in intagli d’avorio, sanguigne, caminiere, torciere, style troubadour, colonne Vendôme... sfingi, sirene, leoni, aquile, cigni, e il Professore che anche involontariamente sobilla vocazioni, metamorfosa carriere e destini, con questo modello di eclettismo operativo e operosissimo, fra l’Eccentricità del Panopticon e lo Schedario della Medusa...
... donde... più o meno svagatamente, sembra, lo si può vedere estrarre cedoline e appunti... circa la torretta per contemplazioni cimiteriali del Marchese Torrigiani («campane a sera?...»), o la Villa Amalia di Erba neoclassica fuori e neogotica dentro (nata come eremo, rimaneggiata dal Pollak)... o certe curiose coincidenze stilistiche fra il Moravia del Disprezzo a Capri e il D’Annunzio più alcionesco... lì pronte per gli amici... se eventualmente... E Coleridge: «O Lady! we receive, but what we give!».

Che città, che città!
Che costumi, che gente
Sfacciata ed insolente!
Ognun meco la vole
Con fatti e con parole.
Mille perigli e mille
Mi sovrastano al giorno,
Ho cento insidiatori ognor d’intorno,
Né so il perché capire,
Chi me’l saprebbe dire?
Tal le guance mi tocca,
Che non conosco a pena,
Seco cortese m’invita a cena,
Né so il perché capire,
Chi me’l saprebbe dire?
Quest’Ormindo di Francesco Cavalli arriva da Glyndebourne e si svolge a Fez, ma sembra Roma: «Che rimiro? Oh stupore! / Sono l’ombre sì belle? / Vengono da l’inferno o dalle stelle?»... Venezia 1644! Però, quella stessa Fez che si sospettava dietro il Principe costante di Calderón tanto trafficato qui in casa, perché è l’epitome della santità di successo e in Marocco: tormenti senza prezzo, che oggi nessuno sarebbe più in grado di permettersi, ma ottenuti gratis fra l’ammirazione delle masse, l’orgasmo dei media, l’apoteosi barocca del sé, teatro, trionfo, Bernini, Borromini, stravaganza, evanescenza, illusione!... E noi finalmente a tavola, verso mezzanotte, col barocco delle metamorfosi e delle visioni fuggitive, in Piazza Navona tra fettuccine e “nordici di passaggio” e prosecco, anzi fol, è l’anno del fol («ma non era più buono l’anno scorso?»)... E intorno, e addosso, le solite imbarcate dei soliti paraculi romani che ripetono le loro due o tre paraculate proprio immutabili, da schiavi “anvedi anvedi” che sotto la lettiga fanno tanto gli spiritosi proprio in gamba su quello stronzo del padrone che si fa portare, e quanto sono dritti invece loro che lo portano...
«Che città! oggi il sovvertimento dei sensi al New Olympia pareva un po’ turbato per una retrospettiva di corsari verdi... senza tuttavia impedire alla maga Circe, alla dea Kalì, e alla regina Taitù, di scendere dal loro hôtel particulier di Spinaceto... Però quelli d’Amburgo ancora con le loro catene pesanti da inverno, in un posto senz’aria condizionata... Poi un cocktail d’altissima moda molto in segreto, con le dame in Galitzine e Valentino e Capucci sotto dei Bernardo Strozzi e Valerio Castello non pubblicati, e “si prega di non raccontarli in giro”... E di lì un salto a un fascinosissimo San Paolo del Caravaggio che in un salotto a un chilometro in linea retta dall’altro San Paolo di Santa Maria del Popolo cade da cavallo non nel buio caravaggesco solito ma in un grande paesaggio di boschi...
«E due buone storie, in tutto. Ieri sera, una simpaticona che fa gli scherzi è riuscita ad attrarre in casa sua un signore famoso per la disinvoltura e le avventure; e lo mette in tutti gli imbarazzi perché si conoscono bene da anni e lui credeva a un pranzo come di solito. Lei invece lo riceve in tenue légère da sola con una messinscena di seduzione “heavy”, e però gli armadi pieni d’amici comuni che poi escono a ridere, e si va a pranzo fuori... L’altra è francese, di prima della guerra: un grande caso giudiziario messo in ombra dalla storia contemporanea delle cameriere sorelle assassine, da cui Les bonnes di Genet. Lì si tratta invece d’una coppia criminosa di servi in un castello che avvelenava lentamente ogni giorno col veronal nel tè una grande famiglia della più antica aristocrazia; e questi cadevano con la testa nel piatto, crollavano per terra, i bambini non facevano più i compiti, i grandi perdevano la memoria e i vecchi la parola... fra parenti e dipendenti che andavano e venivano come al solito e non notavano niente di strano, perché il rincoglionimento era già tale in partenza che quando li vedevano straparlare e cascare nessuno si stupiva...».
Faccio cambiare il fol: ho visto che se lo versano sul cemento, scava un buco.
«... E poi anche il processo, con questo caldo!».
Uno di questi suoi papers ultimi da finire prima delle mie vacanze era infatti una breve ma veridica e sentita autobiografia intellettuale richiesta da John Lehmann per il suo “London Magazine” in una serie di giovani autori europei: formazione, predilezioni, letture, tendenze... «John: dunque fratello di Rosamond Lehmann. Quindi, durante la guerra: Una nota in musica e Invito al valzer, in formati baby e mignon da Bompiani povero, sotto le bombe e con la tessera del pane e del burro e della stoffa... E insomma anche stavolta ho detto la verità: tanto me la si legge in faccia... e supponendo che almeno all’estero si possa non mentire. Dunque, i maestri veri: Gadda, Longhi, Praz, Palazzeschi, Comisso, e poco più... Lasciando ovviamente perdere la generazione commerciale fra giornali e cinema e Rai per il medio pubblico e l’uomo qualunque e signora mia...
«Non l’avessi mai fatto! Invitato con un pretesto da Moravia a casa in via dell’Oca per un anonimo drink, mi sono trovato come al processo delle matricole, quando nelle piccole città in una trattoria ti trovi di fronte il figlio del farmacista, del calzolaio, del capostazione, che hai sempre conosciuto al bar, ma quella sera diventano inquisitori perché sono il sinedrio della vecchia goliardia... Erano riusciti a farsi dare una copia anche da quel vecchio culop inglese, come al solito, e lì Moravia e Bassani e Bertolucci e quant’altri facevano i commissari di loro stessi come ai concorsi dei cani, col pretesto che non si può screditare la letteratura italiana all’estero, e quindi bisognava riverire i valori consolidati, e cioè loro...».
«Affan...?».
«Mi è tornato in mente uno dei più bei racconti di Bassani... Per anni e anni, non ancora agiato, era andato ogni domenica a fare omaggio a Emilio Cecchi, quando teneva salotto letterario con la famiglia e il vinsanto. Erano ospitalissimi, lo so perché ci andavo anch’io, però lo facevano sempre sedere su sgabelli e strapuntini. Nelle poltrone migliori con schienale si facevano accomodare vecchi accademici, direttori di istituti, giurati di premi che erano anche possidenti e docenti, tipo Bonaventura Tecchi... E di lì sono poi venuti quei couplets mondani che divertono Longhi: “Giovanni e Carla Macchia – dividono un pistacchio – Bonaventura Tecchi – chiede un martini – a Leonetta Cecchi – Pieraccini...”.
«Allora Bassani coi soldi d’una sceneggiatura commissiona un suo ritratto appunto a Leonetta Cecchi, che era stimata pittrice. E da quel momento la sua posizione cambia. Gli telefonano e lo accolgono col massimo rispetto: “In quanto co-committente, vengo fatto acco-comodare nella po-poltrona migliore!...”».

Ticchettìo e condizionatore e Bruckner riempiono la casa ormai tenuta per tutto il giorno al buio. Anche Ravel: «solo diretto da Ansermet». Ma per un paio di sere non esageratamente tropical battiamo perfino i teatri: l’estremo gradino! «... E certo! se ci dessero qualche Much Ado dignitoso ogni tanto, siamo qui per questo! Pronti! Come del resto con le ostriche: a Parigi e a Londra, magari tutte le sere! Ma qui? Se ne farà a meno anche per anni, pazienza: si andrà soprattutto ai pranzi dove le facce e i vestiti e le battute e i gesti sono più disinvolti e più veri che a teatro, e la gente è meno imbarazzata nel sedersi e nel come tenere le mani, e dice delle cose più divertenti senza il birignao dell’accademia delle mezze-calze... e i cowboys non sono del Piccolo Teatro, gli English gentlemen non vengono dall’accademia filodrammatica, e le ladies non “fanno” Rai...». Però, quando non c’è in giro proprio niente di serio o divertente, si va nei tempi vuoti per ridere.
Non più di dieci minuti per volta: «Non c’è bisogno di bere tutta la botte per giudicare la qualità di un vino!» (Oscar Wilde?). Eppure spesso si casca bene, fra la signorilità e le stracciacule: giusto in tempo per sentire una gran Signora della Scena del Trenta singhiozzare in gramaglie da passeggio: «Non posso creeedere che la mia figliuola facesse parte degli esistenzialisti... lei che non beveva neanche un bicchierino di vino a taaavola!». E alcune madame dei salotti letterari, nel ridotto sudato d’ascelle e inutile cipria e vecchi piedi: «Ah, La Famiglia Barrett con la Pagnani che faceva Elizabeth Barrett Browning, Rossano Brazzi che era il Poeta, Carlo Ninchi naturalmente il padre, e Valentina Cortese picciiina... Si farà mai da noi anche una Famiglia Woolf?... Ah Virginia, Virginia del mio cuor!».
... E vvviaaa! uno strazio di madri molisane vedove in lutto rurale extra-stretto, in una cantina sperimentale, in ciabatte; e col famoso birignao autentico: «la mia puovuera puicciuinua-a-a»... Ma dopo il “topos” lacrimabondo capitiamo su tre soubrettone cinquantenni o più, tre Lye o Lyane o Lydie in mutande lunghe a volants, sbattute per aria, rovesciate a terra, riassorbite in un carnevale di sgallettate del Venticinque, in passerella... Su un altro risentimento ancestrale del Sud, in nero nerissimo, perché la mancata elargizione delle Provvidenze minaccia un do-it-yourself a Eboli; e i fichidindia incombono sulla bella gioventù... Sul dolòr di un danzatore pensoso dal culone gonfio che reggendo faticosamente la sua Giselle sopra la testa la sente sì fisicamente vicina per il peso, ma sempre più remota nell’anima... Sul leggendario Dottor Schweitzer, proprio lui, che guida verso la mitica utopia d’Atlantide (metafora?) una culona in calzoni attillati e tacchi alti... mentre altre culone e altri culoni – una vita di pappardelle e di fettuccine – animano delle Copacabane in imprimé con leopardi e girasoli, e tutto un accendersi chic di sigarette in bocchini lunghi, ballando con l’occhio all’inciampo...
... Ma riecco ancora intatti (per collezionisti e connoisseurs!) i più celebri e proverbiali birignao storici: «stì stì stignora, e le camiciue, le valigiue, le ciuiliuiegiue»... E la Wanda! lei! con una Lydia e una Lucy, in pelliccia, si accomodano sotto un albero di Natale, quasi a Ferragosto, e senz’aria condizionata, dicendosi «ecco, mettiamoci qui, come tre doooni»... mentre per sbaglio di macchinisti l’albero vien tirato su, e vien giù al suo posto un esterno-strada notturno con le silhouettes delle donnacce attaccate ai lampioni... E però a un gran ballo di Corte con tre persone in tutto, in una sala attigua (dove si passa per un mezzo secondo tempo di tutt’altra cosa), il Granduca viene dalle Laudi a San Miniato e Assisi, la Granduchessa è un’ereditiera appena divorziata da un calciatore meticcio su “Stop”, e un generale tedesco altezzoso con accento siciliano smaschera un visconte francese romanesco e spia internazionale che ha appena vinto o perso un paio di castelli aviti a baccarat... A una Mandragola sperimentale in moderno, invece – «capitale infetta!» – ecco la ruffiana cotonata in via Frattina dietro una scrivania da Ministero dei Trasporti, e domanda ai clienti: «Commendatore, la gradisce una cedrata?».
«Assolutamente il meglio!» viene rievocato «rimane però sempre Gassman giovane che nella Nemica si precipitava urlando “babba! babba!” a quattro zampe e a testa bassa contro Alda Borelli su un divano cambiando ogni volta direzione e facendo le finte, e lei (sorella di Lyda Borelli!) si spostava preoccupatissima come un portiere di calcio per evitare la testata in grembo»...
Qui ci si tirano le madeleines come i bruscolini all’avanspettacolo... A una Madame Sans-Gêne indimenticabile, pomeridiana al Quirino, con Elsa Merlini protagonista e Luchino Visconti che moriva dal ridere “avec ses acolytes” nelle ultime file di platea fra le maschere impaurite e le sore mie, nell’Atto delle Duchesse un ciambellano lezioso in parrucca e polpe annuncia grandiosamente come in Proust «la Regina di Napoli! la Regina di Westfalia! la Principessa di Lucca e Piombino!», e tante altre altezze con nomi sublimi, da Marengo a Taranto: entrano la moglie del suggeritore, la sarta della compagnia, la mamma della cassiera, un uomo vestito da donna, un paio di bambinacce pelose, tutte con tiare e collaretti, con fiocchettini giù dai petti, con bordure di pelliccia un po’ russe e con diademi di strass un po’ bassi, con la loro perla pendula sulla fronte, e sora mia sapesse che sturbo. Tutto un garbo, un porgere, un sedere di sbieco e un inchinarsi di tre quarti, tutto un gorgheggiar di traverso. «Ecco,» mi sento ripetere «quando poi le primarie compagnie fanno gli eleganti inglesi in weekend, la tradizione autentica è questa!».
Ogni volta che la Sans-Gêne “ne dice una delle sue”, ecco il movimento detto “dei ventagli nervosi”, più volte preannunciato da Visconti ai suoi vicini: zac-zac, tutte insieme, stizzite, stizzose, indimenticabili, con tutte le penne per aria e il becco tirato su. Invece gli uomini della compagnia non si distinguono secondo classificazioni tradizionali (amoroso, padre-nobile, brillante, promiscuo), ma a seconda degli oggetti che introducono nel calzone attillato bianco per dar l’idea della forma virile: chi ci mette un panino, chi “er cornetto”, chi un paio di fazzoletti, chi addirittura (e si è capito benissimo) la cornetta del telefono. Per svilupparselo, un nostro amico inglese va raccontando che usa una speciale pomata molto reclamizzata su certi suoi giornaletti. Gli ho chiesto «sarà pronto, per Natale?», ma si è preso cappello.
Perfino all’Opera, capitiamo, stranamente aperta, e deserta, e fanno dei Puritani e dei Trovatori al di sotto d’ogni immaginazione dei Fratelli Marx, non manca niente: soprano grassa, tenore vecchio, baritono senza voce, abbietta zingara vestita da medico di Molière. Si arriva lì magari di corsa con l’intenzione d’andar via subito per fare i cinema e finir la serata in stazione, ma non si riesce più a distaccarsi, avvinghiati dall’orrido. Ancora la famosa nostalgie de la boue? Così, così dev’essere, l’opera: una corrida nel fango! Ruote di carro da hostaria, fuochi di carta rossa, pance sporgenti in fuori, tutti piccolissimi, senza collo e senza gambe, col culo per terra e senza voce; elmi da pupi siciliani, penne di struzzo altissime su tutte le teste, parrucche d’oro con l’orecchio sordo fuori dai boccoli per sentire se il suggeritore urla «funiculì funiculà» o chissà cosa...
«C’est l’Opéra de la Gare!... die Hauptbahnhof Oper!»... Protagonisti addormentati sulle pelli d’orso da fotografo, frati e armigeri che fanno i passettini in fila come sul ballatoio del cesso di ringhiera, dame che si assestano le mutande e le tette, fondali da Mefistofele sul Tevere, la Spagna secondo il dopolavoro ferrovieri, nani comprimari che fanno i gladiatori, comparse che arrivano dalla Nuova Oggettività o dalle Aide... E un pubblico tutto falpalà sporchi di sudore e tacchettini a spillo, gioielli da tabaccaio, tiare da chiosco, belletti da treno, quelle tinture per capelli nere nere, compatte, opache, oppure col riflesso mogano e palissandro da scrivania... Ordinarie in raso celeste mariano unto, che espongono l’ascella col pelo lungo, mutilati, veterani, legionari, caporali, federali, onorificenze da Principessa della Czarda, dei verdi bandiera, dei rosa violenti, e il prugna! e qualche nero classico per smagrire l’obesa con baffi e mammà, e perfino un velluto amaranto, sotto una volpe estiva (argentata?) coi suoi occhi di vetro e la sua bocca che azzanna la zampa, ma con scarpe sempre aperte, davanti e didietro, col ditone che sporge in fuori storto, con la sua unghia... Non va l’aria condizionata, l’orologio è rotto, si sventolano tutti dentro i vestiti e nelle ascelle; fanno tric-trac con le borsette durante la musica; e le maschere, coi tacchetti, fan tip-tap. Molti, poi, si direbbero più viaggiatori che spettatori, perché dormono come in sala d’aspetto, guardano l’ora, si alzano ed escono durante l’atto con le valigie e le borse che si sono portati dentro; e probabilmente si avviano ai binari, attraversando la strada, si sono riposati un po’, prendono treni o trenini... Che opera! Che spettacolo! Che città!
«Che città, che città!»... Cavalli, Cavalli!... Altro che la Venezia del Seicento... «Se del Perù le vene / d’oro ricche e feconde / d’immense verghe e bionde!»... Ma dopo la festa nazionale di Cuba al Grand Hôtel, con tutto a base di rhum, poi col pinot grigio e il dolcetto sarà un vortex? si rischia di ripetere gli stessi di ieri senza accorgersene?... E via che si corre, appena in tempo per non perdere il finale del solito varietà da duecento lire che ha sempre un successo intatto di clamorosità paz-ze-sca benché visto e rivisto cento volte, in questa città evidentemente assatanata per i travestis che mandano in estasi i veri maschi, lo spiega bene anche Petronio; e questo vecchietto non bello, non alto, non magro, non aitante, in abito da sposa, su uno sfondo d’organi celestiali e mignottone camuffate da chierichetti, ricanta l’Ave Maria di Schubert su un ritmo di samba molto ballabile, con applausi che non finiscono mai di un pubblico tutto di ventenni di strada bellissimi e a centinaia; vestiti quest’estate tutti in maglietta e pantaloni bianco-latte, con cinture di soli due tipi. O altissima, cinque o sei centimetri, nera a borchie, tipo veramente cintura nera da judò cattivo e dominante sull’ingorda vittima; o sottilissima, esilissima, corta dopo la fibbia, poco più d’un nastro di pelle rossiccia-scura, alligator, come quelle dei marinai americani. E i bis sono tutti d’Ave Marie fra il tango argentino e la Tristezza di Chopin: ma poi, una volta in casa, ognuna di queste meraviglie fa i numeri, oppure basta mettergli a disposizione una cuccia e comincia a guardar la televisione e non si muove più?
«Questa vostra letteratura così amica dei diseredati e delle disgraziate e “di chi sta male”, pare molto abbottonata circa il ragazzo cresciuto e sanissimo...».
«Lo lascia tutto al cinema, no?».
«Ma quando non può ottenere il travesti che è al culmine dei suoi desideri, l’esuberante di vita brama soprattutto la tana, a Roma? Va in giro a far lo spiritoso spaccone, ma torna ogni notte come la rondine al nido? Porge il suo meglio alla signora? si adatta giovialmente al signore? si risveglia col broncio proletario? o con l’estro canoro in cucina?... Attento ai sali da bagno, difficile sulle lamette? Pronto a ricambiare tutte le attenzioni? Fiction, fiction, cosa ci sta a fare la fiction! Solo poveretti in crisi, sora mia?».
«... O ti porta via anche la casa, oltre che il televisore, dopo aver porto la sacra scarpa da ginnastica, sporca, al bacio del fedele...».
Ma questi continuano a domandare Ave Marie al travesti in abito da sposa, che li spinge all’orgasmo e all’estasi, però deve incominciare l’ultimo film, e allora il vecchietto si toglie la parrucca a boccoloni e si inchina completamente calvo, mentre i gruppi in piedi si mettono le mani addosso urlando e gli avieri e marinai col permesso fino alla mattina buttano come al solito per aria i berretti (questa è vita!) e ballano da soli nei corridoi della galleria finché vengono ghermiti da qualche zia sfacciata e tirchia della tivù che fin dalle due del pomeriggio si tratteneva nei cessi per fare tutta un’allegra imbarcata sulla seicento-extra-lusso-élite-vip e portarli verso lo spaghetto promesso nell’artistico alloggetto per lo più in Trastevere che sarà un highlight di tutto il loro servizio militare qui nella Capitale. E finalmente luogo del delitto? Generalmente con una statuetta? Un bronzetto di deplorevole fattura?
Sarà un’assuefazione visiva ormai automatica? Anche alla spiaggia, mentre si vedono scattare foto di esuberanti brunone coi capelli sciolti in costume spiritoso a due pezzi, ci si domanda per istintivo riflesso: sono le stesse che presto appariranno sul “Messaggero” in occasione del “Giallo dell’assassinata” al Salario o in Prati?...
Allora, in un luogo di twist again; e più fa caldo, e magari scirocco libico (piove fango sulle macchine), e più si impazza e stramazza... In meno di dieci minuti e un gran viluppo di memorie e reliquie di inglesi e di americani dalla doppia o tripla vita lì Antonio fa vedere un suo ex-Luciano, architetto passionale e marito separato d’una ex-amica di Desideria, che balla con uno zozzone da tanti consigliato anche per la sua calda umanità, che molti e molte vorrebbero condividere; e una loro favorita attuale Elisabetta, che con questo Luciano ha fatto un viaggio in Egitto pieno di cartoline “ti-dico-e-non-ti-dico” facendo intuir leccornie da ogni ansa del Nilo fin quasi al Sudan, ma ora balla felice da sola con le braccia per aria e una peonia in bocca, facendo degli spensierati no no please a Violeuse che la reclama violentemente e vociando dal suo tavolo di sarte per litigare... Una Adriana col suo parrucchiere, una Giovannella col suo visagiste, una Donatella col suo calciatore che ha finito il suo campionato e quindi ormai fa di tutto con tutti, una Nicoletta con tre fratelli fascisti identici in camicia nera e barbetta bionda, con gli occhi sbarrati e pronti a scattare e picchiare... Una Immacolata stretta al ladro che le porterà via ogni cosa, come già prima alle altre, che non ci credevano, e sempre usando le stesse valigie Vuitton trovate nell’appartamento... Tre ercoli da film mitologici, alti non meno di un metro e novanta, che ballano tenendo in mezzo un’amazzone cotonata in peplo di almeno due metri e dieci, e la parrucca in più, con fama di fantasista a Bahia nelle vacanze Kuoni di Capodanno. E comunque animatrice del nuovo chic a lume di torce nelle piscine dei produttori che hanno sentito parlare di Proust, finalmente anche loro, da Sergio e Mauro attori e registi shakespearo-pirandelliani già commessi dell’Upim sull’Appia Nuova, e dunque sui bordi della piscina affittata tutto un gridare «Verdurin!» e «Guermantes!» alle stracciacule e alle squinzie...
Bang! Anche la promettente ex-protagonista in pectore de Le Tarme Deluse, un musicalino da camera milanese già “famoso-per-essere-famoso”, su certe tarme e camole lombarde che attraverso mille complicate trame di ieri e di oggi altro non riescono a raggiungere se non continue delusioni romane (parabola!) tra maglie e sciarpe e mutande mai (metafora!) di pura lana, bensì di mille ingannevoli acrilici e sintetici... Vroom! Eccola passata senza accorgersene da Beatcompany a Lesbodrama, in compagnia d’una celebrata mattatrice di grandi addii romantici e storici sui moli turistici... singhiozzando nello sventolio dei foulards Hermès non più a Gran Canaria o negli sceneggiati Rai ma a Porto Santo Stefano, in direzione del famoso ladro che non essendoci più soldi qua avrà già individuato il peso dei candelieri e il posto delle Vuitton per la mandata prossima...
Vip! L’illustre sarto bambino e l’insigne ex-diva ex-vecchia danzano in vesti candide come cresimandi, coi visini compunti e le dita che si sfiorano in alto come nei film di Sissi... Donna Consolata appare invece assai imbarazzata fra le braccia di un tycoon di Wall Street importantissimo che però lancia la dama come ai tempi del boogie-woogie, aspettandosi che lei faccia alcune piroette e molti «wow» prima di venir righermita al volo e fatta girare intorno tenuta per un braccio solo... fra sciami di sgallettate e sguince cui non par vero di prendersi confidenze e chiamare il fotografo, anche prendendolo a calci nelle gambe e chiamandolo fregnacciaro e stronzo per certi servizi che sono riusciti proprio uno schifo da buttar via...
Slurp! Saltella bionda e calva, sola e ridente “on the move”, una vecchina piccina e vispa, a balze lucide da frugola in bianco e nero, fra Berceuse e Boudeuse con quattro scatenati molto smandrappati in camicia rosa, che la additano ai tavoli gridando «è Lillian Gish! è Lillian Gish!» (e tutti: «ma è viva o è morta Lillian Gish?»), e coi soliti urli di «bravissima la vecchia!». (E alcuni pensatori: «se non è almeno George Sand, vi alzate voi!»)... E i continui «dica! ehi, dica! mi spiega per i nostri lettori con chi lo sta ballando il twist? con lei o con lui?»... a tutti quelli sopra e sotto la pista... Il contrabbassista disteso sul pavimento... lo strumento suonato sopra la pancia sudata... i bicchieri che rotolano dai vassoi e dai tavoli... E dieci o venti ordinarie avanti e indietro per i cessi con la schienona nuda, a foruncoli, e ogni tanto qualcuna va per terra, e allora parolacce, ma proprio perché le fanno villanamente cascare, con la gamba stesa fuori dai tavoli. Allora, gridandosi «a’ fregnacciaro!» e «a’ fregnacciara!». E abbracciandosi immediatamente dopo, urlando affettuosi «a’ rottinculo!» e «a’ zoccola!».
«Ma possibile che non si riesca a andarsene, da questa città?».
«Ma possibile che tornando l’anno prossimo questo posto non ci sarà certamente più, e sentiremo dei nuovi immensi compianti su tutti questi indimenticabili luoghi scomparsi da rimpiangere?...».
Conversazione sopraffina, ai tavolini. «Un indimenticabile Tv-dinner a Windsor Castle. Annunciato appunto così. Loro si mettono naturalmente al meglio; e trovano davanti alla tavola nella loro stanza un televisore pronto, molto piccolo»... «A colazione, divina, in Park Avenue, lei appare col cappello in testa, in casa propria»... «L’avvocato s’alza da tavola perché deve andare al cesso. Al ritorno, fa qualche complimento per le salviette. L’indomani lei gliene manda duecento, monogrammate. Lui ringrazia e le rimanda, trattenendone due»... «Nei casi particolarmente smandrappati, bisogna pronunciare “smandrà” con un accento francese molto stretto»... «La depressione, conosco i sintomi! Arriva sempre l’euforia, nei ciclotimici»... «Può durare molto?»... «Anche mesi»... «A te purtroppo non càpita mai»...
... «Chi salutare per primi, se ti arriva davanti per prima la persona meno importante? e dunque più suscettibile?»... «Sperando allora che l’altra capisca?»...
«... Sempre dare la precedenza, agli anziani! Le pestino loro per primi, sul marciapiede!».
«... Tenete gli occhi bassi! Vi state perdendo degli avvenimenti a mezza altezza!».
... «Quelle americane che si aspettano di venire – chissà perché – entertained da noi, invece che mandate al paese dove appartengono...». «Queste che hanno da offrire solo richieste di passaggi in macchina, a una loro ora, pur di risparmiare tre lire...».
«... Ma poveracce, sono come le ore del mattino. Fossero andate da un bravo dentista, non gli avrebbe mai messo quell’oro in bocca».
«Una di quelle serate a pagamento per Mecenati: “sponsors” in abito da sera che non sanno l’Arte e non ciànno ’na lira, facendo però dello chic perché le penne son pennette».
«Qui il Classico di solito è francese! La gran signora della scena che passa mesi e mesi a Roma per un film di Delannoy o Moguy, ospite nostra e in tutto spesata fino ai giornali e ai francobolli... E poi grandiosamente decide di sdebitarsi invitandoci una volta in trattoria, aveva messo da parte le am-lire del dopoguerra, e ne lascia due o tre come mancia “tenez!” al cameriere “Braciola”, dicendogli anche “ah, comme c’est gentil ce garçon!” e incominciando un’uscita regale... Ma dimentica i vecchi guanti al tavolo, lerci e zozzi, e Braciola urla per richiamarla: A’ signò, avete dimenticato li pedalini!».
«Ancora confondere Noblesse Oblige con Navigare Necesse? Ma già ai tempi di mia nonna! Come confondere RSVP con SPQR!».
... E brandelli quasi memorabili verso l’uscita, fra i posteggiatori... «E io ve ripeto che so’ venuto qua stassera solo p’accompagnà Mister Cohen, che m’ha telefonato quest’amico mio appena arrivato da Los Angeles e riparte domattina prestissimo p’Israele e voleva uscì un momentino nella dolce vita romana»... «E tu in questi posti nun ce devi venì, pecché noi t’avemo scritturato peffà er capo bandito, e qua te stanno a fotografà in mezzo a tutti i frosci de Roma con pubblicità negativa»... E poco più in là: «E te ’o metto puro per iscritto che sei gnent’altro che ’na gran zoccola e ’na gran mignotta!»... «Non sto a fare discussioni per strada, perché non ti considero un gentiluomo dopo le cose che m’hai detto stasera, basta che mi ridia lo scialle che t’ho lasciato nella macchina!»... «E io lo scialle nun te lo ridò peggnente, perché sei proprio una gran zoccola, e te ne ritorni pure a casa tua a piedi»... «Che mancanza di signorilità in questa città, dappertutto, bisogna proprio riconoscerlo, quando si esce, vero dottore?»... «Querrottinculo der barbiere tuo mica moo-à voluto cambià, l’assegno mio!»... «Lei non è più il dentista mio! Lei non è più il dentista di nessuno!»... «In Piazza di Spagna! Proprio lì davanti! Con mio marito, vestita per andare all’Opera, e due ragazzi ancora giovani mi dicono: com’è bella, signora! ci faccia l’autografo!»... «Il mio ginecologo m’ha assicurato che potrei farne quanti ne voglio»... «Se è di Terni, sono tutti pugili. Cambiano dopo»... «Ma lo si fa anche per sdebitarsi con le sartorie»... «Anche più grosso di quello di Santo Stefano!»... «A Macerata sono veramente considerate da tutti le signore del posto»... «Quando si sa benissimo che è a Djakarta, e finché non è passato in giudicato non torna»... «Un bel regalino, che ci sta anche in tasca: questo piccolo apparecchio, neanche male come design, per misurare la pressione dei pneumatici. Ma come spiegargli che infilandoselo appunto là dentro si può calcolare anche la tensione delle emozioni corporee?»... «Per trasformar l’arrogante Romano in abbietto supplice? basta mostrargli un modulo di contravvenzione!»... «La Romana non sono io, non sono così megalomane, La Romana è l’indirizzo del villaggio, basta indirizzare così sulla busta, e m’arriva tutto!»... «Lava, stira, pota in giardino, guida il camioncino, cinque lingue, spiritoso»... «L’orrooore! di questi piccoli maestri a tutto tooondo! che tranne una cosa fon-da-men-ta-le ti sanno far benino solo de tutto un po’... Molto mejo ’no scavezza che te fa bene solo quello, e magari gnent’altro, dico bene?»... «Profusion is not incoherence, lo diceva Edith Wharton in Piazza Navona, no?»... «Che qualcuno mooooo darebbe ’no strappo anche solo fino a Cinecittà?»... «Me pare che in dieci minuti quaddentro cessstttìano – gnentegnente – più storie che ’n dieci romanzi surrrroma, o me sbajo? Gnentegnente, ’nzomma, tiè. Vabbè».

Prima che sia troppo tardi come per la Gita a Weimar (Manier, o Stil, diceva quel Grande?), ci si butta verso i meravigliosi odori di campagna notturna e d’estate maschile delle vallette classiche e dei sepolcri romani, cascine del Cinquecento, Pio Quarto o Quinto, ville fasciste coi pezzi di scavo, antenne elettriche, grotte, elicotteri, greggi di pecore, raccordi e svincoli, avieri, pompieri, nascondigli scavati dietro e sotto le Cecilie Metelle, mucchi d’immondizie redente da Pier Paolo, e in fondo la muraglia cinese dei quartieri nuovi incogniti. Il casaletto del Convento Bruciato, il casalone “er Torcoletto” sopra il Fossato dell’Ammazzato, le profumerie sulla marana delle Campanule tra via dei Larici e via dei Glicini, coi gladioli dell’incidente al bivio del faciolaro “Tiffany” tra il chiosco delle Catacombe di Don Orione e la pizzeria dell’Opera Pia Santa Giunone... Forse il gusto del paesaggio riprende a trasformarsi drammaticamente come quando i viaggiatori del Settecento smettono di cercare in Italia una natura alla Carracci-Poussin, e pretendono l’orrido romantico o almeno la rovina gotica anche al Colosseo.
Una sera troviamo l’Appia Antica improvvisamente stravolta: centinaia di fiaccole accese sui muri, padelle romane con lo stoppone e la cera; e gruppi di riflettori noleggiati dalle produzioni cinematografiche, su impalcature in mezzo alla strada; fuochi artificiali molto strani nel cielo, con boati d’altri tempi, fra aeroplani che lampeggiano per atterrare; chiese aperte e accese, tutte parate, per tutta la notte, coi preti in costume lì pronti e servizievoli sulla porta; squadre di camerieri in giacca bianca nel sepolcro di Romolo e nel circo di Massenzio (si gira un film non di imperatori ma di gangster); automobili e famiglie e frotte di zingari che intasano la strada chiedendo soldi a tutti; e motociclette rotte ai bordi, ciascuna col suo ragazzo sotto che aggiusta il motore.
Una notte lui dorme al Grand Hôtel. Un’altra volta scopro che ha girato ore per anagrafi, e poi altrettante per ambulatori. Certificati, iniezioni? «Non potevi telefonare a un’infermiera? un’agenzia, qualcuno che venga a casa, non ce l’hai?» gli chiedo. «Sono le poche occasioni per stare a contatto con la gente, ce n’è di splendida» mi fa. E per la stessa ragione cerca di trascinarmi a far la fila alla banca, e batte i grandi magazzini per comprarsi un formaggio. «Stando sempre in casa,» mi fa «si finisce per frequentare solo delle sarte». E certo, il massimo sarebbe penetrare ogni giorno in una caserma di carabinieri diversa, per denunciare lo smarrimento di un documento o un assegno: «come farebbe il Principe Eugenio, fosse oggi fra noi». Eh, certo: figlio di Olimpia Mancini, avrebbe dovuto intraprendere la carriera ecclesiastica, ma la sua perizia militare emerse nel sorprendere gli Ottomani al passaggio del Tibisco. Bruttino, però. E della nostra spedizione in Polonia, per accordo tacito fra le Potenze, non si fa più cenno. Di Jean-Claude, lasciamo perdere. Sulla dilettissima Italia si chiama Amore, dopo quel sinistro scoppio di effervescenze iniziali, almeno adesso non si torna più; e per delicatezza, e prudenza, non domando niente. A Weimar, a Weimar, allora? O «col piffero»?... Salutando sera dopo sera coi fari – addio a Valle Giulia, addio a una stagione che «mi sa, non ritorna» – la Porsche pervinca di Fede, la Porsche pisello di Niccolò, la Mercedes bianca di Valentino, la Jaguar “aubergine” di Simoncino detta anche “color fegato”, tutte splendenti nel loro lustro, e una Citroën grigia e polverosa targata MI e mai lavata, che non risponde ai saluti, con su un well-off sempre in petite tenue, barba mal tenuta e occhiali, orso gonfio e insaziabile, forse brianzolo, potrebbe essere un commerciante-pensatore...

Su questo calore atroce si abbatte una nuova ondata di calore ancora più atroce; ma c’è sempre qualche nuova pagina da rivedere, ogni giorno; e veramente non c’è più nessuno nelle case abbandonate per il caldo: forse neanche i vecchi professori che passavano l’estate ai Parioli con le finestre chiuse per non doversi spostare a Viareggio con tutti i libri dei premi. Ai telefoni muti o morti, solo dicerie vaghe; non si ha un’idea di quando la gente veramente tornerà, o se sta invece appiattata, accasciata, magari senza soldi. Nessuno lascia un indirizzo: quanti trascorreranno l’agosto chez qualche zia Maria, mangiando angurie? (Poi, qui, il settembre è tradizionalmente malsanissimo...).
E Desideria, la si aspetta ancora?... «Vuoi vedere intanto un suk ottomano, magari?»... Siamo al peggio?... Mah, queste architetture monumentali fasciste o anni Cinquanta, per esempio ministeri pomposi di marmo e travertino, immediatamente trasformati in mercatino, in pollaio, con le seggioline da paese, le bancarelle povere, i parenti preromani degli uscieri seduti accanto alle stufette sotto i soffitti alti venti metri coi prodotti della campagna, i fogli scritti storti con la penna e attaccati con la colla gialla sotto i mosaici delle conquiste e delle bonifiche... E suore malesi, carabinieri etiopi...
«Preferiresti una sauna frequentata da aztechi? Guarda che c’è davvero!»... Le molle di questo letto intanto aumentano di cigolio, ma non si possono fare aggiustare perché devono evocare al visitatore piume e romorio di vecchi letti estatici in campagne sotto la luna... E le mie vacanze, quando finalmente cominceranno mentre gli altri non si trovano – ma tant’è – e Desideria starà magari soffrendo tra gli El Greco e i Chivas Regal come Andromeda o Arianna sul loro scoglio a Naxos o nel loro monastero a Patmos?... Se richiamasse, si facesse viva?... Antonio pare morto, steso al buio sui divani beige, nell’aria condizionata, in accappatoio rosso, col ghiaccio che si scioglie in un bicchiere di tè freddo al pernod, un concerto per violino di Mozart che sta andando e riandando con un adagio anche troppo simile al «Deh, rendetemi la speme» nei Puritani: steso come in Santa Croce sotto ammassi di mappe come lapidi. Mappe stradali italiane e straniere, piante di varie città: Colonia, Amsterdam, Boston, Parigi, Cambridge... Dizionarietti di termini filosofici e mitologici, il codice della strada, cataloghi di dischi Archiv, delle collezioni Belles Lettres e Loeb Classical Library, e ogni tanto un circoletto rosso o blu sui prossimi acquisti da fare. «Ma cosa te ne fai, se tanto partiamo?».
Un appunto: «Un romanzo per lettori di romanzi». Sul grammofono, Sonata op. 90 di Beethoven, incantatoria (con Kempff) come la striscia bianca di gesso davanti al becco d’una gallina catatonica. E sui margini dei cataloghi, in diversi colori: «Vati moderni, coscienze esemplari e rappresentative del nostro tempo? operando su combinazioni di materiali emblematici, mitologie privilegiate, intimità personalissime con chissà quali archetipi?... Trasmettitori del grande passato culturale, magari nei pastiches à la manière di qualche grande stile?».
«L’arte ormai disciolta nella società come pratica conviviale diffusa, pretesto e supporto d’altro, e di chissà cosa, soprattutto d’estate, senza modelli... Ma non più: avvocato, o tenente, cosa ci suona stasera di bello? Cosa ci canta, signora? Cos’ha dipinto, signorina? Piuttosto: i dispiaceri e i disturbi che mai raccontereste a tavola – sennò vi tirano i piatti in testa – metteteli nei libri!... I piccoli accidenti della giornata, della salute, delle ragazze, della scuola, dei piccini, dell’ufficio: tutti lì dentro! È finito il suo romanzo, signora? Sono finiti i suoi racconti, signorina? Bene, ce li porteremo dietro in vacanza e al cesso, peccato non poter portare anche tutti i quadri dipinti dai vostri figli tutti artisti... E se vi cantassi tutte le mie canzoni?... Solo, quando vi ripeto “siete eccezionali come tutte le altre”, smettetela di rispondere: “non mi vorrai mettere sul piano di quelle stronze!”...».
«Povero amico, tutti i suoi disturbi derivano da questa debolezza di carattere per cui, già in tarda età, si mette a fare delle bibliografie diligenti su tutte le ondate di stronzate che arrivano, invece di intimare, come nelle file di perditempo: next!».
«... Dove non c’è valzer né champagne, ma ciabatte e supplì, la superficialità finirà per appiattarsi nel profondo della prosa di pensiero?... Per la Mitteleuropa e la Findisecolo, risulterà più utile l’Idealismo o la Fledermaus?... Sarebbe bastato il participio “champagnisiert” – che forse neanche esiste – e l’anima narrativa sarebbe salva?».
Christian è appena tornato da un weekend con certi inglesi in Chianti, rapito dall’incantato mondo dei marchesi del vino, e allora vorrebbe girare molto anche lì... dove peraltro non riuscirà facilmente a smarrirsi per sempre una sua misteriosa mulatta destinata a un caotico carnevale tutto sparatorie e maracas secondo gli americani in Italia, e con adeguate modifiche alla sceneggiatura. Tiene aperto l’ufficio anche a Ferragosto, e con orgoglio, lui!
«Neanche a Venezia, se è per così poco...» sento al telefono. «Bisognerebbe magari mettere delle insegne tutte uguali di Coca-Cola in tutte le calli e callette, così la mulatta che insegue il Casanova della mafia si perde perché non ha più riferimenti nel labirinto dei campielli pieni d’antenne di televisione e pubblicità tutte uguali...».
«... Ma la Quinta Sinfonia di Šostakovič non comincia un po’ come l’Apollon Musagète di Stravinskij? L’avevo qui, e non c’è più! L’avrà portato via qualcuno?».
Mezza bottiglia di pernod già in mezza giornata, nel tè freddo?... È passato qualcuno?...
«Racconti con effetti soprattutto auditivi, un po’ radiofonici addirittura... Quasi solo dialoghi che tentano di rifare un certo parlato... con pause, uffa, sei ancora lì? cosa stai facendo? stai a sentire sì o no?... Come al telefono... O come quando si è lì in due che si parla, e non c’è presente nessuno da impress...».
«Imparare la conversazione parlata o scritta è come imparare una lingua straniera difficile: poche parole o poche frasi non bastano, e meno che meno l’imitazione esterna dei suoni...».
«La fase esaltante quando le scoperte dell’istinto strutturale innato venivano raggiunte dagli studi sullo strutturalismo allo stato nascente...».
«Ma la piccola saggezza granulare delle mitologie improvvisate effervescenti...».
«Spett. Prof. Y, l’opera sarà davvero un’introduzione o strumento per meglio intendere la biografia dell’Autore, come nella vendetta postuma di Sainte-Beuve su Proust?... Sarà più interessante il libro e la sua struttura, o il letto sfatto d’uno scrittore anche brutto? La forma, o la faccia? La pagina, o il salottino?... Però, fra gli autori e autrici del Novecento più trafficati dai biografi e dai fotografi, quanti mai hanno un viso o un culo più belli dei loro libri? Non sono spesso più affascinanti le opere?... E sempre nel caso di Proust, egregio Professor Y, ancora l’annosa questione: un savant proustiano che non è mai stato a un pranzo né l’ha mai preso nel culo, non sarà come quegli americanisti che non hanno mai attraversato l’Atlantico né imparato l’inglese?».
«Leitmotiv per le vacanze: non dimenticare di portarsi dietro, a Weimar e a Jaipur, a Dublino e a Palmira, a San Pietroburgo e a Santa Fe, almeno un romanzetto romano sulla noia della patonza e sull’alienazione della pecheronza».
«“Memo” seriale per Magma pregnante: dal solito ritorno italiano al paesello, si è mai ricavato un qualcosa di bello?».
«Librettisti del Self? Attenzione ai pensatori negativi o negati: si offendono moltissimo quando a un loro brutto libro si dice di NO».
Ricettacolo. «Otello, Ravello. Verga, Superga. Ghetto, Fornaretto. Nasso, Tasso. Bagnasciuga, Chattanooga. Callipigie, Guarentigie. Cavalleria Crociana, Estetica Rusticana. Admeto va con Busseto e Pineto. Euridice sta con Berenice e Beatrice. Sali e tabacchi, Partita a scacchi. Quadrato di Villafranca, bandiera bianca, capra sopra la panca. Gonfalon selvaggio, Calendimaggio, Caravaggio, Taleggio. Vesta, resta, tempesta, foresta, celesta...».
Rottami e relitti. «Sistemi di iterazioni: musicali, strutturali; psicanalitiche, maniacali; anche ripetizioni da vecchietti “arterio” e “rinco”. Ossessioni tematiche di echi, richiami, rimandi, rinvii. Controllare la discarica. “Un sistema di fiches senza un fichier? Ma dov’è? Non c’è”. Erode: il catalogo isterico delle pietre erotiche. “Le arance amare dell’imbarcadero”... “Dispar, corriva immagine”... Madre Coraggio e Filumena Marturano: “addapassà ’a nuttata”. Schweyk: “scurdamoce ’o passato”. Galileo: come si prepara la tazzulilla di caffè. Misura ligure: Montale, Calvino. “Volentieri” in inizio di frase (come in Svizzera). “Il Pensatore Inconsistente”? “Il Prosatore Incontinente”? Nel tinello dell’io... Ma come si fa a essere scabri e scarni e tirchi tra i fantasmi del Gadda e del Dossi?... Un’Opera d’Arte Totale, secondo i canoni del Garbuglio o Groviglio “enciclopedico”: Salomè e la Madonna e Biancaneve e Marilyn Monroe coi Sette Veli e i Sette Dolori e i Sette Nani nel Prurito del Settimo Anno per i Sette Giorni della Settimana sui Sette Colli di Roma... Le rubriche e agendine: già morti... morti... Ma invece di tirare una riga sui nomi, segneremo lì vicino un piccolo cuore».
«Ci manca solo che una nostra Contessa o Principessa si corichi col laido servo Pitichinaccio, anche lei, come nei vari Contes d’Hoffmann, adesso...». «Pitichinaccio dovrebbe andare con Scoroconcolo, se è il sicario di Lorenzino de’ Medici».
Ma il Ferragosto non lo si può passare in luoghi dov’è così Ferragosto per tutti: così come il Natale andrebbe sempre fatto in paesi non cristiani... Io poi sarò magari lento nel parlare e nel camminare, qui è una cosa che mi dicono tutti, però a far le valigie sono sveltissimo: glielo continuo a ripetere, e del resto lo sa bene come piego le camicie al volo. Finalmente partiamo anche noi.